DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re degli Ebrei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso agli Ebrei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e degli Ebrei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando gli Ebrei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio gli Ebrei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie, dice S. Agostino. E Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – «Questa immagine, che è l’anima nostra, dice ancora Bossuet, passerà un giorno di nuovo per le mani c davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: Di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele» (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo.« Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo,poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la pregherà della Chiesa, sua sposa,che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste).

Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolodomanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono semprestati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche eche egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro caritàdunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento diGesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio.

«Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà» (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, etin defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LA PROPAGAZIONE DELLA FEDE

I Filippesi, fin dai primi giorni della loro conversione coadiuvarono S. Paolo a propagare il Vangelo, mettendolo in grado, con i loro aiuti, di poter diffonderlo con maggiore facilità. Ora l’Apostolo mostra la sua riconoscenza, ringraziando Dio, e pregandolo di concedere il dono della perseveranza in questa cooperazione, e soprattutto il dono della propria santificazione ai cari Filippesi, sempre fedelmente a lui uniti nelle sofferenze, e nei lavori dell’apostolato. Egli prega che la loro carità progredisca continuamente, e che pervengano tutti alla piena conoscenza della verità e al pieno discernimento di ciò che devono fare; così che al giorno del giudizio vengano trovati irreprensibili, ricolmi di buone opere che ridondino a gloria di Dio. Noi posiamo imitare lo zelo dimostrato dai Filippesi nella propagazione del Vangelo, favorendo l’Opera della Propagazione delle fede.

1. E’ un’opera buona,

2. Voluta, dal nostro dovere e dal nostro interesse.

3. Si favorisce con opere e con preghiere.

1.

S. Paolo chiama opera buona lo zelo dimostrato dai Filippesi nella causa della propagazione del Vangelo. Nessuno vorrà mettere in dubbio questa affermazione. È un’opera buona che deve stare a cuore anche ai fedeli dei nostri giorni. – Gesù Cristo ha comandato ai discepoli, che andassero a portare il suo Vangelo in tutte le parti della terra, facendolo pervenire a ogni creatura, nessuna esclusa. I discepoli si misero all’opera; ma non poterono compierla, e non la compirono neppure i loro successori. Ancora due terzi degli uomini sono ignari del Vangelo. L’opera della Chiesa prosegue ancora, e proseguirà sempre, finché il Vangelo non sia pervenuto a ogni creatura. È un’opera voluta da Dio; è l’opera di Dio; è la missione ufficiale da lui affidata alla sua Chiesa. Gesù Cristo è il Buon Pastore. Il suo gregge dev’essere formato di tutte le nazioni della terra. Ma non tutti sono entrati nel suo ovile, non tutti provano la dolcezza di chi si trova sotto la sua guida e ascolta la sua voce. «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che io conduca; e daranno ascolto alla mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore » (Giov. X, 16). L’opera della Propagazione della Fede procura appunto l’adempimento di questo voto di Gesù Cristo. Va dovunque in cerca di pecorelle da condurre all’ovile dell’unico pastore, ove saranno guidati dalla sua voce, e saziati dall’abbondanza delle sue grazie. – Gesù Cristo è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo; ma gli infedeli questa luce non l’hanno ancora ricevuta. Essi vanno brancolando tutt’ora nelle tenebre dell’errore. Per le anime degli infedeli, come per le anime nostre, Gesù Cristo ha versato il suo sangue. Quelle anime sono proprietà sua, ma intanto sono escluse dal suo regno. Esse sono create per la felicità eterna, ma sono fuori della via che ve li conduce. Dio, nella sua sapienza e potenza, potrebbe certamente estendere in un lampo il suo regno a tutti gli uomini; ma Egli nei suoi imperscrutabili disegni ha stabilito, che il suo regno venga propagato gradatamente, tra contrasti, per mezzo degli uomini. – Per mezzo della predicazione degli uomini si accoglie la fede. Per mezzo degli uomini si amministra il Battesimo che introduce nella Chiesa. Per mezzo degli uomini, nel sacramento della Penitenza, si vien dichiarati sciolti dalla colpa. In una parola, la salvezza delle anime si procura per mezzo del ministero degli uomini. Si può dare opera più commendevole, di quella che aiuta gli operai del Signore a salvare le anime? No! «Nulla è paragonabile all’anima, neppure il mondo intero. Perciò, se tu distribuissi ai poveri ricchezze immense, non faresti tanto, quanto colui che converte un’anima sola» (S. Giov. Cris. In Ep. 1 ad Cor. Hom. 3, 5).

2.

S. Paolo assicura ai Filippesi: io vi porto nel cuore, partecipi come siete del mio gaudio. Quasi invidiamo la sorte dei Filippesi, che avevano parte al gaudio e ai meriti dell’Apostolo nella propagazione del Vangelo. Partecipare al gaudio e ai meriti di quanti lavorano per la propagazione e il consolidamento della Fede dev’essere premura di tutti quelli che conoscono il proprio dovere e il proprio vantaggio.Noi ci rivolgiamo frequentemente a Dio con la invocazione «Venga il tuo regno». Questa invocazione importa certamente, da parte nostra, l’impegno di far quanto ci è possibile, perché la domanda sia esaudita. Se noi, potendo fare qualche cosa per l’avvento e la dilatazione di questo regno, rimaniamo inerti, siamo dei burloni. Per noi varrebbe l’osservazione che, a proposito della fede senza le opere, fa San Giacomo: «Se un fratello e una sorella sono ignudi e mancanti del pane quotidiano, e uno di voi dica loro : — Andate in pace, riscaldatevi, e satollatevi —, senza dar loro il necessario alla vita a che giova cotesto?» (II, 15-16). – A ogni passo del Vangelo ci è inculcata la carità del prossimo. Nessun dubbio che l’obbligo della carità non devi limitarsi al corpo. Si deve, anzi, dare la preferenza a ciò, che, perduto, non si può più riacquistare, a ciò che, acquistato, porta con sè beni incalcolabili. Nessun bene è certamente paragonabile all’anima. Ce l’assicura Gesù Cristo stesso: «Che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?» (Matt, XVI, 26). Aiutando i missionari avremo ottima occasione di compiere il nostro dovere della carità verso il prossimo in ciò che maggiormente gli è necessario, nel salvar l’anima. Il Salvatore, dando istruzioni ai discepoli sulla loro missione di predicatori del Vangelo, aggiunge: «Chiunque avrà dato da bere un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi più piccoli, solo a titolo di discepolo: in verità vi dico non perderà la sua ricompensa» (Matt. X, 42). Chi non dovrebbe essere invogliato dalla grandezza di un premio tale? Ricevere il premio dell’apostolo che si porta a propagare il Vangelo tra gli infedeli? «Invero, quando egli predica, e tu cerchi di coadiuvarlo e favorirlo, le sue corone sono anche le tue (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom. 1, 2). I Santi, pregavano essi, e chiedevano le preghiere anche degli altri. Noi non abbiam sicuramente minor bisogno di preghiera che. i santi. Favorendo lo sviluppo delle missioni, impegniamo la preghiera di animi riconoscenti. I novelli convertiti, pregheranno per i loro benefattori, per quanti hanno cooperato alla loro conversione, quando gusteranno la felicità d’essere entrati nel grembo della Chiesa cattolica: pregheranno per i loro benefattori, quando andranno a godere la vita eterna. Le preghiere ardenti dei neofiti devono avere molto efficacia, se S. Paolo domanda continuamente preghiere a quelli che ha convertito alla fede.

3.

I Filippesi coadiuvarono l’Apostolo nella difesa e nel consolidamento del Vangelo, condividendo con lui travagli e sofferenze. Perciò dice loro ehe sono partecipi, e nelle… catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Per interessarsi praticamente delle missioni occorrono sacrificio e preghiera. Gesù Cristo, ai discepoli che devono predicar la fede, dice senza ambagi: «Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi… E sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Matth. X, 16 … 22). E i discepoli partirono indifesi come pecore, furono perseguitati, messi a morte. E il sacrificio conquistava le anime. L’Apostolo fa notare ai Filippesi che la sua prigionia a Roma, con tutte le relative conseguenze, contribuiva a far conoscere maggiormente il Vangelo (Fil. I, 12-13). I successori degli Apostoli e dei primi discepoli che continuano a conquistare il mondo a Gesù Cristo, non camminano per altra via che quella dei sacrifici. Abbandonano patria, ricchezze, parenti, amici, forse uno splendido avvenire; si portano indifesi, tra popoli barbari con la previsione di ogni privazione e di grandi difficoltà, non osservati dal gran mondo, anzi, considerati come disillusi, spiriti poveri. Essi non si scoraggiano: il crocifisso, che fu loro consegnato alla partenza, ricorda in che modo fu compiuta la redenzione del genere umano. – Anche noi dobbiamo sottoporci a qualche sacrificio, a qualche privazione. Quando Mons. Comboni, già vescovo, riparte da Verona per l’Africa con missionari e catechisti, è accompagnato alla stazione dal vecchio padre. Il figlio chiede la benedizione al padre, e il padre al figlio, Vescovo. E nell’abbracciarlo esclama: « Mio Dio, non ho che un figlio, e a Voi lo dono di cuore; ma se ne avessi anche molti, tutti li consacrerei a Voi per la vostra gloria e per la salvezza delle anime da Voi redente ». E il Vescovo a sua volta: «Mio Dio, lascio mio padre, forse per non vederlo più… ma ne lascerei cento, se potessi averne tanti, per servir voi mio Padre Celeste, e fare la vostra volontà». E salì in treno e pianse (M. Grancelli — Mons. Daniele Comboni – Verona 1823). Davanti a queste eroiche rinunce che cosa sono le piccole rinunce che noi dovremmo fare per soccorrere i missionari? Essi si privano di tutto, sarà troppo per noi privarci di qualche divertimento, di qualche spesa superflua per concorrere alla salvezza delle anime? Quanti danari in lusso, in divertimenti, in baldorie, che potrebbero essere spesi in aiuto degli Apostoli! Dopo tanti secoli par fatto per i nostri giorni il lamento di S. Leone Magno : «Mi vergogno a dirlo, ma non si può tacere: si spende più per i demoni che per gli Apostoli» (Serm. 84, 1). I vecchi missionari sono concordi nell’insegnare ai novelli operai del campo evangelico, che i pagani vengono alla fede più per la preghiera che per la predicazione. La cosa, del resto, è molto spiegabile. Chi piega i cuori è Dio. Egli si serve dell’opera del missionario, che dissoda, pianta, irriga, ma i frutti non si hanno senza il concorso della sua grazia. All’elemosina, alle piccole privazioni, alle rinunce che ci rendono possibile l’aiuto materiale, aggiungiamo la preghiera. Non potrai sopportare il digiuno, non potrai dormire per terra, non potrai ritirarti nella solitudine; potrai, però, sempre pregare. Se non si potesse pregar da tutti, il Signore non avrebbe imposto a tutti l’obbligo di pregare. E quel Signore che ha fatto obbligo di pregare ha anche detto: «pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua vigna» (Matt. IX, 38). Preghiera necessaria, perché comandata da Dio, preghiera urgente perché « molta è la messe di Cristo e gli operai sono pochi e con difficoltà si trova chi aiuti » (S. Ambr. Epist. 4, 7, ad Fel.). Che un giorno non ci assalga il rimorso di aver lasciate perire delle anime, che potevano essere salvate con il nostro concorso! Ci conforti, invece, all’avvicinarsi dell’ultima ora, la voce dei pagani convertiti che ci ricorderanno: La tua elemosina e la tua preghiera ci hanno sottratti al regno di satana, ci hanno introdotti nella casa del Signore; ci hanno procurato un bene immenso. Il Signore ti sarà benigno: chi fa bene, bene aspetti.

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la restituzione.

Reddite quæ sunt Caesaris Cæsari, et quæ sunt Dei Deo.

Ammiriamo, fratelli miei, la risposta piena di saviezza che Gesù Cristo fa nell’odierno vangelo alla domanda dei Farisei sull’obbligo di pagar il tributo a Cesare: Questa nazione perfida ed in credula aveva tentato più volte di sorprendere Gesù Cristo nei suoi discorsi e nelle sue azioni, affine di trovarvi motivi di condannarlo; ma l’eterna sapienza li aveva sempre confusi. Fanno essi tuttavia in quest’oggi un nuovo tentativo, e gli propongono una questione tanto più fraudolenta, quanto che in qualunque modo egli la decida, deve cadere nulle insidie. Se risponde che si deve pagare il tributo a Cesare, egli si dichiara nemico della nazione giudaica, che si pretendeva esente. Se Gesù Cristo risponde che non si deve pagare questo tributo, egli va contro gl’interessi dell’imperatore e si fa credere un sedizioso. Che farà dunque egli in sì delicata congiuntura? Senza dichiararsi contro il popolo, insegna loro quel che devesi ai principi della terra. Perché tentarmi, ipocriti, loro disse? Recate una moneta e ditemi di chi è la figura e l’iscrizione? Di Cesare, risposero essi. Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare, ed a Dio quel che è di Dio: Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari, et quae sunt Dei Deo. Io mi servo quest’oggi dei termini della domanda e della risposta che Gesù Cristo fece ai Giudei, per proporvi e decidere una questione sulla quale assaissimo importa che voi siate istruiti. A chi appartiene quella roba, quel danaro che possedete? Cuìus est imago hæc? Se li avete acquistati con legittimo titolo, se è retaggio dei vostri antenati o fruttodello vostre fatiche, con conservate quel che la provvidenza vi ha dato; ma se questi, beni son frutto di rapino, se vi riconoscete qualche cosa che non sia vostra, se avete cagionato qualche danno ad altri, rendete a Cesare ciò che odi Cesare, restituite quella roba mal acquistata, risarcite quel danno che avete recato: Reddite, etc. Di già, fratelli miei, voi comprendete su di che voglio ragionarvi; sull’obbligo di restituire, obbligo dei più importanti, obbligo di una vasta estensione, che nulladimeno è molto male osservato: obbligo importante, voi lo vedrete per i motivi che v’inducono a compirlo; obbligo d’una vasta estensione a cagion del gran numero d’ingiustizie che si commettono nel mondo; obbligo molto male osservato, voi lo vedrete per le regole che seguir si debbono per adempierlo. Per rinchiudere in poche parole tutto il mio disegno: quanto è grande l’obbligo di restituire? Primo punto. Quanti sono incaricati di quest’obbligo? Secondo punto. Come dobbiamo adempierlo? Terzo punto.

I. Punto. La restituzione è un atto di giustizia con cui si rimette il prossimo in possesso di una cosa che gli è stata tolta, o col quale si ripara il danno che gli è stato cagionato. Basta essere rischiarato dal lume della ragione per essere convinto dell’obbligo di restituire la roba altrui, e di riparare il torto che gli è stato fatto. Che c’insegna infatti questa retta ragione? Che non bisogna fare ad altri quel che non vorremmo fosse fatto a noi. Or noi non vorremmo che altri s’impadronisse ingiustamente dei nostri beni, che ci portasse danno in quello che ci appartiene; noi ci lamentiamo quando altri ci fa qualche torto; quei medesimi che ne fanno agli altri sono i primi a condannare coloro che non sono gli autori. Si è dunque con altrettanto d’equità che di sapienza che Dio ha fatto un comandamento espresso di non rubare: Non furtum facies. Poiché dall’osservanza di questo comandamento dipende il buon ordine delle vita, e perché, se fosse permesso d’impadronirsi indifferentemente dell’altrui, nulla sarebbe in sicuro, tutto l’universo sarebbe nel disordine; ciascuno, secondo le naturale avidità che ha sì per la roba, spoglierebbe arditamente il suo vicino di quel che avesse legittimamente acquistato o per successione dei suoi antenati o con un penoso lavoro; i più poltroni ed i più arditi sarebbero i più felici. Or se v’è un comandamento che ci proibisce d’impadronirsi dell’altrui, àvvene per conseguenza uno che ci prescrive di restituirlo, o per meglio dire, la medesima legge che ci proibisce il furto, ci comanda di ripararlo con la restituzione; mentre non restituire allorché abbiamo rubato si è fare torto al prossimo, si è continuare l’azione vietata dal comandamento: Non furtum facies. V’è dunque obbligo di restituire quando abbiamo dell’ altrui o quando abbiamo fatto qualche ingiustizia: obbligo fondato sul diritto naturale e sulla necessità della nostra eterna salute, che ne dipende: obbligo dei più indispensabili e che non soffre scusa di sorta. – Ella è una verità incontrastabile della nostra santa religione che non si può andar salvo senz’aver ottenuto il perdono del suo peccato, perché nulla d’imbrattato può entrare nel cielo. Or il peccato non vien rimesso, dice s. Agostino, se non restituisce quel che si è rubato: Non remiltitur peccatum, nisi restituatur ablatum. Il cielo non è pei ladri, dice l’Apostolo s. Paolo; chiunque è carico dell’altrui non entrerà giammai in quel felice soggiorno se non l’abbia restituito. Qualunque bene faceste voi d’altronde, qualunque virtù praticaste; se avete qualche restituzione a fare, cui manchiate per colpa vostra, tutte le vostre buone opere, tutte le vostre virtù a nulla vi serviranno. Passate pure la maggior parte di vostra vita nell’orazione, castigate il vostro corpo con le mortificazioni più austere, fate limosine abbondanti, soffrite anche il martirio come i difensori della fede; se voi morite senza aver soddisfatto a qualche restituzione di cui siete incaricati, le fiamme eterne dell’inferno saranno la vostra porzione. E perché mai? Perché avete mancato ad un punto essenziale che Dio domandava da voi, che era di adempiere a riguardo del prossimo i doveri della giustizia, doveri sì stretti che nulla può dispensacene. I Sacramenti medesimi, qualunque virtù abbiano per santificare e salvare gli uomini, non saranno giammai per voi strumenti di salute sinché non avrete soddisfatto all’obbligo di restituire. Voi potete ottenere il perdono dei vostri peccati in virtù del potere che i sacerdoti han ricevuto di assolvere i peccatori; ma il potere di questi sacerdoti non si estende a liberarvi dai doveri di giustizia a riguardo del prossimo. Quando essi vi rimettono i vostri peccati lo fanno a condizione che ripariate quelle ingiustizie: qualunque contrizione ne abbiate voi concepita ella non è accetta a Dio, se non se in quanto rinchiude il proponimento di soddisfare al prossimo, se voi gli avete fatto qualche danno. Intendete voi questo linguaggio, ingiusti usurpatori dell’altrui? Si è il linguaggio del vangelo di Gesù Cristo. Se voi nol credete, rinuncia alla religione; egli è inutile che vi accostate ai sacramenti, che frequentiate i santi misteri, che vi frammischiate tra i Cristiani e che facciate professione di esserlo, perché il Cristianesimo non soffre veruna ingiustizia, il paganesimo stesso le condanna. Ma se voi credete ciò che la religione v’insegna su questo articolo, voi siete insensati a perdere la vostr’anima, che vale più che tutti i beni del mondo, per beni che non porterete con voi; siete ciechi a perdere una felicità eterna e a precipitarvi in un abisso di miserie, per non voler rilasciare un danaro, un bene che non vi appartiene. Or perdere la vostr’anima o perdere quel bene; o restituire o esser condannato. Or non è forse meglio esser povero e miserabile per qualche tempo, e felice durante l’eternità, che rendersi eternamente infelice per aver posseduto qualche tempo dei beni di cui non resterà che una trista rimembranza? Perdete dunque piuttosto tutto il vostro danaro, dice s. Agostino, che perdere la vostr’anima: Perde pecuniam, ne perdas animam. Tale è la conseguenza, fratelli miei, che voi dovete tirare dai principi che abbiamo ora stabiliti. Io non dubito che voi non siate interamente interamente convinti di quest’obbligo; ma si tratta di ridurlo in pratica. Condanniamo il furto negli altri e sovente siamo colpevoli noi stessi d’ingiustizie cui non pensiamo a rimediare. Siamo eloquenti a provar l’obbligo di riparar il torto che ci è stato fatto; ma non siamo più fedeli a compiere questo dovere e riguardo degli altri. Quanti pochi vi ha che facciansi giustizia su questo punto! Si ode parlare di furti, di rapine, di ladronecci: non vi lamentate voi medesimi tutti i giorni dei danni che vi si fanno? Ma si ode forse parlar di restituzione? Ne chiamo in testimonio coloro tra voi cui è stato recato pregiudizio. Ne avete voi molti che vi abbiano soddisfatto su questo punto? Donde vien dunque, fratelli miei, che si fanno poche restituzioni? S’ignora forse l’obbligo di farle? No senza dubbio: ma una perversa avidità per li beni del mondo sembra dare dei diritti su quello che uno non possiede; si vogliono ricchezze, e per questo non sa egli metter limiti a’ suoi desideri, ed usa tutti i mezzi possibili di accumularne; sieno poi giusti o ingiusti questi mezzi, poco importa, purché si venga destramente a capo dei propri disegni e si risparmi la vergogna di esser tenuto per ladro, purché si schivino i castighi con cui la giustizia degli uomini punisce questo peccato, non si bada più che tanto a rendersi colpevole avanti a Dio; e dacché una volta taluno si è impadronito dell’altrui e l’ha per qualche tempo posseduto, lo riguarda come suo proprio; il reo attacco che ha per esso fa che non possa risolversi a rilasciarlo, trova delle difficoltà per restituirlo, si accieca, si fa una falsa coscienza o soffoca i rimorsi che prova su questo soggetto; sopra vani pretesti egli si dispensa dal restituire; or è un possesso che egli riguarda come un giusto titolo, or un bisogno che ha di quei beni per aiutare la famiglia che teme impoverisca, talora il disonore onde si ricoprirebbe confessandosi colpevole d’ingiustizia colla riparazione che ne farebbe; finalmente l’impossibilità in cui crede essere di adempier quest’obbligo. Tali sono, fratelli miei, i sotterfugi dell’ingiustizia, le vane scuse che si allegano per esentarsi dalla restituzione, all’ombra delle quali si crede taluno in sicurezza della salute; ma pretesti e scuse frivole che non prevarranno giammai alla stretta legge della restituzione. – Non nego che il possesso dell’altrui e l’impossibilità possano dispensare dalla restituzione. Ma qual possesso? Egli dee essere un possesso di buona fede, ed ancora dee avere il tempo prescritto dalle leggi: un possesso di malvagia fede, per quanto lungo possa essere, non sarà giammai un titolo per ritenere l’altrui. Similmente un’impossibilità assoluta sospende la restituzione sinché essa dura, e non già quando cessi, e si venga in istato di risarcire il danno che siasi recato. Ma nella maggior parte di coloro che non restituiscono l’impossibilità che allegano a farlo è un’impossibilità chimerica, la quale non sussiste che nella fantasia. Io ho bisogno, dice taluno, di quella roba per vivere, non posso restituirla senza privarmi del necessario, diverrò povero, rovinerò la mia famiglia. Ma quegli cui voi avete tolta quella roba non ne ha forse egual bisogno di voi? È forse giusto che ne sia privo egli piuttosto che voi, che vi conserviate in una condizione agiata a sue spese? se la condizione cui siete innalzati è il frutto delle vostre ingiustizie, fa d’uopo abbandonarla; se non lo è, convien risparmiare e diminuir le spese per restituire quel che non v’appartiene. Voi temete, mi dite, d’impoverire e di rovinar la vostra famiglia; ma avete voi diritto di vivere a vostro agio e di nutrire la vostra famiglia con ciò che non è vostro? Amate voi meglio esser ricchi in questo mondo e lasciar ricchi eredi, per esser infelici nell’altro, che viver poveri e non lasciare pingui eredità ai vostri figliuoli, per salvar l’anima vostra? In mezzo alle fiamme dell’inferno, ove alla vostra morte sarete condannati, sareste voi molto consolati dalla rimembranza dei beni che avrete posseduto sulla terra, e dei ricchi eredi che profitteranno delle vostre ingiustizie, rimembranza di cui non vi resterà che la pena e i castighi? Che v’impedisce di fare le debite restituzioni e conservare il vostro onore, usando dei mezzi che la prudenza v’ispirerà per render al prossimo quel che gli appartiene? Se non potete far subito la restituzione intera, procurate almeno e con i risparmi’ e con il lavoro di soddisfare poco a poco; prendete una via d’accomodamento, se si può, purché la frode e la violenza non v’abbiano alcuna parte, perché la cessione in tal caso accordata, non essendo libera, non vi sgraverebbe punto dall’obbligo che avete. Vediamo ora chi sono gli obbligati a restituire.

II. Punto. Io non prenderò qui, fratelli miei, a fare un racconto esatto di tutte le ingiustizie che si commettono nel mondo; necessari sarebbero più discorsi per farle conoscere. Quel che può dirsi in generale si è che l’ingiustizia regna quasi in tutte le condizioni della vita. Non è solamente nelle foreste e sulle strade che abitano gli uomini rapaci: se ne trovano quasi in tutte le società del mondo; ve ne sono nelle campagne, nelle città; si commettono del furti nei luoghi pubblici e nelle case dei privati; l’ingiustizia e l’adulterio, come diceva altre volte un profeta, si sono sparsi come un diluvio sulla superficie della terra: Furtum et adulterium inundaverunt (Osea IV). Per convincervene con una descrizione tal quale i limiti d’un discorso me la permettono, bisogna distinguere coi teologi tre principi donde nasce l’obbligo di restituire. Siamo obbligati a restituire: o a cagione dell’altrui che possediamo, o a motivo dell’ingiusta usurpazione che ne abbiamo fatta, o per lo danno che abbiamo cagionato.

1°. Siamo obbligati alla restituzione a cagion dell’altrui che possediamo, sia che lo possediamo con mala fede sia che lo possediamo con buona fede. Il possessore di buona fede, cioè colui che possiede l’altrui roba credendo essere sua propria, è obbligato alla restituzione quando riconosce che quella non gli appartiene, che il suo possesso non ha durato il tempo prescritto dalle leggi per esser legittimo o non ha perduto quella roba durante la sua buona fede. Voi avete comprata una cosa rubata da uno che ne credete il padrone, e venendo a riconoscerne il padrone legittimo, siete obbligati a restituirgliela: voi avete ricevuto dai vostri padri beni che riconoscete mal acquistati; bisogna restituirli a chi appartengono, o se non potete scoprire il padrone, potete impiegarli secondo la sua presunta intenzione. Ora vi ha forse di quelli che vogliono spogliarsi di quello che hanno acquistato con buona fede, quando riconoscono che appartiene ad un altro? Perché, dicono essi, mi priverò io di una cosa che non ho acquistato con ingiustizia? Tocca a coloro che han fatto l’ingiuria a ripararla, io non ne ho fatto ad alcuno, poiché era in buona fede. No, voi non avete fatta alcun’ingiustizia nell’acquisto, ma tosto che riconoscete che la roba appartiene ad un altro fate un’ingiustizia ritenendola; siete obbligati di restituirla. Oimè! quanti vediamo noi al giorno d’oggi innalzati ad un’alta fortuna, di cui si potrebbe trovare l’origine nell’ingiustizia e nella malvagia fede di coloro che hanno lasciati loro quei beni; principalmente quando sono fortune assai rapide. Perciocché egli è ben difficile, dice lo Spirito Santo, arricchirsi in poco tempo e conservare la innocenza. Qui festinat ditari non erit innocens (Prov. XXVIII) . Non si diventa ordinariamente ricco in poco tempo che per avere o usurpato destramente l’altrui o esatto da una professione diritti che non erano dovuti; per avere esercitati certi impieghi nei quali si è trovato il segreto di fare guadagni eccessivi; per avere profittato della miseria altrui, come fanno certi uomini avidi, che ammassando tutte le derrate di un paese, vi cagionano orribili carestie e con questo obbligano gli altri a comperarle da essi a prezzi esorbitanti; il che è espressamente vietato dallo Spirito Santo, che minaccia della sua maledizione questa razza d’uomini: Qui abscondit frumenta, maledictus (Prov. XI). Io rimando dunque al tribunale della coscienza questi pretesi possessori di buona fede di certi beni, che sono stati da essi o dai loro padri accumulati in poco tempo, per esaminare avanti a Dio se le loro ricchezze fossero per avventura spoglie altrui, i frutti dell’usura, la sostanza della vedova, del povero e del pupillo; e se non vi riconoscono un possesso legittimo, li rendano, li restituiscano, altrimenti niuna salute per essi. – Veniamo ai possessori di malvagia fede, cioè a coloro che ritengono l’altrui con piena cognizione e contro la testimonianza della propria coscienza. Quanti che si ostinano su di questo! Sanno pur essi che la roba che posseggono non appartiene loro, e non possono risolversi a restituirla; bisogna che il padrone legittimo faccia dei passi e s’affanni, che li chiami avanti ai tribunali; bisogna che, suo malgrado, susciti una lite, che faccia dei viaggi, delle spese per ritirar il suo dalle mani d’un possessore ingiusto e farsi pagare da un malvagio debitore. Imperciocché quanti ve ne ha di questa sorta i quali non pensano in niuno modo a soddisfare un creditore se non venga loro domandato, e non siano obbligati per le vie del rigore! Quanti ricchi che mantengonsi in lusso alle spese d’un mercante, che vivono sul credito di coloro che somministrano loro gli alimenti, e non possono averne per pagamento che rifiuti, o al più al più delle promesse, le quali non si effettuano che più tardi che si può; mentre d’altra parte essi a nulla perdonano di ciò che può appagare la sensualità e la vanità! Quanti che procurano di nascondere una parte dei loro debiti, che non hanno difficoltà, quando possono, di frustrare dei loro diritti coloro cui sono legittimamente dovuti, perché altri non s’accorga della loro ingiustizia! Ah! fratèlli miei, investigate ben bene su di ciò il fondo del vostro cuore ed esaminate se avete sempre pagato esattamente quel che dovevate, se non avete ingannato, occultato, usati rigiri per godere di ciò che non vi appartiene. Qual è l’uomo irreprensibile su questo punto? Quis est hic, et laudabimus eum (Eccli. XXXI)? Non si ascolta che troppo spesso la voce della cupidigia più tosto che quella della giustizia, ed è ciò che cagiona tanta malvagia fede tra gli uomini, che rende l’ingiustizia sì comune, e sì rara la restituzione non solamente dei possessori dell’altrui, ma ancora degl’ingiusti usurpatori: il che si chiama furto o latrocinio. Sotto il nome di furto olatrocinio non bisogna solamente comprendere quelle azioni ingiuste con cui taluno si impadronisce dell’altrui, come fanno i ladri; ma convien intendere ogni sorta d’ingiustizia che fassi al prossimo, tutti i mezzi che si adoprano, tutti gli artifici, tutte le astuzie, tutte le frodi che s’impiegano per appropriarsi l’altrui. Or quante ingiustizie non si fanno nel mondo, nelle campagne, nelle città, nelle case! Ingiustizie nelle campagne, dove si veggono uomini d’una avidità insaziabile che non possono contentarsi nei limiti dei loro poderi, che li ingrandiscono, sia innovandosi su i loro vicini, sia trasportando i termini che li separano al di là del loro punto fisso. I più destri usano dell’ inganno, i più forti della violenza per ottenere un fondo che eccita la loro avidità e che desiderano unire al loro a qualunque siasi prezzo. Voi ne vedete altri che hanno il segreto di fare abbondanti raccolte senz’avere né seminato né lavorato; che nutrono i loro animali sui fondi altrui: non vi lamentate voi sovente del danno che vi si fa in questi differenti casi?Ma ve l’hanno forse risarcito? – Ingiustizie nelle campagne e nelle città tra le persone di commercio, che ingannano vendendo con falsi pesi, con false misure, o cattive merci od oltre al prezzo ragionevole; che comprano a vil prezzo, o a cagione dell’ignoranza d’ un venditore odel bisogno che egli ha di vendere. Quanti monopoli! Quante società in cui uno carica gli altri di tutta la perdita, riservando per sé tutto il profitto! Quante usure, facendo pagar più caro perché si vende a credito! Quante ingiustizie nei contratti per le falsità che vi s’inseriscono, sia nelle date, sia con altre clausole pregiudiziali ad una parte interessata! Tali sono quelli in cui, per toglierle ogni mezzo di ritirare un fondo venduto, si esprime con una somma più considerabile di quella con cui è stato comprato, e che nulladimeno si prende quando l’altro vuole usare dei suoi diritti. – Ingiustizie nei tribunali, dove si vedono litiganti suscitare, senza fondamento, delle liti per ottenere con il favore d’una giudiziale sentenza ciò che loro non è dovuto.- E Come questo? Perché essi sanno inventare raggiri e cavillazioni che i loro competitori non hanno prevedute; perché sono molto potenti in danaro ed in credito per opprimere quelli che non possono loro opporre che una debole resistenza. Così accade sovente che un povero Nabot perde l’eredità de’ suoi padri, invidiatagli dal ricco Acab, a cui è obbligato di cederla, o per una sentenza ingiusta o per un accomodamento irragionevole, che la parte più debole accetta senza esitare, per mettersi al coperto dalle vessazioni ancora più funeste. Sentenze ingiuste, accomodamenti forzati, di cui l’usurpatore si fa un titolo legittimo, ma che non lo giustificano avanti a Dio, il quale conosce l’iniquità del suo procedere. – Si è ancora avanti ai tribunali della giustizia che si vedono comparire falsi testimoni, i quali guadagnati col danaro o ritenuti dal timore tradiscono la verità, affermano la menzogna e portano all’innocente i colpi più funesti. Si è avanti a questi tribunali che sostenere si vedono cause inique, in cui sono state impegnate le parti mal a proposito: dove le buone ragioni soccombono sotto il peso delle raccomandazioni, o pure sono ritardate da una molteplicità di scritture, di nuove istanze, che s’inventano per arricchirsi a costo d’una parte che soffre, che si opprime di spese o a cui si fanno pagare diritti che non sono dovuti, e che so io? E che non direi ancora, se il tempo me lo permettesse? – Ingiustizia nelle case dei privati, dove si vedono i padri di famiglia consumare in bagordi ed in giuochi beni di cui essi non hanno che l’amministrazione; altri che obbligano con violenza le mogli a ceder le loro pretensioni; si veggono delle mogli che dissipano in folli spese beni che loro non appartengono, dei figliuoli che rubano ai padri e alle madri, che prendono nella comune eredità tutto ciò che credono poter servire a contentare la loro vanità, a somministrare ai loro piaceri. Qui io veggo padroni che non pagano i salari dei loro servitori, che li fanno soffrire con ingiuste dilazioni, che ritengono o in tutto o in parte lo stipendio agli operai, peccato enorme che grida vendetta al cielo contro coloro che sene rendono colpevoli: Ecce merces operariorum clamat, et clamor eorum in aures Domini introivit (Jac. V). Là scorgo servi che rubano ai loro padroni sotto pretesto che non sono sufficientemente pagati; operai che non lavorano fedelmente o per difetto del tempo che dovrebbero impiegar nel lavoro, o per la cattiva qualità della materia che v’impiegano, o pure che mettono troppo tempo a fare quel che potrebbe esser fatto più presto, o finalmente che inducono a fare spese inutili coloro che li impiegano al lavoro. – Possiamo dunque dire con tutta verità, fratelli miei, che vi sono ben molti colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione per li furti e latrocini che si commettono nei diversi stati delta vita. Ma vi è un terzo titolo di restituzione: il danno che si reca al prossimo. – Si può cagionar danno al prossimo direttamente o indirettamente, cioè per sé stesso o per mezzo altrui; per sé stesso, distruggendo il bene che egli ha, o impedendogli ingiustamente d’ acquistare quel che non ha. Gli si cagiona del danno per mezzo d’altrui quando s’induce qualcheduno a fargliene, e allorché non s’impedisce quando vi è obbligo. Non fa bisogno, fratelli miei, né il tempo lo permette, di far conoscere le diverse ingiustizie che si commettono cagionando del danno al prossimo nei suoi beni. Coloro che sono colpevoli in questo punto lo conoscono abbastanza da sé. Io parlo solamente di quella che regna nella comunità, nella distribuzione delle imposizioni edei pubblici carichi. Coloro che vi si sono preposti per farle caricano gli uni più che gli altri, senza consultare le proporzioni dei beni. Quante trame per far cadere i voti di un impiego onoroso sopra alcuni oincapaci di sostenerlo oche non sono ancora obbligati di accettarlo! Quindi il torto fatto alla comunità o a coloro che sono incaricati di si fatti impieghi ordinariamente pregiudiziali; quindi l’obbligo di restituire; ma chi pensa a farle? Si porta ancora del danno al prossimo impedendogli per vie ingiuste di acquistare un bene che non aveva e che poteva lecitamente procurarsi, attraversando con frode e con violenza un disegno che gli era favorevole. – Voi allontanate una persona ben intenzionata a riguardo di un’altra dal farle del bene, diffamandola appresso di essa servendovi di qualche mezzo ingannevole o violento per impedire la buona volontà del benefattore; con le vostre maldicenze e calunnie voi impedite a quel giovane o a quella figliuola di trovar un partito, a quel servo una condizione, a quell’operaio un posto: voi diffamate quel mercante nel suo negozio con le false accuse che contro di lui intentate. Siete obbligati di rifarli dei danni: ma chi vi pensa? Diventiamo finalmente colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione quando cooperiamo all’altrui danno. Or gli uni vi cooperano in una maniera positiva, gli altri in una maniera negativa. I primi sono coloro che raccomandano, che consigliano, che consentono, che favoreggiano le ingiustizie o approvando o dando asilo a quelli che le commettono. Gli altri sono coloro che non le impediscono, che non le manifestano, allorché sono a ciò per dovere obbligati. Nella prima classe io comprendo i padri e la madri, i padroni e le padrone, tutti coloro che hanno qualche autorità, e che se ne servono per cagionare del danno al prossimo col mezzo di quelli che loro sono soggetti, sono obbligati a ripararlo, come se fossero la causa principale: di modo che se non possono restituire quelli che hanno loro ubbidito, sono essi tenuti a riferirli del danno. – Or quanti vi sono padri e madri, padroni, superiori, che inducono i loro figliuoli, i loro servi, i loro inferiori a rubare ciò che non oserebbero togliere per essi, o per lo meno, che, vedendoli recare del danno, non si servono della loro autorità per impedirlo! Quanti si trovano altresì cattivi consiglieri che sollecitano gli altri a nuocere al prossimo, l’inducono a liti inique, insegnano a questi le misure che possono prendere per riuscire in un’ingiusta intrapresa, indicano a quelli il luogo per cui uno deve passare, gli strumenti di cui può servirsi per un furto che esso medita! Quanti che, con le adulazioni e lodi che danno a coloro che han fatto malvage azioni, di bel nuovo ve li inducono! Quanti che coi rimproveri che fanno al nemico di un altro della sua debolezza e timidità, lo portano a vendicarsi, a cagionargli del danno! Si pensa forse a risarcire i danni che sono la conseguenza dei cattivi consigli? No senza dubbio , si lascia quest’obbligo a coloro che li hanno eseguiti, e si dimentica d’esser gravati del peso medesimo. – Lo stesso si deve dire di coloro che danno asilo ai ladri, che custodiscono o comprano le cose rubate, come accade sovente, dai figliuoli di famiglia e dai servi, i quali non prenderebbero sì facilmente, se non trovassero chi il riceve in casa loro o per comprare quello che fan preso o per loro somministrare l’occasione di spendere. Invano, per scusarsi, diranno che se non avessero comprato essi, altri l’avrebbero fatto, oppure che quei figliuoli avrebbero fatte altrove le medesime spese. Non si può giustificare una malvagia azione con l’altrui esempio. Cessiamo forse d’ esser omicidi, perché senza di noi un altro avrebbe commesso quel delitto? No senza dubbio! Vedete la conseguenza nel suo principio. Rinchiudiamo ancora nell’obbligo di restituire coloro che partecipano all’altrui ingiustizia o dando soccorso o profittando dei latrocini. Finalmente quelli che sono incaricati per dovere d’invigilare alla conservazione degli altrui beni, hanno obbligo di restituire, se, vedendo che si reca del danno, non dicono cosa alcuna, non si oppongono, o non manifestano i danneggiatori quando li conoscono; tali sono coloro che coprono impieghi, uffizi che li obbligano alla conservazione delle cose degli altri, o che ricevono stipendi per questo motivo. Ma oimè! fratelli miei, quanti ve ne ha che adempiono il loro dovere? Quanti al contrario ricevono doppia ricompensa, e da coloro cui si fa un danno che dovrebbero impedire, e da quelli che lo fanno, per non opporvisi! Non ho io avuto ragione, fratelli miei, di dire e le ingiustizie sono molto comuni nel mondo? Che non è solamente sulle strade e nelle foreste che si commette il furto , ma che questo peccato regna in quasi tutti gli stati della vita? Contuttociò quanto è comune l’ingiustizia, altrettanto rara è la restituzione. Bisogna forse stupirsi se il numero dei reprobi è così grande, poiché non si può entrare nel cielo con l’altrui, e moltissimi non possono risolversi a lasciarlo quando lo posseggono? Non siate, fratelli miei, di questo numero infelice; se riconoscete nei vostri beni qualche cosa che non vi appartenga, rendetela al più presto; se avete recato qualche danno, risarcitelo senza differire: perdete tutto quel che avete nel mondo, e conservate un’anima che è costata il sangue d’un Dio; rinunciate ai beni transitori per acquistare gli eterni beni del cielo. Abbiam veduto l’obbligo di restituire, vediamone le regole ed il modo di farlo.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis. [Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Da, miséricors Deus: ut hæc salutáris oblátio et a própriis nos reátibus indesinénter expédiat, et ab ómnibus tueátur advérsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole. ]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.