DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (12)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [12]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXVII.

D’altre ragioni che vi sono per consolarci e per conformarci alla volontà di Dio nelle aridità, tristezze e abbandonamenti nell’orazione.

Ancorché sia bene il pensare noi altri, che un tal travaglio ci viene per le nostre colpe, acciocché, così facendo, andiamo sempre più confondendoci e umiliandoci; nondimeno è ancor necessario, che sappiamo, che non tutte le volte è castigo delle nostre colpe, ma disposizione e provvidenza altissima del Signore, il quale distribuisce i suoi doni come gli piace, e non conviene, che tutto il corpo sia occhi, né piedi, né mani, né capo, ma che nella sua Chiesa vi siano membri differenti: e così non conviene che sia conceduta a tutti quell’orazione specialissima e sublime della quale dicemmo trattando dell’orazione (Sapra tract. 5, c, 4 et 5):  e questo non è sempre necessario che avvenga per cagione de’ nostri demeriti; perché  ancorché ci siano alcuni che meritino grazie e favori nell’orazione, ciò non ostante potranno presso Dio acquistare merito maggiore con qualche altra cosa; e così sarà maggior grazia di Dio il dar loro quella anzi che questa. Vi sono stati molti Santi grandi i quali non sappiamo che avessero questi segnalati favori di orazione; e se gli ebbero, dissero con S. Paolo, che non si pregiavano né si gloriavano di questo, ma del portar la croce di Cristo: Mihi autem absit gloriavi, nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi (Ad Gal. VI, 14). – Il P. M. Avila dice intorno a questo una cosa di molta consolazione, ed è, che Dio lascia alcuni sconsolati per molti anni e alle volte per tutta la vita: e la parte e sorte di questi credo, dice egli, che sia la migliore, se essi hanno fede, per non prendere ciò in mala parte, e pazienza e fortezza per tollerare un sì grande desolamento (M. Avil. tom 2, ep. fol. 22; supra tract 5, c. 20). Se uno si persuadesse affatto, che questa sorte è la migliore per lui, facilmente si conformerebbe alla volontà di Dio. I Santi e maestri della vita spirituale adducono molte ragioni per dichiarare e provare, che per questi tali è migliore e più conveniente questa sorte: ma per ora ne diremo solamente una delle principali, che apportano S. Agostino, S. Girolamo, S. Gregorio, e comunemente tutti quei che trattano di questa materia (D. Aug. lib. de orando Deum, quæ est ep. 121 ; D. Hier. Supra illud Thrén. in: Sed et cum clamavero, et rogavero, exclusit orationem meam; D. Greg. lib. 20 mor. c. 21, 24): ed è che non ècosa da tutti il conservar l’umiltà fra l’altezza della contemplazione: perciocché appena abbiamo buttata una lagrimuccia, che ci pare d’esser già spirituali e uomini d’orazione, e ci vogliamo uguagliare, e forse anche preferire ad altri. Insino l’apostolo S. Paolo pare che avesse bisogno di qualche contrappeso, acciocché queste cose non lo facessero invanire: Et ne magnitudo revelationum exlollat, me; datus est mihi stimulus carnis mece, angelus satanæ, qui me colaphizet (II. ad Cor. XII, 7). Acciocché l’essere stato egli rapito sino al terzo cielo e le grandi rivelazioni che aveva avute non lo facessero insuperbire, permise Iddio, che gli venisse una tentazione la quale l’umiliasse e gli facesse conoscere la sua debolezza: or perciò, benché quella strada paia più alta, quest’altra è più sicura. E così il sapientissimo Dio, il quale ci guida tutti ad un medesimo fine, ch’è Egli stesso, conduce ciascuno per la strada che sa essergli più espediente. Forse che se tu avessi avuta grande introduzione nell’orazione, in cambio di riuscir umile e con gran profitto, saresti riuscito superbo e gonfio; e in quest’altro modo stai sempre umiliato e confuso, riputandoti inferiore a tutti: onde questa è migliore e più sicura strada per te, sebbene non la conosci: Nescitis quid petatis (Matto XX, 22): Non sapete quello che domandate, né quello che desiderate. – S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Si venerit ad me, non videbo eum; si abierit, non intelligam (Greg. lib. 9 Mor. c. 7 in Job ix, 11): Se il Signore verrà a trovarmi, non lo vedrò; e se andrà via e s’allontanerà da me, non l’intenderò, insegna una dottrina molto buona a questo proposito. Restò l’uomo, dic’egli, tanto cieco per lo peccato, che non conosce quando si vada avvicinando a Dio, né quando si vada allontanando da Lui: anzi molte volte quel ch’egli si pensa che sia grazia di Dio e che per quel mezzo si vada avvicinando più a lui, se gli converte in castigo e gli è occasione di più allontanarsene: e molte volte quello che egli si pensa che sia castigo e che Dio si vada allontanando e dimenticandosi di lui, è grazia e motivo, perché non se ne scosti. Perciocché chi sarà quegli che veggendosi in un’orazione e contemplazione molto alta e molto accarezzato e favorito da Dio, non si dia a credere di andarsi avvicinando e accostando più al medesimo Dio? e pur molte volte con questi favori viene uno ad insuperbirsi ed assicurarsi e fidarsi di se stesso’, e il demonio lo fa cadere per quell’istessa via per la quale egli pensava di salire e di avvicinarsi più a Dio. Per lo contrario molte volte vedendosi uno sconsolato, afflitto, e con gravi tentazioni, e molto combattuto da pensieri disonesti, e di bestemmie, e contra la fede, si pensa, che Dio stia adirato seco, e che lo vada abbandonando e ritirandosi da lui, e allora gli è più vicino: perché con questo si umilia più, conosce la debolezza e fragilità sua, sconfida di sé, ricorre a Dio con maggior calore e fortezza, mette in esso ogni sua fiducia, e procura di non separarsi mai da Lui. Di maniera che il meglio non è quello che tu pensi; ma il meglio è la strada per la quale il Signore ti vuol condurre; questa t’hai da persuadere che sia la migliore e quella che a te più conviene. Di più cotesta medesima afflizione e fastidio e dolore che tu senti per parerti che non fai l’orazione così bene come dovresti, può esser un altro motivo di consolazione; perché tutto questo è una particolar grazia e favore del Signore, ed è segno che l’ami: poiché non vi è dolore senza qualche amore: nè può essere in me dispiacere di non servir bene, senza proponimento e volontà di servir bene: e così cotesto dispiacere e dolore nasce da amor di Dio, e da desiderio di servirlo meglio. Se non ti curassi niente di servirlo male, né di far male l’orazione, né di far altre cose mal fatte, sarebbe cattivo segno: ma il sentir dispiacere e dolore del parerti di far questa cosa male, è buon segno. Perciò acquieta il tuo dispiacere e dolore col ben intendere, che in quanto l’aridità precisamente è pena, è anche volontà positiva di Dio; e quindi conformati ad essa con rendergli grazie, che ti lasci concepire questo buon desiderio di dargli maggior gusto nelle tue operazioni, ancorché ti paia, che queste siano molto deboli ed imperfette. Di più quantunque nell’orazione tu non faccia altro che assistere e star ivi presente ai piedi di quella reale e Divina Maestà, servi in ciò assai Dio. Come veggiamo di qua nel secolo, che è maestà grande dei Re e Principi della terra che i Grandi della lor Corte vadano ogni giorno a palazzo, e ivi assistano e colla loro presenza formino ad essi corteggio; Beatus homo, qui audit me, et vigilat ad fores meas quotidie, et observut ad postes ostii mei (Prov. VIII, 34). Alla gloria della maestà di Dio, alla bassezza della nostra condizione, e alla grandezza del negozio che trattiamo, appartiene lo star noi molte volte aspettando e come facendo ala alle porte del suo palazzo celeste: e quando Egli te le aprirà, rendigliene grazie; quando no, umiliati, conoscendo, che non lo meriti: e in questa maniera sempre sarà molto buona e molto utile la tua orazione. Di tutte queste cose e d’altre simili ci dobbiamo valere per conformarci alla volontà di Dio in questa amarezza e in questo abbandonamento spirituale, accettando il tutto con rendimento di grazie, è dicendo: Salve, amaritudo amatissima, omnis gratiæ piena: Io ti saluto, o amarezza amara e amarissima, ma piena di grazie e di beni (Barth, de Mart. Archiep. Brachar. in suo compendio c. 26).

CAPO XXVIII.

Che è grande inganno e grane tentazione il lasciar l’orazione per ritrovarsi l’uomo in essa nel modo che s’è detto.

Da quel che si è detto ne viene in conseguenza che è grand’inganno e grave tentazione quando uno per vedersi in questo stato si risolve di lasciar l’orazione, o non persevera tanto in essa, parendogli di non farci niente, anzi di perderci più tosto il  tempo. Questa è una tentazione colla quale il demonio ha fatto lasciar l’esercizio dell’orazione non solamente a molti secolari, ma ancora a molti Religiosi, e quando non può toglier loro affatto l’orazione, fa che non si diano tanto ad essa, nè vi spendano tanto tempo quanto potrebbero. Cominciano molti a darsi all’orazione, e fin tanto che vi è bonaccia e devozione, la proseguiscono e continuano molto bene; ma giunto il tempo dell’aridità e della distrazione, par loro che quella non sia orazione, ma più tosto nuova colpa; poiché stanno ivi dinanzi a Dio con tanta distrazione e con sì poca riverenza: e così vanno a poco a poco lasciando l’orazione, per parer loro, che faranno maggior servizio a Dio con attendere ad altri esercizi e occupazioni, che collo star ivi in quella maniera. E come il demonio ben s’avvede di questa loro fragilità, così si vale dell’occasione e si sollecita tanto a molestarli con vari pensieri e tentazioni nell’orazione; acciocché tengano per male speso quel tempo; e quindi pian piano fa, che lascino totalmente l’orazione e con essa la virtù, e che anche alle volte passino più oltre a qualche altra cosa di peggio: e così sappiamo, che di qui ha avuto principio la rovina di molti. Est amicus socius mensa?, et non permanebit in die necessitatis, dice il Savio (Eccli. VI, 10). Ilgoder Dio è cosa che non v’è chi non lavoglia; ma il travagliare, l’affaticarsi e ilpatir per Lui, quest’è il segno del vero amore. Quando nell’orazione v’è consolazione e devozione, non è gran cosa che tu perseveri e ti trattenga in essa molte ore; perché può essere, che tu lo faccia per tuo gusto: ed è segno, che lo fai per questo, quando mancandoti la consolazione e la devozione, non perseveri più. Quando Dio manda inquietudini, tristezze, aridità e distrazioni, allora si provano i veri amici e si conoscono i servi fedeli che non cercano l’interesse loro, ma puramente la volontà e il gusto di Dio: e così allora abbiamo da perseverare con umiltà e pazienza, stando ivi tutto il tempo assegnato, ed anche un poco di più, siccome ce lo consiglia il nostro S. Padre (D. Ign. lib. Exerc. spir. annot. 13), per vincer con questo la tentazione, e mostrarci forti e gagliardi contro il demonio. Narra Palladio (2•8) Pallad, in Hist. Lausiac.,), che esercitandosi egli nella considerazione delle cose divine, rinchiuso in una cella, aveva gran tentazione d’aridità e gran molestia di vari pensieri che gli andavano suggerendo, che lasciasse quell’esercizio, perchè gli era inutile. Andò egli a trovare il santissimo Macario Alessandrino, e gli raccontò questa tentazione, dimandandogli consiglio e rimedio. E il Santo gli rispose: Quando cotesti pensieri ti diranno, che te ne vada via, e che non fai niente: Dic ipsis cogitationibus tuis: Propter Christum parietes cellæ istius custodio: Di’ a’ tuoi pensieri, voglio star qui a custodire per amore di Cristo le mura di questa cella: che fu quanto dirgli, che perseverasse nell’orazione, contentandosi di far quella santa azione per amor di Cristo, ancorché non ne cavasse altro frutto che questo. Questa è molto buona risposta, per quando ci venga questa tentazione: perché il fine principale che abbiamo da avere in questo santo esercizio, e l’intenzione colla quale dobbiamo andarvi e occuparci in esso, non ha da essere il nostro gusto, ma il far un’azione buona e santa colla quale piacciamo a Dio, e diamo gusto a Lui, e soddisfacciamo e paghiamo qualche particella del molto di cui gli siamo debitori, per essere quegli ch’Egli è, per gl’innumerabili beneficii che dalle sue mani abbiamo ricevuti; e poiché Egli vuole e si compiace, ch’io stia adesso qui, con tutto che mi paia di non far cosa alcuna, mi contento di questo. – Si narra di S. Caterina da Siena, che per molti giorni fu priva delle consolazioni spirituali, e che non sentiva il solito fervore di divozione, e che di più era molto molestata da pensieri cattivi, brutti e disonesti, i quali non poteva scacciar da sè; ma che non lasciava per questo la sua orazione; anzi al meglio che poteva perseverava in essa con gran diligenza, e parlava seco stessa in questa maniera: Tu vilissima peccatrice non meriti consolazione alcuna. Come? Non ti contenteresti tu, per non essere condannata in eterno, di avere per tutta la tua vita a patire queste tenebre e tormenti? È cosa certa, che tu non ti eleggesti di servir Dio per ricever da Lui consolazioni in questa vita, ma per goderlo in cielo per tutta l’eternità. Alzati dunque su, e proseguisi i tuoi esercizi, perseverando nell’esser fedele al tuo Signore (Blos. c. 4, mon. spir.). Imitiamo dunque questi esempi e restiamocene colle parole di quel Santo: Questa sia, o Signore, la tua consolazione, il voler di buon grado rimaner privo d’ogni umana consolazione; e se mi mancherà la tua consolazione, servami di somma consolazione e conforto la tua volontà, e quella prova che ben giustamente vuoi Tu fare di me (Thom a Kempis lib. 3, c. 16, n.  2). Se arriveremo a questo, che la volontà e il gusto di Dio sia ogni nostro gusto, di tal maniera che l’istessa privazione d’ogni nostra consolazione sia gusto nostro, per essere volontà e gusto di Dio; allora sarà vero il nostro gusto, e tale, che nessuna cosa ce lo potrà torre.