INQUISIZIONE: LEGGENDE E FALSE ACCUSE DI SINISTROIDI FACINOROSI, IGNORANTI E IN MALA FEDE.

INQUISIZIONE

Speciale tribunale ecclesiastico per combattere e sopprimere l’eresia.

SOMMARIO : I. I. medievale. – II. I. spagnuola.

I. I. MEDIEVALE.

I. ORIGINE. – Missione essenziale dell’episcopato è non solo d’insegnare le verità della fede, ma anche di difenderle contro coloro che le attaccano. Ora, esso si dimostrò impotente a reprimere gli inquietanti progressi fatti nei secc. XI, XII e XIII soprattutto dai catari (chiamati in Italia patarini, nella Linguadoca albigesi, dal nome della regione in cui pullulavano) e dai valdesi. Il Papato perciò, a scongiurare il grave pericolo che minacciava la Cristianità, creò un tribunale speciale: l’Inquisizione. Ma procedette a tappe. – Dapprima Lucio III, a Verona, nel 1184, ponendo il principio di una procedura più sbrigativa che non quella dell’accusa pubblica, ereditata dalla legge romana, obbligò i Vescovi a visitare una o due volte all’anno, personalmente o mediante sostituti, le parrocchie contaminate dall’eresia per sentire, sotto il vincolo del giuramento, le testimonianze di persone degne di fede. Ad essi spettava inoltre la ricerca {inquisitio) d’ufficio dei colpevoli, la loro riconciliazione con la Chiesa o la loro punizione, qualora si rifiutassero di purificarsi, mediante giuramento, dall’accusa di eresia o diventassero recidivi. L’episcopato aveva giurisdizione anche sugli esenti, perché procedeva quale delegato della S. Sede (9, X, V, 7). Varie costituzioni emesse da Innocenzo III negli aa. 1205, 1206 e 1212 e il can. 3 del Concilio Ecumenico Lateranense (1215) completarono le prescrizioni di Lucio III (17-19, 21, X , V , 3; 13 X, V, 7). – Non bastando ancora l’episcopato a tale compito, la S. Sede affidò poteri temporanei a delegati, i più attivi dei quali furono, in Francia; Pietro de Castelnau, assassinato il 15 genn. 1208, e Romano, cardinale di S. Angelo; in Italia: il card. Ugolino. Terminata la crociata che abbatté la potenza degli albigesi in Linguadoca, Raimondo VII, conte di Tolosa, re Luigi I ed il legato romano firmarono il Trattato di Parigi del 12 apr. 1229 che assicurava alla Chiesa la cooperazione dello Stato (testo fotografato in J. Guiraud, Histoire de l’Inquisìtion au moyen àge, II, Parigi 1938, p. 8) . – Da parte sua l’imperatore Federico II promulgò costituzioni contro gli eretici nel 1220, 1224 e 1231 (J. – L. – A . Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Frederici II [Parigi 1852], p. 4, 421 e 19, X, V, 7 ). Fu allora che Gregorio IX istituì per l’Europa, dal 1231 al 1234, dei tribunali d’I., presieduti da inquisitori permanenti, i quali esercitavano i loro poteri entro circoscrizioni determinate. A tale scopo egli scelse Francescani e Domenicani, designati a tale ufficio dai loro superiori gerarchici (L. Auvray, Registres de Grégoire IX [ivi 1890], pp. 339-41 e Th. Ripoll, Biillarium Ordinis Fratrum Prædic., I [Roma 1729], p. 47) o più tardi, dalla S. Sede stessa.

II. GLI INQUISITORI. – Domenicani e Francescani esplicarono contro gli eretici uno zelo ardente. In Italia si urtarono contro le autorità locali che li proteggevano, e contro i ghibellini che avevano fatto lega con essi. Pietro di Verona pagò con la vita l’esercizio delle sue funzioni di inquisitore nel Milanese e a Firenze (29 apr. 1252). Ma nonostante la resistenza, l’eresia catara volgeva al declino verso la fine del sec. XIII e all’inizio del XIV. Quanto ai valdesi, perseguitati dovunque, emigrarono nelle Alpi del Delfinato, poi, scacciati dai loro rifugi, passarono nel Piemonte, dove esistono tuttora. Nei secc. XIV e XV gli inquisitori perseguirono gli pseudo-apostoli, discepoli di fra’ Dolcino, e gli amanti degeneri della povertà francescana, conosciuti sotto il nome di beghini, spirituali e fraticelli. Dinanzi a loro comparivano anche gli Ebrei convertiti che apostatavano, i bestemmiatori, gli scomunicati, dopo un anno di insordescenza, i colpevoli di stregoneria, di divinazione, di sortilegi, di fatture, di invocazione del demonio, di delitti contro natura, di adulterio, di incesto, di concubinato, di usura e, infine, i violatori del riposo domenicale. – Nella loro qualità di giudici delegati della S. Sede, gli inquisitori godevano di poteri eccezionali, che li rendevano indipendenti dall’Ordinario, almeno per quanto riguardava l’esercizio del loro ufficio. Taluni commisero abusi, ma la colpa era più spesso dei loro dipendenti, come, ad es., i notai. La S. Sede punì senza pietà i colpevoli, ad es., Roberto le Bougre, che incorse nella prigione perpetua. Per porre fine a qualunque arbitrio, Clemente V decretò che l’uso della tortura, la promulgazione delle sentenze definitive, la sorveglianza delle prigioni fossero di competenza insieme dei Vescovi e degli inquisitori (1, 2, V, 3 in Clem.). In seguito Giovanni XXII obbligò i giudici dell’Inquisizione a comunicare le procedure agli Ordinari (J. – M . Vidal, Bullaire de l’Inquisìtion francaise au XIVe siècle, Parigi 1913, nn. 40, 55, 56).

III. LA PROCEDURA. – La procedura inquisitoriale è conosciuta nei suoi minimi particolari, grazie ai manuali redatti da Nicola Eymeric, Bernardo Gui e altri. Sospetti, denunce, accuse, la stessa voce pubblica, bastavano all’inquisitore per citare a comparire dinanzi a sé le persone compromesse, o farle trarre in arresto, sia dalle autorità civili, che dai propri dipendenti (sergenti, messaggeri, notai, carcerieri). L’interrogatorio doveva avere luogo in presenza di due testimoni. Un notaio – in sua mancanza due persone idonee – scriveva i processi verbali delle deposizioni o almeno la sostanza di esse. Esente da ogni giurisdizione, l’inquisitore, salvo eccezioni, si dispensava dall’osservare la procedura di diritto comune, per seguire a suo piacimento quella messa in onore da Clemente V e chiamata sommaria, passava oltre a ogni privilegio, ai procedimenti dilatori!, all’appello e all’applicazione del can. 37 del IV Concilio Lateranense che proibiva le citazioni a più di due giornate di cammino (dietæ) dal domicilio dell’incolpato. L’inquisitore aveva dunque un potere discrezionale. La colpevolezza era stabilita sia con la confessione degli interessati, sia con prove testimoniali. Come testimoni potevano essere uditi anche eretici e infamati, pur sottoponendo le loro deposizioni a un serio esame. Erano esclusi i nemici mortali dell’interessato. Due testimonianze di persone degne di fede erano sufficienti a stabilire la colpevolezza; le deposizioni dei testimoni erano comunicate agli imputati, ma i loro nomi erano tenuti nascosti per tema di rappresaglie. Per questo occorreva tuttavia, dopo Bonifacio VIII, che il pericolo fosse giudicato molto grave (20, V , 2 in 6°). – Esistevano vari mezzi per costringere l’imputato a confessare: il regime della prigione stretta, che comportava il digiuno, la privazione del sonno, la prigionia nelle segrete, i ceppi ai piedi e le catene ai polsi, e tormenti anche più crudeli. Se recalcitrava, il detenuto era sottoposto alla tortura, ossia al cavalletto, alla corda, ai carboni ardenti, o al supplizio dello stivaletto. Tuttavia bisognava evitare sempre la mutilazione e il pericolo di morte. – In forza della decretale Si adversus (11, X, V, 7) l’avvocato o il notaio che prestavano il concorso del loro ufficio a un eretico o a un fautore di eresia, si esponevano alla perdita dell’ufficio e incorrevano nell’infamia. Di conseguenza gli imputati restavano indifesi. Tutto al più si permetteva all’avvocato di consigliare il colpevole a confessare. Una volta raggiunta la prova del delitto di eresia, l’inquisitore riuniva una giuria composta di religiosi, di chierici secolari, di persone gravi, di giureconsulti, in numero rilevante, fino a raggiungere la quarantina. Ascoltato il loro parere, egli pronunciava la sentenza sia in pubblico, solennemente, nel cosiddetto « sermone generale », sia fuori di esso. Se l’eretico si ostinava a rifiutare la ritrattazione dei suoi errori o se ricadeva dopo averli abiurati (nel qual caso era giudicato recidivo) l’inquisitore lo abbandonava (relinquimus) — appositamente non adoperava il verbo tradimus — al braccio secolare, pregandolo di risparmiare al colpevole la mutilazione e la morte. In pratica però questa raccomandazione non aveva effetto; solo preservava il giudice dall’irregolarità, in cui sarebbe incorso con il partecipare a una sentenza capitale. Se la corte laica di giustizia non avesse dato alle fiamme l’impenitente o il recidivo, sarebbe stata passibile di scomunica, in quanto favoriva l’eresia (C. Douais, Practica Inquisitionis heretìce pravitatis, auctore Bernardo Guidonis, Parigi 1886, pp. 88 e 127). – Condotto al luogo del supplizio, se il condannato dichiarava di pentirsi e di rinnegare i suoi errori, il tribunale lo restituiva all’inquisitore, il quale lo sottometteva a un interrogatorio molto serrato al fine di evitare qualunque soperchieria. Il pentito doveva denunciare, verosimilmente senza alcuna costrizione fisica, i suoi complici e abiurare una per una le sue eresie. Per castigo era condannato alla prigione perpetua. Se la sua conversione in extremis appariva simulata, la sentenza primitiva riprendeva il suo effetto. Il recidivo che si convertiva all’ultima ora otteneva solo la grazia di ricevere i Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, prima di morire sul rogo: il delitto di eresia era paragonabile a un caso di lesa maestà divina. – Se il colpevole era chierico od aveva ricevuto gli Ordini, l’autorità ecclesiastica procedeva a degradarlo prima di abbandonarlo al potere civile. Sul fondamento delle costituzioni apostoliche, del Liber Sextus (18, V, 2, in 6°) e della legislazione imperiale, alcuni autori hanno immaginato che l’appello fosse permesso solo nel caso di una sentenza interlocutoria, ma escluso per le sentenze definitive, in particolare per le condanne che importavano il ricorso al braccio secolare. I regesti pontifici han dimostrato, almeno per quanto riguarda il sec. XIV, la falsità di tali affermazioni (v. J. – M. Vidal, Bulicare de l’Inquisìtion francaise, pp. LXXII – LXXX). Tra le pene inflitte agli eretici che abiuravano i loro errori, sembra che quella della reclusione fosse la più largamente adoperata dagli inquisitori. Il regime penitenziario variava a seconda dei casi e dei luoghi: la « prigione larga » escludeva i ferri e le segrete, penalità riservate ai condannati alla «prigione stretta» o alla « prigione strettissima ». – In qualunque caso però, i detenuti non ricevevano altro cibo che « il pane del dolore e l’acqua della tribolazione ».

IV. I PENITENTI. — A volte, i prigionieri ottenevano la libertà provvisoria o definitiva. Si imponeva loro, però, di portare, sulle vesti, segni d’infamia: pezzi di stoffa gialla o rossa, di forme diverse, che li esponevano a ogni sorta di vessazioni, di affronti, di incommodità, che rendevano loro la vita difficile. Infatti, i buoni Cristiani si rifiutavano di avere relazioni con essi ; di dare i propri figli in matrimonio ai loro figli e alle loro figlie. Insulti e persecuzioni non venivano risparmiati. I calunniatori e i falsi testimoni erano duramente puniti: per due giorni consecutivi, dal levar del sole fino a nona, e nelle quattro domeniche successive, erano issati su una scala, a mani legate e capo scoperto, vestiti di un camice senza cintura, davanti alle porte delle chiese, perché  la folla li coprisse di ingiurie. Altre volte, gli inquisitori imponevano ai penitenti pellegrinaggi più o meno lontani. I pellegrinaggi maggiori erano a S. Giacomo di Compostella, a Roma, a S. Tommaso di Canterbury, ai SS. Tre Re Magi di Colonia. Al loro ritorno i pellegrini presentavano dei certificati in attestazione del viaggio compiuto e delle visite obbligatorie ai santuari. Ai pellegrinaggi e ai segni d’infamia si accompagnava ordinariamente la fustigazione pubblica. In determinati giorni di festa o di domenica, il penitente assisteva alla Messa parrocchiale, presentandosi al celebrante, con un cero in una mano, delle verghe nell’altra, e riceveva la flagellazione. La cerimonia poteva anche aver luogo durante le processioni. Il fustigato annunciava al popolo riunito, che egli aveva meritato la sua sorte, perché aveva commesso dei misfatti contro gli inquisitori e il tribunale dell’Inquisizione. Sui penitenti gravavano poi altri doveri, come assistere alla predica e alla Messa cantata, astenersi dalle opere servili nei giorni proibiti, ricevere i Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, nelle date stabilite, digiunare, ecc. Le pene inflitte ai colpevoli erano dalla Chiesa stimate, più che punizioni, penitenze utili alla salvezza dei penitenti, tornati alla vera fede cristiana. Così, la prima domenica del mese, il curato spiegava le lettere penitenziali in possesso di un penitente e gli ricordava gli obblighi a cui era tenuto.

V. IL FINANZIAMENTO. – La ricerca e la cattura degli eretici o di coloro che li favorivano, implicava gravi spese. Per compensarle, gli inquisitori imponevano delle multe, sia a titolo principale sia a compenso di pene gravi commutate in pene più lievi. Il resto degli utili era devoluto ad opere pie, quali la costruzione o la manutenzione di chiese, di ponti, di fontane, l’acquisto di paramenti sacri, di vasi sacri destinati agli edifici del culto. – La confisca totale cadeva sui beni degli eretici ostinati e dei recidivi, anche se penitenti, che erano stati rimessi al braccio secolare, come pure sui beni di coloro che erano stati condannati alla prigione perpetua. In Francia un funzionario reale detto « receveur des encours », percepiva il ricavato delle confische, il che gli consentiva di assumersi le spese del tribunale dell’Inquisizione, che incombevano al re. In Italia i redditi del tribunale dell’Inquisizione, si dividevano in tre parti, fra le città, gli ufficiali laici, e il tribunale stesso.

VI. CONSEGUENZE DELLE CONDANNE. – La macchia di eresia non cessava con la morte: secondo le disposizioni delle Decretali (12, X, III, 28 e 8, X, V, 7) la presenza del corpo di un eretico profanava il cimitero dov’era sepolto e l’inquisitore ordinava che le ossa venissero riesumate e calcinate sul rogo. Alcune costituzioni apostoliche e un editto di Federico II prescrivevano la distruzione totale delle case in cui dei catari, detti « perfetti » o « perfette », erano stati arrestati, o s’erano nascosti, o avevano predicato o amministrato il consolamentum, sorta di sacramento che sostituiva quelli della Chiesa. In realtà gli inquisitori applicarono tali decreti solo alle case in cui morivano persone che avevano ricevuto il consolamentum in punto di morte, a saputa del proprietario, o in cui erano state elevate al grado di « perfetti ». – Infine, alcune inabilità civili ed ecclesiastiche colpivano ipso facto tutti gli eretici riconciliati con la Chiesa, fino alla seconda generazione in linea paterna e fino alla prima in linea materna; i chierici divenivano inabili a possedere dignità e benefici ecclesiastici; i laici non potevano esercitare pubblici uffici né compiere determinati atti della vita civile (L. Tanon, Histoire des Tribunaux de l’Inquisìtion en France, Parigi 1893, pp. 539-45). Gli inquisitori accordavano spesso remissioni e commutazione di pene, ma sempre rivedibili.

VII. IL NUMERO. – Quale fu il numero di eretici e di recidivi che subirono il supplizio del fuoco? La documentazione insufficiente impedisce di determinarlo con esattezza. Si hanno indicazioni precise solo sull’attività, nel sec. XIV, del tribunale di Pamiers dove, su 64 persone condannate, 5 furono consegnate al braccio secolare, e su quella dell’inquisitore Bernardo Gui nel Tolosano, dove su 930 persone 42 perirono sul rogo (cf. J. – M. Vidal, Le tribunal d’Inquisition de Pamiers, Tolosa 1906, p. 329; C. Douais, Documents pour servir à l’histoire de l’Inquisìtion dans le Languedoc, I , Parigi 1900, p. ccv). – I moderni hanno giudicato severamente l’istituzione dell’Inquisizione, e l’hanno tacciata di essere contraria alla libertà di coscienza. Ma dimenticano che in passato si ignorava questa libertà e che l’eresia incuteva orrore nei ben pensanti, che erano certamente la grande maggioranza anche nei paesi più infetti di eresia. Non va inoltre dimenticato che in alcuni paesi il Tribunale dell’Inquisizione, durò pochissimo ed ebbe importanza assai relativa: così nell’Italia meridionale, nei regni spagnoli durante i secc. XIII e XIV e nella Germania. A Roma stessa sparì ben presto: il processo contro Lutero nel 1518 fu condotto dall’Uditore generale della Camera Apostolica.

BIBL.; Fonti; Ph. Limborch, Historìa Inquisitionis, Amsterdam 1692; Th.Ripoll, Bullarium O.F.P., Roma 1729; J.H.Sbaralea, Bullarium Franciscanum, Roma 1765; P. Frédéricq, Corpus documentorum Inquisitionis hæreticæ pravitatis Neerlandicæ, 5 voll., Gand 1889; J. Dollinger, Beitràge zur Sektengeschichte des Mittelalters, Munster 1890; C. Douais, Documents pour servir à l’histoire de l’Inquisìtion dans le Languedoc, 2 voll., Parigi 1893. — Manuali degli Inquisitori: Bernardo di Como, Lucerna inquisitorum hæreticæ pravitatis, Milano 1566; N. Eymeric, Directorium inquisitorum cum commentariis F. Pegnæ, Roma 1578; Davide d’Augusta, De inquisitione hæreticorum, in Abhandlungen der historischen Klasse der Kònìglichen bayerischen Akademìe der Wissenschaft, 14, parte 2″ (1878), pp. 204-35; B. Gui, Practica Inquisitionis hæreticæ pravitatis, ed. C. Douais, Parigi 1886; nuova ed. parziale G. Mollat e G. Drioux, 2 voll., ivi 1926-27; A. Dondaine, Le manuel de l’Inquisiteur {1230-1330), in Archivum Fratrum Prædicatorum, 17 (1947), pp. 85-194; T . Kaeppeli, Un processo contro i valdesi di Piemonte nel 1335, in Rivista della storia della Chiesa in Italia, 1 (1947), pp. 285-91. – Studi; Una bibliografia, ma incompleta, è stata data da E . Vacandard, in DThC, VII (1923) coll. 2067-68 e da J. Guiraud, Histoire de l’Inquisìtion au moyen age, Parigi 1935, I , pp. XI – XLVIII. I libri scritti di recente, a parte quello del Guiraud, non hanno rinnovato l’argomento. Il libro classico di H . C. Lea, A history of the Inquisition of the Middle Ages, 3 voll., Nuova York 1887, vers. frane, di S. Reinach, Parigi 1900-1902, ha perso un po’ del suo valore; vale però meglio il libro di A. S. Turbeville, Medioeval heresy and the Inquisition, Londra 1920. Per l’Italia vedi F. Tocco, L’eresia nel medioevo, Firenze 1884; L . Fumi, Eretici e ribelli nell’Umbria: studio d’un decennio (1320-30), Todi 1916; G. Biscaro, Inquisitori ed eretici lombardi (1292-1318), in Miscellanea di storia italiana, 3a serie, 19 (1922), pp. 445-557; A. Mercati, Frate Bartolo d’Assisi michelista e la sua ritrattazione, in Archivum Franciscanum historicum, 20 (1927), pp. 260-304; G. Biscaro, Inquisitori ed eretici a Firenze (1319-34), in Studi medievali, 8 (1929), pp. 347-75; id., Eretici ed inquisitori nella Marca Trevisana (1280 1308), in Archivio veneto, 5a serie, 11(1932), pp. 148-80; G. Cornaggia Medici, La visitatio plebana. Caratteri della procedura inquisitoria vescovile con speciale riguardo alle fonti della Chiesa milanese, Milano 1935; P. Barino da Milano, L’istituzione dell’I, monastico-papale a Venezia nel sec. XIII, in Collectanea franciscana, 5 (1935), pp. 177-212; id. – Per una storia dell’Inquisizione, medievale, in Scuola cattolica, 67 (1939), PP. 589-96; F. Bock, Die Beteilung an den Inquisìtìonsprozessen unter Johanns XXII., in Archivum Fratrum Prædicatorum, 6 (1936), pp. 312-333; id., Studien zu den politischen Inquisìtìonsprozessen Johanns XXII., in Quellen und Forschungen, 26 (1936), p. 21-142, 27 (1937), pp. 109-34; C. Della Veneria, L’Inquisizione medievale, e il processo inquisitorio, Milano 1939; P. Barino da Milano, Le eresie popolari del sec. XI nell’Europa occidentale, in Studi gregoriani 1 (1947), pp. 43-89; R. Morghen, Osservazioni critiche su alcune questioni fondamentali riguardanti le origini ed i caratteri propri delle eresie medievali, in Miscellanea storica in memoria di Pietro Fedele,  Roma 1946, pp. 97-151.

II. INQUISIZIONE SPAGNOLA.

I. ISTITUZIONE. – Gli Ebrei, numerosi Spagna, vi avevano raggiunto una posizionepreponderante grazie alla loro abilità commerciale. La loro arroganza, il loro lusso e le loro ricchezze, oltre la pratica dell’usura, eccitarono contro di essi l’esasperazione pubblica, che prorompeva di quando in quando in feroci rappresaglie e massacri. Ripetute predicazioni, particolarmente per opera di S. Vincenzo Ferreri, e severi editti nel 1412-13 ne indussero molti a passare al Cristianesimo. Ma troppo spesso tali conversioni erano provocate dall’interesse o dalla paura senza condurre a mutazione di costumi o di occupazioni; molti di questi conversos, o marranos, come furono chiamati, praticavano di nascosto riti giudaici, altri ritornavano addirittura al giudaismo particolarmente in punto di morte; sicché furono ritenuti dagli Spagnoli peggiori di coloro che non s’erano convertiti. – Per provvedere a questo stato di cose e al riordinamento religioso della Spagna, cedendo alle istanze di autorevoli personaggi dell’alto clero e del laicato, i sovrani Ferdinando ed Isabella chiesero a Sisto IV il ripristino della Inquisizione.

II. ORGANIZZAZIONE. – Con bolla del primo novembre 1478 l’Iquisizione  fu infatti ripristinata. Essa però assumeva un più deciso carattere nazionale perché, pur ricevendo i loro poteri dal Papa, gli inquisitori erano nominati su proposta dei sovrani che potevano rimuoverli o  sostituirli quando non facessero al caso loro. Anche nelle confische che colpivano i rei, i sovrani avevano la loro parte. I tre primi inquisitori furono nominati nel 1480; il Papa ne aggiunse altri sette, e per dareuniformità e disciplina al loro procedere, i due sovrani, accanto agli altri consigli della corona, istituirono il Consejo de la Suprema y General Inquisicion (detto più brevemente la Suprema) con giurisdizione su tutto ciò che interessava la fede. A capo di questo consiglio fu posto un inquisitore generale con pieno potere sui giudici dei singoli tribunali sottoposti. Gli inquisitori iniziarono la loro attività a Siviglia, città popolata di convertiti, donde molti esularono. Un editto del 2 genn. 1481 impose a chi dava loro asilo di consegnarli all’Inquisizione. Un secondo editto, detto di grazia, prometteva il perdono ai penitenti; allo scadere della dilazione accordata, la denuncia dei colpevoli o sospetti di apostasia diventò obbligatoria e per scovare i falsi cristiani fu compilato un memento in 37 articoli in cui si indicavano le loro osservanze caratteristiche. – Molte lamentele, portate fino a Roma, contro il modo di procedere degli inquisitori, decisero Sisto IV a togliere la nomina di questi alla corona e a creare in Castiglia una corte d’appello per i processi di eresia (25 maggio 1483); ma il tentativo non riuscì. Il Papa nominò  allora inquisitore generale il Torquemada il quale esercitò le sue funzioni dapprima in Castiglia (1483) e poi in Aragona (1484), quindi nel resto della Spagna (3 apr. 1487). Egli compose, per i suoi sottoposti un codice che, integrato con aggiunte successive, fu pubblicato a Madrid nel 1576 sotto il titolo di Compilacion de las istructiones del officio de la Sancta Inquisicion. Non  era opera originale, perché condensava la dottrina esposta da Bernardo Gui nella Practica Inquisitionis e da Nicolò  Eymerich nel Directorium Inquisitorum. Vi apportava solo delle precisazioni di dettagli e delle direttive occasionali. – In Aragona l’Inquisizione trovò una forte opposizione. I conversos di Saragozza ordirono un complotto contro i due inquisitori Pedro Arbues de Epila e Yuglar.  a notte del 14 sett. 1485, Pedro fu ucciso da un colpo di spada. La sua morte (17 sett.), suscitò a Saragozza la rivolta della popolazione contro i conversos. La repressione fu severa e i congiurati perirono tutti sul rogo. Nel 1492 tutti gli Ebrei, che non accettarono di farsi cristiani, furono costretti a lasciare la Spagna, causa i disordini e le cospirazioni che andavano fomentando; da allora in poi non si ebbero giudaizzanti che saltuariamente, sebbene venissero guardati con sospetto o con disprezzo quei Cristiani che traevano origine dagli Ebrei convertiti. – Quello che era successo ai marranos avvenne anche per i Mori rimasti in Spagna dopo la conquista di Granata (1492), ai quali nel 1498 fu imposto di farsi Cristiani o di andarsene. Si creò così una classe di convertiti (moriscos) solo superficialmente e contro di loro si volse l’attività della Inquisizione. – Gli errori degli alumbrados nei secc. XVI-XVII, tennero pure occupata l’Inquisizione, al giudizio della quale del resto furono assoggettati reati di diritto comune, che ben poco avevano a che fare con l’eresia; e ciò avuto riguardo al migliore funzionamento della sua procedura in confronto agli altri tribunali, alla sua segretezza ed alla maggiore integrità dei giudici. Essa non dimenticò la tradizione medievale ch’era di condurre i rei a penitenza per sottrarli soprattutto alla consegna al braccio secolare ed alle relative conseguenze; non sfuggì però ai pregiudizi dei tempi nell’applicazione delle pene corporali e nel solenne apparato dell’auto da fé (atto di fede). È certo che con l’allargarsi dei poteri dell’Inquisizione in Spagna ne ebbero a scapitare i tribunali vescovili, ai quali venne a mancare quasi del tutto il potere coercitivo. Anzi sarebbe stato proposito della Suprema assoggettare a sé i Vescovi stessi (v. CARRANZA); ma a ciò Roma non volle consentire. Numerosi del resto furono gli attriti con l’autorità Papale che interveniva per moderare lo zelo degli inquisitori, impedire le esorbitanze senza riuscire sempre a correggerne lo spirito aspro di indipendenza e la condotta inflessibile e dura. Sono ben noti i tentativi del re Filippo II per introdurre l’Inquisizione nei suoi domini di Napoli e di Milano e nei Paesi Bassi, incontrando la risoluta resistenza degli abitanti. In Spagna l’Inquisizione, soppressa una prima volta dal dominio francese nel 1809, fu ristabilita nel 1814 e soppressa poi definitivamente nel 1821.

BIBL.: Durante le sue ultime vicende gli archivi dell’Inquisizione, come avvenne anche altrove, andarono distrutti, mettendo così in serio imbarazzo chi voglia descriverne imparzialmente i caratteri e le vicende. Nella storiografia del periodo romantico ebbe larga parte la tendenziosità anticlericale e l’immaginazione romanzesca. Così non si può accettare ad occhi chiusi quanto ne scrisse il più noto storico : Y . A. Llorente, Anales de la Inquisición de Espana, Madrid 1812; id., Memoria histórìca, ivi 1812; id., Historia crìtica de la Inquisición de Espana, ivi 1822 (l’autore fu segretario generale del S. Uffizio e attinse abbondantemente negli archivi); H. Ch. Lea, The Moriscos of Spain. Their conversion and expulsion, Filadelfia 1901; id., A hystory of the Inquisition of Spain, 4 voll., Nuova York 1906-1907; E. Schàfer, Beitràge zur Geschìchte des spanischen Protestantismus und der Inquisition in XVI. Jahrhundert, 3 voll., Giitersloh 1902 (cf. R. De Schepper, in Rev. hist. ecclés., 10 [1909], pp. 138-45); F. Tocco, Henry Charles Lea e la storia dell’Inquisizione, spagnola, in Archivio storico italiano, 5 (1911), pp. 265-303; Ch. Moeller, Les bùchers et les auto-da-fé, in Rev. hist. ecclés., 14 (1913) P- 720-51; 15(1914) pp. 50-69; Pastor, II, p. 593 sgg.; R. Sabatini, Torjuemada et l’Inquisìtion espagnole, trad. francese dall’inglese, Parigi 1937 (opera insufficiente e a volte tendenziosa).

Guglielmo Mollat

Evidentemente I FACINOROSI MASSONIZZANTI, i comunistoidi mondialisti, i modernisti apostati – cattolici falsi ed ipocriti – non ricordano le inquisizioni degli ariani, dei musulmani, degi protestanti luterani, calvinisti, anglicani, dei regimi comunisti in tutto il mondo, – Europa Orientale, Messico, Cuba, Cina, Corea, Indocina – ove l’inquisizione non era regolata dai tribunali, ma da scimitarre, mannaie, roghi pubblici, gulag e fucilazioni, per non parlare dell’acqua tofana o dei bambini di Trento – Simonino -, Marostica – Lorenzino – etc. Si vede che la memoria è corta e superselettiva per coprire ben altri e veri crimini contro l’umanità!

[Nota di ExsurgatDeus]

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (52): LA VERA E LA FALSA FEDE -VII.-

LA VERA E LA FALSA FEDE –VII.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ XII. – A somiglianza degli antichi filosofi, gli eretici hanno ripudiata, come inutile, la preghiera a Dio per ottenere la fede. Non solo perciò manca loro il motivo di un AUTORITÀ’ DIVINA, ma ancora il soccorso della DIVINA GRAZIA perché credano con CERTEZZA. Spiegazione del detto di Tertulliano, che IL VERO ERETICO NON È PIÙ CRISTIANO. Che cosa significa credere? L’eretico OPINA, ma veramente non CREDE nulla e non CREDE a nessuno. Difficoltà che vi è perciò di convertirlo alla vera fede. La gente idiota presso gli eretici CREDE e può appartenere alla Chiesa. Il vero eretico però le stesse verità cristiane che professa le ritiene come OPINIONI umane, non come DOMMI divini; e però la sua fede non ha nulla di cristiano.

Ripieni gli antichi filosofi di questo orgoglio infernale, onde si credevano illuminati quanto Dio stesso, immaginate se poterono mai pensare a chiedere lume a Dio. Era anzi domma comune alle due grandi sette in cui si era divisa la filosofia, la setta stoica e la setta epicurea, che l’uomo, per l’acquisto della verità come per la pratica della virtù, non aveva bisogno alcuno di Dio, e che non avea perciò a chiedere a Dio alcun soccorso. Poiché la filosofia stoica dice presso Tullio: « Agli dei si deve domandar la ricchezza; ma la sapienza bisogna ripeterla dalla propria intelligenza, e l’uomo non è per nulla a Dio debitore di sue virtù: Quis, quod bonnus vir esset gratias diis gessit? Fortuna a Deo, a semetipso potendo est sapientìa (Ve nat. deor., lib. 2) . E la filosofia epicurea ripeté la stessa dottrina, per la bocca di Orazio che ne era alunno, in queste orgogliose parole: « Mi dia pur Giove le ricchezze e la vita. In quanto al lume della mente, all’equità del cuore non ho di lui alcun bisogno, ma basto io solo a me stesso, Det vitam, det opes, animum æquum mi ipse parabo. – Ora questa orribile dottrina, che l’uomo non ha bisogno che di se medesimo per esser sapiente come per esser virtuoso, dottrina che mette nelle tenebre il princìpio della luce ed il principio della santità nella corruzione; questa dottrina, dico, professata già dai pagani filosofi, è stata quindi rinnovata ed anche al presente è più o meno esplicitamente seguita dagli eretici cristiani. Non chiedono essi mai a Dio né la luce che gl’illumini, né la grazia che gli faccia migliori. E questi fedeli seguaci della Bibbia hanno con un orribile sangue freddo proscritto l’uso della preghiera, che pure, nei termini più chiari è raccomandato ad ogni pagina della Bibbia. Bisogna però confessarlo: così facendo, sono essi coerenti alle dottrine dei loro maestri; ed a che può essere mai utile la preghiera, se, come ha delirato Lutero, il libero arbitrio dell’uomo, pel peccato di Adamo, fece irreparabilmente naufragio, e non è necessario il ben vivere, ma basta sol credere per andar salvi? o, come ha bestemmiato Calvino, i figli dei battezzati nascono tutti santi, la grazia è inammissibile, tutti i fedeli sono predestinati? Or queste dottrine infernali una volta ammesse, non vi è più, come ognun vede, alcuna necessità di pregare: e perciò, checché sia della preghiera pubblica, che in alcune chiese da noi separate è restata come un esterior cerimonia cui non prendono alcuna parte né la mente né il cuore, la preghiera privata però della sera e del mattino, questa espressione della indigenza dell’anima, questa sorgente di tutti i suoi beni, questo pane di tutti i giorni, questo riposo di tutte le ore, questa speranza di tutti gl’istanti più non si pratica, più non si conosce. Io ho veduto una volta, in persona di un calvinista moribondo nel grande ospedale degli Incurabili di Napoli, il tremendo effetto dell’avversione profonda che l’eresia ispira alle sue vittime per la preghiera. Essendosi costui ricusato ostinatamente di entrare in discorso di religione, sino a turarsi colle mani le orecchie per non sentirne, non potei, per quanto mi fossi adoperato, ottenere che almeno pregasse! « La preghiera, diceva, non mi serve a nulla e non mi renderà migliore. » Ed in questo parossismo di orgoglio l’infelice spirò. Tutto al contrario però mi è accaduto con un luterano qui in Roma. Mi si presentò egli dicendomi: « Sono luterano, ma di nome: in realtà però, come quasi tutti coloro che fra noi hanno qualche coltura, non credo nulla, ma desidero sinceramente di credere. Ed oh sapeste quanta invidia mi fa. quando entro nelle vostre chiese, il vedere tanta gente che ora, perché crede! » E qui, dando un profondo sospiro e con un accento di tristezza da cavar dagli occhi le lagrime, soggiungeva: « Ah quanto sono essi felici! io, misero me, non credo e non posso credere! » Questo desiderio però sì sincero e sì ardente di credere era già una preghiera incominciata: mi fu dunque facilissimo l’impegnarlo a continuare a pregare Iddio d’illuminarlo. Ogni sera si recava egli adunque alla chiesa della Maddalena che dalla parte della porteria rimane aperta sino a notte avanzata per comodo dei soli uomini, che in gran numero vi si recano infatti a pregare, e per ore intere chiedeva a Dio lume alfin di conoscere la vera religione, pronto a sacrificar tutto, anche la vita, per abbracciarla dopo averla conosciuta. Non occorre il dire che con disposizioni sì pure, sì belle e sì generose, questo brav’uomo finì col credere e si fece Cattolico. Deh che chi domanda a Dio la luce è illuminato, chi gli chiede la grazia è guarito! in una parola l’uomo che prega con umiltà di spirito con sincerità d’affetto, per quanto sia cieco e corrotto, è salvo; giacché ottiene il lume e la grazia necessaria per vederci, correggersi e salvarsi. Perciò la divina bontà anche agli idolatri, non che ai maomettani, anche agli eretici concede la grazia della preghiera. Questi novelli Giobbi, cui l’errore e il vizio hanno spogliato di tutto e ridotto da capo a piedi una piaga, pure, nell’immensa loro sventura, conservano sane le labbra per pregare: Derelicta sunt tantummodo labia circa dentes meos (Job XIX); e nella preghiera hanno ancora riserbato un mezzo efficacissimo di salute. Ma lo spirito delle tenebre, che li tiene schiavi, per toglier loro questo unico mezzo di salute che lor rimane fra le pratiche del Cattolicismo che ha rendute odiose agli eretici ha ispirato loro una profonda antipatia per la preghiera, e persuadendo loro a cercare in terra il lume e la forza che non scendono se non dal cielo e ad attendere da loro stessi ciò che non può venir che da Dio, li conferma sempre di più nel culto della propria ragione e del proprio cuore. Quindi mancherà ancora all’eretico il secondo motivo di credere con certezza divina, cioè il divino soccorso. E come è possibile che Dio venga colla sua misericordia e col suo lume a rischiarare le tenebre di una intelligenza idolatra di sé medesima e che, senza avere con Lucifero comune la natura, ne ha comune l’audacia, l’orgoglio e il sacrilegio? non deve anzi Iddio alla sua gloria il lasciarla sempre più ottenebrarsi nelle sue tenebre ed accecarsi nel suo accecamento? infatti questo Dio stesso, che ha dichiarato che si lascerà subito trovare dall’uomo il quale lo domanda e lo cerca e discende alla semplicità dei fanciulli (in Matth. XI), protesta però altamente che si avvolgerà in un velo impenetrabile e si renderà un oscurissimo enimma a colui che si crede sapiente e scienziato per sé stesso (ibid.); e che, come l’umiltà è sicura di ottener grazia al trono della sua bontà, così l’orgoglio non deve aspettarsi dalla sua giustizia che resistenza, odio, guerra e disprezzo, Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Jac. IV). – Prima però di passar oltre a vedere come alla pretesa fede dell’eretico manca ancora il terzo ed ultimo appoggio per credere cioè l’uniformità delle credenze de’ suoi complici nella ribellione alla Chiesa, fermiamoci qui un poco a considerare come appunto perché la fede dell’eretico si riduce a queste parole: « io credo a me stesso, » e manca del divino soccorso, essa non è più fede; e che la grande e terribile parola di Tertulliano: « l’eretico non è più Cristiano, si hætici sunt, christiani non sunt, » che è sembrata a taluni un esagerazione oratoria, è una trista e rigorosa verità. Imperciocché Gesù Cristo non ha ordinato ai suoi Apostoli e ai loro successori di presentare alle nazioni le sue dottrine come indovinelli onde s’intertiene una riunione di oziosi per esservi discusse, ma come un cibo divino alle intelligenze fameliche della verità per essere credute. Non ha detto RAGIONATE, ma CREDETE. Non è dunque l’inquisizione, l’esame, il raziocinio umano, ma la FEDE DIVINA che forma il Cristiano, Justus autem meus ex fide vivit.  Ora credere significa accettar come vera una proposizione, una dottrina di cosa ignota, lontana, invisibile, sulla testimonianza di un’autorità che non falla. Se l’autorità è umana, umana pure si dice la fede. Si dice però FEDE DIVINA, se è divina l’autorità che le serve di motivo e di appoggio. – Due cose adunque costituiscono la fede. La prima, ch’essa non ha luogo nelle cose di cui si ha una scienza immediata, come sono le cose che si vedono, si sentono e s’intendono, o per mezzo dei sensi, o per mezzo del raziocinio; e perciò non è un atto di fede il credere che esiste il sole e la luna, e che il tutto è maggiore della sua parte. Perciò pure non vi sarà fede in cielo quando tutti i misteri di Dio, che qui avremo creduti, ivi li vedremo in Dio, che conosceremo come è in se stesso, Videbimus eum sicuti est (I Joan. III). Perciò infine S. Paolo chiama la FEDE DIVINA « argomento delle cose che ancora non appariscono né alla ragione né ai sensi. Augumentum non apparentium (Hebr. XI). » Ma ciò non è tutto: per seconda condizione la fede suppone ancora un’autorità divina od umana fuori di noi che ci attesti la cosa ignota, invisibile o lontana; e questa autorità ci server di motivo più o meno possente, secondo che più o meno veridica, per determinare l’assenso e riscuoter la fede. Sicché credere è acconsentire alla testimonianza di un altro che parla; credere importa selezione, ubbidienza del nostro intelletto all’altrui parola. Colui adunque che tiene una cosa per vera sulla testimonianza della propria ragione o dei proprj sensi: colui che acconsente, ma pel motivo che vede la cosa, o la intende; colui che intorno alla verità della cosa si riporta interamente a sé stesso, si fonda, si riposa in sé stesso: costui giudica, opina,ma non crede; ed il suo assenso è il risultato necessario dell’evidenza intuitiva o discorsiva della cosa, che forza l’intelletto, e non già un atto libero di fede della volontà. – Ora tale appunto, come lo abbiamo veduto, si è la condizione dell’eretico rispetto alle verità cristiane che esso dice di credere. Poiché sebbene dica di ammetterle sulla testimonianza di Dio che le ha rivelate nelle Scritture, pure, siccome queste Scritture se le interpreta da sé, e ne ammette solo quello che gli sembra più ragionevole; non è sulla testimonianza di Dio che sottomette la propria ragione, ma è alla propria ragione che sottomette la testimonianza di Dio; e dove la fede del Cattolico si riduce alla parola: « io credo a Dio, » al contrario la fede dell’eretico si risolve in quest’altra: « io credo a me stesso. » E poiché il credere è l’adesione dell’intelletto mosso da un motivo distinto dallo stesso intelletto, giacché non può l’intelletto essere allo stesso tempo soggetto e motivo della fede; così l’eretico appoggiandosi al proprio intelletto, e chiedendo allo stesso intelletto il motivo da piegar l’intelletto non ha più il motivo della fede; giudica, opina, decide, ma non crede, e non ha fede alcuna, nel senso filosofico e teologico che si attacca a questa parola. – E questa, per dirlo qui di passaggio, si è la ragione onde è più facile il persuadere la vera religione ai maomettani ed agli idolatri che agli eretici. Il maomettano e l’idolatra crede a Maometto, a Sciaca, a Brama, sull’autorità del Corano o del Vegas, libri stimati da lui sacri ed interpretati dai muftì o dai bramini, che crede investiti dalla divina autorità d’interpretarli, e di deciderne. Il suo inganno si è nel credere divini quei libri e divina l’autorità che li interpreta. Il suo inganno è intorno all’oggetto della sua credenza; in quanto che quello che crede è falso, superstizioso, assurdo, ma non s’inganna intorno al principio generale: che la religione si deve ammettere sulla testimonianza divina attestata da una sacra e divina autorità; cioè a dire che crede male, ma crede. E quando il missionario gli fa conoscere l’assurdità, l’orrore e la turpitudine di ciò che crede, è fatto tutto; giacché pel rimanente trova in lui un intelletto abituato a sottomettersi ad una autorità esterna ed a credere, sulla sua testimonianza, la religione. Cioè a dire che col maomettano e coll’idolatra si tratta di rettificare l’oggetto della fede. ossia le cose credute, ma non già il soggetto della fede, ossia l’intelletto che crede, che si trova di già formato all’abitudine del credere. Ma coll’eretico vi sono a vincere due difficoltà: la prima è quella di persuadergli che le cose che esso ritiene per vere son false, e quelle che come false rigetta son vere. La seconda difficoltà, ancora più grande da superare, è quella di far piegare a credere sull’altrui testimonianza un intelletto assuefatto a non credere che sulla propria. Cioè a dire di far credere chi in verità non ha mai creduto. Ora il sottomettere un siffatto intelletto al giogo della fede è cosa più malagevole di quella che il persuadere la continenza a chi ha passata la vita in tutte le sregolatezze del senso. E più facile persuadere la castità alla lascivia che l’umiltà all’orgoglio. – Vi sono però delle verità cristiane che le diverse sette degli eretici han ritenuto, come il mistero della unità e della Trinità di Dio, dell’umanità e della divinità di Gesù Cristo e della sua incarnazione e morte per la salute degli uomini, del peccato originale e della vita futura. Ma che perciò? Da prima queste stesse verità fondamentali del Cristianesimo, che l’eresia si vanta di mantenere, le ha talmente sfigurate e malconce che, come lo abbiamo di già notato, è impossibile il ritrovar ne’ suoi libri il senso in cui si devono intendere. Ma abbia pur l’eresia conservate queste grandi e sublimi verità nella purezza: e lo schifoso insetto che ella è, che colla velenosa sua bava attossica e fa appassire i fiori più gentili cui si attacca, sia pur passato sul bianco giglio della dottrina cattolica senza corromperlo né alterarne il divino candore. Dall’avere gli eretici alcune verità comuni con noi non ne segue che le credono come noi. Poiché altro si è credere con fede umana, altro credere con fede teologica una cristiana verità. Che il Vangelo di Gesù Cristo contiene una rivelazione divina, è un fatto sì evidente e sì certo che per negarlo bisognerebbe negare con molto più di ragione che le orazioni di Demostene e di Tullio siano capolavori di eloquenza, e i versi di Omero e di Virgilio capolavori di poesia; giacché il carattere divino del Vangelo è di gran lunga più splendido di quello che lo sia, negli indicati libri, il merito oratorio o poetico. Ma il complesso dei grandi motivi di credibilità che basta a far credere divino il Vangelo e Dio il gran personaggio che ne è l’autore e il soggetto, non basta però a far credere con una completa e perfetta acquiescenza della mente, determinata da una volontà libera, tutti e singoli i misteri contenuti nel Vangelo, e farvi assoggettare la ragione che non gli intende. Questo atto sublime è l’opera dell’impulso dello Spirito Santo liberamente accettato : è l’opera della grazia della fede. Or egli è certo che ad una tal grazia non ha parte lo eretico. L’aveva egli ricevuta al Battesimo, se fu debitamente battezzato, ma la perdette in seguito quando, giunto all’età della ragione, incominciò liberamente a professare l’errore ed ostinarsi nello scisma e nell’eresia, che è il peccato onde la grazia della fede fa naufragio. Perciò nella classe idiota ed incolta, come sono per la più parte i contadini, le donne della plebe, il popolo, anche presso le nazioni da noi divise per la eresia o lo scisma. si conserva un qualche avanzo di fede nelle cristiane verità che vi sono restate superstiti: sì perché questa classe di uomini, non potendo far uso del principio del libero esame per trovare, per formarsi la propria religione colla Scrittura a dispetto di questo principio, che forma la base dell’eresia e il distintivo degli eretici, non riceve la religione da questi grandi apòstoli della ragione se non per via di autorità; sì ancora perché la maggior parte di sì fatti uomini rimangono nell’eresia e nello scisma non per una volontà pertinacemente ribelle alla verità conosciuta, ma per una ignoranza più o meno invincibile di cui solo Dio è il conoscitore ed il giudice. Entrati pertanto nella Chiesa per mezzo del Battesimo, e non essendone usciti per mezzo dell’ostinazione nell’errore conosciuto, la quale sol forma l’eretico, ne conservan la fede. Divisi dal corpo della Chiesa, appartengono al suo spirito. La Chiesa, in mezzo a queste nazioni ribelli e nemiche alla sua autorità, conta a milioni dei figliuoli, che se osservano i divini comandamenti, si salvano, ma si salvano per la vera Chiesa e nella vera Chiesa. E così sempre si verifica la gran verità: Che solamente nella vera Chiesa si trova la salute, e fuori di questa, come fuori dell’arca noetica, non si scampa dall’eterno naufragio. – Ma in quanto alle persone istruite e colte, come sono principalmente i dottori, i maestri dell’eresia, ed in generale in quanto a tutti coloro in cui non ha, né può aver luogo l’ignoranza invincibile della vera dottrina e della vera Chiesa, e che ad occhi veggenti combattono l’una e ripudiano l’altra; queste vittime sciagurate dell’orgoglio infernale sono estranee non solo al corpo, ma allo spirito ancora della vera Chiesa; e col perderne la comunione, ne han perduto ancora la fede. Imperciocché, noi l’abbiamo veduto, privo dell’autorità della Chiesa, ridotto a non credere che a sé stesso, l’eretico veramente tale non ammette una qualche verità cristiana che sulla testimonianza della propria ragione; perché la sua ragione, e non altri, gli persuade che tale verità si contiene nella Scrittura. L’ammette come fra i varj sistemi di fisica o di medicina si ammette da ognuno quello che gli sembra più fondato e più ragionevole. L’ammette come frutto delle ricerche, dei confronti, dei calcoli della scienza, in una parola sull’autorità del proprio giudizio. La sua credenza è tutta umana e filosofica, non già teologica e divina; è una credenza inetta, sterile, derisoria; che non ha nulla di comune colla vera fede che giustifica e salva: e l’uomo che sopra una tale credenza unicamente si fonda non può con verità dirsi più Cristiano: Si hæretici sunt, christiani non sunt.

§ XIII. – Segue lo stesso argomento della mancanza di una FEDE CERTA presto gli eretici. I buoni Cattolici s’ingannano nel pensare che il vero eretico, ammettendo certe verità cristiane con loro, le creda come loro. L’eretico giudica, il solo Cattolico CREDE, Attira prova della perdita della fede presso gli eretici: la loro ripugnanza ad ammettere i cristiani misteri. La setta razionalista, che rigetta i misteri cristiani, è figlia legittima di Lutero e di Calvino.

Noi Cattolici, grazie all’educazione veramente cristiana, grazie all’abitudine al credere, prima eredità, appannaggio prezioso che abbiamo ricevuto dai nostri padri, spesso c’inganniamo intorno alla condizione morale in cui si trovan gli eretici relativamente alle verità rivelate. E perché, richiesti da noi « se ammettono un Dio uno e trino, un Salvatore uomo e Dio » rispondon che sì, ci pensiamo che essi almeno credono queste verità come noi. Or nulla vi è di più falso. Gli eretici, non si può abbastanza ripeterlo, giudicano soltanto, noi Cattolici solamente e veramente crediamo, e tra il giudicare e il credere la distanza è immensa; e solo la conoscono coloro che, vittime già dell’errore e docili quindi all’impulso della grazia, sono venuti alla verità, poiché essi sanno per prova l’immenso stadio che perciò han dovuto percorrere. Le belle parole, per esempio, di Santa Marta: Sì, o Signore, io credo che voi siete il Messia Figliuolo di Dio vivente, che siete venuto in questo mondo, Credo, Domine, quia tu es Christus Filius Dei vivi, qui in hunc mundum venisti (Joan. XI); queste belle parole, dico, in bocca al vero Cattolico, che crede a questa ed alle altre cristiane verità come insegnategli dalla Chiesa, fedele depositaria ed interprete infallibile della parola di Dio, importano, come lo abbiamo di già veduto, un assenso pieno, intero e perfetto, un sacrificio completo dell’intelletto, che, ajutato dalla grazia, volontariamente si piega, si sottomette, s’immola a riconoscere come verità certissima, immutabile un mistero che non intende. Nella bocca però dell’eretico, che non si è indotto ad ammettere la divinità di Gesù Cristo, se non perché, leggendo il Vangelo, gli è sembrato di aver trovato questo mistero nel Vangelo; le stesse parole significano ben altra cosa. Esse esprimono un assenso condizionale, provvisorio, fondato sul solo motivo che cosi ne è parso alla sua ragione. Sono una concessione orgogliosa dell’io individuale che piega la palpebra dell’occhio senza abbassare il capo; che si degna di ammettere questo mistero perché lo giudica ammissibile; che fa che la ragione consenta, ma senza nulla sacrificare della sua indipendenza e del suo orgoglio. Ove dunque la parola lo credo che Gesù Cristo è Dio, nello bocca del Cattolico è sinonimo di quest’altra, lo tengo per infinitamente certo che Gesù Cristo è Dio, e lo credo con una certezza che esclude ogni dubbio, e son pronto a confessarlo in faccia ad ogni specie di sacrificio; nella bocca però dell’eretico equivale a quest’altra: io giudico, mi pare, potrebbe essere che Gesù Cristo sia Dio. In somma, noi ammettiamo questa verità come un domma della Chiesa universale divinamente rivelato; l’eretico, come un privato giudizio umanamente stabilito. E siccome non è il privato giudizio dell’uomo, ma la fede di Dio che forma il Cristiano: così l’eresia, rendendo, nell’anima in cui regna, impossibile questa fede, vi distrugge la base stessa della rivelazione cristiana. Il Cristianesimo non vi rimane che come un sistema filosofico, una teoria più o meno ragionevole, che l’intelletto è libero di ammettere o di rigettare in tutto o in parte. Fra gli eretici adunque, checché sia delle parole, non vi è più in fatti certezza teologica, non vi è più fede comune, non vi è domma obbligatorio. La religione vi si è diseccata nella sua radice, vi si è annullata nel suo costitutivo essenziale, che è la FEDE. E questi grandi riformatori del cristianesimo, di cristiano non avendo conservato che il nome, profanato da mille turpitudini, da mille errori, col divenire eretici han cessato in tutta la forza del termine di essere Cristiani, Si hæretici sunt, christiani non sunt. Un’altra’Conseguenza e prova insieme della perdita totale della fede cristiana, presso questi distruttori del Cristianesimo, si è la loro repugnanza ad ammetterne i misteri. Noi lo abbiamo di già avvertito: gli eretici, o gli scismatici, che dicono di ammettere le stesse verità cristiane che noi, sono lontanissimi dal crederle, al par di noi. Siccome queste verità non le ammettono se non perché è sembrato evidente alla loro privata ragione che esse si trovano nelle scritture: cosi la loro credenza ha la sua radice nella ragione e non nella fede. Credono, per esempio, che Gesù Cristo è Dio come credono che furono oratori Tullio e Demostene, ed Omero e Virgilio poeti. Lo credono come un fatto incontrastabile, che non può negarsi senza far violenza alla ragione. Lo credono con una certezza umana, non già con una fede divina. Lo credono come gli scribi e farisei credevano ai miracoli di Gesù Cristo, perché avendoli veduti cogli occhi loro ed avendoli essi stessi severamente esaminati e discussi, era loro impossibile il negarli; e perciò in un loro conciliabolo confessarono pubblicamente che Gesù Cristo faceva gran copia di miracoli: Hic homo multa signa facit (Ioan. XI). Ma come questa credenza dei giudici nei miracoli del Signore, credenza puramente umana, forzata, violenta, non li sollevava sino a credere altresì le celesti dottrine e la missione divina, così la credenza umana degli eretici nella sua divinità non gl’innalza sino a credere gli altri misteri che non si trovano nel Vangelo colla stessa evidenza da forzar la ragione. Dall’abisso del loro cuore, in cui fermenta l’orgoglio, si sollevano densissimi vapori, tenebre immense, che oscurano la chiarezza soprannaturale, impediscono la cognizione di questi misteri. Quindi questi misteri medesimi, che la docilità e la rettitudine della coscienza cattolica, rinvigorita dall’ajuto soprannaturale della grazia, ammette e crede senza pena e senza sforzo, diventano agli occhi dell’eretico enimmi oscurissimi. proposizioni inammissibili. Chi l’uno ne nega, e chi l’altro. Chi a suo capriccio li spiega, e chi secondo la sua capacità li restringe. Chi qualcuno ne ritiene come probabile, chi tutti affatto li rigetta siccome assurdi. E i dommi tra noi più popolari e più consolanti, come per esempio la confessione, la Eucaristia, il culto della santissima Vergine e dei Santi, le indulgenze, il purgatorio, si volgono, agli occhi di questi ciechi volontarj, in pratiche superstiziose, in occasione di stolide bestemmie e di sacrileghi insulti. – Rousseau ha pronunziato una gran verità dicendo: Ci vogliono buone ragioni per far sottomettere la ragione. Or, quando trattasi dei misteri della Religione queste buone ragioni non possono essere motivi intrinseci, perché, se un mistero si potesse con motivi intrinseci dimostrare, cesserebbe di essere un mistero; devono essere adunque argomenti estrinseci il primo e il più poderoso dei quali si è una autorità divina, infallibile che dichiari che un tal mistero veramente è rivelato da Dio, e lo proponga alla ragione perché lo accolga e lo creda. Togliete questa autorità e non vi rimarrà più mezzo da esigere la sottomissione della ragione ad un mistero che essa non intende. – Invano direte che basta che un tal mistero sia chiaramente contenuto nella Scrittura, perché la ragione lo ammetta. Poiché, tolta l’autorità della Chiesa, la ragione, che riman sola a giudicare e decidere Se un tal mistero si contiene veramente nella Scrittura, farà tutti gli sforzi per escluderlo. Vi è egli mai mistero più chiaramente annunziato nel Vangelo di quello della presenza reale di Gesù    Cristo nell’Eucaristia? Eppure appena Lutero tolse di mezzo l’autorità della Chiesa, e rimase alla ragione d’ognuno l’interpretazione del Vangelo, la prima cosa che fecero i suoi primi discepoli Zvringlio e Calvino fu quella di eliminare questo mistero; e dove Gesù Cristo ha detto nei termini più chiari e più precisi: Questo è il mio corpo, non hanno avuto difficoltà di asserire che nell’Eucaristia non è veramente il corpo del Signore, ma, secondo uno, ve n’è solo il segno; secondo altri, la figura; per questi ve n’è solo la memoria; per quelli solamente la promessa e il pegno; ed hanno amato meglio sostenere ed ingojarsi mille assurdità egualmente empie che ridicole, di quello di sottomettere docilmente la loro ragione alle sacre profondità del mistero. Lo stesso accadde del mistero della Trinità. Vivente Lutero e Calvino, Michele Serveto scrisse sette libri per distruggerlo Distrutto però il mistero della Trinità svanisce anche quello dell’incarnazione, crolla tutto il Cristianesimo, e la Religione di Gesù Cristo si riduce ad un puro deismo. Or siccome il passaggio, tutto di un salto, dalla Religione Cattolica al deismo era una cosa per quei tempi troppo forte, ed avrebbe troppo chiaro fatto conoscere che la riforma del Cristianesimo ne era la vera distruzione; così il buono e zelante Calvino condannò a morte e fece bruciar vivo in Ginevra Serveto. che non aveva altro torto che quello di essersi prevalso con maggiore licenza, contro Calvino e Lutero, dello stesso dritto e dello stesso privilegio della privata ragione, che Lutero e Calvino avevano proclamato in materia di religione, e di cui essi medesimi i primi aveano usato con tanta licenza e audacia contro la Chiesa universale. – Lo stesso, e per la stessa ragione, e nello stesso secolo avvenne, come si è veduto, a Valentino Gentile, che appoggiato allo stesso principio di Lutero e prevalendosi dello stesso dritto, rinnovò in Berna l’eresia di Ario, negando la consustanzialità del Padre e del Figliuolo, e però ancora la Trinità delle persone in unità di natura e la divinità di Gesù Cristo, fondamento di tutto il Cristianesimo. Sebbene questi errori si contengano tutti nel principio protestante, come l’intera pianta si contiene nel suo seme, pure, perché Gentile li volle fare troppo presto dischiudere, dagli stessi eretici bernesi fu fatto decapitare. Ma il rogo e la mannaja non sono buoni argomenti per impedire che i principj una volta adottati producano tutte le loro conseguenze. Perciò come cominciò a declinare la febbre di un ingiusto fanatismo e di un zelo bugiardo e ipocrita, la ragione incominciò la sua guerra contro i misteri. Fu libero ad ognuno di negarli in privato; purché, per rispetto ai pregiudizi popolari, usasse politica in pubblico. Da ciò la scuola razionalista, che in questi ultimi anni si è prodotta in Germania alla luce del giorno, ma che era nata già al tempo della dottrina di Lutero: Che la privata ragione è l’interprete della Scrittura. Questa scuola si studia d’interpretare i Libri Santi in un modo, dice essa, tutto ragionevole. In fondo però, spiegando in un senso figurato o iperbolico i passi della Scrittura, pei quali letteralmente è annunziato un mistero; ed attribuendo i miracoli che vi sono narrati a cause puramente naturali, od alla scienza fisica, o all’impostura di chi li operò, toglie dalla Scrittura tutti i misteri e tutti i prodigi. Fa un poema umano di un’opera tutta divina, e trasforma l’augusto deposito della rivelazione cristiana in codice di un meschino deismo. Deh che la ragione, abbandonata a sé sola, declina sempre le sublimità dei misteri che la umiliano: come il cuore non soffre il giogo delle leggi severe che lo crocifiggono! Perciò nessuna religione di fabbrica umana troviamo che abbia imposto agli uomini misteri incomprensibili e leggi rigorose. Perciò, ritrovando l’eresia questi misteri incomprensibili, queste leggi rigorose nell’unica religione di origine divina, nella Cattolica Religione, quando le è stato permesso, ha fatto e farà sempre tutti gli sforzi per distruggerli e dispensare, il più che si è possibile, la mente dal sottomettersi, il cuore dal mortificarsi; ed a questa licenza accordata alla sensualità e all’orgoglio, deve principalmente l’eresia la sua forza e i suoi successi. – Questa maniera di considerare il Cristianesimo, che la scuola razionalista professa ne’ suoi libri e nelle sue lezioni è pur quella che i protestanti, coerenti ai loro principj, hanno nel cuore. E, tolto il popolo, presso il quale tre secoli di eresia non hanno potuto smantellare e disperdere del tutto le verità cristiane che l’insegnamento cattolico vi avea lasciate: tolti quei savj, di cui il numero diviene ogni giorno più grande e più imponente, che, conoscendo la vanità ridicola unita all’empietà infernale della riforma, ne deplorano l’avvenimento e riguardano con occhio di tenerezza la sede romana, centro e sostegno della verità; del rimanente la maggior parte dei protestanti istruiti e dei preti anglicani non sono nulla più che framassoni, materialisti. pagani che nulla credono e non isperano nulla nell’altra vita. Per tali almeno li ha ultimamente denunziati al mondo uno dei loro stessi confratelli, che ha obbligo di conoscerli; confermandoci sempre più l’osservazione di Tertulliano, che fra gli eretici vi sono più deisti che Cristiani: Si hæretici sunt, christiani non sunt.

§ XIV. – Si assegna l’ultima causa della mancanza di una fede CERTA presso gli eretici: cioè la discordia delle opinioni e delle credenze. Impossibilità di unire gli uomini in una stessa sentenza quando manca un’autorità comune. Tentativo vano e ridicolo di un proconsolo romano per metter fra loro d’accordo i filosofi, rinnovato in questo secolo per metter fra loro d’accordo i protestanti.

Ma non si tratta qui di certezza puramente scientifica, di fede puramente umana. Piacesse al cielo che l’eretico che ragiona potesse almeno levare sino a questa altezza la certezza della sua fede intorno alle verità cristiane! Ma nemmeno può lusingarsi di giungere a questo meschino risultato, onde pur crederebbe alcuna cosa da uomo, non credendola da cristiano. Imperciocché, coll’interno soccorso della grazia della fede, gli manca ancora il soccorso esterno proveniente dalla concordia, dall’uniformità delle credenze degli altri colla sua. La società è la concordia degli esseri intelligenti uniti fra loro per mezzo dell’obbedienza alla stesso autorità. L’obbedienza alla stessa autorità fa che gl’individui che vi sono soggetti professino le stesse credenze sociali, adempiano le stessi leggi; e così induce fra loro somiglianza di relazioni onde si accordan fra loro. Dove dunque non vi è autorità, non vi è obbedienza; non vi è professione delle stesse dottrine, né soggezione alle stessi leggi; non vi è perciò concordia tra gl’individui, non vi è società. La chiave, ovvero la pietra situata alla sommità dell’arco di un edificio, mentre pare che opprima col suo peso le altre pietre che vi sono sottoposte, è pur quella cui queste pietre si appoggiano e per cui esse stan ferme al loro posto, sono in armonia fra loro e costituiscono l’arco. Togliete la chiave, e l’ordine architettonico scomparisce, l’arco crolla, e più non si vedono che ruine. Così l’autorità, mentre pare che pesi sopra gl’individui che le sono soggetti, é pur quella cui questi individui devono la loro sicurezza: ed essa è che li tiene in relazione, in armonia fra loro, sicché formino società. Distruggete l’autorità: ogni ordine sociale si dilegua, la società si discioglie, e più non si trovano che individui fra loro discordi. Onesta dottrina è applicabile egualmente all’ordine politico ed all’ordine morale e religioso. Come non vi è unità né società politica senza una politica autorità, così senza una autorità morale e religiosa non vi è unità o società né religiosa, né morale. Perciò siccome gli antichi filosofi non riconoscevano alcuna autorità intellettuale cui sottoporre i loro giudizj e le loro opinioni, così non vi fu mai fra loro unità od uniformità di opinioni e di giudizj comuni, ma solo opinioni e giudizj privati, fra loro contrarj e discordi. – Da prima, poiché nell’uomo privato si riconobbero tre mezzi di conoscere la ragione, il senso intimo e i sensi esterni; così la dottrina dell’individualismo o del privato giudizio o della opinione privata, che la filosofia pagana stabilì come criterio unico della verità e fondamento delia certezza, produsse tre sistemi; il primo, che stabiliva la sola ragione; il secondo, che dava il solo intimo senso; il terzo, che i soli sensi esterni di ognuno costituiva come l’ultimo giudice del vero. E quindi le tre grandi scuole o sette: la setta spiritualista o italica di Pitagora, e rinnovata quindi da Platone; la setta entusiasta o elealica di Senofane e di Parmenide, restaurata poi dai cirenaici; e la setta materialista o ionica di Talete, riformata a suo modo da Epicuro. Ma che? ben presto quanti furon membri di queste diverse sette, viventi ancora i loro rispettivi maestri, si costituirono maestri e capi di altrettante sette diverse; che non più felici delle prime, si suddivisero esse ancora in altrettante diverse scuole quanti contavano scolari, che essi pure stabilirono ciascuno scuole novelle. Anzi può dirsi che in breve non vi furono più sette, perché ogni individuo di esse avea un suo particolare sistema. Così sulla sola questione del sommo bene si contarono più di ottanta opinioni diverse, altrettante intorno a Dio, e più di quaranta intorno all’uomo; e sopra ciascuna delle grandi verità, fondamento della religione e dell’ordine, vi erano quante teste tante opinioni diverse: Quod capita, tot sententiæ. Ma questi gladiatori audaci della filosofia, di cui nemmen due soli potevano esser d’accordo sopra una sola cosa, si univano a molti insieme per fare a’ nemici comuni la guerra, che poi, simili agli sparziati, rinnovavano fra loro più ostinata e più cruda fino a distruggersi. Così, nel corso degli ottocento anni che durò questo orribile conflitto delle opinioni private in Grecia e in Roma, nessuna disputa fu mai terminata, nessuna questione decisa, nessuna verità assicurata, nessun errore distrutto. Ma i sistemi nascendo dai sistemi, gli errori dagli errori, in questo vasto pelago di condizioni, di dubbj. d’incertezze, di assurdità, di delirj, di turpitudini, nessuna verità rimase in piedi: e si finì collo scetticismo, ossia colla disperazione di trovare con certezza una sola verità. – Gli eretici moderni, partendo dallo stesso principio, che ogni Cristiano è giudice legittimo delle verità rivelate, sono giunti alle stesse conseguenze, ed hanno offerto al mondo, in materia di religione, lo stesso spettacolo compassionevole, la stessa scandalosa anarchia, che i così detti savj antichi offrirono di sé in filosofia. Il protestantismo, ovvero la negazione della legittima autorità della Chiesa, appena nato sì trasformò, sotto gli occhi stessi di Lutero, in tre grandi sette, generate dai suoi tre primi figliuoli che si ribellarono al padre comune e da lui si divisero per punirlo del delitto onde egli si era ribellato e diviso dal Sommo Pontefice, padre di tutti i fedeli. Queste tre grandi sette religiose che, a somiglianza delle tre grandi sette dell’antica filosofia, inclinarono una più allo spiritualismo (i confessionisti), un’altra all’entusiasmo e al fanatismo (gli anabattisti), e l’ultima al sensualismo (i sacramentari-calvinisti), queste tre grandi sette, dico, non si erano ancora costituite, che si scissero e ne formarono ciascuna cento altre, ognuna delle quali ne produsse altre cento; come si è osservato nel quadro funesto che abbiamo presentato al lettore della genealogia delle sette protestanti (Lett. VI, § 5). Eppure non ne abbiamo indicate che le principali. E chi può, per esempio, numerare le sette diverse che il protestantismo ha prodotto nella sola Inghilterra? Abbiamo sotto gli occhi la storia del signor Gregoire, Delle sette nate ed esistenti solo nello scorso secolo; e quelle dell’Inghilterra, entrano per più centinaja in questo orrendo catalogo. Come il corpo umano, da cui l’anima è partita, si corrompe e genera vermini, che morendo lasciano altri vermini da essi generati e che finiscono col divorarsi il cadavere che li ha prodotti; così le infelici nazioni protestanti, appena si sono staccate dalla Chiesa, ed hanno perciò perduto lo spirito vero di Gesù Cristo che le animava, si sono cominciato a disciogliere in putredine; Mille sette si sono formate nel loro seno; e questi; nel perire ne han lasciate mille altre superstiti, che vi hanno l’una dopo l’altra divorate e distrutte tutte le verità cristiane. Sicché senza l’influenza segreta della Chiesa Cattolica, più non rimarrebbe fra questi popoli sventurati traccia veruna di cristiana verità. – Osserviamo però che siccome nello stato, così nella Chiesa, non ogni autorità, ma la sola autorità legittima, mantiene un legittimo ordine. Ora la sola autorità legittima in materia di religione è un’autorità divinamente stabilita, divinamente assistita, divinamente ispirata. Essa sola può far piegare l’intelletto e comandare l’obbedienza del cuore; ed al contrario una autorità puramente umana, che s’impone arbitra della religione, come ogni autorità usurpatrice e illegittima, riscuote tanta ubbidienza quanta gliene concilia la forza, e, mantenendo un’ombra esteriore di unità religiosa, lascia sussistere nell’interno dei cuori la più grande discordia ed una vera anarchia di religiose opinioni. Così gli antichi filosofi avevano anzi per massima di dover professare in pubblico il cullo degl’idoli imposto dall’autorità politica, mentre se ne beffavano in privato; e, d’accordo nelle apparenze, non ve ne erano poi due soli che sentissero lo stesso intorno alla sostanza della religione. Lo stesso accadde presso i popoli idolatri o maomettani a’ tempi nostri. I buddisti della Cina, i bramini delle Indie, i dervis della Persia, i muftì, gli ulemas de’ Turchi, tutti d’accordo nel praticare le cerimonie esteriori della religione dell’impero, sono però in privato divisi in infinite sette diverse, di cui ognuna intende a suo modo Confucio, il Zend-avesta, il Vedas ed il Corano. Lo stesso interviene infine nei paesi cristiani in cui lo scisma e l’eresia, innestata colla costituzione dello stato, forma la religione pubblica che lo stato alimenta colle sue ricchezze e mantiene colla sua forza. Ma i castighi che l’eresia minaccia ai dissidenti, le ricompense che offre ai docili, se riescono a mantenere una uniformità esterna di eulto, non arrivano a produrre però nell’interno delle coscienze la stessa unità di opinioni. Quindi tra gli uomini di Chiesa, non che tra i laici, non si trovano nemmen due soli che intendano al medesimo modo la dottrina di Fozio in Grecia, quella di Lutero in Germania, quella di Zwinglio in Olanda, quella di Calvino in Ginevra, quella dei trentanove articoli in Inghilterra. In quest’ultimo paese in particolare, in pubblico la stessa dottrina, non si trovano due soli individui che abbiano in fondo la stessa religione e la stessa credenza. Nella famiglia dello stesso vescovo che vive delle pingui rendite dell’anglicanismo, difficilmente si trovano due sinceri anglicani. Il padre alle volte trovasi che è sociniano, la madre quaccheressa, i figli e le figlie chi presbiteriano, chi unitario, chi anabattista. Sicché, indipendentemente dalle infinite sette dei così detti pubblici dissidenti della chiesa stabilita, questa stessa chiesa, simile ad un mare, di cui tanto è più turbato da contrarie correnti il fondo, quanto sembra più in calma la superficie, sotto le apparenze di una unità derisoria, nasconde la più vasta anarchia delle opinioni che ne discoprono l’ignominia, l’impotenza e il nulla. – Varie volte presso gli antichi come presso i moderni, si é tentato di mettere d’accordo le diverse opinioni private, ma sempre invano. Senza un’autorità divina insegnante, è tanto possibile il riunire le menti degli uomini in una stessa credenza, quanto è possibile il tenere ferme e compatte le volubili arene del deserto quando spirano contrarj e impetuosi i venti, ed ergervi sopra un solido edificio. Riferisce Cicerone (De leg., lib. 1) che un certo Lucio Gellio, proconsole romano in Grecia, scandalizzato dal vedere le infinite sette fra loro contrarie che facevano misero strazio della filosofia e della verità, riunì un giorno tutti in un luogo i filosofi della provincia e fece loro una patetica esortazione: « che mettessero una volta un termine allo scandalo delle eterne ed ostinate loro controversie, onde vedevansi consumare la vita intera in vani litigi; che cercassero d’intendersi fra loro e di convenire insieme in qualche cosa: » e promise loro la sua cooperazione ed il suo concorso per quest’opera di riconciliazione e di pace: Memini Gellium, cum proconsul in Greciam venisset, Athenis philosophos qui tum erant, in unum locum convocasse, ipsisque magnopere auctorem finisse ut aliquando, controversiarum aliquem finem facerent; quod si cssent eo animo ut nollent ætatem in litibus convenire posse rem convenire, et simul operum suam illis esse pollicitum. Gellio però, nel pensare, nel parlare cosi, dimostrossi quanto buon proconsole, altrettanto cattivo filosofo; giacché credette cosi facile il riunire le menti in materia di opinioni come spesso è facile una transazione in materia d’interessi, e che sia possibile l’ottenere che la ragione degli uomini nei giudizj liberi si accordi a giudicare e credere al medesimo modo sopra una sola cosa, senza un’autorità che abbia il diritto di comandare alla ragione. Perciò soggiunse Cicerone che il tentativo di quest’uomo dabbene fu reputato un giuoco, e da molti posto meritamente in ridicolo: Joculare illud quidem et a multis sæpe derisum. Lo stesso e per le stesse ragioni è precisamente accaduto in questo nostro secolo, e poco meno che sotto gli occhi nostri presso i protestanti in Germania. Le loro variazioni, che sempre variano, le divisioni loro, che sempre più si dividono e si fanno fra loro la guerra, sono il lato debole, sono uno dei più grandi scandali del protestantismo, che ogni dì più lo scredita, lo perde e conduce ogni dì più in gran numero a picchiare alle porte della Cattolica Chiesa coloro che cercano una dottrina vera e stabile in materia di religione, onde assicurare la salute delle loro anime. Per far cessare adunque questo scandalo, il governo di un grande stato protestante di Germania riunì i sedicenti teologi delle diverse sette che lacerano quella misera contrada, ed esortolli « a comporre le loro discordanti opinioni religiose in una formula o simbolo comune, che fosse ricevuto da tutte le sette e togliesse dagli occhi del mondo lo spettacolo disgustevole di tante divisioni fra protestanti, che ben presto finirebbero…. ma colla morte del protestantismo. » Stolido ed insensato consiglio però, sogno vano e ridicolo! così almeno ne giudicarono anticipatamente gli stessi protestanti e ne fecero un argomento di risa: Joculare illud quidem et a multis sæpe derisum. Ed il fatto venne ben presto a confermare la verità di questo giudizio. L’assemblea ebbe veramente luogo nel 1817, terzo anniversario secolare dell’apostasia di Lutero, epoca scelta ed annunziata con fastosi proclami come quella che doveva riunire in un sol corpo tutte le sette protestanti, che sebbene ribelli alle dottrine di questo eresiarca, non lo riconoscono però meno pel loro legittimo padre e maestro, .Ma con qual prò? Questo strano concilio, in cui non vi erano due soli padri che sentissero allo stesso modo, finì col dichiararsi inconciliabile. Ognuno rimase nelle sue antiche opinioni. Solo si convenne che ognuno perdonasse agli altri le loro stravaganze per avere perdonate le proprie. Perciò, senza essersi punto accordati nella stessa fede intorno all’Eucaristia, si videro luterani e calvinisti accostarsi in uno stesso tempio, ad una stessa mensa, a ricevere la comunione da uno stesso ministro, che non era né calvinista né luterano. E perché il calvinista, negando la presenza reale, non riconosce che una memoria della passione del Signore, ed al contrario il luterano, negando la transustansazione, ammette nella Eucaristia la sostanza del pane insieme con quella del corpo di Gesù Cristo.: così quel bravo ministro, volgendo in derisione ed in commedia l’azione la più santa e la più augusta della religione, nel comunicare un calvinista diceva: « Prendi la memoria del corpo del Signore; » e nell’avvicinarsi poi ad un luterano ripigliava: « E tu prendi colla sostanza del pane la sostanza ancora del corpo del Signore », dichiarando con questo fatto unico, in cui il sacrilegio contrastava singolarmente col ridicolo, che rimanea ognuno libero di opinare come più gli piaceva; e che questa diversità o contradizione di opinioni in materia di domma era una cosa affatto indifferente. – Così in questa grande riunione, in cui si dovea metter fine allo scandalo delle divisioni del protestantismo, non poté nulla essere riunito; le divisioni divennero sempre più visibili e più profonde, e questo conciliabolo altro non fu che una professione pubblica e solenne d’indifferentismo in materia di religione, ed uno scandalo novello e di gran lunga maggiore di quello che, con questa pantomima sacrilega, si pretese distruggere. Deh! che senza l’autorità legittima della Chiesa si può bensì, come testé si è fatto in Germania, riunire diversi stati nello stesso sistema di dogane e farne un sol corpo commerciante; ma non si possono riunire diverse chiese in una fede comune e formarne una sola chiesa! La discordia è sempre il carattere dell’errore; la concordia, l’unità non può trovarsi che nella religione di verità. Queste osservazioni però dan luogo ad altre osservazioni non meno importanti, e che ci è mestieri di esporre nella seconda parte: omettendo perciò la STORIA BIBLICA, alfine di non prolungare oltre misura la presente lettura.