IL CATECHISMO DEL CARDINAL GASPARRI (5)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (5)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO I .

Del segno della Santa Croce.

D. 1. Sei tu Cristiano?

R. Sono Cristiano per grazia di Dio.

D. 2. Chi si può dire ed è Cristiano?

R. Si può dire ed è Cristiano chi ha ricevuto il Sacramento del Battesimo, che è come la porta della Chiesa di Cristo.

(Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis; Conc. di Trento, Sess. VI, can. 28; Benedetto XV, Encicl. Ad beatissimi, 1 nov. 1914; Codice Dir. Can., can. 87).

D. 3. Ma chi si può dire ed è più propriamente Cristiano?

R. Si può dire, ed è più propriamente Cristiano il battezzato che professi la vera e intera fede di Cristo, cioè il Cattolico; il quale, se congiunge la fede con l’osservanza della legge del Vangelo, è buon Cristiano.

D. 4. Qual è il segno esterno del Cristiano?

R. Il segno esterno del cristiano è il segno della Santa Croce (S. Agostino, In Joann., CXVIII, 5).

D. 5. Come si fa il segno della Santa Croce?

R. Il segno della Santa Croce si fa portando la mano destra alla fronte e dicendo: Nel nome del Padre; poi al petto aggiungendo: e del Figliuolo; infine dalla spalla sinistra e a quella destra dicendo: e dello Spirito Santo, così sia (Se in qualche luogo il segno della Santa Croce suol farsi in altro modo può essere conservata la consuetudine, se approvata. — Innocenzo III, De sacro Altaris mysterio, II, 45),

D. 6. Perchè il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano?

R. Il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano perché con esso professiamo esternamente i principali misteri della fede cristiana.

D. 7. Che cos’è il mistero?

R. Il mistero è una verità di ordine soprannaturale che, superando per propria natura l’intelletto creato, non può essere conosciuta se non per mezzo della divina rivelazione (*).

(*) S. Paolo, la ad Cor., II, 6-13; Conc. Vatic., Constit. Dei Filius, cap. 4; Pio IX, Lett. Tuas libenter all’Arcivescovo di Monacoe Frisinga, 21 dic. 1863. — Perciò s’ingannano gli increduli e gli altri avversari della Religione Cattolica, che respingono tutti i misteri di ordine soprannaturale, poiché proprio nell’ordine naturale son costretti ad ammetterne moltissimi, che per insufficienza della mente umana o non si possono in alcun modo spiegare o soltanto imperfettamente.

D. 8. Quali sono i misteri principali della fede cristiana?

R. I misteri principali della fede cristiana sono:

1° unità di Dio in tre Persone realmente distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo;

2° l’umana Redenzione mediante l’incarnazione, la passione e la morte di Gesù Cristo Figlio di Dio (Questi misteri della fede si spiegano più largamente alla dom. 33 e segg.).

D. 9. Come il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana?

R. Il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana perché le parole significano l’Unità di Dio in tre Persone distinte, mentre la figura della Croce che formiamo con la mano, richiama alla memoria l’umana Redenzione compiuta da Gesù Cristo sul legno della Croce.

D. 10. E utile segnarsi col segno della Santa Croce?

R. E utile, anzi utilissimo, segnarsi spesso e devotamente col segno della Santa Croce, sopra tutto all’inizio e alla fine delle più importanti azioni.

D. 11. Perché è utile, anzi utilissimo, segnarsi spesso e devotamente col segno della Santa Croce?

R. E utile, anzi utilissimo, segnarsi spesso col segno della Santa Croce, perché questo segno, se fatto come si deve, è una manifestazione esterna della fede interiore, atto quindi ad eccitare la fede, a vincere il rispetto umano, a scacciare le tentazioni, ad allontanare i pericoli del peccato e ad impetrare da Dio altre grazie ancora (S. Pietro Canisio: De fide et symbolo fidei, cap. I, n. 12.)

CAPO II.

Della divina Rivelazione.

D. 12. Possiamo noi col lume della ragione naturale conoscere e dimostrare Dio?

R. Col lume della ragione naturale noi possiamo con certezza conoscere e dimostrare dalle cose create Dio uno e vero, principio e fine di tutte le cose, nostro Creatore e Signore, argomentando il Creatore dalle creature, la causa dall’effetto (Sap., XIII, 1-5; Paolo, ad Rom., I , 20; Conc. Vat., 1.  cap. 2, e can. 1 De Revel.; Pio X, Motu proprio Sacrorum Antistitum, 1 sett. 1910; S. Ireneo, Adv. hæreses, I I , q. I ; S. Agostino, Sermóne 141, 2.)

D. 13. Possiamo noi conoscere Dio anche per altra via che non sia quella del lume della ragione naturale?

R. Noi possiamo conoscere Dio anche per altra via che non sia quella del lume della ragione naturale, cioè mediante la fede, poiché alla divina Sapienza e Bontà piacque di manifestare all’uman genere se stesso e gli eterni decreti della sua volontà per mezzo della rivelazione soprannaturale (Paolo, ad Hebr., I, 1; Conc. Vat., 1. c, cap. 2.

D. 14. Che cosa intendete con questo nome di rivelazione soprannaturale?

R. Con questo nome di rivelazione soprannaturale intendo tanto la parola con la quale Dio stesso manifestò certe verità, per ammaestrare gli uomini nella dottrina dell’eterna salute, quanto l’insieme di quelle medesime verità (Paolo, 1a ad Cor., II, 10; ad Hebr., 1. c.).

D. 15. Che cosa consegue da tale nozione della rivelazione soprannaturale?

R. Da tale nozione della rivelazione soprannaturale consegue che questa è assolutamente immune da ogni errore: Dio, infatti, Somma Verità, non può ingannarsi, né  ingannare.

D. 16. Quali verità contiene la divina rivelazione?

R. La divina rivelazione contiene non solo misteri che superano l’intelletto creato, ma anche molte verità che per se stesse non sono inaccessibili all’umana ragione.

D. 17. Perché Dio si è degnato di rivelare agli uomini verità per sé stesse non inaccessibili all’umana ragione?

R. Dio si è degnato di rivelare agli uomini verità per se stesse non inaccessibili all’umana ragione affinché tali verità, nella presente condizione del genere umano, potessero venire da tutti conosciute prontamente, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza d’errore (Conc. Vat., , c.).

D. 18. Quali argomenti esterni ha voluto dare Iddio della sua rivelazione perché l’ossequio della nostra fede fosse consentaneo alla ragione?

R. Perché l’ossequio della nostra fede fosse consentaneo alla ragione, Dio ha voluto agli aiuti interni della grazia aggiungere argomenti esterni della sua rivelazione, cioè dei fatti divini, soprattutto i miracoli e le profezie, che, dimostrando luminosamente l’onnipotenza e l’infinita scienza di Dio, sono segni certissimi della divina rivelazione, proporzionati all’intelligenza di tutti (Isaia, XLI, 23; Giovanni, X, 25, 37, 38; XV, 24; Lett. 2.a di Pietro, I, 19; Conc. Vat., 1. C., cap. 3; Origene: Contro Celsum, VI, 10.).

D. 19. Che cosa è il miracolo?

R. Il miracolo è un fatto prodotto da Dio all’infuori dell’ordine di tutta la natura creata (S. Tommaso, p. I, q. 110, n. 11).

D. 20. Che cosa è la profezia?

R. La profezia, presa in senso proprio, è la predizione certa di un evento futuro, che in nessun modo può essere preconosciuto per mezzo di cause naturali (S. Tom., 2a 2æ, q. 171, a. 3).

D. 21. Dove sono contenute le verità rivelate da Dio?

R. Le verità rivelate da Dio sono contenute nella sacra Scrittura e nella Tradizione (S. Teofilo Antiocheno: Ad Antolycum, III, 12; S. Epifanio, Hæres., 61, 6).

D. 22. Che cosa intendete col nome di sacra Scrittura?

R. Col nome di sacra Scrittura intendo i libri dell’antico e del nuovo Testamento, libri che, scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali vennero da Dio medesimo affidati alla Chiesa. (Paolo, 2.a ad Tim., III, 15, 16; 2.a di Pietro, I, 20, 21).

D. 23. In che cosa consiste l’ispirazione dello Spirito Santo?

R. L’ispirazione dello Spirito Santo consiste in ciò che lo Spirito Santo eccitò e mosse gli scrittori a scrivere, assistendoli in modo che tutte e soltanto le cose da Lui volute, essi rettamente intendessero, fedelmente volessero scrivere e acconciamente esprimessero con infallibile verità (Conc. di Trento, Sess. IV, Decret. de can. Script.; Conc. Vat., Const. Dei Filius, cap. 2; Leone XIII, Enc. Providentissimus, 18 novembre 1893).

D. 24. Che cosa intendete per antico Testamento e che cosa per nuovo Testamento?

R. Per antico Testamento intendo i libri della sacra Scrittura scritti prima della venuta di Gesù Cristo; per nuovo Testamento i libri scritti dopo la sua venuta.

D. 25. Che cosa intendete con la parola Tradizione?

R. Con la parola Tradizione intendo l’insieme delle verità rivelate, che gli Apostoli raccolsero dalle stesse labbra di Cristo, o ricevettero dallo Spirito Santo che le dettava, e che quasi a mano trasmesse e per continua successione conservate nella Chiesa Cattolica, son pervenute sino a noi (Matteo, XXVIII, 19, 20; Giovanni, XIV, 2 6 ; XVI, 13; XX, 30; XXI, 25; Atti degli Ap., I, 3; Paolo: 2.a ai Tessalon,, 11, 15; Conc. di Tr., 1. e; Conc. Vat., 1. c.).

D. 26. Come si chiama l’insieme di tutte le verità rivelate?

R. L’insieme di tutte le verità rivelate si chiama deposito della fede.

D. 27. A chi volle Gesù Cristo affidare il deposito della fede?

R. Gesù Cristo volle affidare il deposito della fede alla Chiesa, affinché questa, con l’assistenza dello Spirito Santo, santamente custodisse la dottrina rivelata e fedelmente l’insegnasse (Matt., XXVIII, 20; Giov. XIV, 16; XVI, 13).

D. 28. Che cosa dobbiamo fare innanzi tutto per raggiungere la vita eterna?

R. Per raggiungere la vita eterna dobbiamo innanzi tutto credere le verità che Dio ha rivelate, e che la Chiesa ci propone di credere (Mc. XVI, 6; Giov. III, 18; Paolo, Ad Hebr., XI, 6).

D. 29. Dove trovansi soprattutto le verità che Dio ha rivelate e la Chiesa ci propone a credere?

R. Le verità che Dio ha rivelate e la Chiesa ci propone a credere trovansi principalmente nel Simbolo degli Apostoli (Le verità della fede si trovano principalmente nel Simbolo, perché ci sono altre verità di fede che s’insegnano fuori del Simbolo o nello stesso catechismo; le nozioni poi, che riguardano la virtù della fede si danno alla dom. 518 e segg. 3).

IL CATECHISMO DEL CARDINAL GASPARRI (6)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (5)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [5]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO. XIII

Della indifferenza e conformità alla volontà di Dio che ha da avere il Religioso per andare a stare in qualsivoglia parte del mondo ove lo mandi l’ubbidienza.

Acciocché possiamo cavar maggior frutto da quest’esercizio della conformità alla volontà di Dio e mettere in pratica quello che abbiamo detto, andremo specificando alcune cose principali nelle quali abbiamo da esercitarci, e di poi discenderemo ad altre cose generali appartenenti a tutti. Cominceremo dunque adesso da alcune particolari che abbiamo nelle nostre Costituzioni, poiché in esse principalmente vuol la ragione che il Religioso mostri la sua virtù e religiosità: e ciascuno potrà applicare la dottrina ad altre cose simili che siano nella sua Religione, o nel suo stato. Nella parte settima delle Costituzioni, trattando il nostro S. Padre delle Missioni, che sono uno dei principali impieghi del nostro Istituto, dice, che quelli della Compagnia hanno da essere indifferenti per andare e per risedere in qualsivoglia parte del mondo ove l’ubbidienza li manderà, fra i Fedeli, o Infedeli, alle Indie, o fra gli Eretici (7 p. Const. c. 1, § 1).E di questo fanno i Professi il quarto voto solenne di una speciale obbedienza al sommo Pontefice, obbligandosi ad andar prontamente e speditamente, senza alcuna sorta di scusa in qualsivoglia parte del mondo, ove alla Santità Sua piacerà di mandarli, senza domandar cosa alcuna temporale, né per sé, né per altra persona, né pel viaggio, né per istare colà; ma andarsene a piedi, o a cavallo, co’ denari, o senza, e chiedendo limosina, come al sommo Pontefice parerà meglio. E dice ivi il nostro santo Padre,che il fine e l’intenzione di far questo voto fu per meglio così assicurarsi di fare la volontà di Dio. Perché essendo que’ primi Padri della Compagnia di diverse Provincie, e Regni, e non sapendo in quali parti del mondo si sarebbe Dio compiaciuto più di essi, se tra’ Fedeli, o tra gl’Infedeli per incontrare la divina sua volontà, fecero quel voto nelle mani del Vicario di Cristo, acciocché egli li distribuisse pel mondo, ove, e come giudicasse, che fosse per esser maggior gloria di Dio. Ma il Soggetto della Compagnia, dice il Santo, non s’ha da intromettere in questo, né ha da procurare in modo alcuno d’andare, o stare, in un luogo più tosto che in un altro; ma ha da esser molto indifferente, lasciando la libera ed intera disposizione di sé nelle mani del Superiore, che in luogo di Dio lo governa a maggior servizio e gloria sua. – Acciocché si vegga quanto indifferenti e quanto disposti vuole il nostro S. Padre che stiamo per andare in qualsivoglia parte del mondo ove l’ubbidienza ci mandi, leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 4 Vitæ S. P. N. Ignatii),che una volta il padre Diego Laynez gli disse, che gli veniva desiderio d’andare alle Indie a procurar la salute di quella cieca Gentilità, la quale periva per mancamento d’operai evangelici; e il nostro Padre gli rispose: Io non desidero niente di questo: e domandato della cagione di ciò, disse: Perché avendo noi altri fatto voto d’ubbidienza al sommo Pontefice, acciocché a piacer suo ci mandi in qualsivoglia parte del mondo in servizio del Signore, abbiamo a mantenerci in ciò indifferenti per modo, che non incliniamo più ad una che ad un’altra banda: anzi aggiunse, se io mi sentissi inclinato, come voi, ad andar alle Indie procurerei di inclinarmi alla parte contraria, per venir a possedere quell’equanimità e indifferenza che è necessaria per acquistare la perfezione dell’ubbidienza. Non vogliamo dire per questo, che siano cattivi, o imperfetti, i desideri delle Indie, perché non sono tali, ma molto buoni e santi: ed è anche cosa buona il proporli e rappresentarli al Superiore, quando il Signore li dà. E cosi lo dice ivi il santo nostro Fondatore (7 p. Const. C. 2, litt. L).Si rallegrano i Superiori, che i sudditi rappresentino loro questi desideri; perché sogliono esser segno, che Dio li chiama per quello, e così le cose si fanno con soavità. Ma diciamo questo, acciocché si vegga l’indifferenza e la prontezza che il nostro santo Padre vuole che abbiamo per andare e stare in qualsivoglia parte del mondo; poiché né anche ad una cosa tanto faticosa, e di tanto servizio del Signore, quali sono le Missioni delle Indie, vuole che stiamo soverchiamente affezionati; acciocché questa affezione e desiderio particolare non ci tolga, o c’impedisca l’indifferenza e la prontezza che abbiamo d’avere sempre per qualsivoglia altra cosa e per qualsisia altra parte ove l’ubbidienza, ci voglia mandare. – Quindi vengono in conseguenza alcune cose colle quali questo s’intenderà meglio. La prima è, che se i desideri delle Indie fossero cagione a chi gli ha di perder punto  di questa indifferenza e prontezza per altre cose che l’ubbidienza gli ordinasse, non sarebbero buoni, ma imperfetti. Se io avessi tanta voglia e desiderio di andare alle Indie, o ad altra parte del mondo, che questo m’inquietasse e mi fosse cagione di non istar tanto contento qui, o in altro luogo, ove l’ubbidienza vuole che io stia, ovvero che non abbracciassi tanto volentieri né facessi con tanta applicazione i ministeri presenti nei quali ora mi occupa l’ubbidienza, per tener posto il pensiero e il cuore in quell’altro impiego che io desidero, è cosa chiara, che questi desideri non sarebbero buoni né verrebbero da Dio, poiché impediscono la sua divina volontà, e Dio non può esser contrario a se stesso; specialmente non essendo soliti i desideri ispirati dallo Spirito santo di recar seco inquietudine; ma molta pace e tranquillità. E questo è uno dei segni che mettono i Maestri della vita spirituale, per conoscere, se le ispirazioni e i desideri sono da Dio, o no. – La seconda cosa che viene in conseguenza di questa prima, è, che quello il quale ha una disposizione universale pronta ed indifferente per andare in qualsivoglia parte del mondo, e per far qualsisia cosa che l’ubbidienza gli ordini, ancorché non abbia quei particolari desideri e quell’inclinazione d’andar alle Indie, o ad altre parti remote, che hanno altri, non occorre che di ciò n’abbia dispiacere né se ne prenda fastidio: perché non per questo è di peggior condizione, anzi di migliore; imperocché questa è la disposizione che il nostro santo Padre vuole che abbiamo tutti nella Compagnia; cioè, che quanto è dal canto nostro, non abbiamo desiderio né affezione particolare più a questa che a quell’altra cosa; ma che stiamo come la linguetta della bilancia, senza inchinare più ad una che ad un’altra banda: e di questi ve ne sono molti, e credo la maggior parte. Trattava una volta il nostro santo Padre di mandar il padre maestro Natale ad una certa Missione, e volle prima saper da lui a che cosa inclinava, per farlo con maggior soavità: e il padre Natale gli riscrisse: Che a nessun’altra cosa inclinava, che a non inclinare (Lib. 5 Vitæ S, Ign.).Questa cosa tiene il nostro santo Padre per migliore e più perfetta: e con ragione; perché l’altro pare che si leghi ad una cosa sola; ma questi colla sua indifferenza abbraccia tutte le cose che gli possono essere comandate, e sta ugualmente disposto ed esposto a tutte esse: e come Dio guarda il cuore ela volontà di ciascuno, ela valuta quanto l’opera nel suo divino cospetto; per ciò questo èper lui come se già avesse posta in esecuzione ogni cosa. – E per finire di dichiarar questo punto, dico, che se uno non ha questi desideri delle Indie per codardia, pusillanimità e immortificazione, e per non bastargli l’animo di lasciare le comodità che gli par d’avere, o di poter avere in questi paesi di qua, né di patire i grandi travagli che colà si passano; questa sarà imperfezione e amor proprio: ma chi non lascia di desiderar questo per codardia, né perché gli manchino desideri ed animo per patire questi ed altri maggiori travagli per amor di Dio e per la salute delle anime; ma unicamente perché non sa, se sia quella la volontà di Dio, o se la Divina Maestà Sua vuol da lui altra cosa; stando però egli sempre dal canto suo tanto pronto e disposto per questo, e per tutto quello che conoscerà esser volontà di Dio (talché se lo manderanno alle Indie, o in Inghilterra, o in qualsisia altra parte del mondo, v’andrà cosi volentieri, come se ciò avesse desiderato e domandato, e forse ancora più volentieri, per esser più sicuro, che non fa in questo la volontà sua, ma puramente quella di Dio) dico, che fuori di ogni dubbio questa è cosa molto migliore e più perfetta. E così quelli che hanno questa disposizione e indifferenza sono anche mandati volentieri dai Superiori alle Indie. Ma ritornando al nostro punto principale, vuole il santo nostro Fondatore, che abbiamo tutti tanta indifferenza e rassegnazione per istare così volentieri in uno come in un altro luogo, e così in una come in un’altra provincia, che né anche il riguardo alla salute corporale basti per tòrci questa indifferenza. Dice egli nella terza parte delle Costituzioni (3 p. Const. C. 2, litt. F et 2 Summ.), che è proprio della nostra vocazione e del nostro Istituto,andare in vari luoghi e vivere in qualsivoglia parte del mondo dove si speri maggior servizio di Dio ed aiuto delle anime: ma se per esperienza si vedesse che ad alcuno fosse nociva l’aria di qualche paese e che continuamente vi stesse con mala sanità; che il Superiore consideri, se conviene, che quel tale si mandi ad un altro luogo, ove, trovandosi con maggior sanità, possa impiegarsi meglio nel servizio di Dio e delle anime. Dice però, che non ha da domandare l’infermo questa mutazione, nemmeno ha da mostrare inclinazione ad essa; ma che ha da lasciarne tutta la cura al Superiore: Non tàmen erit ipsius infirmi hujusmodi mutationem postulare, nec animi propensionem ad eam ostendere; sed Superioris curce id relinquetur (ut sup. in declarat. Litt. F). In questo non ricerca da noi poco, ma molto il nostro santo Padre: perciocché bisogna bene che uno sia molto indifferente e mortificato per non domandare mutazione, anzi nemmeno mostrare inclinazione per essa, tutto che, dove trovasi, vi stia continuamente con mala sanità (7 p. Const. C. 3 litt. I).Di maniera che in quello che dicevamo, di andar alle Indie, o in paese di Eretici, dice, che può ben uno proporre la sua inclinazione e il suo desiderio, con indifferenza però e con rassegnazione; ma in questo non dà licenza per domandar mutazione e né anche per mostrar inclinazione e desiderio di essa, che è molto più: solamente dà licenza, che chi si sente infermo possa proporre al Superiore la sua infermità e indisposizione, e quindi l’inabilita’ in cui trovasi per eseguire i ministeri ingiuntigli: e di ciò ne abbiam Regola la qual ordina, che tutto ciò proponiamo; ma fatta questa proposta, non ha il suddito da far altro. Il Superiore è quegli a cui tocca il vedere se, supposto questo, sarà conveniente mandarlo ad altro luogo, ove stando meglio di sanità, possa fare di più, o se sarà maggior gloria di Dio, che se ne resti colà, benché faccia meno, o non faccia niente. Questa non è cura del suddito. Si lasci ciascuno guidare dal suo Superiore il quale lo governa in luogo di Dio, e tenga per meglio e per maggior servizio del Signore quello che il Superiore ordinerà. Quanti sono che se ne stanno in questi paesi e in altri più contrari alla sanità loro, perché in essi hanno di che vivere mediante il lor ufficio, arte, o professione, o qualche beneficio? quanti passano il mare, e vanno alle Indie, a Roma, e a Costantinopoli, per un poco di roba, e mettono a pericolo non solo la sanità, ma anche la vita? Non sarà dunque gran cosa che noi altri, essendo Religiosi, facciamo per Dio e per l’ubbidienza quel che fanno gli uomini del mondo per amor del denaro. E se ti passerà pel pensiero, che in altra parte potresti far qualche cosa, anzi molte assai, e che ove stai, sei tanto mal andato di sanità, che non puoi far nulla; ricordati, che con tutto ciò è meglio star qui per volontà di Dio, senza far cosa alcuna, che in altro luogo per volontà tua, ancorché facessi assai; e conformati alla volontà di Dio il quale vuole adesso questo da te per la ragione e pel fine che Egli sa, e che non è necessario che tu sappia. Nelle Croniche dell’Ordine di S. Francesco (1 p. lib 7, c. 5 Hist. Min.)si racconta del santo fra Egidio, che avendogli il beato S. Francesco data licenza d’andar ove volesse e di stare nella provincia e monastero che più gli gustasse, lasciando il tutto a sua elezione, per esser molto grande la virtù e santità sua; appena stette quattro giorni con quella licenza, che gli mancò la tranquillità e quiete di prima, e sentì l’inquietudine che perciò aveva l’anima sua; onde andatosene da S. Francesco, gli chiese con grande istanza, che gli assegnasse luogo e monastero ove avesse da stare, e non lasciasse questa cosa alla sua elezione; certificandolo, che in quella libera e larga ubbidienza egli non poteva quietar sé né l’anima sua. I buoni Religiosi non trovano pace né contentezza nell’adempimento della volontà loro; e così non desiderano questa né quell’altra cosa, o luogo, ma che l’ubbidienza di man sua li metta ove vuole, perché stanno persuasi, quella essere la volontà di Dio nella quale sola trovano riposo e contentezza.

CAPO XIV.

Dell’indifferenza e conformità alla volontà di Dìo che dee avere il Religioso per qualsivoglia ufficio e occupazione in che l’ubbidienza lo voglia mettere.

Questa medesima indifferenza e rassegnazione abbiamo d’avere ancora per qualsivoglia ufficio e occupazione in che ci voglia Mettere l’ubbidienza. Veggiamo bene quanti sono e quanto differenti gli uffici e le occupazioni della Religione. Or vada ognuno discorrendo per quelli sin a tanto che arrivi a sentirsi ugualmente disposto per ciascuno d’essi. Dice il nostro S. Padre nelle Costituzioni, e l’abbiamo nelle Regole: Nell’esercizio degli uffici umili e bassi più prontamente si debbono accettar quelli ne’ quali il senso trova più ripugnanza; se però gli sarà imposto ch’egli si eserciti in quelli (C. 4 exam. § 28, et Eeg. 13 Summ.).Per gli uffici umili e bassi è più necessaria l’indifferenza e la rassegnazione, attesa la ripugnanza che ha in essi la nostra natura. Onde fa più uno, e mostra maggior virtù e perfezione nell’offerirsi a Dio per questi uffici, che nell’offerirsi per altri più eminenti e onorevoli. Come se uno avesse tanto desiderio di servir un padrone che s’offrisse di servirlo per tutta la sua vita in qualità di staffiero, o di scopatore, se bisognasse; è cosa chiara, che farebbe più costui e mostrerebbe meglio la volontà sua di servirlo, che se dicesse: Signore, io vi servirò di scalco, o di maggiordomo; perché questo è più tosto domandar favori che offerir servizi: e tanto più sarebbe da stimarsi quell’umile offerta, quanto maggior talento avesse per uffici eminenti quegli che si offre per vili. Ora nell’istesso modo se tu ti offri a Dio, dicendo, Signore, io ti servirò in ufficio di Predicatore, o di Lettore di Teologia, non fai in ciò gran cosa; perché questi uffici alti e onorevoli sono di sua natura appetibili: poco mostri in ciò il desiderio che hai di servir Dio. Ma quando ti offerisci a servire nella Casa di Dio tutta la vita tua in uffici umili e bassi, e ripugnanti alla tua carne e sensualità, allora mostri molto più il desiderio di servire Sua Divina Maestà. Questa è cosa più degna d’esser gradita e stimata: e tanto più quanto maggior talento avrai per uffici più alti. Questo ci dovrebbe bastare per desiderare gli uffici umili e bassi, e per farci sempre inclinare più ad essi, specialmente non vi essendo nella Casa di Dio ufficio alcuno che si possa dir basso. Anche nella Corte di un Re si dice, che non v’è ufficio basso; perché il servir al Re, in qualsivoglia ufficio che sia, si stima per cosa molto onorevole: quanto più si dee stimare il servir a Dio, il servire a cui è regnare? S. Basilio (D. Basil., in reg. fusius disputatis interrog. 7) per affezionarci agli uffici umili e bassi apporta l’esempio di Cristo di cui leggiamo nel sacro Evangelio che s’occupò in simili uffici, abbassandosi a lavare i piedi a’ suoi discepoli, e non solo facendo questo, ma anche servendo lungo tempo la sua santissima Madre e S. Giuseppe, e stando soggetto e ubbidiente ad essi in ciò che gli comandavano: Et erat subditus illis (2Luc. II, 51). Dai dodici anni fino ai trenta non ci racconta il sacro Evangelio altra cosa di Lui, che questa. Nel che considerano i Santi molto bene, che doveva Egli servirgli ed aiutargli in molti uffici umili e bassi, specialmente essendo essi tanto poveri, quanto erano. Dunque Non dedignetur facere Christianus, quod fecit Christus (D. Augnst. tract. 58, sup. Jo. circa Illa verba: Si ergo ego lavi etc.): Non isdegni il Cristiano, e molto meno il Religioso, di far’ quello che fece Cristo, Poiché non ebbe a schifo il Figliuolo di Dio d’occuparsi in questi uffici bassi per amor nostro; non abbiamo a schifo né anche noi altri di occuparci in essi per amor suo, ancorché sia questo per tutto il tempo della nostra vita. Ma venendo più al nostro proposito, una delle ragioni e motivi principali che ci ha da far accettare tanto volentieri qualsivoglia ufficio e occupazione che ci dia l’ubbidienza, ha da essere il persuaderci, che questa è la volontà di Dio: perché, come di sopra abbiam detto, questo ha da esser sempre la nostra consolazione e la nostra contentezza in tutte le nostre occupazioni, lo star facendo in esse la volontà di Dio. Questo è quello che consola ed appaga l’anima: Dio vuole che io faccia questo adesso, questa è la volontà di Dio, non occorre desiderare altro; perché non vi è cosa migliore né più alta che la volontà di Dio. Quei che procedono in questo modo, nulla si curano che sia comandata loro più tosto questa che quell’altra cosa, né che li mettano in ufficio alto, o basso, perché per loro è tutt’uno. – Il beato S. Girolamo racconta un esempio molto buono a questo proposito (D. Hier. In reg. Mon. c. 12.).Dice, che visitando egli que’ santi Monaci dell’Eremo, ne vide uno al quale il Superiore, desiderando il suo profitto, ed anche di far vedere per di lui mezzo un esempio d’ubbidienza agli altri giovani, gli aveva comandato, che per due volte in ciascun giorno portasse su le sue spalle un sasso molto grande per lo spazio di tre miglia, senza che di ciò vi fosse necessità né utilità alcuna, eccetto l’ubbidire ed il mortificare il proprio giudicio: ed erano già otto anni che faceva questa cosa. E come un fatto tale, dice S. Girolamo, a quei che non conoscono il valore di questa virtù dell’ubbidienza, né sono arrivati alla purità e semplicità di essa, poteva forse, secondo lo spirito loro tuttavia altero e superbo, parer giuoco da fanciulli, ovvero azione oziosa; perciò gli domandavano, come sopportava quell’ubbidienza; ed io stesso ancora, dice il Santo, glielo dimandai, desideroso di sapere qual movimenti sentisse nell’anima sua facendo quel che faceva: e il Monaco mi rispose: Così contento e allegro io mi rimango quand’ho fatta questa cosa, come se avessi fatta la più alta e più importante che mi si fosse potuta comandare. Dice S. Girolamo, che lo commosse tanto questa risposta, che da quell’ora cominciò egli a vivere come Monaco. Questo è esser Monaco e vivere come vero Religioso, non guardar altro nell’esteriore, se non che stiamo facendo la volontà e il gusto di Dio. Questi sono quelli che fanno profitto e crescono grandemente in virtù e perfezione; perché si nutriscono sempre di fare la volontà di Dio; si nutriscono di fior di farina : Et adipe frumenti satiat te (Ps. CXLVII, 14). – Ma mi dirà qualcuno: Io veggo bene, che è gran perfezione fare la volontà di Dio in tutte le cose, e che in qualsivoglia esercizio che mi sia comandato posso star facendo questa divina volontà; ma io vorrei esser occupato in altra cosa di maggiore rilievo ed in essa fare la volontà di Dio. Questo è errore ne’ primi principii, perché in buon volgare questo è volere che Dio faccia la volontà tua, e non voler tu fare quella di Dio. Non ho io da dar legge a Dio, né ho da volere eh’ egli sì conformi a quello che par a me e a quello che io vorrei; ma tocca a me seguitar i disegni di Dio, e conformarmi a quel che Egli vuole da me. Dice molto bene S. Agostino: Optimum minister tuus est, qui non magis intuetur hoc a te audire, quod ipse voluerit, sed potius hoc velle, quod a te audierit (1D. Aug. lib. 10 Conf. c. 26): Quegli è buon vostro servo, o Signore, il quale non istà a guardare, se quello che gli comandate è conforme, o no, alla sua volontà; ma unicamente vuole quello che gli comandate. E il santo abbate Nilo dice: Non ores, ut fiant, quæ fieri velis; sed potius ora, sìcut orare didicisti, ut fiat voluntas Dei in me (D. Nil. c. 29 de orat.). Non chiedere a Dio, che faccia quel che tu vuoi; ma chiedi quello che c’insegnò Cristo di chiedere; cioè, che si faccia in te la volontà sua. Notisi questo punto il quale è molto utile e universale per tutti i travagli e accidenti che ci possono occorrere. Non dobbiamo noi altri eleggerci in che cosa e come abbiamo da patire. Ma l’ha da far Dio. Non hai da eleggerti tu le tentazioni che hai da avere, né hai da dire, se fosse qualunque altra tentazione non me ne curerei niente, ma questa non la posso tollerare. Se lepene e i travagli che ci vengono fossero quelli che noi altri vogliamo, non sarebbero travagli né pene. Se da vero desideri di piacer a Dio, gli hai da chiedere, che ti guidi per dove Egli sa e vuole, e non per dove vuoi tu. E quando il Signore ti manderà quello che ti è più disgustevole, e quello che abborrisci più di patire, e tu a questo ti conformerai; allora imiterai più Cristo nostro Redentore il quale disse: Non si faccia, Signore, la volontà mia, ma la tua (Luc. XXII, 42). Questo è avere intera conformità alla volontà di Dio; offrirsi totalmente a Lui acciocché faccia di noi quanto, quando, e come vorrà, senza eccezione né ripugnanza dal canto nostro, e senza riservare per noi cosa alcuna. Narra il Blosio (Blos. o. 10 mon. spir.; et Tilm. Bredembr. 1. 8, coll. c. 29), che la santa vergine Gertrude, mossa da pietà e misericordia, pregava Dio per una certa persona la quale aveva ella inteso che con impazienza andavasi lamentando perché Dio le mandava alcuni travagli, infermità e tentazioni, che le pareva che non convenissero a lei. Ma il Signore rispose alla santa vergine: Dirai a cotesta persona, per la quale tu preghi, che atteso che il regno de’ cieli non si può acquistare senza qualche travaglio, o molestia, s’elegga ella quel travaglio e quella molestia che le pare per sé più utile; e quando poi le verrà, abbia pazienza. Dalle quali parole e dal modo nel quale il Signore gliele disse, conobbe la santa vergine, esser una specie d’impazienza molto pericolosa, quando l’uomo si vorrebbe eleggere da se stesso le cose nelle quali ha da patire, dicendo, che quelle che Dio gli manda non sono convenienti alla sua salute, né le può sopportare. Perciocché ciascuno s’ha da persuadere e confidare, che quello che Dio Signor nostro gli manda, è quello che è per lui più espediente: e così l’ha da ricevere con pazienza, conformandosi in esso alla volontà di Dio. Ora siccome non hai da far elezione de’ travagli né delle tentazioni che hai da patire, ma hai da accettare come dalla mano di Dio quelle che egli ti manda, e star persuaso che quelle sono per te più espedienti; così né anche hai da eleggerti l’ufficio, o ministero, che hai da fare, ma accettare come dalla mano di Dio quello nel quale l’ubbidienza ti metterà, con persuaderti, che sia desso quello che più ti conviene. Aggiungono qui un altro punto molto spirituale; e dicono, che la persona ha da star tanto rassegnata nella volontà di Dio, e si ha da confidare e pienamente abbandonarsi in Lui, che né pur desideri di sapere quello che Dio vorrà fare e disporre di lei (Blos. c. 15, mon. spir.).Siccome quando un signore si fida tanto d’un maggiordomo, che non ha notizia della sua roba né sa quello che ha in casa, questo è segno di gran confidenza; quale appunto disse il patriarca Giuseppe avere di lui avuta il suo padrone: Ecce dominus meus, omnibus miài traditis, ignorat quid hàbeat in domo sua (Gen. XXXIX, 8); così mostra uno d’aver gran confidenza in Dio quando non vuol sapere quello che Dio sia per disporre di lui. Sto in buone mani: questo mi basta: In manibus tuis sortes meæ (Ps. XXX, 16): Con questo io sto contento e sicuro; non ho bisogno di saper più oltre. Per quelli che desiderano luoghi, uffici, o ministeri più alti, parendo loro che in quelli farebbero maggior frutto nelle anime e renderebbero maggior servigio a Dio, dico, che s’ingannano grandemente in pensare che questo sia zelo del maggior servigio di Dio e del maggior bene delle anime; perché non è così, ma zelo e desiderio di onore, di riputazione e delle proprie comodità: e per esser quell’ufficio, o quel ministero più onorevole, o più conforme al gusto e inclinazion loro, perciò lo desiderano; il che si vedrà chiaramente da questo, che se tu stessi colà nel secolo, o pur fossi solo nella Religione, pare che potresti dire, questo è meglio che quello e di maggior frutto per le anime : voglio lasciar quello per far questo, perché non si può far ogni cosa; ma qui nella Religione non s’ha da lasciar questo per quello, l’un e l’altro s’ha da fare: è ben vero, che se tu fai il contralto, l’altro ha da fare il contrabasso: e s’io fossi umile, più tosto avrei da volere che l’altro facesse l’ufficio alto, dovendo io credere che lo farebbe meglio di me, e con maggior frutto, e con minor pericolo di vanità. Per questo e altre cose simili, è molto buona una dottrina del nostro S. P. Ignazio (P. N. Ign. lib. Exero. spir. sub die 5, hebd. 2),la quale viene posta da lui come fondamento per le elezioni; e vi mette tre gradi, o modi d’umiltà, il terzo de’ quali, e il più perfetto, è, che offrendosi due cose d’ugual gloria e servigio di Dio, io elegga quella nella quale vi sarà maggior dispregio e vilipendio per me, per assomigliarmi e imitare con ciò maggiormente Cristo nostro Redentore e Signore il quale volle essere dispregiato e vilipeso per noi altri. Nel che si trova un altro gran bene, che in queste cose in cui vi è meno d’interesse proprio, non ha l’uomo occasione di cercar se medesimo, né corre quel pericolo d’invanirsi in esse che corre nelle alte e onorevoli. Negli uffici bassi si esercitano unitamente l’umiltà e la carità, e con essi si conserva grandemente questa virtù dell’umiltà, come con atti propri di essa; ma negli alti ed eminenti s’esercita la carità con pericolo dell’umiltà; il che ci dovrebbe bastare non pure per non desiderarli, ma per temerli.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “IAMPRIDEM CONSIDERANDO”

 « … Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’umana ragione, se si allontana dalla divina autorità della fede, è necessariamente travolta nei flutti del dubbio ed esposta ad imminenti pericoli di errore, e che facilmente uscirà da questi pericoli se gli uomini troveranno rifugio nella filosofia cattolica… » Queste sono parole veramente illuminate e che rendono ragione anche della crisi mondiale che stiamo tutti vivendo, Senza una luce certa ed infallibile, c’è solo smarrimento, confusione, violenza, terrore, morte dell’anima e del corpo. Se il mondo attuale raccogliesse queste parole e quelle tutte della lettera di S. S. Leone XIII, e le facesse sue, vedrebbe uno spiraglio di luce che potrebbe illuminare finalmente coscienze addormentate, false, morte alla grazia, guidate dal demonio all’inferno per l’eterna dannazione. La filosofia cristiana, ed in primo luogo il tomismo dell’Angelico, ha costituito per secoli la base della ragione umana dei popoli cristiani apportando civiltà e progresso vero. Ecco perché tanto accanimento delle conventicole della perdizione nell’elaborare sistemi filosofici o teologici strampalati e fallimentari di pseudointellettuali massonici … Kant, Hegel, Fichte, Schilling, etc., ma la cui base era sempre la stessa: il panteismo gnostico diversamente mascherato. Lo stesso panteismo gnostico antitomistico ha alimentato pure le idiozie del modernismo – somma di tutte le eresie – della Nouvelle theologie che satana ha fatto trionfare nella setta della sinagoga vaticana attraverso il conciliabolo dei suoi adepti Roncalli e Montini, ed è tuttora in pieno delirio postconciliabolo, con i funambolismi dei due sepolcri imbiancati usurpanti il trono di Pietro e valletti dell’anticristo. Chi vuole restare cattolico e nel Corpo mistico di Cristo, cioè il vero Cattolico del pusillus grex, deve assolutamente tornare a S. Tommaso ed alla sua dottrina, dottrina che è quella della vera Chiesa di Cristo, seguirne i modelli e gli esempi. I problemi creati dal modernismo anticristiano, possono essere facilmente risolti alla luce del pensiero di S. Tommaso, come giustamente annota Papa Pecci, per poterci così avviare, anche tra le persecuzioni di ogni tipo che subiremo, verso la patria celeste nella eterna beatitudine. Che la Vergine Maria ci protegga e S. Michele ci difenda dal demonio e dal colle Vaticano attuale.

Leone XIII
Iampridem considerando

Lettera

Già da gran tempo, per riflessione ed esperienza, abbiamo compreso che nulla vale a prontamente e felicemente estinguere, con il divino aiuto, l’atrocissima guerra ora mossa contro la Chiesa e la stessa umana società quanto il reintegrare ovunque, mercé le discipline filosofiche, i retti principi del comprendere e dell’operare. Perciò conviene sommamente far rifiorire in ogni parte del mondo la sana e genuina filosofia. A questo scopo abbiamo mandato recentemente a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico una Lettera enciclica nella quale con molti argomenti abbiamo dimostrato non doversi cercare tale vantaggiosa soluzione se non nella filosofia cristiana prodotta ed accresciuta dagli antichi Padri della Chiesa: quella filosofia che non solo si accorda quanto mai con la fede cattolica, ma le porge anche opportuno ed idoneo aiuto di difesa e di luce. Abbiamo ricordato che tale filosofia, seme fecondo di grandi frutti nel volgere dei secoli, venne ricevuta quasi in retaggio da San Tommaso d’Aquino, sommo maestro degli Scolastici, e che nel darle ordine, nell’illustrarla ed accrescerla, l’acume e la virtù di quel sublime Intelletto rifulsero in tal modo che l’Angelico Dottore sembra abbia raggiunto il massimo della gloria per il suo nome. Con le più fervide parole delle quali eravamo capaci abbiamo poi esortato i Vescovi ad unire le loro forze alle Nostre affinché si adoperassero a rialzare quell’antica filosofia, ormai scossa e pressoché caduta, e a ridonarla alle scuole cattoliche ed a ricollocarla nell’onorato seggio che un giorno occupava. – Non Ci procurò poca consolazione apprendere che quella Nostra Lettera, con l’aiuto di Dio, incontrò dappertutto il deferente ossequio e il singolare consenso degli animi. Del che Ci porgono chiara testimonianza molte lettere di Vescovi a Noi pervenute, specialmente dall’Italia, dalla Francia, dalla Spagna e dall’Irlanda; esse Ci recano le espressioni di egregi sentimenti sia di persone singole, sia di gruppi della stessa provincia o della stessa nazione. Né è mancato il suffragio dei dotti, in quanto insigni Accademie di uomini eruditi si compiacquero dichiararci per iscritto intendimenti del tutto eguali a quelli dei sacri Pastori. – In tali lettere, poi, Ci torna oltremodo gradito l’ossequio prestato alla Nostra autorità e a questa Sede Apostolica; graditi Ci tornano i propositi e i giudizi espressi dagli scrittori. Una sola, infatti, è la voce di tutti; una sola è l’opinione: si nota e si indica con sicurezza in quella Nostra Lettera il luogo nel quale è riposta la radice dei mali presenti e donde debba derivare il rimedio. Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’umana ragione, se si allontana dalla divina autorità della fede, è necessariamente travolta nei flutti del dubbio ed esposta ad imminenti pericoli di errore, e che facilmente uscirà da questi pericoli se gli uomini troveranno rifugio nella filosofia cattolica. – Pertanto, Venerabile Fratello, è nei Nostri più caldi desideri che la dottrina di San Tommaso, conforme in modo assoluto alla fede, riviva quanto prima in tutte le Scuole cattoliche, e specialmente torni a fiorire in questa Città, capitale del Cattolicesimo, la quale – appunto perché è sede del Pontefice Massimo – deve eccellere sulle altre per le migliori discipline. A questo si aggiunga che a Roma, centro dell’unità cattolica, convengono solitamente in gran numero da ogni paese i giovani per attingere meglio e più abbondantemente che altrove la vera ed incorrotta sapienza presso l’augusta cattedra del Beato Pietro. Conseguentemente, se da qui sgorgherà larga e copiosa la vena di quella cristiana filosofia di cui abbiamo detto, essa non resterà circoscritta nei confini di una sola città, ma simile a fiume in piena giungerà a tutti i popoli. – Quindi procurammo dapprima che nel Seminario Romano, nel Liceo Gregoriano, nell’Urbaniano e in altri Collegi soggetti tuttora alla Nostra autorità le discipline filosofiche, informate al concetto e ai principi del Dottore Angelico, vengano insegnate e coltivate con chiarezza, ampiamente e in profondità. E soprattutto vogliamo che la vigile cura e gli sforzi dei maestri si prefiggano quale scopo principalissimo di impartire gradevolmente e vantaggiosamente per i discepoli, spiegandole ed ampliandole, quelle ricchezze di dottrina che essi stessi avranno già raccolte con diligenza dai volumi di San Tommaso. – Ma oltre a ciò, affinché questi studi vigoreggino e fioriscano sempre più, si deve provvedere a che gli amanti della filosofia Scolastica si adoperino di continuo per farla apprezzare: soprattutto si organizzino in società e tengano di frequente adunanze nelle quali ciascuno rechi e volga a comune utilità il frutto dei propri studi. – Questi giudizi e questi Nostri concetti abbiamo voluto comunicare a Te, Venerabile Fratello Nostro che presiedi la Sacra Congregazione degli studi, confortati da sicura speranza che in un affare di tanto rilievo non Ci verranno meno la Tua operosità e la Tua prudenza. Tu non ignori certamente che le adunanze dei dotti, cioè le Accademie, furono come nobilissime palestre, nelle quali personaggi insigni per acuto ingegno e per dottrina non solo si esercitavano utilmente scrivendo e disputando delle cose della massima importanza, ma anche insegnavano ai giovani con grande vantaggio delle scienze. Da quest’ottima usanza ed istituzione di congiungere le forze e di radunare le intelligenze più vive presero origine quegli illustri Collegi di Dottori, alcuni dei quali si dedicavano collegialmente a diverse discipline, ed altri a singole scienze. – Sono ancora vive la fama e la gloria di quei Collegi i quali, col favore accordato dai Romani Pontefici per diverse ragioni, fiorirono ovunque nella nostra Italia: a Bologna, a Padova, a Salerno e altrove. Poiché tali adunanze di uomini raccoltisi volontariamente per la cultura e il lustro delle discipline umane giunsero a tanta lode e riuscirono di tanta utilità, e poiché sopravvive ancora larga parte di quella lode e di quella utilità, Noi intendiamo valerci dello stesso presidio per recare pienamente ad effetto il Nostro disegno. – Conseguentemente decidiamo di istituire in Roma un’Accademia la quale, insignita del nome e del patronato di San Tommaso d’Aquino, indirizzi gli studi e le attività a spiegare e ad illustrare le opere di lui; ne esponga i principi e li metta a confronto con quelli degli altri filosofi, antichi o recenti; dimostri la forza e le ragioni delle sue teorie; s’impegni a propagarne la salutare dottrina e si adoperi a confutare gli errori serpeggianti e ad illustrare i nuovi ritrovati. Pertanto a Te, Venerabile Fratello Nostro, del quale conosciamo i pregi dottrinari, il pronto ingegno, lo studio e la sollecitudine per tutto ciò che appartiene alle umane discipline, affidiamo il compito di eseguire il Nostro proposito. Per ora rifletti attentamente la cosa, e non appena avrai escogitato la soluzione che corrisponda ai Nostri concetti, la sottoporrai per iscritto alla Nostra valutazione, affinché possiamo approvarla e corroborarla della Nostra autorità. – Infine, perché più ampiamente si conosca e si diffonda la sapienza del Dottore Angelico, stabiliamo che nuovamente si pubblichino tutte le sue opere, secondo l’esempio lasciatoci dal Nostro Predecessore San Pio V, illustre per gloria d’imprese e per santità di vita, al quale toccò in sorte di vedere così felicemente compiuti i suoi voti, che gli esemplari di Tommaso editi per suo ordine siano ancora assai stimati presso i dotti e vengano ricercati con somma cura. Sennonché, quanto più rara diventa quell’edizione, tanto più si è cominciato a sentire il desiderio di una nuova che, per nobiltà ed eccellenza possa essere confrontata con la Piana. D’altronde, le altre edizioni, sia le antiche, sia le più recenti, o perché non offrono tutti gli scritti di San Tommaso, o perché non contengono i commenti dei migliori interpreti ed esegeti, o infine perché mostrano minore accuratezza formale, non sembra che abbiano raggiunto la perfezione. – Si nutre una certa speranza che a tale bisogno verrà provveduto con la nuova edizione, la quale comprenderà assolutamente tutti gli scritti del Santo Dottore, stampati con i migliori caratteri possibili ed emendati accuratamente. Ci si avvantaggerà anche del sussidio di codici manoscritti che in questa nostra età sono venuti alla luce e in uso. – Oltre a ciò, avremo cura che congiuntamente si pubblichino i lavori dei suoi più illustri interpreti, come Tommaso de Vio Cardinale Gaetano e il Ferrarese: lavori dai quali, come per rivi copiosi, scorre limpida la dottrina di un così grande uomo. Per la verità, sono presenti all’animo Nostro non solo la grandezza ma anche le difficoltà dell’impresa; nondimeno esse non giungono al punto di distoglierci dal mettere mano all’opera quanto prima e con grande alacrità. Infatti, in cosa di tanto rilievo, la quale riguarda in sommo modo il comune bene della Chiesa, nutriamo fiducia che Ci conforteranno il divino aiuto, il concorde impegno dei Vescovi e la prudenza e l’operosità tua, già sperimentate e da lungo tempo conosciute. – Intanto, come pegno della Nostra speciale dilezione, dall’intimo affetto del cuore impartiamo a Te, Venerabile Fratello Nostro, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 ottobre 1879, anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le lezioni dell’Ufficio divino in questo tempo sono spesso ricavate dai libri dei Maccabei. Dopo la cattività di Babilonia, il popolo era ritornato a Gerusalemme e vi aveva ricostruito il Tempio. Ma lo stesso popolo ben presto fu di nuovo punito da Dio perché  gli era stato nuovamente infedele: Antioco Epifane s’impadronì di Gerusalemme e saccheggiò il Tempio, quindi pubblicò un editto che proibiva in ogni luogo la professione della religione giudaica. Furono allora da per tutto eretti altari agli idoli e il numero degli apostati crebbe in guisa che sembrò che la fede di Abramo, Mosè e Israele dovesse scomparire. Dio suscitò allora degli eroi: un sacerdote, chiamato Mathathia raccolse tutti coloro che erano ancora animati da zelo per la legge e per il culto dell’Alleanza e designò suo figlio Giuda Maccabeo come capo della milizia, che suscitò per rivendicare i diritti del vero Dio. E Giuda col suo piccolo esercito combatté con gioia i combattimenti di Israele. Nella battaglia era simile ad un giovane leone, che ruggisce sulla sua preda. Sterminò tutti gli infedeli, mise in fuga il grande esercito di Antioco e ristabilì il culto a Gerusalemme. Animati dallo spirito divino i Maccabei riconquistarono il loro paese e salvarono l’anima del loro popolo. « Le sacrileghe superstizioni della Gentilità, disse S. Agostino, avevano insozzato il tempio stesso; ma questo fu purificato da tutte le profanazioni dell’idolatria dal valoroso capitano, Giuda Maccabeo, vincitore dei generali di Antioco » (2a Domenica di ottobre, 2° Notturno). – « Alcuni, commenta S. Ambrogio, sono accesi dal desiderio della gloria delle armi e mettono sopra ogni cosa il valore guerresco. Quale non fu mai la prodezza di Giosuè, che in una sola battaglia fece prigionieri cinque re! Gedeone con trecento uomini trionfò di un esercito numeroso; Gionata, ancora adolescente, si distinse per fatti d’arme gloriosi. Che dire dei Maccabei? Con tremila Ebrei vinsero quarantottomila Assiri. Apprezzate il valore di capitano quale Giuda Maccabeo da ciò che fece uno dei suoi soldati: Eleazaro aveva osservato un elefante più grande degli altri e coperto della gualdrappa regale, ne dedusse dover essere quello che portava il re. Corse dunque con tutte le forze precipitandosi in mezzo alla legione e sbarazzatosi anche dello scudo, si slanciò avanti combattendo e colpendo a destra e sinistra, finché ebbe raggiunto l’elefante; passando allora sotto a questo, Io trafisse con la sua spada. L’animale cadde dunque sopra Eleazaro che perì sotto il suo peso. Coperto più ancora che schiacciato dalla mole del corpo atterrato, fu seppellito nel suo trionfo » (la Domenica di ottobre, 2° Notturno). – Per stabilire un parallelo fra il Breviario e il Messale di questo giorno, possiamo osservare che, come i Maccabei, che erano guerrieri, si rivolsero a Dio per ottenere che la loro razza non perisse, ma che conservasse la sua religione e la sua fede nel Messia (e furono esauditi), cosi pure nel Vangelo è un ufficiale del re, che si rivolge a Cristo perché il suo figliuolo non muoia; egli con tutta la sua famiglia credette in Gesù, quando vide il miracolo compiuto in favore di suo figlio. Constatiamo inoltre che i Maccabei opponendosi agli uomini insensati che li circondavano, cercarono presso Dio luce e forza per conoscere la sua volontà in circostanze difficili (5° responsorio, Dom. 1° respons. del Lunedì) ed esauditi nel nome di Cristo che doveva nascere dalla loro stirpe, resero in seguito azioni di grazie nel Tempio, « benedicendo il Signore con inni e con lodi » (2° responsorio del Lunedi). – Cosi pure S. Paolo, nell’Epistola, parla di uomini saggi che, in tempi cattivi, cercano di conoscere la volontà di Dio e che, liberati dalla morte (f. 14 di questa Epistola) per la misericordia dell’Altissimo, gli rendono grazie in nome di Gesù Cristo, cantando inni e cantici. Tutti i canti della Messa esprimono anch’essi sentimenti simili in tutto a quelli dei Maccabei. « Signore, dice il 5° responsorio, i nostri occhi sono rivolti a te, affinché non abbiamo a perire » e il Graduale: « Tutti gli occhi si alzano con fede verso di te, o Signore ». il Salmo aggiunge: « Egli esaudirà le preghiere di coloro che lo temono, li salverà e perderà tutti i peccatori ». – « O Dio, canterò i tuoi gloriosi trionfi », dichiara l’Alleluia, e termina con queste parole: « Con Dio compiremo atti di coraggio ed Egli annienterà i nostri nemici ». L’Offertorio è un cantico di ringraziamento dopo la liberazione dalla cattività di Babilonia e la riedificazione di Gerusalemme e del suo Tempio. (Ciò che si rinnovò sotto i Maccabei). Il Salmo del Communio, che è il medesimo di quello del Versetto dell’Introito, ci mostra come Iddio benedica coloro che lo servono e venga loro in aiuto nelle afflizioni. L’Introito, finalmente, dopo aver riconosciuto che i castighi piombati sul popolo eletto sono dovuti alla sua infedeltà, domanda a Dio di glorificare il suo Nome, mostrando ai suoi la sua grande misericordia. – Facciamo nostri tutti questi pensieri. Riconoscendo che le nostre disgrazie hanno per origine la nostra infedeltà, uniformiamoci alla volontà divina (Intr.), domandiamo a Dio di lasciarsi commuovere, di perdonarci e di guarirci (Vangelo), affinché la sua Chiesa possa servirlo nella pace (Orazione). Poi, pieni di speranza nel soccorso divino e pieni di fede in Gesù Cristo riempiamoci dello Spirito Santo, che deve occupare tutta la nostra attenzione in questo tempo dopo la Pentecoste e nel nome del Signore Gesù cantiamo tutti insieme nei nostri templi Salmi alla gloria di Dio, che ci ha liberati dalla morte e che nei giorni difficili della fine del mondo (Epistola) libererà tutti coloro che hanno fede il Lui (Vangelo).

« Sorgi d’infra i morti, dice S. Paolo, e Cristo ti illuminerà » (v.14). Salvati dalla morte per opera dì Cristo, non prendiamo più parte alcuna alle opere delle tenebre (v. 11), ma viviamo come figli della luce (v. 8). Approfittiamo del tempo che ci è stato dato per fare la volontà di Dio. Non conosciamo altra ebbrezza che quella dello Spirito Santo e, uniti gli uni agli altri nell’amore di Gesù, rendiamo grazie al Padre, che ci ha liberati per mezzo del Figlio suo e che ci libererà nell’ultimo giorno ».

Gesù salvò dalla morte il figlio dell’ufficiale, per dare la vita della fede a lui ed a tutta la sua famiglia. Questo miracolo deve cooperare ad aumentare la nostra fede in Gesù, per opera del quale Dio ci ha liberati dalla febbre del peccato e dalla morte eterna, che ne è la conseguenza. « Quegli che chiedeva la guarigione del figlio, dice S. Gregorio, senza dubbio credeva, poiché era venuto a cercare Gesù, ma la sua fede era difettosa ed egli chiedeva la presenza corporale del Signore, che con la sua presenza spirituale si trova dappertutto. Se la sua fede fosse stata perfetta, avrebbe senza dubbio saputo, che non esiste luogo ove Dio non risieda; egli crede bensì che colui al quale si rivolge abbia il potere di guarire, ma non pensa che sia invisibilmente vicino al figlio che sta per morire. Ma il Signore, che egli supplica di venire, gli prova che è già presente là dove egli gli chiedeva di andare; e Colui che ha creato tutte le cose, rende la salute a questo malato col semplice suo comando. (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Dan III: 31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]
Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.
[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio

 Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

(“Fratelli: Badate di camminare con circospezione, non da stolti, ma da prudenti, utilizzando il tempo, perché i giorni sono tristi. Perciò non siate sconsiderati, ma riflettete bene qual è la volontà di Dio. E non vogliate inebriarvi di vino, sorgente di dissolutezza, ma siate ripieni di Spirito Santo. Trattenetevi insieme con salmi e inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando coi vostri cuori, al Signore, ringraziando sempre d’ogni cosa Dio e Padre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.).”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LA PRUDENZA

S. Paolo aveva esortato gli Efesini a vivere come figli della luce, nella pratica delle buone opere, e a non seguire, anzi a riprovare le opere delle tenebre. Ora li esorta a diportarsi con prudenza, approfittando del tempo che ci è concesso per fare la volontà di Dio. Non devono provare altra ebbrezza che quella che viene dallo Spirito Santo: si radunino tutti assieme a lodare il Signore con i cantici sacri, rendendo grazie al Padre, nel nome di Gesù. L’ammonimento dell’Apostolo agli Efesini vale anche per noi, che dobbiamo, mediante la prudenza, virtù «che da pochi si osserva»,

1. Riflettere sulle nostre azioni,

2. Approfittare d’ogni circostanza per arricchirci di meriti

3. Allontanarci dalle occasioni.

1.

Badate di camminare con circospezione, non da stolti, ma da prudenti.

Qui è raccomandata la prudenza cristiana; la prudenza virtù cardinale, cioè una delle quattro. virtù su cui si basano tutte le altre. «La prudenza ci fa distinguere il bene dal male» (S. Agost. En. in Ps. LXXXIII, 11). È, quindi, la regola delle nostre azioni, o, come dice il Catechismo: È la virtù che dirige gli atti al debito fine e fa discernere e usare i mezzi buoni. Il fine del Cristiano è la vita eterna, e la prudenza ci fa riflettere come dobbiamo diportarci per arrivarvi. Nelle cose importanti noi non ci fidiamo del solo nostro modo di vedere; domandiamo i suggerimenti e i consigli degli altri. Così, il Cristiano prudente prega il Signore che lo illumini sullo stato di vita a cui lo chiama, perché possa raggiungere il suo ultimo fine. Messosi in questo stato prega costantemente Dio «Padre dei lumi» (Giac. 1, 17) perché illumini i suoi passi nella via intrapresa, avendo sempre di mira il maggior bene spirituale, anziché l’accontentamento dei propri gusti. Quando un esploratore vuol raggiungere mete assai lontane, sa benissimo che lo attendono incognite di ogni genere. Ed egli riflette a lungo, prima di mettersi in viaggio. Calcola tutti gli incidenti che gli possono capitare da parte della natura del luogo, da parte degli elementi, da parte delle fiere, da parte degli uomini, e prende tutte le precauzioni necessarie per non essere impedito di raggiungere la meta. – Tra le precauzioni che prende, importantissima è quella del rifornimento dei viveri. Il Cristiano, che ha considerato tutta l’importanza della via spirituale che ha da percorrere, vede che tra le precauzioni più necessarie c’è quella di nutrirsi del cibo spirituale, affinché non venga meno per via. A questo scopo frequenta i Sacramenti. La prudenza gli suggerisce di nutrirsi spesso del pane dei forti; e di risorgere subito col mezzo della Confessione, se lungo la via fosse caduto nel peccato. La prudenza insegna a non aspettar tutto dagli altri, « Poiché  se noi saremo vigilanti non avremo bisogno dell’aiuto altrui. Se, al contrario, dormiamo a nulla ci giova l’aiuto degli altri» (S. Giov. Grisost. In Epist. 1 ad Thess. Hom. 1, 3). Alla meta cui siamo avviati dobbiamo arrivare con l’opera nostra, guidata e sostenuta dalla grazia del Signore. Pretendere di arrivare in paradiso dolcemente, dormendo, sulle spalle degli altri, sarebbe un vero assurdo. Non si va in paradiso a dispetto dei Santi. Le vergini prudenti della parabola evangelica si danno cura di provvedere da sé la scorta d’olio per la lampada. Le vergini stolte non si scomodano di procurarsi la scorta d’olio. E quando viene lo sposo non possono prender parte al banchetto. Ricorrono alle vergini prudenti per avere parte della loro scorta, ma non l’ottengono. Le loro lampade rimangono spente, ed esse sono escluse dal banchetto (S. Matt. XXV, 1-13). Se vogliamo arrivare al banchetto celeste dobbiamo cercare d’arrivarvi, aiutati da Dio, con le opere nostre e non con le opere degli altri; se non vogliamo correre il pericolo di rimanerne esclusi.

2.

L’Apostolo vuole che gli Efesini camminino da prudenti utilizzando il tempo. La prudenza non solo ci deve far distinguere quel che si deve fare o non fare; ma ci spinge all’opera. Essa ci fa essere buoni economi del tempo, facendoci cercare e trovare l’opportunità di fare il bene. Un industriale avveduto non tralascia viaggi, ricerche; non si stanca di assumere informazioni e di darne; di mettersi al corrente di tutte quelle innovazioni, che adottate migliorerebbero e accrescerebbero la produzione delle sue industrie. E un Cristiano prudente non deve lasciarsi sfuggire circostanza alcuna, senza usarne per arricchirsi di meriti. – Colui che prudentemente spera di venire a capo dell’opera da lui intrapresa, non si lascia abbattere dal nessuna difficoltà. Quanto più esse sono numerose, tanto più si sente spinto ad operare per vincerle. Noi diciamo che le circostanze sono troppo difficili per poter fare il bene, che gli ostacoli sono troppo forti; ma ci dimentichiamo d’una cosa: «che tutto coopera a bene per quelli che amano Dio» (Rom. VIII, 28). E il tempo delle difficoltà da superare è appunto il tempo più opportuno per ammassare meriti che ci accompagnino in paradiso. Una fatica sopportata per amor di Dio, un sollievo recato a chi soffre, la difesa di un perseguitato, l’appoggio dato a un oppresso, una persecuzione sostenuta, un offesa perdonata, un’umiliazione accettata sono tutte azioni preziose all’occhio di Dio, son tutti mezzi che ci fanno percorrere a gran passi sicuri la via che conduce al paradiso. Una vecchia mendica, la quale era stata più volte beneficata da S. Elisabetta d’Ungheria, che l’aveva assistita inferma e medicata con le proprie mani, vedendo un giorno la sua antica benefattrice avanzare guardinga lungo una sottile striscia di pietre che attraversava un fangoso ruscello, invece di tirarsi in disparte e lasciarla passare, la urtò brutalmente facendola cadere nella fanghiglia, poi aggiunse beffandola: «Tu non hai voluto vivere da duchessa; eccoti ora povera e nel fango; ma io non verrò a tirartene fuori». Con le vesti inzuppate, le mani infangate, contuse e sanguinanti, la Santa si alza e dice con gran calma: «Questo per le acconciature e gli ornamenti e le gioie che portavo un tempo» (Emilio Horn. S. Elisabetta d’Ungheria Trad. ital. di Bice Facchinetti. Milano 1924 p. 157). Ecco, come si può utilizzare qualsiasi circostanza per arrichire di beni spirituali. La prudenza c’insegna non solo a metterci con impegno nell’esercizio del bene, ma vuole che vi ci mettiamo subito. L’uomo d’affari se può conchiudere un buon affari oggi, non aspetta domani: domani potrebbe mancare l’occasione che oggi è ottima. Domani si potrebbe non essere più in tempo. La prudenza cristiana c’insegna a non rimandare in avvenire l’adempimento dei nostri doveri, l’esercizio delle virtù, la rinuncia al peccato, il ritorno a Dio. Sappiamo noi qualche cosa del nostro avvenire? Il futuro è nelle mani di Dio. Generalmente i nostri calcoli sull’avvenire hanno la sorte di quelli del ricco del Vangelo, il quale non avendo più posto da riporvi il raccolto disse: « Ecco quel che farò; demolirò i miei granai, ne fabbricherò dei più vasti e quivi raccoglierò tutti i miei prodotti e i miei beni, e dirò alla mia anima: O anima mia, tu hai messo in serbo molti beni per parecchi anni; riposati, mangia, bevi e godi. Ma Dio gli disse: — Stolto, questa stessa notte l’anima tua ti sarà ridomandata, e quanto hai preparato di chi sarà? — Così è di chi tesoreggia per sé e non arricchisce presso Dio» (Luc. XII, 18-21). Altrettanto stolto è chi cerca di vivere quest’oggi tranquillamente in ozio, e rimanda all’avvenire il tesoreggiare per il cielo. Sarà in tempo?

3.

Non vogliate inebriarvi di vino, sorgente di dissolutezza … dice S. Paolo, e a ragione. Si cerca l’ebbrezza nel vino e, attraverso la stoltezza e la sfacciataggine, si finisce nella libidine. È quello che avviene di tutte le occasioni. Si finisce dove non si credeva d’arrivare. Sansone non avrebbe mai pensato che l’eccessiva confidenza con Dalila l’avrebbe condotto alla perdita della sua forza prodigiosa, degli occhi, della libertà. Davide non si sarebbe mai immaginato che uno sguardo imprudente l’avrebbe condotto all’adulterio, all’omicidio, all’indurimento nel peccato. L’uomo prudente non si mette mai nelle occasioni prossime libere; non diffida mai abbastanza di certe compagnie, di certi ritrovi, di certi divertimenti, di certi giornali, di certi libri.Il viandante prudente schiva tutte quelle vie lungo le quali potrebbe trovare degli intoppi o dei pericoli. Se una via è interrotta da una frana, da una valanga, dalla caduta d’un ponte, da un’alluvione, si rassegna a fare un giro un po’ più lungo, passando alla larga, pur di arrivare alla meta. Se sa che qualche punto della via è pericoloso, perché battuto dai grassatori, cerca di passarlo in pieno giorno, senza indugiarvisi. Nel cammino della vita spirituale non mancano degli ostacoli che cercano di fermarci, delle occasione che vorrebbero farci interrompere il cammino. Giriamo alla larga, se non vogliamo dimenticarci del nostro fine; se non vogliamo lasciarci cogliere dalle passioni che, depredandoci della grazia, ci facciano cadere nel peccato. «Non è un timor vano né una precauzione inutile questa, che provvede alla via della nostra salvezza» (S. Cipriano. Lib. de hab. Virg. 4). – Certi strappi sono dolorosi, certi distacchi costano, l’abbandono di certe abitudini ci sembra impossibile. Eppure la prudenza insegna che tra due mali bisogna scegliere il minore. Chi ha una mano o un piede incancrenito sceglie la loro amputazione, anziché lasciar incancrenire tutto il corpo. Il navigante che vede la nave affondare per troppo peso, è pronto a gettar la sua merce in mare, anziché lasciarsi ingoiar lui dalle onde. Tra la perdita di Dio e la perdita dell’amicizia degli uomini; tra il sacrificio di certe abitudini e la perdita del paradiso; tra i piaceri terreni e i godimenti eterni la scelta non dovrebbe lasciare un istante di titubanza. Lasciamo, dunque, l’ebbrezza che viene dai piaceri, e scegliamo l’ebbrezza che viene dallo Spirito Santo. È un’ebbrezza senza rimorsi, senza turbamenti. Manifestiamo questa ebbrezza con salmi e inni e cantici spirituali; manifestiamola, prendendo parte con assiduità e fervore alle funzioni sacre; manifestiamola ovunque, non fosse altro, salmeggiando al Signore nei nostri cuori ringraziando sempre d’ogni cosa Dio e Padre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo.

Graduale

Ps CXLIV:15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne.

[Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno. V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.
[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.
Joannes IV: 46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori. Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.

(“In quel tempo eravi un certo regolo in Cafarnao, il quale aveva un figliuolo ammalato. E avendo questi sentito dire che Gesù era venuto dalla Giudea nella Galilea, andò da lui, e lo pregava che volesse andare a guarire il suo figliuolo, che era moribondo. Dissegli adunque Gesù: Voi se non vedete miracoli e prodigi non credete. Risposegli il regolo: Vieni, Signore, prima che il mio figliuolo si muoia. Gesù gli disse: Va, il tuo figliuolo vive. Quegli prestò fede alle parole dettegli da Gesù, e si partì. E quando era già verso casa, gli corsero incontro i servi, e gli diedero nuova come il suo figliuolo viveva. Domandò pertanto ad essi, in che ora avesse incominciato a star meglio. E quelli risposero: Ieri, all’ora settima, lasciollo la febbre. Riconobbe perciò il padre che quella era la stessa ora, in cui Gesù gli aveva detto: Il tuo figliolo vive: e credette egli, e tutta la sua casa”)

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra le malattie.

Domine, descende priusquam moriatur filius meus. Jo. IV.

Noi leggiamo nell’odierno vangelo che un signore, il cui figlio era infermo nella città di Cafarnao avendo saputo che Gesù veniva dalla Giudea in Galilea, s’indirizza a Lui e lo prega di scendere nella sua casa per guarire il suo figliuolo che era vicinissimo a morte. Gesù Cristo gli accorda quel che chiede e gli comanda di ritornar dal figliuolo, cui dichiara aver renduta la sanità; ubbidisce egli, ritrova il figliuolo perfettamente risanato, ed apprende da’ suoi servi che era lo stato nell’ora medesima che Gesù Cristo gli aveva detto: tuo figlio sta bene; crede in lui con tutta la sua casa: Credidit ipse et domus eius Iota (Jo. IV). A considerare i sentimenti della natura, era un gran motivo di afflizione per quel signore veder il suo figliuolo alle porte della morte: ma a giudicar delle cose coi lumi della lede, era gran fortuna per lui trovare in quella malattia un’occasione favorevole di credere in Gesù Cristo e diventare suo discepolo. – Così è, fratelli miei, che le afflizioni e particolarmente le malattie divengono per noi, per la disposizione della divina provvidenza, la sorgente di nostra vera felicità, quando ne sappiamo fare un buon uso: la malattia, è vero, è uno stato doloroso per la natura; l’uomo nemico della sua distruzione, soffre con pena i dolori e le infermità, che abbreviano i suoi giorni e lo conducono al sepolcro: quindi tante precauzioni per allontanare le malattie e per liberarsene quando n’è assalito: ma egli ha un bel fare, la sanità non è un bene di continua durata; non evvi temperamento alcuno sì robusto che non sia alle infermità soggetto; quei medesimi che sono i più in istato di preservarsene, non ne vanno esenti, permettendo così Iddio per staccarci dalla vita. Egli è di nostro vantaggio l’entrare nei suoi disegni e riguardare i mali che soffriamo quaggiù come mezzi efficaci che la provvidenza vuol somministrarci: ed a ciò voglio oggi esortarvi, fratelli miei, mettendovi sott’occhio i vantaggi spirituali che procurano i dolori e le infermità, cui siamo soggetti, e le regole che convien seguire per renderle profittevoli. In due parole: l’utilità delle malattie, primo punto; l’uso che convien farne affinché diventino vantaggiose, secondo punto.

I. PuntoSe l’uomo non avesse giammai peccato, non sarebbe stato soggetto alle malattie, alla morte ed alle altre calamità inseparabili al presente dalla sua trista condizione. Ma da che il peccato ha preso il posto dell’innocenza in cui il primo uomo fu creato, una vita di miserie è succeduta alla felicità di cui in quello stato godeva. Felice colui ancora che trova nella pena del suo peccato un mezzo di espiarlo ed un rimedio per preservarsene. Perciocché questi sono, fratelli miei, i due vantaggi che noi possiamo ricevere dalle malattie, dice s. Agostino; se Egli ci affligga, si è per farci rientrare in noi medesimi ed espiare i nostri peccati passati: Ut peccasse non noceat; si è per impedirci di commetterne di nuovo: Ut peccare non liceat. – Niente è più capace di condur l’uomo peccatore a penitenza che il ricordarsi del suo ultimo fine. Ma quando è mai che questa memoria lo colpisce di più, se non nel tempo della malattia? Sinché egli gode delle dolcezze della sanità, non è se non debolmente tocco dal pensiero della morte, lo perde anche ben sovente di vista: quindi avviene ch’egli non pensa che a soddisfare le sue passioni, e che invece di placar l’ira di Dio con la penitenza, egli l’irrita con nuovi misfatti: sano, riguardava la morte come molto lontana, non era punto spaventato delle sue conseguenze e non pensava a prevenirle, ma la malattia gli annuncia il suo avvicinamento; di già la vede pronta a dare il suo colpo; egli può dire come l’Apostolo: Tempus resolutionis meaeæ instat (2 Tim. IV). Qual partito prenderà egli dunque? Da una parte i rimorsi della coscienza onde è agitato, e dall’altra la vista del terribile giudizio cui sarà citato, l’indurranno a ritornare a Dio con una vera penitenza. Penetrato dai medesimi sentimenti che il santo re Ezechia: eccomi, dirà egli al Signore, sul fine dei miei giorni, sul punto di essere sepolto sotto l’ombre della morte : Vadam ad portas inferi. Qual miglior cosa posso io dunque fare che ripassar nell’amarezza del mio cuore gli anni, che ho passati nell’iniquità? Recogitabo libi omnes annos meos in amaritudine animæ meæ. Io ho vissuto sino al presente all’intiera dimenticanza di mia salute; ma sul punto di chiuder gli occhi agli oggetti sensibili, per aprirli a quelli dell’eternità, bisogna senza più tardare metter la mano all’opera per finire questo grande affare, perché dopo la morte non sarà più tempo di pensarvi. Addio al mondo che mi ha sedotto, ai piaceri che mi hanno incantato, alle compagnie che mi hanno pervertito: Non aspiciam hominem ultra. Tali sono, fratelli miei, i sentimenti che la malattia inspira ordinariamente a coloro che ne sono attaccati; essa fa loro lasciare il peccato, li stacca dalle creature, li cangia, li converte; di malvagi e di reprobi che erano, essa ne fa dei giusti, degli amici di Dio. Ne chiama in testimonio la vostra esperienza; non è forse vero che nelle malattie voi pensate molto diversamente che quando siete in sanità? Non è forse vero che colpiti dal timore della morte, voi siete rientrati in voi medesimi per domandare a Dio perdono dei vostri peccati? Non è forse vero che voi avete fatti tutti i vostri sforzi per ottenere quel perdono col dolore che avete concepito di questi peccati, con la confessione che non avete fatta al ministro del Signore, il quale vi ha detto da parte sua: Mettete ordine ai vostri affari, perché fra poco voi dovete morire e comparir avanti a Dio per rendere conto delle azioni di vostra vita: Dispone domui tuæ, quia morieris. Al che non avreste voi pensato, se aveste sempre goduto sanità, e se Dio, inviandovi quella malattia, non vi avesse messo in una specie di necessità di ritornare a Lui con una sincera conversione. Confessate dunque che la malattia è molto utile al peccatore, poiché essa l’induce a riparare colla penitenza i peccati che ha commessi; ella è ancora un mezzo eccellente per soddisfare a Dio per la pena al peccato dovuta: Ut peccasse non noceat. – Egli è un ordine stabilito dalla divina giustizia, come vi è stato spesse volte detto, che il peccato anche perdonato sia punito in questo mondo o nell’altro. Or la malattia serve al peccatore per soddisfare alla giustizia di Dio per la pena al suo peccato dovuta poiché essa è una delle più severe penitenze che l’uomo possa fare, e d’altra parte è di elezione di Dio medesimo, che castiga il peccatore a suo genio ed in una maniera più sicura e più utile, che nol farebbe il peccatore medesimo. Non fa d’uopo, fratelli miei, di provarvi con lunghi ragionamenti ciò che le malattie hanno di duro e di molesto; coloro che le hanno provate possono rendere testimonianza. Esse privano della sanità, che è il più caro di tutti i beni; esse riducono la. natura umana in uno stato violento. Essere ritenuto in un letto, come un prigioniero in un carcere, privato dei piaceri della società, non poter fare alcun uso dei beni della vita, i quali sono allora interdetti, o per cui non si ha che nausea e ripugnanza; vedersi obbligato a divorare tutta l’amarezza dei rimedi, ad abbandonarsi ciecamente alla condotta dei medici; soffrire mali di capo, esser abbruciato da ardente febbre, sentirsi le viscere lacerate da violenti dolori, portare sul corpo certe infermità che durano quanto la vita e che alcun rimedio non può guarire, non sono queste forse penitenze più austere che i digiuni, le discipline, le macerazioni degli anacoreti? Questi sono volontarie e raddolcite dagli alleviamenti che la natura può prendere; ma le malattie combattono tutte le sue inclinazioni, e la tormentano sovente tanto colla loro violenza quanto con la loro durata. Qual fondo di meriti e di soddisfazioni non vi trova il peccatore per pagar i suoi debiti, e qual certezza che quella penitenza piace a Dio se è di sua scelta? Dio infatti conosce la nostra delicatezza; Egli sa quanto noi siamo nemici della penitenza, quanto siamo portati ad accarezzar la nostra carne, con qual indulgenza noi la trattiamo, anche quando vogliamo mortificarla in esposizione dei nostri mancamenti. Oimè! i colpi che noi le diamo, partono d’ordinario da una mano debole e timida, che la risparmia, e non la tratta giammai cosi severamente, come essa merita; che fa dunque il Signore? Prende Egli medesimo la sferza in mano per castigarci come lo meritiamo. Egli affligge con malattie questo corpo di peccati e punisce l’abuso che abbiamo fatto della sanità. In questo, fratelli, dobbiamo riconoscere la sua sapienza e la sua bontà, che ci percuote in questo mondo con castighi leggieri per risparmiarcene dei più rigorosi nell’altro; poiché le malattie anche più violenti sono un nulla in paragone dei dolori che si provano nel purgatorio, dove si soffre più in un solo giorno che non si farebbe quaggiù in più anni d’infermità. Nulladimeno alcuni momenti di pene in questa vita possono risparmiarci i lungi e rigorosi supplizi dell’altra e soddisfare anche interamente alla giustizia di Dio. Riconosciamo la mano paterna che ci percuote e che non vuole che ci resti alcun debito a pagare nell’uscire da questo mondo; mentre se esigesse i diritti della sua giustizia, noi le saremmo ordinariamente debitori, e ci costerebbe molto più il soddisfarla che non ci costa col mezzo che la provvidenza ci fornisce nelle malattie. – Egli è dunque vero che esse sono per correggerci e farci espiare le nostre colpe, esse lo sono ancora per impedirci di commetterne: Ut peccare non liceat. – Qual uso fassi per l’ordinario della sanità? Oimè! fratelli miei, voi lo sapete forse da voi medesimi: invece di servirsene per glorificar Dio, non s’impiega che ad offenderlo; si fanno servire all’ingiustizia ed all’iniquità, come dice l’Apostolo, membri che Dio non ha dati se non per servire alla santità; gli uni vivono in un’intera dimenticanza di Dio e dell’affare della salute; sinché godono di una perfetta sanità, non pensano che ad arricchirsi sulla terra, s’impegnano negl’imbarazzi del secolo e niente pensano al grande affare dell’eternità. Gli altri non attendono che ad appagare passioni brutali, si abbandonano alla dissolutezza, all’intemperanza, passano la loro vita a correre di piaceri in piaceri, dalla mensa al giuoco, dal giuoco agli spettacoli, alle conversazioni pericolose, ai commerci illeciti. Che fa il Signore per arrestare i disordini che regnano tra gli uomini? Previene il male nella sua origine, priva della sanità coloro che ne abusano, toglie loro l’arme dalle mani per impedirgli di fargli la guerra; Egli arresta con la malattia tutti i movimenti di quell’uomo di progetti, occupato dalia cura di mille affari, lo riduce in un letto di dolore, dove sciolto da ogni temporale sollecitudine ha tutto il tempo d’innalzar il suo regno a Dio, di pensare alla sua salute e di travagliarvi. Quei dissoluti, quei voluttuosi, che non pensavano dalla mattina alla sera che ai mezzi di contentare i loro desideri perversi; e che abusavano della loro sanità per abbandonarsi al disordine, si vedranno per la malattia nell’impossibilità di commettere gli eccessi, in cui avevan rossore d’immergersi. Le loro passioni scevre dagli oggetti, che erano per essi occasioni di peccato, non avranno più sul loro cuore l’impero che esse avevano per lo innanzi. Il ghiottone non potrà più frequentare le bettole; il voluttuoso non avrà più commercio con i complici de’ suoi delitti: mentre godeva di una perfetta sanità e nutriva con delicatezza il suo corpo, egli risentiva gli stimoli di una carne ribelle allo spirito, ne seguiva i movimenti disordinati: Impinguatus recalcitravit. Ma la malattia, che ha estenuata questa carne, ha estinto il fuoco della concupiscenza; l’anima involta nei dolori non è più sensibile al piacere: la malattia, come un riparo, la difende dai colpi della lascivia, che non può far breccia sopra un corpo languente ed abbattuto dal dolore. Come mai quell’uomo sensuale ha egli apprese le regole della temperanza, che ignorava per lo innanzi, se non da una malattia che gli è sopraggiunta, che l’ha obbligato a seguire una certa regola di vita, perché si astiene da ciò che lusingava i suoi appetiti? Felice lui se fa per la sua salute quello che fa per la sua sanità, e se temendo i dolori eterni quanto paventa un dolor passeggiero, egli si mortifica per evitare gli uni nella stessa guisa che lo fa per evitar l’altro! Tale è la salutevole impressione che una malattia deve fare sopra ogni uomo che sa riflettere. Chi ha determinata quella fanciulla, che non pensava che a piacere al mondo, a ritirarsi dalle compagnie per prendere il partito della devozione? Una malattia che l’ha spogliata di quell’avvenenza che la rendeva preziosa a sé stessa e agli occhi degli altri. Qual differenza d’uno stato con l’altro! Giudicatene da voi medesimi e dai sentimenti che avevate in quel tempo di prova. Quale stima facevate voi dei beni, degli onori, dei piaceri del secolo? Con qual occhio rimiravate voi le feste e i divertimenti del mondo di cui non potevate profittare; quante volte annoiati della vita, avete voi desiderata, come l’Apostolo, la dissoluzione di questo corpo mortale, per godere di una vita migliore che non fosse soggetta ai languori e alle infermità? Così è che Dio sa farci cavar profitto dalle malattie che ci manda. Non è già per perderci che ci affligge con le infermità: Infirmitas hæc non est ad mortem (Jo. XI). Ma le fa servire alla sua gloria e alla nostra salute: Sed ut manifestetur gloria Dei. Egli si serve delle malattie del corpo per guarire quelle della nostr’anima e preservarcene. E perciò Egli ne fa parte ai giusti come ai peccatori: la virtù del giusto potrebbe rallentarsi, se non fosse provata con queste disgrazie; laddove essa si perfeziona nell’infermità, come dice l’Apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Allora si è, che essa comparisce con più di splendore; testimonio quel modello di pazienza sì vantato dallo Spinto Santo medesimo: Giobbe, dopo aver perduti i suoi beni, i suoi figliuoli, non fece giammai meglio conoscere la sua virtù, che quando si vide coperto di piaghe, ridotto sopra un letamaio. Oh! allora fu che portò la pazienza all’eroismo, e che il demonio fu obbligato di cedergli la gloria dei combattimenti che gli aveva dati. – Che però in qualunque stato voi siate, giusti o peccatori, non riguardate più le malattie come disgrazie con cui Dio vi affligge per farvi sentire i colpi del suo sdegno, riguardatele piuttosto come effetti del suo amore, giusti e peccatori, poiché Egli se ne serve sempre per convertirvi o per provarvi ed unirvi a Lui, e farvi anche espiare leggieri mancamenti di cui la vita la più santa non è esente. Ma qual uso devesi fare delle malattie? Secondo punto.

II. Punto. Giacché Dio affligge gli uomini con malattie, sia per far rientrare i peccatori in se stessi, sia per provare la virtù dei giusti, bisogna dunque riceverle in ispirito di penitenza, bisogna soffrirle pazientemente, e con un’intera rassegnazione alla volontà di Dio. Or a che cosa la penitenza induce ella i peccatori nel tempo della malattia? Ad usare i mezzi i più pronti e ì più efficaci per rientrar in grazia con Dio, ad offrire le loro malattie in espiazione dei peccati da loro commessi. Infatti, se il peccatore non deve punto differire il suo ritorno a Dio, anche allora quando è in sanità, sul timore di mancar del tempo e delle grazie necessarie, questa ragione obbliga ancora più nel tempo della malattia ad una pronta conversione; perciocché deve allora più che mai temere di mancare del tempo per convertirsi, e questa dilazione può privarlo di un tesoro di meriti che gli procurerebbero una malattia santificata dalla grazia. Portiamo tutti dentro di noi una risposta di morte, dice l’Apostolo; quei medesimi che sembrano i più robusti, sono talvolta i più vicini al sepolcro. Ma in qual tempo debbonsi più temere le sorprese della morte, se non nella malattia, che le prepara di già la sua vittima e che comincia a distruggere questo mortal corpo ? Il fatto sta che i più degli uomini muoiono dopo certi mali, o più o meno. Or nell’incertezza del tempo che deve durare una malattia, quale miglior cosa può farsi sin dai primi attacchi del male, che ricorrer ai rimedi che debbono guarir l’anima dal peccato, e mettersi in istato di comparire avanti a Dio col ricevere i Sacramenti, che operar devono questa guarigione, perché corresi molto rischio che differendo ad usare questi rimedi, non vi siamo più a tempo. Imperciocché non può forse accadere, e non accade sovente, che una malattia, la quale sembrava leggiera nel suo cominciamento, divenga ad un tratto mortale, e col suo rapido progresso dia all’infermo il colpo della morte nel momento che non si aspettava? Ovvero che, togliendogli la conoscenza, lo metta fuori di stato di ricevere i sacramenti; o finalmente l’opprima con dolori sì violenti che diventi incapace di applicarsi a qualsiasi cosa, che non possa né esaminar la coscienza, né eccitarsi al dolore dei suoi peccati? Quindi che avviene a coloro che aspettano all’ultimo momento di munirsi degli aiuti dei moribondi? Quel che avete veduto accadere a qualcheduno di coloro, alla cui morte siete stati presenti; o ne sono privi per sorpresa, o li ricevono senza disposizione, o muoiono nell’impenitenza. laonde non è forse di somma importanza il chiedere di ricever i sacramenti sin dal principio della malattia? – Possono forse prendersi troppo presto ed usare troppe precauzioni, tosto che si tratta di evitare un’eternità infelice? Che arrischiasi di ricorrere ai rimedi che risanano l’anima dalla malattia del peccato? Non si ricevono forse i sacramenti in sanità? Perché non riceverli in malattia? Queste sorgenti di vita, rendendo la sanità all’anima, non contribuiscono forse a quella del corpo con la tranquillità, e col riposo di una buona coscienza che n’è l’effetto? E che non deve sperar un infermo dalla vista di Gesù Cristo, che con una sola parola ha risanato coloro che avevano a Lui ricorso? Testimonio ne sia il malato del nostro Vangelo. E non dovremmo noi forse indirizzarci al supremo medico e dell’anima e del corpo, con la medesima confidenza che quel signore, il quale lo pregava di venire in sua casa per guarire un figliuolo la cui malattia sembrava incurabile? Descende priusquam moriatur filius meus. Sì, oh Signore, dovrebbe dire un infermo, venite nella mia casa, venite ad abitare nel mio cuore, Voi potete, purché lo vogliate guarirmi da tutte le mie infermità. Se io non ricupero la sanità del corpo, e se vi piace levarmi da questo mondo, io sono almen sicuro che mi renderete la sanità dell’anima, che la libererete dagli orrori della morte eterna. Deve forse altresì recargli pena di ricevere il Sacramento dell’Estrema Unzione, che ha una virtù particolare per sollevar un infermo, e ristabilire le sue forze, come ce lo assicura l’Apostolo s. Giacomo? Infirmatur quis in vobis? etc. Finalmente, fratelli miei, di che si tratta per guarire la malattia di quest’anima? Basta di scoprirla al medico spirituale, al ministro di Gesù Cristo rivestito del potere di rimettere i peccati: tosto che il peccato è confessato con un cuore contrito ed umiliato, la guarigione è nello stesso momento operata. – Ah  se si potesse così facilmente ricuperare la sanità del corpo, non sarebbe di bisogno usare tante precauzioni, prendere tanti rimedi che sovente sono inutili e non potranno poi finalmente esentare dalla morte. Perché dunque trascurare un mezzo cosi facile per assicurare la salute? Perché almeno non dare ad un’anima immortale la cui perdita è irreparabile, le medesime attenzioni che si accordano ad un corpo destinato a divenire il pascolo dei vermi? Ma è forse così che si ragiona? È forse così che ci diportiamo nelle malattie? Sin dai primi attacchi del male, abbiamo tutta la premura di procurarci gli aiuti convenevoli per ricuperare la sanità: si chiamano i medici, si prendono i rimedi che essi prescrivono; una tale condotta è certamente irreprensibile, perché la divina provvidenza ha fornito dei soccorsi nella natura, ha data la scienza agli uomini per sovvenire alle umane infermità. Ma quel che io biasimo nella maggior parte degli ammalati, si è:

  1. Il poco di confidenza che mettono essi in Dio per ricuperare la sanità del corpo; si è che, invece di ricorrere subito al supremo medico che può guarire il corpo e l’anima, non s’indirizzano a Lui che dopo aver provata l’inutilità degli umani soccorsi.

2. Quel che io biasimo ancora di più si è che questi infermi, unicamente occupati a ristorare il corpo, non pensano punto alla salute dell’anima; è lo stesso che portare, contro di essi una sentenza di morte il parlar loro dei sacramenti, sulla supposizione che la malattia non è pericolosa; incoraggiati dall’efficacia dei rimedi che loro s’applicano, prevenuti in favore del loro temperamento, sperano rivenirne; e disgraziatamente per essi, si è che la maggior parte di coloro che li servono, li mantengono in questi sentimenti, si nasconde loro il pericolo in cui sono, li nutriscono della lusinghiera speranza di un pronto ristabilimento. L’infermo, facile a credere ciò che lo lusinga, porta ancora la speranza della vita sino alle porte della morte, e per colpa di essere stato avvertito di mettere ordine alla sua coscienza, eccolo per sempre involto negli orrori di una spaventevole eternità. Hanno temuto mal a proposito d’intimorirlo, proponendogli un affare sì interessante; forse ancora hanno allontanato il ministro del Signore, che si è a questo motivo presentato: e questo timore fuori del dovere, questo funesto rispetto umano, è stato la cagione di sua disgrazia. Oh crudele ritenutezza! Oh perfida amicizia sì contraria allo spirito del Cristianesimo, che si affretta a soccorrer il prossimo nei bisogni più urgenti! Se voi vedeste un vostro congiunto, un vostro amico sul punto di cadere in un precipizio, da cui non dipendesse che da voi il preservarlo, avvertendolo del pericolo in cui si trova, credereste colpevole il vostro silenzio o piuttosto non potreste serbarlo. Voi vedrete quell’infermo vostro congiunto, vostro amico sul punto di cader nell’inferno, e lascerete perdere quell’anima, per non osar di dirgli di pensar alla sua salute? Peribit in tua scientia frater? Non si possono troppo lodare; è vero, gli aiuti che si rendono agl’infermi: questi uffici di carità hanno tanto più merito, quanto che nulla hanno che non sia ripugnante. Respirare presso di un infermo un’aria contagiosa, sopportare i suoi capricci e le sue stravaganze, ascoltare i suoi continui lamenti, non vedere alcun effetto dai rimedi che gli si danno, tutto questo richiede una carità ad ogni prova: voi siete anche obbligati, fratelli miei, di rendervi questi servigi nelle malattie per li legami che vi uniscono gli uni agli altri; ma il primo oggetto della vostra carità deve essere la salute dell’anima del vostro prossimo; il miglior servigio che voi possiate rendergli si è di preservare quest’anima dalla morte eterna con la vostra attenzione a fargli amministrare i sacramenti e ad aprirgli la porta del cielo, dove vi servirà di protettore per tirarvi presso di Lui. Qual consolazione per l’uno e per l’altro di avere in tal modo contribuito alla vostra felicità! Un’altra ragione che deve indurre un infermo a mettersi in buono stato col ricevere i Sacramenti si è che, restando nel peccato, si priva del merito dei patimenti; laddove la grazia santificante, che è il frutto di una sincera conversione, dà alla sua malattia una virtù particolare per soddisfare a Dio per li suoi peccati. Già  è stato più volte detto, fratelli miei, che quando il peccatore è in uno stato di morte, tutto quel che fa, tutto quello che soffre, benché buono sia d’altra parte, non è di alcun merito pel cielo, perché le sue azioni e i suoi patimenti non sono animati dal principio di vita, che deve renderli graditi ed accetti a Dio. Qual perdita non è dunque per un infermo schiavo del peccato, che soffre molto per lo spazio di mesi e d’anni interi, cui Dio non terrà alcun conto dei suoi patimenti? Può egli bensì, con la sua pazienza nel soffrire, attirar le grazie di cui ha bisogna per convertirsi; ma se non ritorna a Dio con una sincera penitenza, i suoi patimenti non saranno mai ricompensati nel cielo. Oh quanti momenti perduti, in cui poteva egli soddisfare alla giustizia di Dio ed accumulare grandi tesori di meriti pel cielo! Ma se questo peccatore sin dal principio della sua malattia si riconcilia con Dio, tutti i suoi momenti di dolore saranno contati e notati nel libro della vita; un giorno, un momento di patire può risparmiargli degli anni di purgatorio, può meritargli un peso immenso di gloria, dice l’Apostolo: Momentaneum tribulatìonis nostræ determini gloriæ pondus operatur. Oh momenti della malattia! quanto voi siete preziosi per la salute allorché se ne sa fare buon uso! Or il miglior uso che un peccatore possa farne si è di offrirli a Dio in soddisfazione delle sue colpe; il che deve fare con tanto più di ragione, quanto che può senza temerità riguardar certe malattie come la conseguenza degli eccessi a cui si è abbandonato. Ah! con ben giusta ragione deve egli dire in quel tempo di dolore, io soffro tutti questi mali, io li ho meritati con le mie iniquità: Merito hæc patimur, quia peccavimus. Troppo fortunato io sono ancora, o mio Dio, che Voi vogliate accettare questi patimenti in iscambio dei supplizi cui io presentemente sarei condannato, se Voi m’aveste trattato conforme alla mia malizia; invece di lamentarmi, io ringrazio la vostra bontà, che vuol pure a questo prezzo riparare i diritti della vostra giustizia. Ben lungi dal chiedervi la liberazione dei mali che soffro, io vi pregherò con s. Agostino di non risparmiarmi in questo mondo, purché mi risparmiate nell’altro: Hic ure , hic seca, modo in æternum parcas. Se voi siete, fratelli miei, penetrati da questi sentimenti, voi sopporterete le vostre malattie con pazienza, virtù che un infermo può riguardare come il sommo rimedio a tutti i suoi mali, e l’unico rifugio che gli resta in certe malattie, che non sono suscettibili di alcun raddolcimento. Ah! si è allora, che conviene armarsi di pazienza per sostenerne tutto il rigore e la durata! Che cosa guadagnereste voi infatti nell’abbandonarvi all’impazienza, la quale, lungi dal guarire i vostri mali, non fa che inasprirli, mentre la pazienza ne modera l’amarezza? Nel primo caso voi accrescete i vostri debiti, e cangiate il rimedio in veleno: nel secondo, al contrario, voi trovate il vostro vantaggio in ciò che sembra essere nocevole. L’avversione per li patimenti vi apre la strada dell’inferno. La sommissione ai disegni di Dio fa, secondo s. Giacomo, la perfezione delle vostre virtù e vi apre la porta del cielo. Qual disgrazia non sarebbe dunque per voi di soffrire affatto inutilmente, di rendervi ad uno stesso tempo colpevoli ed infelici: Tanta passi estis sine causa? Per alcuni momenti di dolori un’eternità di delizie! Ah! quanto è consolante questo pensiero per un Cristiano che sa trarre vantaggio dai mezzi che gli fornisce la Religione! Nel mentre che il suo corpo è sulla terra immerso nel dolore, la sua anima, che s’innalza nel cielo, gusta anticipatamente le delizie che il Signore apparecchia ai suoi eletti. Quindi egli sottomette interamente la sua volontà a quella di Dio: egli riguarda la malattia come una preziosa vista, che il Signore gli fa nella sua misericordia per risparmiargli i rigori della sua giustizia; egli sa che Dio servesi della malattia per purificarlo come l’oro nel fuoco a fine di renderlo degno di Lui. Che la vostra volontà si adempia dunque, o mio Dio. dice egli all’esempio del suo Salvatore, e non la mia. Benché amaro sia il calice che voi mi presentate, io l’accetto di buon cuore dalle vostre mani; posso io forse ricusare di bervi dopo che il mio divin Maestro l’ha bevuto sin all’ultima goccia? Mentre l’innocente è coperto di piaghe, posso io lamentarmi di alcuni leggieri patimenti che sono un nulla in paragone di quanto Egli ha per noi sofferto?

Pratiche. Tali sono, fratelli miei, le disposizioni in cui dovete essere, chiunque voi siete, giusti o peccatori, quando il Signore vi ha fatto parte della croce del suo caro Figliuolo: Ripetete sovente quelle belle parola di Gesù agonizzante, che esser debbono l’orazione più frequente di un infermo: Fiat voluntas tua; ma queste parole sieno ancora più nel vostro cuore che nella vostra bocca. Abbiate sovente avanti agli occhi l’immagine del vostro Salvatore in croce; unite i vostri dolori ai suoi e protestategli che volete morire nelle sue braccia. Riguardate la malattia come un tempo proprio a riparare i mancamenti che avete commessi in sanità. Riscattate, come dice l’Apostolo, con quei momenti di dolore quelli che avete passati nei piaceri: Redimentes tempus, quoniam dies mali sunt. Ringraziate Iddio, che si serve delle malattie per tirarvi a Lui. Ma quantunque utile sia la malattia per la vostra conversione, non aspettate a quel tempo per travagliarvi; voi potete esser sorpresi dalla morte senza essere avvertiti dalla malattia. Fate un santo uso della sanità che Dio vi concede affinché essa serva a manifestare la sua gloria e a procurare la vostra salute. Quando vi prolunga dei giorni che la malattia sembrava voler terminare, indirizzate i vostri primi passi nel suo santo tempio per dimostrargliene la vostra riconoscenza; ricordatevi principalmente dei proponimenti che avete fatti essendo infermo, di viver meglio che per lo passato; profittate del tempo che Dio vi dà ancora per santificarvi e meritare le sue ricompense. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVI: 1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.

[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta

Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.

[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.

[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (131)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO X.

La vittoria de’ martiri ci discopre la vera fede.

I. Appartiene alla virtù, non solo far cose grandi, ma tollerarle; Et agere et pati fortia romanum est. Quinci, dopo aver contemplata a favor del vero una prova sì sublime del poter divino ne’ miracoli della Chiesa, consideriamone una più stupenda ne’ martiri. Dissi più stupenda: perciocché, quando Dio è quegli che opera da sé solo, la meraviglia non può nascere dalle sue operazioni, mentre a Lui tutte son facili ad una forma; nasce dalla nostra ignoranza, la quale nello stupefarsi non bada al grande, bada all’inusitato. Laddove, quando con Dio opera l’uomo, reggendo, benché debole, a tanti strazi, la meraviglia allora è più ragionevole: perché chi può capir come ciò succeda? Conviene al certo che nell’uomo operi Dio; e posto ciò la testimonianza che da tal fatto riceve la verità non può essere più cospicua. Io dico frattanto che la battaglia più fiera che si sia mai suscitata sopra la terra fu quella che alla Chiesa nascente mosseroi suoi famosi persecutori: e la vittoria più illustre che siasi mai conseguita fu quella, che di tali persecutori hanno riportata innumerabili martiri, ciascun de’ quali nelle sue lacere membra consacrò le spoglie di più trionfi alla fede. Tanto converrà che confessi chiunque alla vista di pugna sì formidabile, porrà mente all’armi di essa, agli assalitori, e all’esito inaspettato che al fin sortì.

I.

II. E primieramente, se dagli arsenali si cavino fuor l’armi con cui fucombattuta la Chiesa, vedremo, che queste furono tutti affatto que’ generi di tormenti che seppe divisare la crudeltà umana invasata dalla diabolica (Lactant. inst. 1. 5, c. 11). Almeno si fosse ella appagata di quelle varie guise dì morti che contra i Cristiani disegnò in un suo libro Volpiano (V. Bar. an. 225), per fare che le leggi servissero alla passione, non più di freno, ma di mantello. E pure non appagossene. Volle che tutti gli elementi, e fui per dire, tutte le creature si unissero a militare contra i fedeli. E come, singolarmente in Roma appena fu luogo che non rimanesse bagnato dal loro sangue, così ne’ loro corpi appena fu lato in cui non si esercitasse qualche spezie di propria carneficina. Furono più volte armate d’elmi roventi lo loro teste, ammaccati gli occhi, affettate le orecchie, reciso il naso; le ganasse e la bocca maltrattate con selci; le gambe e le braccia mozze con seghe: furono loro ficcate lesine ben aguzze nell’unghie; svelti i denti, storti i diti, strappate le mammelle con le tenaglie ancor infocate; aperto il ventre, aggomitolate le viscere; rotte con mazze di ferro pesantissime le giunture: furono bruciati di dentro con dare loro a bere piombo disfatto: di fuori, con applicare alle costole faci ardenti. Furono in tutto il corpo o arrostiti lentamente sulle graticole, o stirati violentemente sulle cataste. Fu loro tratta barbaramente la pelle di dosso viva. Furono a membro a membro tritati minutamente senza pietà, strascinati, scarnificati e costretti a fare in supplizi lenti una morte almeno diuturna, giacché non ne potevano far più d’una.

III. Queste eran l’armi sì crude, come ognun vede, che maneggiate ancora da mano debole potevano spaventare i più coraggiosi. Che dovean dunque fare in mano de’ Cesari? Quindici imperatori, padroni del mondo, furono gli assalitori, o cominciando o continuando l’urto furioso delle persecuzioni, di cui la nona eccitata da Diocleziano contò in un mese diciassette mila Cristiani dati al macello, e nell’Egitto solo, in dieci anni, cento quarantaquattro mila ammazzati pur empiamente, oltre ad altri settecento mila dispersi in un duro esilio (Spond. an. 301. n. 4). Basti di risapere come fu promulgato un editto generale in tutto l’imperio, in cui concedevasi a qualsivoglia persona licenza amplissima di trucidare ogni Cristiano in quel modo che più aggradisse (Spond. an. 303, n. 7): onde ne fu tale la stragein qualunque lato, che i gentili cantando il trionfo prima della vittoria, stimarono di avere estinta finalmente la fede in un mar di sangue, e però ne alzarono baldanzosi i trofei con questa falsa iscrizione, apparsa in più marmi: Superstitione Christi ubique deleta (Spond. an. 303. n. 14).

IV. La verità nondimeno si fu, che quantunque la crudeltà, tanto propria degl’idolatri, la politica, la potenza, e così i pubblici interessi del mondo, come i privati, si fossero collegati sì strettamente contra la Chiesa, che non poteva veruno dichiararsi Cristiano senza dichiararsi al tempo stesso nimico dell’uman genere; contuttociò la vittoria non fu de’ persecutori che perderono il campo, fu de’ perseguitati che lo mantennero. Il numero degli uccisi, invece di atterrire i vivi, gli animava al conquisto di una corona simile di martirio. Si offrivano spesso da se medesimi ai tribunali, entravan nelle prigioni, esultavano sui patiboli, e gettati alle fiere, se le attizzavano contra, se erano pigre, per avidità di morir più celermente: Steterunt torti torquentibus fortiores, et pulsantes ac laniantes ungulas, pulsata et lardata membra vicerunt. Così poté allora scrivere un san Cipriano (Ad Mart. et Conf.). testimonio solenne, non pure di presenza, ma ancor di prova. Non furono i tormentatori che stancarono i martìri, furono i martiri che stancarono i tormentatori: onde più d’uno di que’ persecutori ancor più feroci, disperato di vincere, ritirò le sue forze da tanto assalto; e sonando quasi a raccolta, die pace alla Chiesa, perché non gli era riuscito di darle morte (Suidas de Traiano apud Spondan an. 218. n. 1. Euseb. de Maximino 1. 8. c. 9. hist. Eccl. Ruffìnus de Valente): e si fe’ chiaro come i nemici di quella con tanto scosse non le avevano arrecato finalmente altro danno, di quello che si arrechi ad un incensiere con agitarlo incessantemente per l’aria, che fu l’avvivarvi ad un’ora, di dentro, l’ardor della carità, di fuori, la fragranza del buon esempio.

II.

V. Frattanto facciasi innanzi l’antichità che levò tanto rumore per uno Scevola, vittorioso di due re in una volta, con quella mano che tenne salda alle brace: Una manu, manca et inermi, duos vicit reges. Non siamo del pari: perché Muzio operava per un bene sensibile, qual era la libertà della patria che andava serva: e però non è meraviglia che per la libertà combattesse sì forte un uomo, mentre per essa più fortemente combattono ancor le bestie. I martiri operavano per un bene spirituale. Ma quando anche fossimo eguali nel rimanente, che ha da fare la pena di una mano arsa con l’esercito di tutte le pene orribili che a’suoi ministri suggerire l’inferno unito a consiglio? e che ha da fare un soldato risoluto e robusto con un numero innumerabile di vecchi, di verginelle, e infìn di bambini? A me pare che chi ne’ soli martiri non conosce la verità della fede cristiana, sia cieco affatto, e per ciò che riguarda l’uomo, e per ciò che riguarda Dio.

VI . Quanto all’uomo, come potea mai lavorarsi sopra la terra una tempra sì adamantina, per cui i tormenti più fieri non solo si tollerassero con pazienza, ma con piacere? Qui sì che la natura si dà per vinta, e confessa di non avere nelle fornaci sue tal segreto che induri la nostra creta sino a tal segno, se non è la grazia, che a ciò concorra col suo fuoco celeste. Inoltre l’uomo, quanto è sensitivo di corpo, tanto parimente di animo egli è sensato; come sarebbe però stato possibile, che tanti e tanti, sopra ogni numero, eleggessero di dare prontamente la vita fra mille scempi per una favola, quando favola fosse la nostra fede? Cum quis viderit tanta perseverantia stare martyres, atque torqueri (dicea s. Girolamo) (Ad Hœdib. q. 11), subit tacita cogitatio, quod, nisi verum esset evangelium, numquam sanguine defenderetur. E ben dicealo a ragione: non potendosi credere, che persone di tanto senno, com’erano certamente molti de’ primi martiri, lontanissimi ancora per la virtù dal solito offuscamento delle passioni, si accordassero a dispregiare l’ira de’ principi, e tutto ciò che talora poteva fulminare sui loro capi di spaventoso, se non avessero provata dentro di sé una sicurezza evidente di non errare: Non potes irasci (disse una volta Seneca al suo Nerone), non potes irasci, nisi omnia tremant. Ut fulmina, paucorum periculo, omnium metu cadunt, ita regum animadversiones (de Clem. 1. 1. 8). E pure nel caso nostro non solamente gli strazi di uno non atterrivano i molti, ma gli strazi di molti talora non atterrivano neppur uno; mentre bene spesso i medesimi manigoldi appresero dalle piaghe fatte ne’ martiri, tanto spirito di confessarsi Cristiani, sino ad offrire di subito il loro corpo nudo a quei ferri che dianzi adoperavano su l’altrui. Qual dubbio adunque, che se la nostra fede non fosse vera, non sarebbe stata da tanto numero d’uomini delicati di membra, saggi di mente, sostenuta col proprio sangue?

VII. Ciò che vale più anche in riguardo a Dio. Certa cosa è, che i più de’ martiri erano di vita incolpata, e nutrivano in petto brame insaziabili di piacere al loro Creatore, per cui lieti giungevano all’atto sommo di dilezione, che è dispregiare in grazia dell’amato tutti i beni sensibili, e infin la vita, che è il sommo di tali beni. Come dunque poteva non tenere di loro altissimo conto quel gran Signore, che non solamente si gloria di ricompensare l’amor nostro con l’amor suo: Ego diligentes, me diligo (Prov. VIII, 17), ma di prevenire con l’amor suo l’amor nostro: Ipse prior dilexit nos (lo. IV. 10). Ma se lo teneva come dunque le viscere di un padre così amoroso avrebbero in quegli stessi sofferta una strage sì universale, senz’altro frutto, che d’irrigare con ampi laghi di sangue la pianta malnata di una bugia? E se egli ha fatto l’uomo perché lo serva col culto di una vera religione sopra la terra, com’era possibile che Egli permettesse poi tante vittime innocentissime, scannate per una falsa? Non sono queste le idee di quella sua carità verso noi che portiamo impressa nel cuore dal nascimento. E donde avviene, che in ogni rischio improvviso ci sentiamo per impeto di natura trasportati di subito ad invocarlo, se non perché diamo a crederci ch’Egli n’ami? Né di tale amore ci lasciano dubitare le proteste magnifiche che Dio similmente ce ne venne a fare per bocca de’ suoi profeti, massimamente quando Egli ci assicurò, che sempre lascerebbesi ritrovar da chi lo invocasse, solo che lo invocasse di vero cuore. Quæretis me, et invenietis : cum quæsieritis me in toto corde vestro (Ier. XXIX. 13).

VIII. O Dio dunque è cieco, e non curando i nostri affari, non è vago della virtù, non è nimico del vizio: o se questa è bestemmia non comportabile, convenne che Egli dal cielo rimirasse con buon occhio tanti suoi campioni, e si facesse lor guida in una battaglia che essi imprendevano puramente per lui, affine di condurli per la via vera. Sicché, quanto è certo che la provvidenza governa le cose umane . tanto è certo che la moltitudine de’ nostri martiri è una testimonianza invittissima della fede da noi seguita. Essi Dio donò alla sua Chiesa per per adornarla qual nobile firmamento, con tali stelle di primaria grandezza; e in essi fe’ tralucere sommamente la sua potenza, propagando e perpetuando la religione con quei mezzi medesimi, per cui parea che si dovesse maggiormente distruggere e desolare: e cambiando in premio della pietà quella morte che unicamente era pena già del peccato. Chi può però dubitare, che a Dio non vaglia qualsivoglia suo martire di un trionfo? Triumphus Dei est passio martirum (S. Hier. ubi sup.).

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (4)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [4]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO X.

Della paterna e particolar provvidenza che Dio ha di noi altri, e della figlial confidenza che abbiamo da avere noi altri in Lui.

Una delle maggiori ricchezze e tesori che godiamo noi altri che abbiamo fede, è il sapere la provvidenza tanto particolare e tanto paterna che Dio ha di noi, mentre siam certi, che non ci può venire né succedere cosa alcuna che non sia ordinata da Lui e che non passi per le sue mani. E così disse il Profeta: Domine, ut scuto bonæ voluntatis tuæ, coronasti nos (Psal. V, 13.): Signore, ci hai circondati e custoditi colla tua buona volontà, come con uno scudo fortissimo. Siamo circondati per ogni parte dalla buona volontà di Dio, sicché non può entrare in noi cosa alcuna, se non passi prima per essa: e così non abbiamo di che temere; perché eEgli non lascerà entrare né arrivare a noi cosa alcuna, se non sia per maggior bene e utilità nostra. Quoniam abscondit me in tabarnaculo suo: in die malorum protexit me in abscondito tabernaculi sui (Ps. XXVI, 5), dice il reale Profeta. Nella parte più intima del suo tabernacolo e del suo gabinetto segreto ci tiene Dio nascosti; ci tien custoditi sotto le sue ali: e in un altro luogo dice ancora più di questo: Abscondes eos in abscondito faciei tuæ (XXX, 212). Ci nasconde il Signore nella parte più nascosta e più difesa della sua faccia, che sono gli occhi; nelle pupille di essi ci nasconde ; e così un’altra lettera dice : In oculis faciei tuæ. Dio ci considera come pupille degli occhi suoi, acciocché così si verifichi bene quello che dice in altro luogo lo stesso santo Profeta: Custodi me, ut pupillam oculi (Ibìd. XVI , 8): e quello che disse Egli stesso per Zaccaria: Qui teligerit vos, tanget pupillam oculi mei (Zach. II, 8): come pupille degli occhi suoi siamo custoditi sotto la sua protezione. Chi toccherà voi altri, dice Dio, toccherà me nella luce degli occhi. Non si può immaginare cosa più rara né più preziosa, né da stimarsi e desiderarsi più di questa. Oh se finissimo di conoscere e d’intender bene questa cosa, quanto protetti ed aiutati ci sentiremmo, e quanto animati e consolati staremmo in tutte le nostre necessiti travagli! Se di qua un figliuolo avesse padre molto ricco e potente, e molto intimo e favorito del Re; quanta confidenza e sicurezza non avrebb’egli, che in tutti i negozi che gli occorressero non gli fosse mai per  mancare il favore e la protezione di suo padre? Ora con quanta maggior ragione abbiamo d’avere questa confidenza e sicurezza noi altri, considerando, che abbiamo per Padre quegli nelle cui mani sta tutta la podestà del cielo e della terra, e che non ci può avvenir cosa alcuna senza che passi prima per le sue medesime mani? Se una sì fatta confidenza ha un figliuolo in suo padre, e con essa se ne dorme quieto; quanto maggiormente dobbiamo averla noi altri in quello che è più Padre che tutti i padri, e in comparazione del quale non meritano gli altri nome di padre? Perciocché non vi sono viscere d’amore che si possano paragonare a quelle di Dio verso di noi, le quali superano infinitamente tutti gli amori che possono essere in tutti i padri terreni. Possiamo ben confidare e assicurarci di tal Padre e Signore, che ciò che ci manderà sarà per nostro maggior bene ed utilità: perché l’amore che ci porta nel suo unigenito Figliuolo non gli lascerà far altro che cercare il bene di coloro per amor de’ quali diede il proprio Figliuolo in potere de’ dolori della croce: Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed prò nobis omnibus tradidit illum; quomodo non etiam cum illo omnia nobis donam? dice l’apostolo S. Paolo (Ad Rom. VIII, 32): Quegli che ci diede il suo unigenito Figliuolo e l’espose alla morte per noi altri, che cosa non farà per noi? Quegli che ci diede il più, come non ci darà il meno? E se tutti debbono avere questa confidenza in Dio; quanto maggiormente i Religiosi i quali Egli ha ricevuti particolarmente per suoi, e ha dato loro spirito e cuore di figliuoli, ed ha fatto che non curino e lascino i loro padri carnali, e piglino esso per Padre? Che cuore e amor di padre, e che cura e provvidenza terrà Dio di questi tali! Quoniam pater meus et mater mea dereliquerunt me  Dominus autem assumpsit me (PS. XXVI, 10). Oh quanto buon Padre t’hai preso in cambio di quello che hai lasciato! Con maggior ragione e con maggior confidenza puoi dir tu: Dominus regit me, et nihil mihi deerit (Ps. XXII, 2): Dio s’ha preso l’assunto e la cura di me e di tutte le cose mie; non mi mancherà niente: Ego autem mendicus sum, et pauper: Dominus sollicitus est mei (Psal. XXXIX, 18): Dio ha una molto amorosa e sollecita cura di me. Chi non si consolerà con questo, e non si liquefarà in amore di Dio? Che voi, Signore, vi abbiate preso l’assunto di me, e abbiate di me tanta cura, come se in cielo e in terra non aveste altra creatura da governare, che me solo? Oh se scavassimo e ci profondassimo bene in quest’amore e in questa provvidenza e protezione tanto paterna e tanto particolare che Dio ha di noi altri! – Quindi ne nasce ne’ veri Servi di Dio una molto cordiale e figlial confidenza in Lui; la quale in alcuni è tanto grande, che non vi è figliuolo nel mondo che in tutte le sue cose confidi tanto nella protezione di suo padre, quanto confidano essi in quella di Dio; perché sanno, che ha verso di loro viscere più che paterne, e ancora più che materne, le quali sogliono esser più tenere, siccome lo dice Egli stesso per mezzo d’Isaia: Numquid oblivisci potest mulier infantem suum, ut non misereatur filio uteri sui? et si illa oblita fuerit, ego tamen non obliviscar tui. Ecce in manibus meis descripsi te: muri tui coram oculis meis semper (Isa. XLIX, 15,16): Qual madre vi è che si dimentichi del suo figliuoletto che è ancora in fasce? e che non abbia cuore per muoversi a pietà di chi di fresco è uscito dalle sue viscere? E se pure sarà possibile, che si dia una madre nella quale cada una tale dimenticanza; in me però, dice il Signore, parlando colla sua diletta Gerusalemme, non cadrà questa giammai; perché ti tengo scritta nelle mie mani e le tue mura stanno sempre dinanzi agli occhi miei; come s’avesse detto: Io ti porto in palma di mano e ti tengo sempre dinanzi a’ miei occhi per proteggerti e difenderti. E per mezzo del medesimo Profeta ci dichiara questo con un’altra similitudine molto tenera ed espressiva: Qui portamini a meo utero (Isa. XLVI. 3). Siccome la donna, quando ha concepito, porta il bambino dentro delle sue viscere, ed essa gli serve di casa, di lettica, di muro, di sostegno e di ogni cosa; così dice Dio che Egli ci porta nelle sue viscere. Con questo i Servi di Dio vivono in tanta confidenza e si tengono per tanto assistiti e protetti in tutte le cose loro, che non si turbano né s’inquietano per qualunque accidente che avvenga loro in questa vita: Et in tempore siccitatis non erit sollicitum (Jer. XVII, 8). Il cuore de’ giusti, dice il profeta Geremia, non patisce sconvolgimenti, né perde la sua quiete né il suo riposo per i vari successi e avvenimenti che accadono, perché sanno essi, che nessuna cosa può avvenire senza volontà del loro Padre, e vivono molto tranquilli e affidati nel suo grande amore e bontà, che disporrà ogni cosa per maggior bene loro; e che tutto quello che torrà loro da una parte, lo restituirà loro da un’altra, con concedere loro qualche altra cosa che sia per essi molto più utile e vantaggiosa. Da questa confidenza tanto ferma e tanto figliale che hanno i giusti in Dio nasce nell’anima loro quella pace, tranquillità e sicurezza grande di cui godono, secondo quello che si legge in Isaia: Et sedebit populus meus in pulchritudine pacis, et in labernaculis fiduciæ, et in requie opulenta (Isa. XXXII,18). Dice, che si riposeranno i suoi figliuoli in una bellissima pace, e ne’ tabernacoli della confidenza, e in un riposo molto compiuto e abbondante di tutti i beni. Ove il Profeta congiunse molto bene la pace colla confidenza; perché dall’una viene conseguentemente l’altra: dalla confidenza Segue la pace; perché chi confida assai in Dio non ha di che temere, né di che turbarsi, poiché ha Dio in suo aiuto, ed esso gli fa spalla in tutto: onde diceva il Profeta: In pace in idipsum dormiam, et requiescam. Quoniam tu, Domine, singulariter in spe constituisti me (Psal. IV, 9, 10): In pace insieme dormirò e riposerò; perché tu, Signore, hai assicurata la mia vita colla speranza della tua misericordia. Di più non solo cagiona gran pace questa confidenza figliale, ma cagiona anche gran gaudio ed allegrezza: Deus autem spei, dice l’apostolo S. Paolo, repleat vos omni gaudio, et pace, in credendo; ut abundetis in spe, et viriute Spiritus sancti (Ad Rom. XV, 13). Quella ferma credenza, che Dio sa quello che fa e che quello che fa lo fa per nostro bene, opera in noi, che non sentiamo que’ tumulti, quelle angosce e quelle inquietudini che sentono quei che guardano le cose con occhi di carne; anzi fa, che stiamo con grande allegrezza in tutti gli avvenimenti: e quanto più uno abbonderà in questa confidenza, tanto più abbonderà in gaudio e allegrezza spirituale: perciocché quanto più si fida ed ama, tanto più resta quieto e sicuro, ch’ogni cosa se gli ha da convertire in bene, né meno di questo può credere né sperare da quella bontà e amore infinito di Dio. Questo faceva star i Santi tanto quieti e sicuri in mezzo a’ travagli e a’ pericoli, che non temevano né gli uomini, né i demoni, né le bestie, né altre creature irragionevoli, perché sapevano, che senza licenza e volontà di Dio non li potevano toccare. E così S. Atanasio racconta del . beato S. Antonio (D. Athanas. de S. Antonio), che gli apparvero una volta i demoni in diverse forme spaventevoli, e in figure d’animali fieri, di leoni, di tigri, di tori, di serpenti e di scorpioni, attorniandolo, e minacciandolo colle loro unghie, denti, ruggiti e fischi formidabili, che pareva, che se lo volessero allora allora inghiottire. E il Santo si burlava di essi, e diceva loro: Se voi aveste qualche forza, basterebbe uno solo di voi altri per combattere contra un uomo; ma perché siete deboli, avendovi Dio tolte le forze, procurate di fare una grande adunanza di canaglia, per farmi con ciò paura. Se il Signore vi ha data podestà sopra di me, eccomi qui, inghiottitemi: ma se non n’avete podestà né licenza da Dio, a che proposito vi affaticate in vano? Nel che si vede bene la pace e la fortezza grande che cagionava in questo Santo il sapere, che non gli potevano far cosa alcuna senza la volontà di Dio, e l’essere Egli tanto conforme ad essa. E di questi esempi ne abbiamo molti nelle Istorie Ecclesiastiche (D. Greg. lib. 3 Dialog. c. 16, ref., aliud simile exemplum). – Del nostro S. P. Ignazio leggiamo un esempio simile nel quinto Libro della sua Vita; e nel secondo Libro (Lib. 5 in Vita N. P. S. Ign. c. 9, et Lib. 2, c. 5) si narra di lui, che navigando egli una volta verso Roma, si levò una tempesta tanto gagliarda, che spezzato l’albero per la forza del vento, e perdute molte sarte, tutti temevano e si preparavano per la morte, parendo, che fosse già arrivata per loro l’ultima ora. E in questo frangente tanto pericoloso, mentre tutti gli altri stavano tremando collo spavento della morte, egli non sentiva timor alcuno: solo gli dava fastidio il parergli di non aver servito Dio tanto quanto era suo debito; ma nel resto non trovava occasione di temere: Quia venti et mare obediunt ei (Matth. VIII, 27): Perché il mare e i venti anch’essi ubbidiscono a Dio, e senza licenza e volontà sua non si levane le onde né le tempeste, né possono affogar alcuno. Or a questa viva e figlial confidenza in Dio, e a questa tranquillità e sicurezza abbiamo da procurare noi altri di arrivare colla grazia del Signore, mediante questo esercizio della conformità alla volontà di Dio, scavando e profondandoci coll’orazione e colla considerazione in questa ricchissima miniera della provvidenza tanto paterna e particolare che Dio ha di noi altri. Io son certo, che nessuna cosa mi può avvenire, e che nessuna me ne possono far gli uomini, né i demonii, né creatura alcuna, più di quello che Dio vorrà e né darà loro licenza. Or facciasi questo in me alla buon’ora, che io non lo ricuso, né voglio altra cosa che la volontà di Dio. Di S. Gertrude leggiamo (Blos. c. 11, monil. spir.), che mai non poterono farla vacillar d’un tantino nella costanza e sicura confidenza che aveva nella benignissima misericordia di Dio, pericolo alcuno, né tribolazione, né la perdita delle cose sue, né altri impedimenti, né meno i peccati e difetti propri; perché certissimamente confidava, che tutte le cose, sì prospere come avverse, erano dalla Divina Provvidenza convertite in suo bene. E una volta il Signore disse a questa santa vergine: Quella sicura confidenza che l’uomo ha in me, credendo, che realmente posso, so e voglio fedelmente aiutarlo in tutte le cose, mi ferisce il cuore, e fa tanta violenza al mio amore, che in un certo modo né posso dall’una parte risolvermi di favorire un uomo tale, per il gusto che sento al vederlo così dipendente da me e per lasciargli questa bella occasione di accrescergli il merito; ma dall’altra parte né meno posso tralasciare di favorirlo, per farla da quel Dio che Io sono, e per soddisfare a quel grande amore che gli porto. Così parlava al modo nostro d’intendere, come chi sia dal suo amore tenuto sospeso tra due partiti, senza sapere a qual si debba risolvere. Di S. Metilde si racconta (Blos, ubi supra), che il Signore le disse: Mi dà gran gusto il vedere, che gli uomini confidino nella mia bontà e molto si promettano di me: perché qualunque avrà in me molto umile confidenza e si fiderà bene di me, sarà da me favorito in questa vita, e nell’altra gli farò più bene di quello ch’Egli merita. Quanto più uno si fiderà e più si prometterà della bontà mia, tanto più otterrà e conseguirà da me: perché è impossibile che l’uomo non ottenga da me quello che santamente ha creduto e sperato d’ottenere, avendolo Io promesso. E per questa ragione giova all’uomo, che, sperando easpettando da me cose grandi, si fidi bene di me. E alla medesima S. Metilde la quale domandò al Signore, che cosa principalmente era ragione che si credesse della sua ineffabile bontà, rispose Egli: Credi con fede certa, ch’Io ti riceverò dopo la tua morte in quella guisa ch’un padre riceve un suo dilettissimo figliuolo; e che non si trovò giammai padre che con tanta fedeltà spartisse la roba sua coll’unico figliuolo, come Io comunicherò teco tutti i miei beni e me stesso. – Chiunque fermamente e con umil carità crederà questo della bontà mia, sarà beato.

CAPO XI.

 D’alcuni luoghi ed esempi della sacra Scrittura, i quali ci aiuteranno ad acquistare questa fiducia e figliale confidenza in Dio.

Per la prima cosa sarà bene, che veggiamo l’universale costume che avevano quegli antichi Patriarchi d’attribuir a Dio tutti gli avvenimenti, per qualsivoglia via o mezzo loro venissero. Nel capo quarantesimo secondo del Genesi narra la sacra Scrittura, che ritornandosene via dall’Egitto i fratelli di Giuseppe col grano ivi comprato, e avendo egli ordinato al suo maggiordomo, ch’alla bocca del sacco di ciascuno avesse legato il danaro del prezzo del grano, tale e quale essi l’avevano portato; nel mentre ch’essi se n’andavano proseguendo il lor viaggio, si fermarono in una osteria, e volendo dar da mangiare alle loro bestie del grano che portavano, il primo di essi, aperto il sacco, vide subito la sua borsetta col denaro, e lo disse agli altri; ciascuno de’ quali, aperto il sacco, vi trovò similmente il suo denaro. Dice qui la Scrittura, che turbati fra di loro dissero: Quidnam est hoc, quod fecit nobis Deus (Gen, XLII, 23)? Che cosa è questa che ha fatta Dio con noi? È cosa molto degna d’esser notata, che non dissero: Questo è un inganno che ci è stato ordito; qualche calunnia è qui nascosta: né dissero: Il maggiordomo per trascuraggine ha lasciato il denaro di ciascuno nel suo sacco: né dissero: Forse ha voluto farci limosina del denaro: ma attribuendo ciò a Dio, dissero: E che vuol dir questa cosa che Dio ha fatta con noi? con ciò confessando, che poiché non si muove una foglia d’albero senza volontà di Dio, né anche quella cosa era accaduta se non per divina volontà. E quando essendo andato Giacobbe in Egitto, Giuseppe insieme co’ suoi figliuoli lo andò a visitare; e il vecchio padre gli domandò, che fanciulli erano quegli, egli rispose: Filii mei sunt, quos donavit mihi Deus in hoc loco (Gen. LVIII, 9): Sono figliuoli miei che Dio m’ha dati in questa terra dell’Egitto. L’istesso rispose Giacobbe, quando incontratosi col suo fratello Esaù, questi gli domandò, che fanciulli erano quelli che conduceva seco? Parvuli sunt, quos donavit mihi Deus (Gen. XXXIII, 5): Sono, disse, figliuoli che il Signore m’ha dati. E porgendogli certo presente, gli disse: Suscipe benedictionem, quam attuli tibi, et quam donavit mihi Deus tribuens omnia (ibi, XXXIII, 11): Ricevi questo presente, e lo chiama benedizione di Dio, il cui benedire è far bene; la qual benedizione, dice egli, a me ha compartita quel Signore che è datore di tutte le cose e a tutti. Ancora quando David andava molto adirato a distruggere la casa di Nabal, e Abigaile sua moglie gli uscì incontro con un presente per placarlo, disse David: Benedictus Dominus Deus Israel, qui misit hodie te in occursum meum ne ìrem ad sanguinem (I Reg. XXXV, 32,33): Benedetto sia il Signore Iddio d’Israele il quale t’ha mandata oggi, acciocché incontrandomi tu, io non passassi a spargere il sangue della casa di Nabal; come se detto avesse: Tu non sei già venuta da te stessa; ma Dio ti ha mandata, acciocché io non peccassi: a Lui sono io debitore di questa grazia, Egli ne sia Iodato. Questo era il linguaggio comune di que’ Santi; e così dovrebbe anch’essere il nostro. Ma venendo più al punto, è meravigliosa per questo proposito quell’Istoria del santo Giuseppe (Gen. XXXVII), mentovato di sopra, il quale fu venduto per ischiavo a certi mercatanti dell’Egitto da’ suoi fratelli mossi da invidia, acciocché non venisse a comandar loro e ad esser loro sovrano, secondo quello che s’era sognato; e quel medesimo mezzo ch’essi presero per annientarlo, e per assicurarsi, che non arrivasse a comandar loro, lo prese Iddio per suo mezzo, affine di mettere in esecuzione i disegni della sua divina Provvidenza, e per far che Giuseppe venisse ad esser padrone de’ suoi fratelli e di tutta la terra d’Egitto: e così il medesimo Giuseppe lo disse loro quando si die’ loro a conoscere, ed essi rimasero spaventati ed atterriti del caso: Nolite pavere, neque vobis durum esse videatur, quod vendidistis me in his regionibus: prò salute enim vestra misit me Deus ante vos in Ægyptum… Præmisit queme Deus, ut reservemini super terram, et escas ad vivendum habere possitis (Gen. XLV, 5 et 7.): Non vogliate temere né vi spaventate per avermi voi venduto a chi già mi condusse in questi paesi; perciocché Dio m’ha mandato qua per ben vostre, acciocché abbiate da mangiare e non perisca né abbia fine il popolo d’Israello. Dio, disse, m’ha mandato: Non vestro Consilio, sed Dei voluntate huc rnissus sum: Non è seguito questo per vostro consiglio: sono stati disegni di Dio questi. Num Dei possumus resistere voluntati? Vos cogitastis de me malum: sed Deus vertit illud in bonum, ut escaltaret me, sicut in præsentiarum cernitis, et salvos faceret multos populos (Ibid. L, 19 et 20): Possiamo noi forse resistere alla volontà di Dio? Voi altri pensaste per questi mezzi di farmi male, ma Dio me lo convertì tutto in bene, come al presente vedete. Ora chi con questo esempio non si fiderà di Dio? chi temerà i disegni degli uomini e le traversie del mondo, poiché veggiamo, che sono tutti tiri accertati che vengono dalla mano di Dio? e che i mezzi ch’essi pigliano per perseguitarci e farci male, Dio li piglia per nostro bene e per nostro accrescimento? Consilium meum stabit, et omnis voluntas mea fiet (Isa. XLVI, 10), dice Egli per mezzo d’Isaia. Girala pure come tu vuoi, che alla fine si ha da adempir la volontà di Dio: ed Egli indirizzerà cotesti mezzi a questo fine. S. Giovanni Crisostomo pondera un’altra particolarità in quest’Istoria al proposito nostro (D Chrys. hom. 63 sup. Gen. XL, 23), trattando come il coppiero di Faraone, dopo essere stato rimesso nel suo ufficio, si dimenticò del suo interprete Giuseppe per due anni intieri, avendolo egli ricercato tanto caldamente, che si ricordasse di lui e che intercedesse per lui presso Faraone. Pensi tu, dice il Santo, che fosse a caso questa dimenticanza? Non fu a caso, ma fu consiglio e disegno di Dio, il quale voleva aspettare il tempo opportuno e la congiuntura più propria per cavare dal carcere Giuseppe con maggior onore e gloria: perché se il coppiero si fosse ricordato subito di lui, forse coll’autorità sua l’avrebbe liberato subito alla muta, come suol dirsi, senza, che fosse stato né veduto né udito da Faraone; ma perché Iddio Signor nostro pretendeva che non uscisse dalla prigione in questo modo, ma con grande onore e autorità, per ciò permise che l’altro si dimenticasse per due anni di lui, acciocché così arrivasse il tempo de’ sogni di Faraone; e allora ad istanza del Re, costretto dalla necessità a ciò ordinare, uscisse egli con quell’onore e gloria con cui uscì ad esser padrone di tutta la terra d’Egitto. Sa Dio molto bene, dice S. Gio, Crisostomo, da quel sapientissimo artefice ch’Egli è, quanto tempo ha da star l’oro nel fuoco e quando s’ha da cavar fuori. – Nel primo Libro de’ Re abbiamo un’altra Istoria nella quale risplende grandemente la provvidenza di Dio in cose molto particolari e minute. Dio aveva detto al profeta Samuele, che gli avrebbe mostrato chi aveva da essere Re d’Israele, acciocché l’ungesse; e gli aggiunse: Hac ipsa hora, quæ nunc est, cras mittam virum ad te de terra Benjamin, et unges eum ducem super populum meum Israel (I. Reg. IX, 16): Domani a quest’ora medesima ti manderò quello che hai da ungere per Re, che era Saulle: e il modo nel quale glielo mandò fu questo. Si smarriscono le asinelle di suo padre, il quale dice al figliuolo, che vada a cercarle. Prende seco Saulle un garzone, e se ne vanno per quelle campagne e colline, e non possono trovar indizio né vestigio alcuno di esse; onde Saulle voleva ritornarsene, per parergli che tardassero troppo e che il padre sarebbe stato in pena per essi; ma il garzone gli disse: Non ce n’abbiamo da tornar a casa senza delle nostre asine. In questa terra vi sta un uomo di Dio (che era il profeta Samuele); andiamo da lui, ch’egli ci darà contezza di esse. Con quest’occasione vanno a trovar Samuele, al quale, quando essi furono arrivati, disse Dio: Ecce vir, quem dixeram tibi, iste dominabitur populo meo (ibi, IX, 17); questi è colui ch’io t’aveva detto di mandarti; questo hai da ungere per Re. O giudizi secreti di Dio! Lo mandava il padre a cercar le asinelle; ma Dio lo mandava a Samuele, acciocché fosse unto per Re. Quanto differenti sono i disegni degli uomini dai disegni di Dio! Quanto lontano stava Saulle, e suo padre ancora, da pensare, ch’andava ad esser unto per Re! Oh quanto lontano stai tu molte volte, e il tuo Padre, e il tuo Superiore, da quello che Dio pretende! Da quello che tu pensi meno cava Dio quel ch’Egli vuole. Non si smarrirono quelle asinelle senza volontà di Dio; né fu a caso, che il padre mandasse Saulle a cercarle; né anche fu a caso il non poterle Saulle ritrovare; né il consiglio che diede il giovinetto garzone d’andar a consigliarsi circa di esse col Profeta; ma ogni cosa fu ordinazione e disegno di Dio, il qual prese questi mezzi per mandar Saulle a Samuele, acciocché l’ungesse per Re com’Egli glielo aveva detto. Si pensò tuo padre di mandarti a studiar in Siviglia, o in Salamanca, o in altra Università, acciocché tu riuscissi un gran Dottore e arrivassi di poi ad aver qualche ufficio da poter vivere onoratamente; e non fu così, ma Dio ti mandò colà per riceverti in casa sua e farti Religioso. Si pensava S. Agostino, quando andò da Roma a Milano, d’andare a legger Rettorica; e tal era ancora il pensiero di Simaco, Prefetto della città, che lo mandava; ma non era così; poiché colà Iddio lo mandava da S. Ambrogio, acciocché lo convertisse. Mettiamoci a considerare le varie vocazioni e i mezzi tanto particolari e minuti, e al parer nostro tanto remoti, co’ quali Dio ha tirato alla Religione questo e quello; che certamente questa è cosa di grande ammirazione; perché se non fosse stato per non so che cosetta, o per non so che bagattella che accadde, non ti saresti fatto Religioso: e nondimeno tutte queste cose furono disegni e invenzioni di Dio per trarti alla Religione. E notisi questa cosa così di passaggio per alcuni a’ quali suole alle volte venir tentazione, che la lor vocazione non debba essere da Dio, per esser seguita per mezzo di cosette simili. Questo è inganno del demonio tuo nemico, invidioso dello stato nel quale ti trovi: perciocché è usanza di Dio servirsi di questi mezzi pel fine ch’Egli pretende della sua maggior gloria e del tuo maggior bene ed utilità. Non si muove Iddio in grazia delle asinelle, Numquid de bobus cura est Deo (I. ad Cor. IX, 9)? ma vuole, che per questi mezzi tu venga a regnare come Saulle. Servire Deo regnare est. Quando dipoi il profeta Samuele andò da parte di Dio a riprendere Saulle per quella disubbidienza che aveva commessa in non distruggere Amalec, come Dio gli aveva comandato, dopo averlo ripreso e voltandogli le spalle per andarsene, Saulle lo prese pel manto, acciocché non si partisse, ma lo aiutasse presso Dio: e dice il sacro Testo (I. Reg. XV, 27), che restò in mano di Saulle un pezzo del manto di Samuele, essendosi questo stracciato. Chi non si sarebbe pensato, che lo stracciarsi e staccarsi quel pezzo del manto del Profeta fosse avvenuto a caso, perché Saulle l’aveva afferrato e tirato, e forse perché ancora doveva essere vecchio? è nondimeno avvenne questo per particolar provvidenza e disposizione di Dio; per dimostrare, che quella cosa significava, che Saulle era segregato e privato del Regno in pena del suo peccato: onde vedendo Samuele questo fatto disse a Saulle: Scidit Dominus Regnum Israel a te hodie, et tradidit illud proximo tuo meliori te: Conosci pure da questa divisione del mio manto, che il Signore ha oggi segregato e diviso date il Regno d’Israele, e l’ha dato al tuo prossimo il qual è migliore di te. Nel medesimo primo Libro de’ Re si narra, che una volta Saulle teneva assediato David e i suoi, in modum coronæ (I. Reg. XXIII, 26), intorno intorno e per ogni parte, di maniera tale che già David era fuor di speranza di poterne scappare; e trovandosi egli in quella stretta, arrivò a Saulle un corriere molto in fretta con avviso che i Filistei erano entrati nel paese suo, e saccheggiavano e distruggevano ogni cosa; onde convenne a Saulle levar l’assedio e accorrere alla necessità maggiore, e così David scampò. Non fu già a caso l’entrata né l’invasione de’ Filistei, ma disegno di Dio per liberar in quel modo David. Un’altra volta i Satrapi de’ Filistei scacciarono David dal loro esercito, facendo che il re Achis gli comandasse, che se ne tornasse a casa sua; sebben egli lo menava seco molto volentieri e confidava molto in lui: Sed Satrapis non places, come egli gli disse (I. Reg, XXIX, 6, et c. XXX). Par che fosse a caso quel consiglio de’ Satrapi, e non fu a caso né pel fine ch’essi si pensarono; ma fu particolar provvidenza di Dio; perché  ritornato David, trovò, che gli Amaleciti avevano posta a fuoco Siceleg sua terra, e che se n’avevano portate via prigioni tutte le donne e i fanciulli, a minimo usque ad magnum, e le istesse mogli di David, il quale li seguitò e li distrusse, ricuperando tutta la preda e i prigioni, senza mancarne pur uno: il che egli non avrebbe fatto, se i Satrapi non l’avessero scacciato dal loro esercito: e a questo fine ordinò Dio quel consiglio, sebben essi l’ordinavano ad altro effetto. – Nell’Istoria d’Ester risplende anche grandemente questa particolar provvidenza di Dio in cose molto minute e particolari. Quanto strani furono i mezzi che prese Dio per liberar il popolo giudaico dalla crudel sentenza del re Assuero? Per quali mezzi elesse Ester per Regina, scacciando Vasti; e volle, che fosse questa del popolo giudaico, acciocché intercedesse poi per i Giudei? Par che fosse a caso l’intendere Mardocheo il tradimento che gli altri ordinavano al re Assuero, e l’andarglielo a palesare; e che il Re stesse svegliato quella notte e non potesse dormire; e che si facesse portar le Cronache de’ suoi tempi per trattenersi; e che s’incontrasse a leggere quel fatto di Mardocheo: e nessuna di queste cose succedeva a caso, ma per alto consiglio di Dio e per sua special provvidenza, la qual voleva per que’ mezzi liberar il suo popolo. E così lo mandò a dire Mardocheo ad Ester, la quale non ardiva d’entrar a parlare al Re, e si scusava per non esser chiamata: Quis novit, utrum idcìrco ad regnimi veneris, ut in tali tempore parareris (Ether, IV). Chi sa che non fosse questo il fine d’esser tu divenuta Regina, acciocché ci potessi dar aiuto in quest’occasione? – La sacra Scrittura e le Istorie Ecclesiastiche sono piene di simili esempi, acciocché impariamo ad attribuir tutti i successi a Dio e a riceverli come venuti dalla sua mano per maggior bene ed utilità nostra. – Nel Libro delle Ricognizioni di S. Clemente si narra una cosa notabile a questo proposito. Faceva aspra guerra S. Pietro a Simon Mago, e S. Barnaba aveva convertito in Roma S. Clemente, il quale andò a trovar S. Pietro, e datogli ragguaglio della sua conversione, lo ricercò, che l’istruisse nelle cose della Fede; e S. Pietro gli disse: Sei arrivato in buona congiuntura, perché  è intimata per domani una pubblica disputa fra me e Simon Mago: ivi ci vedrai ambedue e udrai quel che desideri. Mentre stavano così discorrendo, entrano due discepoli, e dicono a S. Pietro, che Simon Mago mandava per lor mezzo a dirgli, che gli era occorso un impedimento, onde faceva istanza che si differisse la disputa per tre altri giorni; di che S. Pietro si contentò. Partiti coloro, S. Clemente s’attristò molto; e vedendolo S. Pietro tanto attristato, gli disse: Che cosa hai, figliuolo, che ti veggo malinconico? E S. Clemente gli rispose: Padre, ti fo sapere, che mi sono grandemente attristato per vedere, che si è differita la disputa la quale avrei desiderato che si fosse fatta domani. Ora è qui da notare, come in una cosa di sì poco rilievo si mise S. Pietro a far un ben lungo sermone, dicendo: Vedi, figliuolo, fra’ Gentili, quando non si fanno le cose come essi vogliono, si eccita gran tumulto; ma noi altri che sappiamo, che Dio guida e governa ogni cosa , abbiamo d’aver gran consolazione e pace. Sappi, figliuolo, che questo è seguito per tuo maggior bene; perché se la disputa si fosse fatta adesso, tu non l’avresti intesa così bene, e allora l’intenderai meglio; perché in questo mentre t’istruirò io, e così tu poscia ne gusterai assai più e caverai da essa maggior frutto. Voglio conchiudere con un esempio nostro che abbiamo nella Vita del nostro S. P. Ignazio nel quale risplende ancora grandemente questa medesima cosa, ed è intorno all’andata del P. Francesco Saverio alle Indie Orientali (Lib. 2, c. 16 Vite P. N. S. Ign. et in Vita P.  S. Francisci Xaverii). Certamente è cosa degna di considerazione il riflettere al modo con cui avvenne che questo sant’uomo andasse alle Indie. Nominò il nostro S. P. Ignazio per questa Missione i Padri Simone Rodriguez e Niccolò Bobadiglia. Il P. Simone stava allora colla quartana; ma con tutto ciò s’imbarcò subito alla volta di Portogallo; e al P. Bobadiglia, che stava faticando nella Calabria, fu scritto, che se ne venisse tosto a Roma, e venne; ma tanto debilitato dalla povertà e da’ travagli e stenti del viaggio, e tanto infermo e malconcio d’una gamba quando arrivò a Roma, che stando in quel medesimo tempo l’Ambasciadore, D. Pietro Mascaregnas, all’ordine per ritornarsene in Portogallo, nè potendo egli aspettare, che il Bobadiglia guarisse, né volendo partirsi senza l’altro Padre che aveva d’andar alle Indie, fu necessario, che in luogo del Bobadiglia con nuova e molto felice elezione fosse sostituito il P. Francesco Saverio, il quale partì subito coll’Ambasciadore alla volta di Portogallo. Dal non essere stato nominato la prima volta il P. Francesco Saverio: ma il P. Bobadiglia, e dall’essere in tanta fretta seguita la partenza di questo dalla Calabria, pare che fosse un caso la sostituzione fatta a lui del Saverio: e pur non fu a caso, ma per alto consiglio di Dio, il quale aveva destinato di fare il Saverio apostolo di que’ paesi. Di più è da notarsi, come dopo che furono arrivati questi due uomini in Lisbona, e veggendosi il gran bene che ivi facevano, pensarono di colà fermarli; ma dopo vario dibattimento, finalmente fu risoluto, ch’uno di essi se ne restasse e l’altro oltre passasse alle Indie. Ecco qui di bel nuovo posto in forse l’affare; ma presso Dio non vi è forse. Toccò finalmente al Saverio di passar alle Indie; perché questa era la volontà di Dio, e così l’aveva la Maestà sua decretato, essendo così espediente pel bene di quelle anime eper maggior gloria sua. Disegnino pur gli uomini quel che vogliono, e conducano i lor disegni per quella strada che più lor piace; che questo stesso piglierà Dio per mezzo da metter in esecuzione i disegni suoi, e per far quello che più convenga a te, al terzo e al quarto, e alla sua maggior gloria. Con questi e altri simili esempi sì della sacra Scrittura, come di quel che ogni giorno veggiamo ed esperimentiamo, tanto in altri, quanto in noi medesimi, abbiamo d’andar stabilendo e stampando nel nostro cuore questa viva confidenza, mediante l’orazione e la considerazione: e in questo esercizio non abbiamo da fermarci sin a tanto che non sentiamo nel nostro cuore una molto amichevole e figlial confidenza in Dio. E sii pur certo, che con quanto maggior confidenza ti getterai nelle braccia di Dio, tanto più sicuro starai: e per lo contrario sin a tanto che non arrivi ad avere questa confidenza figliale, non avrai mai vera pace e riposo di cuore; perché senza essa tutte le cose ti turberanno e ti terranno sempre in rivolta. Non differiamo dunque più il gettarci e l’abbandonarci totalmente nelle mani di Dio, e il fidarci di lui, siccome ce lo consiglia l’apostolo san Pietro: Omnem sollicitudinem vestram projicientes in eum, quoniam ipsi cura est de vobis (I . Petr. V, 7): e il Profeta: Jacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet (Psal. LIV, 23). Voi, Signore, amaste tanto me, che vi deste totalmente per me in potere de’ crudeli carnefici, acciocché facessero di voi quello ch’avessero voluto: Jesum vero tradidit volunti eorum (Luc. XXIII, 25): che gran cosa sarà ch’io mi dia e mi metta tutto in mani, non già crudeli, ma così pietose come sono le vostre, acciocché facciate di me quello che vi piacerà; essendo io certo, che non farete se non il meglio e quel che a me più conviene? Accettiamo quel progetto e quel patto che fece Cristo Signor nostro con S. Caterina da Siena. Faceva il Signore molte carezze e favori a cotesta Santa, e fra gli altri gliene fece uno molto particolare, che apparendole un giorno le disse: Fitta, cogita tu de me, et ego cogitabo continenter de te: Figliuola, dimenticati tu di te, per pensar sempre a me; e Io penserò sempre a te, e terrò cura di te. Oh che buon patto è questo! Oh che buon cambio! Oh quanto gran guadagno sarebbe questo per le anime nostre! Or questo patto viene a far il Signore con ciascheduno di noi altri. Scordatevi di voi e lasciate da banda i vostri disegni: e quanto più vi scorderete di voi per ricordarvi e fidarvi di Dio, tanto maggior cura terrà Dio di voi. Chi sarà dunque che non accetti un sì amorevole e vantaggioso partito? che è quello appunto che la Sposa dice aver fatto col suo Sposo: Ego Dilecto meo; et ad me conversio ejus (Cant. VII, 10).

CAPO XII.

Di’ quanta utilità e perfezione sia, applicar l’orazione a questo esercizio della conformità alla volontà di Dio; e come abbiamo d’andar discendendo a cose particolari, sino ad arrivare al terzo grado di conformità.

Giovanni Rusbrochio (Rusbr. in fine operum euurum), uomo dottissimo e molto spirituale, riferisce d’una santa vergine, che dando ella conto della sua orazione al suo Confessore e Padre spirituale, il quale doveva essere gran servo di Dio e di molta orazione, e volendo essere ammaestrata da lui, gli disse, che il suo esercizio nell’orazione era circa la Vita e Passione di Cristo nostro Redentore, e il frutto che ne cavava era conoscimento di se stessa e de’ suoi vizi e passioni, e dolore e compassione de’ dolori e de’ travagli di Cristo. E il Confessore le disse, che quella era buona cosa; ma che senza molta virtù poteva uno muoversi a compassione e tenerezza, considerando la Passione di Cristo, in quella guisa che per lo solo amore e affetto naturale che uno porta al suo amico suol muoversi a compassione de’ suoi travagli. Gli domandò la vergine, se il pianger una persona ogni giorno i suoi peccati sarebbe stata vera divozione; ed egli le rispose, che era similmente buona cosa, ma non la più eccellente; perché la cosa cattiva naturalmente cagiona fastidio e dispiacere. Tornò ella a domandargli, se sarebbe stata vera divozione il pensare alle pene dell’inferno ed alla gloria de’ Beati; ed egli le rispose, che né anche quella era la cosa più alta ed eminente; perché la natura istessa da sé abborrisce e ricusa quel che reca pena e dolore; ed ama e cerca quello che le può esser di gusto e di gloria; sicché se le dipingessero una città piena di piaceri e di gusti, la desidererebbe. La santa vergine se n’andò con questo molto sconsolata ed afflitta, per non sapere ache cosa mai avesse potuto applicare il suo esercizio dell’orazione, che fosse stata più grata a Dio; e di lì a poco le apparve un fanciullo molto bello, al quale raccontando ella la sua afflizione, e come le pareva che nessuno la potesse consolare, rispose il fanciullo, che non dicesse tal cosa, che egli poteva e voleva consolarla. Vattene, disse, dal tuo Padre spirituale, e digli, che la vera divozione consiste nell’annegazione e dispregio di se stesso, e nell’intera rassegnazione alla volontà di Dio, sì nelle cose avverse, come nelle prospere, con unirsi fermamente a Dio per amore e conformando interamente la volontà sua alla volontà di Dio in tutte le cose. Andò ella molto allegra, e disse questo al suo Padre spirituale, il quale le rispose: Qui sta il punto e a questo s’ha da applicare l’orazione; perché in ciò consiste la vera carità e l’amor di Dio, e per conseguenza il nostro profitto e la nostra perfezione. – Di un’altra Santa si dice, che le fu insegnato da Dio ad insistere assai nell’orazione del Pater noster in quella domanda : Facciasi, Signore, la volontà tua così in terra come si fa in cielo. E della santa vergine Gertrude si racconta (Ref. Blos. c. 11 Mon. spir.), che inspirata da Dio, disse una volta trecento sessantacinque volte quelle parole di Cristo: Non si faccia, Signore, la volontà mia, ma la tua (Luc. XXII, 42). E conobbe, che quella cosa era grandemente piaciuta a Dio. Imitiamo dunque noi altri questi esempi, applichiamo a questo la nostra orazione, e insistiamo assai in questo. esercizio.Per poterlo noi far meglio e con maggior frutto, bisogna che avvertiamo e presupponiamo. due cose. La prima che la necessità di quest’esercizio è principalmente nel tempo delle avversità e per quando ci. occorrono cose difficili e contrarie alla nostra carne; essendo che in queste occasioni è più necessaria la virtù e allora si dimostra meglio l’amore che ciascuno porta a Dio. Siccome nel tempo di pace il Re mostra quanto bene vuole a’ suoi soldati nelle rimunerazioni e grazie che fa loro, ed essi,nel tempo di guerra mostrano quanto l’amano e stimano nel combattere e in esporsi alla morte per lui; così nel tempo di consolazionee di favore il Re del cielo ci dàa conoscere quanto ci ama; e noi altri nel tempo della tribolazione, molto più che in quello della prosperità e della consolazione, quanto amiamo noi. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. tom. 2, ep. fol. 20), che render grazie a Dio nel tempo delle consolazioni è cosa da tutti; ma il rendergliele nel tempo delle tribolazioni e delle avversità, è propria dei buoni e perfetti. E così questa è una melodia molto dolce e soave alle orecchie di Dio. Vale più, dice egli, nelle avversità un Grazie a Dio, un Sia benedetto Dio, che sei mila ringraziamenti e benedizioni nelle prosperità. E così la divina Scrittura paragona i giusti al carbonchio: Gemmula carbunculi in ornamento auri (Eccli. XXXII,7); perché questa pietra preziosa rende maggior chiarezza e splendore di notte che di giorno. Così il giusto e vero servo di Dio riluce e risplende più e fa migliori mostre di sé nelle tribolazioni e ne’ travagli, che nelle prosperità. Di questo loda tanto la Scrittura sacra il santo Tobia (Tob. II, 44.), perché avendo permesso il Signore, che dopo molti altri travagli perdesse ancora la vista degli occhi, non s’attristò per questo, né si dolse, né perde punto della sua fedeltà e ubbidienza, ma si conservò immobile e tranquillo, ringraziando Dio tutti i giorni della sua vita ugualmente per la cecità che per la vista: come fece ancora il santo Giob ne’ suoi travagli (Giob. I,21). Questo dice S. Agostino che dobbiamo procurare d’imitare noi altri: Ut in cunctis idem sis, tam in prosperis, quam in adversis . Che sii il medesimo e continui ad esser così allegro, sereno nel tempo dell’avversità, come in quello della prosperità: Sicut manus, quæ eadem est, et cum in palmum extenditur, et cum in pugnum constringitur (D. Aug.ad fratr. in Erem. Serm. 4): Siccome la mano è la medesima, e quando sta stretta e tiene il pugno serrato, e quando l’apri e la stendi; così il servo di Dio nell’intimo dell’anima sua ha da esser sempre il medesimo, ancorché nell’esteriore e al di fuori paia che stia angustiato e addolorato. Anche colà si dice di Socrate, che in tutti i casi che gli avvenivano, per avversi e vari che fossero, stava sempre in un medesimo essere: Nec hilariorem quisquam, nec tristiorem Socratem vidit; æqualis fuit in tanta inæqualitate fortunæ usque ad extremum vitæ (De Socrate refert Cic, lib. 13 Tusculan. Quæst.). Non sarà dunque gran cosa, che noi altri Cristiani e Religiosi procuriamo d’arrivar in questo ove arrivò un Gentile. La seconda cosa che bisogna avvertire, è che non basta che abbiamo in generale questa conformità alla volontà di Dio; perché questa così in generale è facile. Chi vi sarà che non dica, che vuole che si adempia la volontà di Dio in tutte le cose? Buoni e cattivi, tutti dicono ogni giorno nell’orazione del Pater nosler. Facciasi, Signore, la volontà tua così in terra come in cielo. Vi bisogna qualche cosa più di questo: è necessario lo sminuzzar bene un tal punto, discendendo in particolare a quelle cose che pare ci potrebbero dare qualche pena se accadessero: e non abbiamo da fermarci sino ad aver vinte e spianate tutte queste difficoltà, e rotte, come suol dirsi, tutte le lance nemiche, e finalmente sin che non vi sia più cosa che vi si frapponga all’unirci e conformarci in ogni cosa alla volontà di Dio; ma abbiamo da far fronte a qualsivoglia cosa che ci possa occorrere (Vide supra tract. 5, c. 18), li né  anche abbiam da contentarci di questo; ma dobbiamo procurare di passar più oltre e non fermarci sin a tanto che non proviamo un molto interno gusto e una piena allegrezza al vedere eseguirsi e adempirsi in noi la volontà di Dio, benché sia per noi con travagli, dolori e dispregi, che è il terzo grado di conformità. Imperocché anche in ciò si trovan diversi gradi, uno più alto e più perfetto che l’altro, i quali si possono ridurre a tre principali nel modo che dicono i Santi della virtù della pazienza. Il primo è, quando le cose penose che accadono l’uomo non le desidera né le ama, anzi le fugge; ma le vuole però sopportare, più tosto che far cosa alcuna che sia peccato per fuggirle. Questo è il grado più infimo, e in questa materia è grado che per tutti è di precetto. Quindi quantunque un uomo senta dolore e tristezza per i mali che gli avvengono, e quantunque stando infermo gema e gridi per la veemenza dei dolori, e ancorché pianga per la morte de’ parenti; ben può con tutto questo aver questa conformità alla volontà di Dio. Il secondo grado è, quando l’uomo ancorché non desideri i mali che gli avvengono nè gli elegga, quando però sono venuti gli accetta e li sopporta volentieri, per esser quella la volontà e il beneplacito di Dio. Di maniera che questo secondo grado aggiunge al primo una qualche buona volontà e qualche amore verso la cosa penosa per amor di Dio, e il volerla sopportare, non solo quando vi è obbligo di precetto a sopportarla, ma anche quando il sopportarla sarà più grato a Dio. Il primo grado sopporta le cose con pazienza; questo secondo vi aggiunge il sopportarle di più con prontezza e facilità. Il terzo grado è quando il servo di Dio, per lo grande amore che porta al Signore, non solo sopporta ed accetta di buona voglia i travagli e le cose penose che gli manda, ma le desidera e si rallegra assai in esse, per esser quella la volontà di Dio, come dice S. Luca degli Apostoli, che ibant gaudentes a conspectu concila, quoniam digni habiti sunt prò nomine Jesu contumeliam pati (Act. v, 41). Dopo essere stati frustati con pubblica infamia, se n’andavano molto allegri e festosi, perché erano stati degni di patir ignominie per Cristo. E l’apostolo S. Paolo diceva: Repletus sum consolatione, superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II. ad Cor. VII, 4).Era pieno di consolazione, e dice, che sopprabbondava di gaudio e d’allegrezza fra le catene, le tribolazioni e le avversità. E di questo stesso in cui essi pure si erano mostrati segnalati, scrivendo egli agli Ebrei, ne li loda, dicendo: Et rapinam bonorurn vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos habere meliorem et manentem substantiam (Ad Hebr. X, 34). Ora a questo grado abbiamo da procurare noi altri di arrivare colla grazia del Signore, che sopportiamo con gaudio ed allegrezza tutte le tribolazioni e avversità che ci verranno, siccome ce lo dice l’apostolo S. Giacomo nella sua Epistòla Canonica: Omne gaudium existimate, fratres mei, cum in tentationes varias incideritis (Jac. I, 2). Ha da essere presso di noi cosa tanto apprezzata e tanto dolce la volontà e il gusto di Dio, che con questo saporetto indolciamo quello che ci verrà d’amaro. Tutti i travagli e disgusti del mondo ci hanno da diventar dolci e saporiti, per esser questa la volontà e il gusto di Dio. E questo è quello che dice S. Gregorio: Si mens in Deum forti intentione dirigatur, quidquid sibi in hac vita amarum sit, dulce æstimat; omne quod affligit, requiem putat; transire et per mortem appetit, ut obtinere plenius vitam possit (D. Greg. Lib. 7, cap. 7). S. Caterina da Siena in un Dialogo che scrisse della perfezione consumata del Cristiano, dice, che fra l’altre cose che il suo dolcissimo Sposo Gesù Cristo Signor nostro le aveva insegnate, questa era una, che la persona si fabbricasse una forte stanza a volta, che era la divina volontà, e si rinchiudesse e dimorasse perpetuamente in essa, né ritraesse giammai da quella né occhio, né piede, né mano, ma sempre vi stesse ritirata dentro come l’ape quando sta nel suo alveare, e come la perla nella sua conchiglia: perché sebbene da principio le sarebbe paruta forse stretta quella stanza, avrebbe nondimeno trovate di poi in essa grandi ampiezze; e senza uscirne se ne sarebbe passata alle eterne mansioni; e in poco tempo avrebbe conseguito quello che fuori di essa non si può conseguir in molto (De S. Cath. Sen. in Vita). Ora facciamo così noi altri, e sia questo il nostro continuo esercizio: Dilectus meus mihi, et ego illi (Cant. II, 16): Il mio diletto per me, ed io per esso. In queste due sole parole vi è un abbondante esercizio per tutta la vita, E così dobbiamo averle sempre in bocca e nel cuore.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (5)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (4)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (4)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

CATECHISMO PER I FANCIULLI CHE COMPLETANO LA LORO ISTRUZIONE CATECHISTICA (2)

CAPO III.

Del Decalogo.

(I fanciulli recitino distintamente i Comandamenti del Decalogo).

Art. 1. — DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI DEL DECALOGO CHE RIGUARDANO I DOVERI VERSO DlO.

1° Non avrai altro Dio fuori che me;

2° non nominare il nome di Dio invano;

3° ricordati di santificare le feste.

D. 63. Che cosa proibisce Dio col primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me?

R. Col primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me, Dio proibisce di prestare alle creature il culto dovuto a Lui solo.

D. 64. Quale culto dobbiamo prestare a Dio?

R. A Dio, e solamente a Lui, dobbiamo prestare il culto supremo, ossia il culto d’adorazione.

D. 65. Non dobbiamo forse prestare culto anche ai Santi e alle loro reliquie?

R . Dobbiamo prestare culto anche ai Santi, specialmente alla beata Vergine Maria, e alle loro reliquie, ma un culto diverso e di ordine inferiore, cioè il culto della venerazione, per onorarli e conciliarci il loro patrocinio.

D. 66. Si deve prestare onore e venerazione anche alle sacre immagini?

R . Si deve prestare onore e venerazione anche alle sacre immagini, perché tale onore si riferisce a coloro che esse rappresentano.

D. 67. Che cosa Dio proibisce col secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano?

R. Col secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano, Dio proibisce qualunqueirriverenza verso il suo nome.

D. 68. E proibito di nominare invano anche il nome dei Santi?

R. È proibito di nominare invano anche il nome dei Santi, e specialmente della beata Vergine Maria, per la stessa ragione per cui li dobbiamo venerare.

D. 69. Che cosa comanda Dio col terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste?

R. Col terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste, Dio comanda di consacrare a Lui igiorni festivi, lasciate da parte le cure e i lavori materiali,come vien prescritto dalla legittima autorità.

Art. 2. — DEGLI ALTRI SETTE COMANDAMENTI DEL DECALOGO SUI DOVERI VERSO NOI STESSI E VERSO IL NOSTRO PROSSIMO.

4° Onora tuo padre e tua madre;

5° non ammazzare;

6° non commettere atti impuri;

7° non rubare;

8° non dire falsa testimonianza;

9° non desiderare la donna d’altri;

10° non desiderare la roba d’altri.

D. 70. Che cosa comanda Dio col quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre?

R. Col quarto comandamento del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre Dio comanda che si presti ai genitorie a chi ne fa le veci il dovuto onore: cioè amore, rispetto,obbedienza e venerazione.

D. 71. Dobbiamo prestare ai genitori solamente onore?

R . Dobbiamo prestare ai genitori non solamente onore, ma anche aiuto, specialmente nelle loro necessità sia spirituali che temporali.

D. 72. Questo quarto comandamento prescrive solo i doveri dei figli verso i genitori?

R. No: questo comandamento prescrive non solo i doveri dei figli verso i genitori, ma indirettamente anche i doveri dei coniugi verso se stessi e verso i figli, ed anche i mutui diritti e doveri dei sudditi e dei superiori, degli operai e dei padroni.

D. 73. Quali doveri hanno i genitori verso i figli?

R. Per legge stessa di natura i genitori devono curare la buona educazione religiosa e morale dei figli e provvedere secondo le possibilità al loro benessere materiale.

D. 74. Che cosa proibisce Dio col quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare?

R. Col quinto comandamento del Decalogo: Non ammazzare, Dio proibisce di dar la morte o arrecar dannocorporale e spirituale al prossimo o a se stessi, o comunquedi cooperarvi.

D. 75. Che cosa proibisce Dio col sesto comandamento del Decalogo: Non commettere atti impuri?

R. Col sesto comandamento del Decalogo: Non commettere atti impuri Dio proibisce non solo l’infedeltà nelmatrimonio, ma ancora qualunque altro peccato esternocontro la castità e tutto ciò che induce al peccato d’impurità.

D. 76. Che cosa proibisce Dio col settimo comandamento del Decalogo: Non rubare?

R. Col settimo comandamento del Decalogo: Non rubare, Dio proibisce qualunque ingiusta usurpazione odanno alla roba altrui o comunque di cooperarvi.

D. 77. Che cosa proibisce Dio con l’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza?

R. Con l’ottavo comandamento del Decalogo: Non dire falsa testimonianza, Dio proibisce la bugia, la falsatestimonianza e qualsiasi parola che possa comunquedanneggiare il prossimo.

D. 78. Che cosa proibisce Dio col nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri?

R. Col nono comandamento del Decalogo: Non desiderare la donna d’altri Dio proibisce non solo tale cattivodesiderio ma anche qualunque peccato interno contro lacastità, come col sesto ne vieta espressamente i peccatiesterni.

D. 79. Che cosa proibisce Dio col decimo comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri?

R. Col decimo comandamento del Decalogo: Non desiderare la roba d’altri Dio proibisce i desideri ingiusti edisordinati della roba altrui.

D. 80. Qual è il compendio di tutti i comandamenti del Decalogo?

R. Il compendio di tutti i comandamenti del Decalogo è: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; e il prossimo tuo come te stesso.

D. 81. Sono obbligati tutti a compiere anche i doveri del proprio stato?

R . Tutti sono obbligati a compiere con diligenza anche i doveri del proprio stato, cioè que’ doveri, ai quali ciascuno è tenuto in ragione della propria condizione, o del proprio ufficio.

CAPO IV.

Dei precetti della Chiesa.

(I fanciulli recitino distintamente i precetti della Chiesa).

D. 82. Quanti sono i precetti della Chiesa?

R . Molti sono i precetti della Chiesa che il cattolico è tenuto ad osservare; ma al principio di questo Catechismo sono stati numerati solo i cinque che più si riferiscono all’ordinaria vita spirituale di tutti i fedeli.

Art. 1. — DEL PRIMO PRECETTO DELLA CHIESA.

1° Nella domenica ed altre feste comandate udir la Messa ed astenersi dalle opere servili.

D. 83. Che cosa prescrive la Chiesa col suo primo precetto?

R . Col primo precetto la Chiesa prescrive il modo di santificare la domenica e le altre feste di precetto; che consiste specialmente nell’ascoltare la Messa e nell’astenersi dalle opere servili.

D. 84. Quali sono le opere servili?

R . Sono opere servili quelle solite a farsi dai servi o mercenari, quelle cioè che specialmente esercitano le forze del corpo e sono specialmente dirette alla sua utilità.

D. 85. Vi sono opere servili permesse nelle domeniche e nelle altre feste di precetto?

R . Nelle domeniche e nelle altre feste di precetto sono permesse quelle opere servili, che riguardano da vicino il culto di Dio e le ordinarie necessità dei servizi famigliari e pubblici; quelle che la carità esige; quelle che non possono omettersi senza grave incomodo, o che sono tollerate da una legittima consuetudine.

D. 86. Oltre all’udir la Messa, a quali opere conviene che il Cristiano si dedichi nelle domeniche e nelle altre feste di precetto?

R . Oltre all’udirla Messa, nelle domeniche e nelle altre feste di precetto conviene che il Cristiano, per quanto può, si dedichi ad opere di pietà e di religione, specialmente assistendo alle funzioni sacre, alle prediche e al catechismo.

Art. 2. — DEL SECONDO PRECETTO DELLA CHIESA.

2° Nei giorni prescritti dalla Chiesa non mangiar carne ed osservare il digiuno.

D. 87. Che cosa prescrive la Chiesa col secondo precetto?

R . Col secondo precetto la Chiesa prescrive che nei giorni da lei stabiliti si osservi o il solo digiuno, o la sola astinenza dalla carne, o il digiuno insieme e l’astinenza.

D. 88. Che cosa prescrive la legge del solo digiuno?

R. La legge del solo digiuno prescrive che si mangi solo una volta al giorno, senza vietare però di prendere qualcosa alla mattina e alla sera, attenendosi ad una approvata consuetudine del luogo per quanto riguarda la quantità e la qualità dei cibi.

D. 89. Che cosa vieta la legge della sola astinenza dalla carne?

R . La legge della sola astinenza dalla carne vieta l’uso della carne e de’ suoi estratti, ma non già l’uso delle uova, dei latticini e di qualunque condimento di grasso.

D. 90. In quali giorni obbligano queste leggi?

R . Ove non intervenga la dispensa dalla legittima autorità:

1° la legge della sola astinenza obbliga in ogni venerdì;

2° la legge della astinenza insieme e del digiuno obbliga nel mercoledì delle Ceneri, nei venerdì e sabati di Quaresima, nelle ferie dei quattro Tempi e nelle Vigilie di Pentecoste, dell’Assunzione della beata Vergine Maria (modificata in seguito, con la vigilia della festa della Immacolata Concezione – ndr.-), di Tutti i Santi e del Natale;

3° la legge del solo digiuno obbliga in tutti gli altri giorni di Quaresima, eccettuate le domeniche.

D. 91. Vi sono dei giorni in cui queste leggi non obbligano?

R. Sì: nelle domeniche, nelle altre feste di precetto e nel sabato Santo dopo il mezzogiorno, cessa la legge dell’astinenza, dell’astinenza e del digiuno e del solo digiuno, eccettuate le feste di precetto nel tempo di Quaresima; le vigilie poi non si anticipano.

D. 92. Chi deve osservare l’astinenza e il digiuno?

R . Se non vi è legittima scusa o dispensa, devono osservare l’astinenza tutti coloro che, acquistato sufficientemente l’uso di ragione, hanno compiuto il settimo anno di età; il digiuno poi tutti quelli che han compiuto il ventunesimo anno e non han raggiunto il sessantesimo.

Art. 3. — DEL TERZO E QUARTO PRECETTO DELLA CHIESA.

3° Confessarsi almeno una volta l’anno;

4° Comunicarsi almeno in occasione della Pasqua.

D. 93. Che cosa prescrive la Chiesa nel terzo precetto con le parole: Confessarsi almeno una volta l’anno?

R . Colle parole: Confessarsi almeno una volta l’anno la Chiesa prescrive che i fedeli, raggiunta l’età delladiscrezione, facciano almeno annualmente la confessionedei peccati mortali non direttamente rimessi in precedenticonfessioni.

D. 94. Che cosa prescrive la Chiesa nel quarto precetto con le parole: Comunicarsi almeno in occasionedella Pasqua?

R. Con le parole: Comunicarsi almeno in occasione della Pasqua la Chiesa prescrive che ciascun fedele, raggiuntal’età della discrezione, riceva la S. Eucaristia almenonel tempo pasquale.

D. 95. Perché la Chiesa nel terzo e nel quarto precetto usa la parola almeno?

R. La Chiesa nel terzo e nel quarto precetto usa la parola almeno per insegnarci esser cosa molto utile, e da Lei assai desiderata, che i fedeli, anche quelli che non hanno se non peccati veniali o mortali già direttamente rimessi, si confessino più spesso e con pietà e frequenza anche quotidiana, si accostino alla mensa Eucaristica.

D. 96. Cessa il precetto della Comunione, se non sia stato soddisfatto durante il tempo pasquale?

R . No; il precetto della Comunione, se non è stato soddisfatto durante il tempo pasquale, non cessa; ma si deve adempiere quanto prima, nel corso dello stesso anno.

D. 97. Si soddisfa al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale con una Confessione o Comunione sacrilega o con una Confessione invalida?

R. No: non si soddisfa al precetto dell’annua Confessione o della Comunione pasquale con una Confessione o Comunione sacrilega, né con una invalida Confessione; che anzi, per il nuovo peccato, il precetto urge maggiormente.

Art. 4. — DEL QUINTO PRECETTO DELLA CHIESA.

4° Sovvenire alle necessità della Chiesa e del Clero.

D. 98. Che cosa prescrive la Chiesa nel suo quinto precetto?

R. Nel quinto precetto la Chiesa inculca ai fedeli il divino mandato di venire in aiuto alle necessità temporali della Chiesa e del Clero, secondo gli statuti particolari e le lodevoli consuetudini.

D. 99. Perché tale precetto?

R . Perché è giusto che i fedeli diano ai sacri ministri, che lavorano per la loro salvezza, quanto è materialmente necessario al culto divino e ad un onesto loro sostentamento.

CAPO V.

Della Grazia.

D. 100. Che cos’è la grazia?

R . La grazia è un dono soprannaturale, da Dio concesso gratuitamente alla creatura ragionevole affinché essa possa conseguire la vita eterna.

D. 101. Di quante specie è la grazia?

R . La grazia è di due specie: abituale, che vien detta anche santificante, e attuale.

D. 102. Che cos’è la grazia abituale?

R . La grazia abituale è una qualità soprannaturale, inerente all’anima, che rende l’uomo partecipe della divina natura, tempio dello Spirito Santo, amico e figlio adottivo di Dio, erede della gloria celeste e perciò atto ad acquistare meriti per la vita eterna.

D. 103. È necessaria la grazia abituale per conseguire la vita eterna?

R. Sì: la grazia abituale è assolutamente necessaria a tutti gli uomini, anche ai bambini, perché conseguiscano la vita eterna.

D. 104. Come si perde la grazia abituale?

R . La grazia abituale si perde con qualunque peccato mortale.

D. 105. Che cos’è la grazia attuale?

R . La grazia attuale è un aiuto soprannaturale di Dio, che illumina l’intelligenza e muove la volontà a fare il bene e fuggire il male in ordine alla vita eterna.

D. 106. Ci è necessaria la grazia attuale?

R . Sì: la grazia attuale ci è assolutamente necessaria per fare il bene e fuggire il male in ordine alla vita eterna.

(I fanciulli recitino distintamente e con devozione il Pater Noster e l’Ave Maria).

D. 107. Che cos’è l’orazione?

R. L’orazione è una pia invocazione dell’anima a Dio per adorarlo, ringraziarlo de’ benefici ricevuti, chiedergli perdono per i peccati commessi e per domandargli tutto ciò che a noi o agli altri è necessario o utile.

D. 108. È necessario pregare?

R . Sì, è necessario pregare, perché tale è la volontà di Dio, e perché il Signore generalmente non suole concedere, se non a chi le chiede, tutte quelle cose di cui abbiamo continuamente bisogno.

D. 109. A chi è diretta la preghiera?

R. Ogni preghiera è diretta a Dio, che solo può darci ciò che chiediamo; ma preghiamo anche i Beati, specialmente la beata Vergine Maria, e le stesse anime purganti, affinché intercedano per noi presso il Signore.

D. 110. Come deve esser fatta la preghiera perché sia efficace?

R. La preghiera, perché sia efficace, deve esser fatta nel nome di Gesù Cristo, ai cui meriti si appoggia, con pietà, fede, speranza, umiltà e perseveranza.

D. 111. Qual è la più perfetta di tutte le preghiere?

R . La più perfetta di tutte le preghiere è l’orazione domenicale o Pater Noster, alla quale si suole aggiungere la salutazione angelica o Ave Maria.

SEZIONE 2a . — Dell’orazione domenicale e della salutazione angelica.

Art. 1. — DELL’ORAZIONE DOMENICALE.

Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome,

venga il tuo regno,

sia fatta la tua volontà, come in cielo cosi in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori,

e non ci indurre in tentazione,

ma liberaci dal male. Così sia.

D. 112. Perché il Pater Noster si chiama orazione domenicale?

R . Il Pater Noster si chiama orazione domenicale perché ci fu insegnato dallo stesso Gesù Cristo Signornostro.

D. 113. Nell’orazione domenicale chi invochiamo con le parole: Padre Nostro?

R . Nell’orazione domenicale con le parole: Padre Nostro invochiamo Dio, come padre tenerissimo, peresprimergli il nostro amore e la nostra fiducia e per conciliarcila sua benevolenza e misericordia.

D. 114. Che cosa chiediamo con la prima domanda:

Sia santificato il tuo nome?

R. Con la prima domanda: Sia santificato il tuo nome, chiediamo che il nome santo di Dio venga da tutti conosciutoe da tutti glorificato col cuore, con le parole econ le buone opere.

D. 115. Che cosa chiediamo con la seconda domanda: Venga il tuo regno?

R. Con la seconda domanda: Venga il tuo regno, chiediamo che Dio regni sulla terra, in noi e in tuttigli uomini con la sua grazia, nella società e nelle nazionicon la sua legge, affinché possiamo infine esser partecipidella sua gloria eterna in Paradiso.

D. 116. Che cosa chiediamo con la terza domanda:

Sia fatta la tua volontà?

R. Con la terza domanda: Sia fatta la tua volontà, chiediamo che, come i Beati in cielo e le anime sofferentinel Purgatorio, così tutti gli uomini in terra facciano

con amore, sempre ed in tutto la volontà di Dio.

D. 117. Che cosa chiediamo con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano?

R. Con la quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, chiediamo a Dio il pane spirituale, cioè tuttociò che è necessario alla vita dello spirito specialmente laSS. Eucaristia, e il pane corporale, cioè tutto quello cheoccorre alla sostentazione del corpo.

D. 118. Che cosa chiediamo con la quinta domanda: E rimetti a noi….?

R. Con la quinta domanda: E rimetti a noi…., chiediamo a Dio il perdono dei peccati e delle pene che ci siamo meritate, come noi da parte nostra perdoniamo ai nostri offensori le offese ricevute.

D. 119. Che cosa chiediamo con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione?

R. Con la sesta domanda: E non c’indurre in tentazione, noi, conoscendo la nostra debolezza, chiediamo a Dio che ci liberi dalle tentazioni, o almeno ci dia l’aiutodella sua grazia a vincerle.

D. 120. Che cosa chiediamo con la settima domanda: Ma liberaci dal male?

R. Con la settima domanda: Ma liberaci dal male, chiediamo a Dio che ci liberi dal male spirituale, cioè dal peccato e dal demonio che al peccato ci spinge, e da tuttigli altri mali, da quelli almeno che ci possono offrire occasionedi peccato.

Art. 2. — DELLA SALUTAZIONE ANGELICA.

Ave, o Maria, piena di grazia: il Signore è teco; Tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del ventre tuo, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Così sia.

D. 121. Nella salutazione angelica, di chi sono le parole: Ave, Maria, piena di grazia; il Signore è teco, tu seibenedetta fra le donne?

R . Tali parole sono dell’Arcangelo Gabriele annunziarne alla beata Vergine Maria il mistero dell’Incarnazione; e perciò questa preghiera si chiama salutazione angelica.

D. 122. Di chi sono e che cosa significano le parole:

Benedetto il frutto del ventre tuo?

R. Le parole: Benedetto il frutto del ventre tuo sono di S. Elisabetta, quando accolse nella sua casa la beata Vergine Maria; e significano che il nostro Signor Gesù Cristo, figlio della beata Vergine Maria, è sopra ogni cosa benedetto nei secoli.

D. 123. Di chi sono e che cosa chiediamo con le parole: Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatoriadesso e nell’ora della nostra morte?

R . Tali parole sono state aggiunte dalla Chiesa e con esse chiediamo il patrocinio della beata Vergine Maria in tutte le nostre necessità, ma specialmente nell’ora della morte.

D. 124. La beata Vergine Maria è vera madre di Dio?

R. Sì: la beata Vergine Maria è vera madre di Dio, perché concepì e diede alla luce, secondo l’umana natura, Gesù Cristo Signore nostro, che è vero Dio e vero uomo.

D. 125. La beata Vergine Maria, madre di Dio, è anche madre nostra?

R. Sì: la beata Vergine Maria, madre di Dio, è anche madre nostra per l’adozione che ci rende fratelli del Figlio suo: e Gesù Cristo stesso confermò questa maternità mentre moriva sulla croce.

D. 126. Quali beni si procura chi venera con tenera pietà la beata Vergine Maria?

R. Chi venera con tenera pietà la beata Vergine Maria ha la grande sorte d’esser riamato e protetto da Lei con particolare amore materno.

CAPO VII.

Dei Sacramenti.

(I fanciulli enumerino i Sacramenti della nuova Legge).

SEZIONE la. — Dei Sacramenti in generale.

Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine, Matrimonio.

D. 127. Che cosa s’intende per Sacramento della nuova legge?

R . Per Sacramento della nuova Legge si intende un segno sensibile istituito da Gesù Cristo per significare e conferire, a chi lo riceve degnamente, la grazia.

D. 128. Quale grazia ci danno i Sacramenti?

R . I Sacramenti ci danno o ci accrescono la grazia santificante, ci conferiscono ancora la grazia sacramentale, il diritto cioè ad aiuti speciali per conseguire il fine proprio di ciascun Sacramento.

D. 129. Quali sono i Sacramenti dei morti e quali i Sacramenti dei vivi?

R . Sono Sacramenti dei morti il Battesimo e la Penitenza; tutti gli altri si dicono Sacramenti dei vivi.

D. 130. Perché il Battesimo e la Penitenza si dicono Sacramenti dei morti, mentre tutti gli altri si chiamano Sacramenti dei vivi?

R . Il Battesimo e la Penitenza si dicono Sacramenti

dei morti, perché sono stati istituiti in modo speciale per tutti coloro che si trovano, a causa del peccato, privi della vita soprannaturale, ossia della grazia santificante; gli altri poi si dicono Sacramenti dei vivi perché non possono riceverli se non coloro che già hanno la vita soprannaturale.

D. 131. Chi riceve un Sacramento dei vivi col peccato mortale sulla coscienza, quale peccato commette?

R . Chi riceve un Sacramento dei vivi col peccato mortale sulla coscienza, non solo non ne riceve la grazia, ma commette ancora un grave peccato di sacrilegio.

D. 132. Quali sono i Sacramenti che possono riceversi una sola volta?

R . I Sacramenti che possono riceversi una sola volta sono il Battesimo, la Confermazione e l’Ordine, perché imprimono nell’anima un carattere indelebile.

SEZIONE 2a. — Dei singoli Sacramenti.

Art. 1. — DEL SACRAMENTO DEL BATTESIMO.

D. 133. Che cos’è il Sacramento del Battesimo?

R . Il Sacramento del Battesimo è il Sacramento istituito in forma di abluzione da Gesù Cristo: per mezzo del quale il battezzato diventa membro della vera Chiesa di Gesù Cristo, ottiene la remissione del peccato originale e di tutti i peccati attuali che abbia sull’anima, nonché della pena loro dovuta; e diventa capace di ricevere gli altri

Sacramenti.

D. 134. Quale dovere ha il battezzato?

R . Il battezzato ha il dovere di professare nella Chiesa Cattolica la fede cristiana e di osservare i precetti di Cristo e della Chiesa.

D . 135. Il Battesimo è necessario a tutti per salvarsi?

R . Il Battesimo è necessario a tutti per salvarsi, avendo Gesù Cristo detto: « Chi non rinasce con acqua e Spirito Santo, non può entrare nel Regno di Dio ».

D. 136. In caso di necessità chi può amministrare il Battesimo?

R . In caso di necessità chiunque può, senza solennità, amministrare il Battesimo, versando un po’ d’acqua naturale sul capo del battezzando e dicendo nello stesso tempo: « Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo ».

Art. 2. — DEL SACRAMENTO DELLA CRESIMA.

D. 137. Che cos’è il Sacramento della Cresima?

R . Il Sacramento della Cresima è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per conferire grazia speciale e i doni dello Spirito Santo per i quali il cresimato vien rinvigorito nel professare la Fede con le parole e con le opere,

come si conviene ad u n perfetto soldato di Cristo.

D. 138. Oltre il Battesimo e lo stato di grazia, che cosa si richiede in colui che riceve la Cresima?

R . Oltre il Battesimo e lo stato di grazia, in colui che riceve la Cresima si richiede, se ha l’uso della ragione, la conoscenza dei misteri principali della fede e delle altre verità che riguardano questo Sacramento.

D. 139. La Cresima è assolutamente necessaria a tutti per salvarsi?

R . La Cresima non è assolutamente necessaria a tutti per salvarsi; tuttavia non è lecito trascurarla perché è mezzo per ottenere più facilmente e pienamente la salvezza.

Art. 3. — DELLA SANTISSIMA EUCARISTIA.

D. 140. Che cos’è la Santissima Eucaristia?

R . La Santissima Eucaristia, quasi buona grazia o azione di grazie, è il divinissimo dono del Redentore e mistero di fede, nel quale sotto le specie del pane e del vino si contiene, si offre e si riceve Gesù Cristo stesso: sacrificio insieme e Sacramento della nuova Legge.

A) – Della presenza reale di Gesù Cristo nella Eucaristia.

D. 141. Quando Gesù Cristo istituì la SS. Eucaristia?

R . Gesù Cristo istituì la SS. Eucaristia nell’ultima cena avanti la passione, quando, preso il pane e rese grazie a Dio, lo diede ai suoi discepoli dicendo: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo »; e, preso il calice, lo diede ad essi, dicendo: « Bevete, questo è il mio sangue »; aggiungendo infine: « Fate questo in mia memoria ».

D. 142. Che cosa avvenne quando Gesù Cristo pronunziò le parole della consacrazione sul pane e sul vino?

R . Quando Gesù Cristo pronunziò le parole della consacrazione sul pane e sul vino avvenne la mirabile e singolare conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue di Gesù Cristo, rimanendo tuttavia le apparenze del pane e del vino.

D. 143. Che cosa intese Gesù con le parole: «Fate questo in mia memoria » ?

R. Gesù Cristo con le parole: «Fate questo in mia memoria », costituì i suoi Apostoli sacerdoti del nuovo Testamento e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio di consacrare parimenti, offrire e amministrare il corpo e il sangue suo, sotto le specie del pane e del vino.

D. 144. Quando i sacerdoti esercitano tale potestà ed eseguiscono questo comando?

R. I sacerdoti esercitano tale potestà ed eseguiscono questo comando quando, rappresentando la persona di Gesù Cristo, celebrano il sacrificio della Messa.

D. 145. Che cosa dunque avviene quando il sacerdote nella Messa proferisce sul pane e sul vino le parole della consacrazione?

R. Quando il sacerdote nella Messa proferisce sul pane e sul vino le parole della consacrazione, si fa presente veramente, realmente e sostanzialmente, sotto le specie del pane e del vino il corpo e il sangue del nostro Signor Gesù Cristo insieme con la sua anima e la sua divinità.

D. 146. Quale materia è atta e quali parole sono necessarie per la SS. Eucaristia?

R. La materia atta per la SS. Eucaristia è il pane di frumento e il vino d’uva; è necessario poi pronunziare le stesse parole che Cristo Signore pronunziò nell’ultima cena sopra il pane e il vino.

B) – Del sacrificio della Messa.

D. 147. È la Messa il vero e proprio sacrificio della nuova legge?

R . La Messa è il vero e proprio sacrificio della nuova legge, nel quale Gesù Cristo, per il ministero del sacerdote, con una mistica e incruenta immolazione, offre a Dio Padre, sotto le specie del pane e del vino, il suo corpo e sangue, in rappresentazione e memoria del sacrificio della Croce.

D. 148. Il Sacrificio della Messa è lo stesso sacrificio della Croce?

R . Il Sacrificio della Messa è lo stesso sacrificio della Croce che si rinnova, in quanto ché è la stessa vittima, lo stesso offerente, che si offre ora per mezzo del sacerdote e che allora offrì se stesso sulla Croce, sebbene in modo diverso.

D. 149. Come nel Sacrificio della Messa si applicano i frutti del sacrificio della Croce?

R . Nel Sacrificio della Messa si applicano a noi i frutti del sacrificio della Croce inquantochè Dio, placato da tanta immolazione, concede le grazie che Gesù Cristo ci meritò a prezzo del suo sangue.

D. 150. Qual è la maniera migliore di assistere alla Messa?

R . La maniera migliore di assistere alla Messa è che i fedeli presenti offrano a Dio, insieme al sacerdote, la vittima divina, meditino il sacrificio della Croce e s’uniscano a Gesù con la Comunione sacramentale, o, almeno, con la spirituale.

C) – Del Sacramento della Eucaristia.

D. 151. Che cos’è il Sacramento della Eucaristia?

R. Il Sacramento dell’Eucaristia è il Sacramento istituito da Gesù, nel quale, sotto le specie del pane e del vino, si contiene veramente, realmente e sostanzialmente Cristo stesso, autore della grazia, cibo spirituale delle anime nostre.

D. 152. Che cosa si richiede per ricevere degnamente l’Eucaristia?

R. Per ricevere degnamente l’Eucaristia, oltre il Battesimo, necessario per tutti gli altri Sacramenti, e lo stato di grazia necessario pei Sacramenti dei vivi, si richiede, sotto pena di peccato grave, anche il digiuno naturale.

D. 153. A che cosa obbliga il digiuno naturale?

R . Il digiuno naturale obbliga ad astenersi dal prendere, dalla mezzanotte fino al momento della Comunione, qualsiasi anche piccola quantità di cibo, bevanda o anche medicina.

D. 154. Chi si comunica non digiuno che peccato commette?

R. Chi si comunica non digiuno commette un peccato grave di sacrilegio.

D. 155. Quando è permessa la S. Comunione senza osservanza del digiuno naturale?

R . Senza osservanza del digiuno naturale la S. Comunione è permessa quando urge il pericolo di morte o la necessità d’impedire un’irriverenza al Sacramento.

D. 156. A quali infermi si permette la Santa Comunione senza osservare il digiuno naturale?

R. Agli infermi che giacciono da un mese senza certa speranza d’una sollecita guarigione, dietro prudente consiglio del confessore, è permessa la Santa Comunione una o due volte la settimana, anche dopo che abbian preso qualche medicina o altra bevanda.

D. 157. Che cosa si richiede per una Comunione devota?

R. Per una Comunione devota si richiede una diligente preparazione e un degno ringraziamento secondo le forze, la condizione e i doveri di ciascuno.

D. 158. In che consiste la preparazione alla S. Comunione?

R . La preparazione alla S. Comunione consiste nel meditare per qualche tempo, con attenzione e devozione, Chi si va a ricevere, e nell’esercitarsi con diligenza in atti di fede, speranza, carità e contrizione.

D. 159. In che consiste il ringraziamento dopo la S. Comunione?

R. Il ringraziamento dopo la S. Comunione consiste nel meditare per qualche tempo, con attenzione e devozione, Chi abbiamo ricevuto, e nel fare atti di fede, speranza, carità, fermo proposito, gratitudine e domanda.

D. 160. Quali effetti produce l’Eucaristia in quelli che la ricevono degnamente e devotamente?

R. L’Eucaristia in quelli che la ricevono degnamente e devotamente, produce i seguenti effetti:

1° aumenta la grazia santificante e il fervore della carità;

2° rimette i peccati veniali;

3° giova assai ad assicurare la finale perseveranza, sia diminuendo la concupiscenza, sia preservando dal peccato mortale, sia infine avvalorando nel fare il bene.

Art. 4. — D E L SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

D. 161. Che cos’è il Sacramento della Penitenza?

R . La Penitenza è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per riconciliare con Dio i fedeli ogni qual volta, dopo il Battesimo, siano caduti in peccato.

D. 162. Quando Gesù Cristo istituì questo Sacramento?

R. Gesù Cristo istituì questo Sacramento principalmente quando soffiò sui discepoli adunati insieme dopo la sua resurrezione, dicendo: « Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti » .

D. 163. Chi è il legittimo ministro della Penitenza?

R . Il legittimo ministro della Penitenza è il sacerdote debitamente approvato a ricevere le confessioni.

D. 164. Quali peccati sono materia della Penitenza?

R . Sono materia della Penitenza i peccati mortali, commessi dopo il Battesimo e mai direttamente perdonati in virtù della potestà della Chiesa, ma è utile all’anima il confessare anche i peccati veniali e i mortali già direttamente rimessi.

D. 165. Quali sono le parti di questo Sacramento?

R. Le parti di questo Sacramento sono gli atti del penitente, come materia di esso, e l’assoluzione del legittimo Sacerdote, che n’è la forma.

A) – Degli atti del penitente.

D. 166. Quali atti si richiedono dal penitente perché egli degnamente riceva il Sacramento della Penitenza?

R. Dal penitente, perché degnamente riceva il Sacramento della Penitenza, si richiede:

1° l’esame di coscienza;

2° la contrizione dei peccati commessi;

3° il proposito di non più peccare;

4° la confessione dei peccati;

5° la soddisfazione.

a) — Esame di coscienza.

D. 167. Che cos’è l’esame di coscienza?

R . L’esame di coscienza è una diligente ricerca dei peccati commessi dopo l’ultima confessione ben fatta.

D. 168. Come si deve fare l’esame di coscienza?

R. Nell’esame di coscienza il penitente, dopo d’aver implorato l’aiuto di Dio, richiami diligentemente alla memoria i peccati mortali commessi con i pensieri, colle parole, le opere e le omissioni contro i precetti di Dio e della Chiesa e contro i doveri del proprio stato.

D. 169. In tale esame di coscienza che cosa propria si deve ricercare?

R. In tale esame di coscienza si deve ricercare la specie e il numero dei peccati e le circostanze che ne mutano le specie.

b) — Contrizione dei peccati commessi e proposito di non più peccare.

D. 170. Che cos’è la contrizione dei peccati?

R. La contrizione dei peccati è il dolore dell’animo e la detestazione dei peccati commessi col proposito di non più peccare.

D. 171. Che cos’è il proposito di non peccare?

R. Il proposito di non più peccare è la ferma volontà di non peccare e di fuggire, per quanto si può, le occasioni prossime del peccato.

D. 172. Come deve essere la contrizione dei peccati?

R. La contrizione dei peccati deve essere: interna, che nasce dal cuore; soprannaturale, cioè ispirata da ragioni soprannaturali; somma, che ci fa detestare il peccato come il più grande di tutti i mali; universale, che si estende a tutti i peccati mortali commessi dopo il Battesimo e non ancora rimessi dalla potestà della Chiesa.

D. 173. E se il penitente non ha da accusare se non peccati veniali o mortali già direttamente rimessi?

R. Se il penitente non ha da accusare se non peccati veniali o mortali già direttamente rimessi, è necessario e sufficiente che abbia il dolore di alcuni o almeno di uno di essi.

D. 174. Di quante specie può essere la contrizione?

R. La contrizione può essere di due specie: perfetta, che suol dirsi semplicemente contrizione; imperfetta cheprende il nome speciale di attrizione.

D. 175. Che cos’è la contrizione perfetta?

R. La contrizione perfetta è il dolore e la detestazione dei peccati motivata dalla carità, ossia perché l’offeso è Dio, sommo bene e degno di essere amato sopra ogni cosa.

D. 176. Quale effetto produce la contrizione perfetta?

R. La contrizione perfetta cancella subito i peccati, riconcilia l’uomo con Dio anche fuori del Sacramento della Penitenza, ma richiede il desiderio del Sacramento, che è compreso nella stessa contrizione.

D. 177. Che cos’è la contrizione imperfetta?

R. La contrizione imperfetta è il dolore e la detestazione soprannaturale dei peccati, che generalmente nasce dalla considerazione della bruttezza del peccato o dal timore dell’inferno e delle sue pene.

D. 178. Per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza quale contrizione è sufficiente?

R. Per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza è sufficiente la contrizione imperfetta, quantunque sia da desiderarsi la perfetta.

D. 179. Quale peccato commette chi scientemente si accosta, senza alcuna contrizione, al Sacramento della Penitenza?

R. Chi scientemente si accosta, senza alcuna contrizione, al Sacramento della Penitenza, non solo non riceve il perdono dei peccati dei quali si è confessato, ma commette ancora un peccato grave di sacrilegio.

c) — Confessione dei peccati.

D. 180. Che cos’è la confessione dei peccati?

R. La confessione dei peccati è la loro accusa, fatta al sacerdote legittimamente approvato, per averne l’assoluzione sacramentale.

D. 181. Come deve essere la confessione per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza?

R. Per ricevere validamente il Sacramento della Penitenza, la confessione deve essere vocale, o tale almeno da supplire la vocale, e integra.

D. 182. Quando è integra la confessione?

R. La confessione è integra quando il penitente si accusa di tutti i peccati mortali, non ancora direttamente rimessi, dei quali è consapevole dopo un diligente esame,

con il loro numero, specie e quelle circostanze che ne mutano la specie.

D. 183. Che cosa deve fare chi non ricorda il numero dei peccati mortali?

R. Chi non ricorda il numero dei peccati mortali deve indicarlo in modo approssimativo, aggiungendo la parola « circa ».

D. 184. E se nella confessione si è omesso senza alcuna colpa un peccato mortale?

R. Se nella confessione si è omesso senza alcuna colpa un peccato mortale, il Sacramento vale e il peccato viene indirettamente rimesso, ma il penitente, quando se ne ricorda, deve accusarlo nella prossima confessione.

D. 185. Quale peccato commette chi colpevolmente tace in confessione un peccato mortale?

R. Chi colpevolmente tace in confessione un peccato mortale, non solo non ritrae dalla confessione nessuna utilità, ma commette ancora un grave peccato di sacrilegio.

D. 186. Come deve essere la confessione per ricevere lecitamente il Sacramento della Penitenza?

R. Per ricevere lecitamente il Sacramento della Penitenza, la confessione deve inoltre essere devota e umile, esclusa ogni parola inutile, così che il penitente si accusi umilmente dei suoi peccati; non li scusi, né li sminuisca, né li accresca; e docilmente accolga gli avvertimenti del confessore.

d) — Sodisfazione.

D. 187. Che cos’è la sodisfazione?

R. La soddisfazione è la pena imposta dal confessore al penitente per i peccati manifestati in confessione: la qual pena, per i meriti di Gesù Cristo, applicati nel giudizio sacramentale, ha il valore speciale di liberare dalla pena temporale dovuta ai peccati.

D. 188. Perché il confessore impone la soddisfazione?

R. Il confessore impone la soddisfazione non solo per la perseveranza nella vita nuova e in rimedio all’umana debolezza, ma anche in riparazione e castigo dei peccati

commessi.

D. 189. Quando il penitente deve eseguire la soddisfazione imposta del confessore?

R. Se il confessore non assegna il tempo della soddisfazione, curi il penitente di eseguirla quanto prima.

B) – Dell’assoluzione sacramentale.

D. 190. Che cos’è l’assoluzione sacramentale?

R. L’assoluzione sacramentale è l’atto con il quale il confessore, in nome di Gesù Cristo, pronunziando la dovuta formula, rimette i peccati al penitente debitamente confessato e pentito.

D. 191. E tenuto il confessore al segreto sacramentale?

R. Il confessore è tenuto all’inviolabile segreto sacramentale, e non solo non può rivelare i peccati uditi in confessione, ma deve guardarsi ancora con ogni diligenza dal rivelare in qualunque maniera, per qualsiasi ragione, con parole o cenni od altro, il peccatore.

D. 192. Con l’assoluzione sacramentale, e compiuta la penitenza imposta dal confessore, vien rimessa sempre tutta la pena temporale dovuta ai peccati?

R. Con l’assoluzione sacramentale, e compiuta la penitenza imposta dal confessore, non sempre si rimette tutta la pena temporale dovuta ai peccati, ma essa nondimeno si può estinguere con altre penitenze volontarie e specialmente con le indulgenze.

D. 193. Che cosa s’intende per indulgenza?

R. Per indulgenza s’intende la remissione dinanzi a Dio della pena temporale dovuta ai peccati già cancellati in quanto alla colpa: remissione che la Chiesa concede fuori del Sacramento della Penitenza.

Art. 5. — DEL SACRAMENTO DELLA ESTREMA UNZIONE.

D. 194. Che cos’è il Sacramento dell’Estrema Unzione?

R. Il Sacramento dell’Estrema Unzione è il Sacramento, istituito da Gesù Cristo, con il quale si danno agli adulti gravemente infermi gli aiuti spirituali, massimamente giovevoli in pericolo di morte e talvolta anche di sollievo delle infermità corporali.

D. 195. Questo Sacramento è necessario alla salvezza?

R. Questo Sacramento non è assolutamente necessario alla salvezza, ma non è lecito trascurarlo, anzi è da curarsi con ogni zelo e diligenza che l’infermo, appena versi in pericolo di vita, mentre ancora ha coscienza di sé, lo riceva quanto prima.

Art. 6. — DEL SACRAMENTO DELL’ORDINE,

D. 196. Che cos’è il Sacramento dell’Ordine o della Sacra Ordinazione?

R. Il Sacramento dell’Ordine o della Sacra Ordinazione è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per costituire nella Chiesa i Vescovi, i sacerdoti e i ministri con la rispettiva potestà e grazia, affinché possano, ciascuno nel proprio grado, compiere bene i sacri uffici.

D. 197. Qual è la dignità del Sacerdozio?

R. Altissima è la dignità del Sacerdozio, perché il sacerdote è ministro di Cristo e dispensatore dei misteri divini, mediatore tra Dio e gli uomini, avente potestà sul corpo reale e mistico di Cristo.

Art. 7. — DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO.

D. 198. Che cos’è il Sacramento del Matrimonio?

R. Il Sacramento del Matrimonio è lo stesso contratto matrimoniale validamente stretto tra cristiani, che, elevato da Gesù Cristo alla dignità di Sacramento, dà ai coniugi la grazia di bene compiere i doveri che essi hanno tra di sé e verso i figli.

D. 199. Si può avere tra cristiani un valido matrimonio che non sia anche Sacramento?

R. Tra Cristiani non si può avere un valido matrimonio che non sia per ciò stesso Sacramento, perché Gesù Cristo si degnò innalzare alla dignità di Sacramento proprio

lo stesso Matrimonio.

D. 200. Quali sono le proprietà essenziali del Matrimonio?

R. Le proprietà essenziali del matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità, che nel matrimonio cristiano acquistano una fermezza speciale per virtù del Sacramento.

D. 201. Da quale diritto è regolato il Matrimonio dei Cristiani?

R. Il Matrimonio dei Cristiani è regolato dal diritto divino ed ecclesiastico, salva la competenza della potestà civile circa gli effetti puramente civili.

D. 202. Come si contrae il Matrimonio?

R. Il Matrimonio si contrae esprimendo il mutuo consenso davanti al parroco, o a un sacerdote suo delegato ed almeno a due testimoni.

D. 203. Il Matrimonio celebrato in questa forma consegue in Italia anche gli effetti civili?

R. Il Matrimonio celebrato in questa forma consegue in Italia anche gli effetti civili, perché lo Stato italiano riconosce tali effetti al Sacramento del Matrimonio.

D. 204. Il Matrimonio così celebrato come consegue in Italia anche gli effetti civili?

R. Il Matrimonio così celebrato consegue in Italia anche gli effetti civili, mediante la sua regolare trascrizione nei registri dello stato civile, fatta a richiesta del parroco.

D. 205. Gli sposi cattolici possono compiere anche il Matrimonio civile?

R. Gli sposi cattolici non possono compiere il Matrimonio civile né prima né dopo il Matrimonio religioso: che se lo osassero, anche con l’intenzione di celebrare in appresso il Matrimonio religioso, sono dalla Chiesa considerati come pubblici peccatori.

D. 206. Gli sposi nel contrarre il matrimonio debbono essere in grazia di Dio?

R. Gli sposi nel contrarre il Matrimonio, che è uno dei Sacramenti dei vivi, debbono essere in grazia di Dio, altrimenti commettono un sacrilegio.

CAPO VIII. 

Delle virtù.

D. 207. Che cos’è la virtù?

R. La virtù è l’abito o la costante disposizione che inclina l’uomo a fare il bene e ad evitare il male.

D. 208. Di quante specie è la virtù?

R. Rispetto all’oggetto la virtù è duplice: teologale e morale.

Art. 1. — DELLE VIRTÙ TEOLOGALI.

D. 209. Che cos’è la virtù teologale?

R. La virtù teologale è la virtù che ha per oggetto immediato Dio, come fine soprannaturale, e dirige l’uomo a tal fine.

D. 210. Quante sono le virtù teologali?

R. Le virtù teologali sono tre: fede, speranza e carità.

D. 211. Le virtù teologali sono necessarie per salvarsi?

R. Le virtù teologali sono assolutamente necessarie per salvarsi, perché senza di esse né l’intelletto né la volontà possono debitamente dirigersi al fine soprannaturale.

D. 212. Qual’è la più eccellente tra le virtù teologali?

R. Tra le virtù teologali la più eccellente è la carità che è la perfezione della legge e perdura anche in Paradiso.

D. 213. Che cos’è la fede?

R. La fede è la virtù soprannaturale per cui, con l’ispirazione e l’aiuto della grazia, noi crediamo vero tutto ciò che Dio ha rivelato e ci insegna per mezzo della Chiesa, e lo crediamo per l’autorità dello stesso Dio rivelante, il quale non può né ingannarsi né ingannare.

D. 214. Dobbiamo noi credere tutte le verità rivelate?

R. Noi dobbiamo credere (almeno i n modo implicito) tutte le verità rivelate; per esempio dicendo: Credo tutto ciò che crede la S. Madre Chiesa; dobbiamo poi esplicitamente credere l’esistenza di Dio rimuneratore, e i misteri della SS. Trinità, dell’Incarnazione e Redenzione.

D. 215. Come si manifesta la fede?

R. La fede si manifesta professandola apertamente con le parole e con le opere fino a subire, se ve ne fosse bisogno, la stessa morte.

D. 216. Che cos’è la speranza?

R. La speranza è la virtù soprannaturale, per la quale, fondandoci sui meriti di Gesù Cristo, sulla bontà, onnipotenza e fedeltà di Dio, aspettiamo la vita eterna e le grazie necessarie per conseguirla, come Dio promise a coloro che compiono le opere buone.

D. 217. Come si manifesta la speranza?

R. La speranza si manifesta non solo con le parole ma anche con le opere, mentre, con intima fiducia nelle divine promesse, sopportiamo con pazienza le persecuzioni e i dolori della vita.

D. 218. Che cos’è la carità?

R. La carità è la virtù soprannaturale per la quale amiamo Dio per se stesso sopra tutte le cose e noi stessi e il prossimo nostro per amor di Dio.

D. 219. Come manifestiamo il nostro amore per Iddio?

R. Noi manifestiamo il nostro amore per Iddio osservando fedelmente i suoi precetti ed esercitandoci in altre opere, che, sebbene non comandate, gli sono però accette.

D. 220. Come dobbiamo amare noi stessi?

R. Dobbiamo amare noi stessi cercando in ogni cosa la gloria di Dio e la nostra eterna salvezza.

D. 221. Come dobbiamo amare il prossimo?

R. Dobbiamo amare il prossimo con atti interni ed esterni, sia perdonando le offese, sia astenendoci dal recargli danno, ingiuria o scandalo, sia ancora aiutandolo, secondo le nostre forze, nelle sue necessità, specialmente per mezzo delle opere di misericordia spirituale e corporale.

D. 222. Quali sono le opere di misericordia spirituale?

R. Le opere di misericordia spirituale sono:

1° consigliare i dubbiosi;

2° insegnare agli ignoranti;

3° ammonire i peccatori;

4° consolare gli afflitti;

5° perdonare le offese;

6° sopportare pazientemente le persone moleste;

7° pregare Dio per i vivi e per i morti.

D. 223. Quali sono le opere di misericordia corporale?

R. Le opere di misericordia corporale sono:

1° dar da mangiare agli affamati;

2° dar da bere agli assetati;

3° vestire gl’ignudi;

4° alloggiare i pellegrini;

5° visitare gl’infermi;

6° visitare i carcerati;

7° seppellire i morti.

D. 224. Nell’amore del prossimo è compreso anche l’amore dei nemici?

R. Nell’amore del prossimo è compreso anche l’amore dei nemici, perché anch’essi sono prossimo nostro, e lo stesso Gesù ci diede, di tale amore, e il comando e l’esempio.

Art. 2. — DELLE VIRTÙ MORALI.

D. 225. Che cos’è la virtù morale?

R. La virtù morale è la virtù che ha per oggetto immediato gli atti onesti conformi alla retta ragione.

D. 226. Quante e quali sono le principali virtù morali?

R. Le principali virtù morali sono quattro: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, che si chiamano anchevirtù cardinali.

D. 227. Perché queste virtù si chiamano cardinali?

R. Queste virtù si chiamano cardinali, perché sono come il cardine, cioè la base di tutto l’edificio morale, e ad esse si riducono anche le altre virtù morali.

CAPO IX.

Dei peccati attuali o personali.

D. 228. Di quante specie è il peccato?

R. Il peccato è di due specie: originale e attuale o personale.

D. 229. Che cos’è il peccato attuale?

R. Il peccato attuale è una trasgressione della legge di Dio, scientemente e deliberatamente commessa.

D. 230. In quanti modi si può commettere il peccato attuale?

R. Il peccato attuale si può commettere con il pensiero, con le parole, le opere e le omissioni; e ciò, contro Dio, contro noi stessi e contro il prossimo, secondoché la legge che violiamo riguarda direttamente Dio o noi stessi o il prossimo.

D. 231. Come si divide il peccato attuale?

R. Il peccato attuale si divide in mortale e veniale.

D. 232. Che cos’è il peccato mortale?

R. Il peccato mortale è una trasgressione della legge di Dio commessa scientemente e deliberatamente con consapevolezza della grave obbligazione.

D. 233. Perché questo peccato dicesi mortale?

R. Questo peccato dicesi mortale perché, allontanando l’anima dal suo ultimo fine, la priva della vita soprannaturale che è la grazia santificante; la fa rea di morte eterna nell’inferno; ne rende inefficaci i meriti acquistati così da non farli più giovare alla salvezza, finché non rivivano con la grazia riacquistata; e impedisce infine ogni altra opera meritoria per la vita eterna.

D.234. Che cos’è il peccato veniale?

R. Il peccato veniale è una trasgressione della legge di Dio commessa scientemente e deliberatamente con consapevolezza di lieve obbligazione.

D. 235. Perché questo peccato dicesi veniale?

R. Questo peccato dicesi veniale perché, non allontanando l’anima dal suo fine ultimo, né dandole la morte soprannaturale, più facilmente può ottenere il perdono anche senza la confessione sacramentale, ed è come una infermità dell’anima che, per la natura sua, può essere più facilmente guarita.

D. 236. Quali sono gli effetti più notevoli del peccato veniale?

R. Gli effetti più notevoli del peccato veniale sono che raffredda il fervore della carità, dispone l’anima al peccato mortale e rende l’uomo meritevole di pena temporale da scontarsi in questa o nell’altra vita.

D. 237. Oltre il peccato, dobbiamo fuggirne anche le occasioni?

R. Oltre il peccato, dobbiamo, per quanto possiamo fuggirne anche le occasioni prossime, quelle cioè cheespongono l’uomo a grave pericolo di peccare.

CAPO X.

Dei Novissimi.

D. 238. Che cosa s’intende per Novissimi?

R. Per Novissimi s’intende quanto attende l’uomo nell’ultima sua ora, cioè: la morte, il giudizio, l’Inferno e il Paradiso; dopo il giudizio, però, e prima del Paradiso, può esservi il Purgatorio.

D. 239. Che cosa dobbiamo soprattutto considerare intorno alla morte?

R. Della morte dobbiamo soprattutto considerare che essa è pena del peccato, che è il momento da cui dipende l’eternità, cosicché dopo morte non vi è più tempo né di penitenza, né di merito; che di essa infine è incerta l’ora e sono incerte le circostanze.

D. 240. Che cosa accade all’anima subito dopo morte?

R. Subito dopo morte l’anima si presenta al tribunale di Cristo per subirne il giudizio particolare.

D. 241. Di che cosa sarà giudicala l’anima nel giudizio particolare?

R. L’anima nel giudizio particolare sarà giudicata di tutto: dei pensieri, delle parole, opere ed omissioni e tale giudizio, quasi come in una esteriore manifestazione, avrà la sua conferma nel giudizio universale.

D. 242. Che sarà dell’anima dopo il giudizio particolare?

R. Dopo il giudizio particolare l’anima, se è priva della grazia per il peccato mortale, precipita subito fra le pene dell’Inferno; se è in grazia e libera da qualunque peccato veniale e da qualsiasi debito di pena temporale, sale immantinente in Paradiso; finalmente, se è in grazia, ma con qualche peccato veniale o con qualche debito ancora di pena temporale, resta in Purgatorio finché non avrà soddisfatto completamente alla divina giustizia.

D. 243. Che sarà dei dannati nell’Inferno?

R. Nell’Inferno i demoni e con essi gli uomini dannati, senza il corpo prima del giudizio universale, anche col corpo dopo, sono privati in eterno dalla visione beatifica di Dio e tormentati con un vero fuoco e con altre gravissime pene.

D. 244. Che sarà dell’anima nel Purgatorio?

R. L’anima in Purgatorio sconta, con la privazione della visione beatifica e con altri gravi tormenti, le pene temporali dovute ai peccati e non ancora perfettamente scontate in questa vita, finché non avrà sodisfatto completamente alla divina giustizia così da essere ammessa in Paradiso.

D. 245. Che sarà dei giusti in Paradiso?

R. In Paradiso le anime dei giusti, senza corpo prima del giudizio universale, anche col corpo dopo, godranno in eterno la visione beatifica di Dio e con essa ogni bene, senza mescolanza o timore d’alcun male, in dolce unione con Nostro Signor Gesù Cristo, la Beata Vergine Maria e tutti i Celesti.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (3)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [3]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO VII.

Di altri beni ed utilità grandi che sono in questa conformità alla volontà di Dio.

Un altro gran bene e grande utilità reca seco questo esercizio; ed è, che questa conformità e intera rassegnazione nella volontà di Dio è delle migliori e più principali disposizioni che dal canto nostro possiamo mettere, acciocché il Signore ci faccia delle grazie e ci riempia di beni. E così quando Dio Signor nostro volle far S. Paolo di persecutore Predicatore e Apostolo suo, lo prevenne con questa disposizione. Gli mandò un gran lume dal cielo che lo buttò giù da cavallo, e gli aprì gli occhi dell’anima, e gli fece dire: Domine, quid me vis facere (Act. IX)?Signore, che cosa vuoi tu che io faccia? Eccomi qui, Signore,come un poco di creta nelle tue mani, acciocché faccia di me quello che ti piacerà.E così Dio ne fece un vaso eletto, acciocché portasse e spargesse il suo nome per tutto il mondo: Vas electionis est mihi iste, ut portet nomen meum coram gentibus, et regibus, et filiis Israel (Ibid. IX, 15). Si legge della santa vergine Geltrude (3), che Dio le disse: Chiunque desidera che io venga liberamente ad abitare in lui, m’ha da rassegnar la chiave della propria volontà, senza tornar più a domandarmela. Perciò il nostro S. Padre ci mette questa rassegnazione e indifferenza per la principale disposizione a ricever grazie grandi da Dio: e con questa vuole che s’entri negli Esercizi, e questo è il fondamento che ci propone nel principio di essi; che siamo indifferenti e staccati da tutte le cose del mondo, non desiderando più questa che quell’altra, ma desiderando, che in ogni cosa si faccia e s’adempisca in noi la volontà di Dio. E nelle Regole, o Annotazioni che mette per indirizzo ed aiuto si di quello che dà, come di quello che fa gli Esercizi, nella quinta di esse si dice: Sarà di grandissimo aiuto a quello che fa gli Esercizi, l’offerirsi liberamente, e il mettersi totalmente nelle mani di Dio, acciocché faccia di lui e delle cose sue quello che più gli piacerà (D. Ign. Lib. Exerc.).E la ragione, d’esser questa una così buona disposizione e mezzo per ricevere delle grazie dal Signore, è, perché da una banda si levano via con questa gl’impedimenti dei nostri mali affetti e desideri che vi potrebbero essere; e dall’altra, quanto più uno si fida di Dio, mettendosi affatto nelle sue mani e non volendo se non quello che Egli vuole, tanto più obbliga l’istesso Dio ad aver cura di lui e a provvederlo di tutto quello che gli conviene. È anche per un altro verso questa conformità alla volontà di Dio mezzo molto efficace per acquistare tutte le virtù, perché queste s’acquistano coll’esercizio degli atti loro. Questo è il modo naturale per acquistar gli abiti; e in questo modo vuol anche Dio darci la virtù ; perché Egli vuole operar le opere di grazia a proporzione come opera quelle della natura. Ora esercitati tu in questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio; e in questo modo ti eserciterai in tutte le virtù, e così verrai ad acquistarle tutte: perché alcune volte ti si porgeranno occasioni d’umiltà, alcune altre d’ubbidienza, altre di povertà, altre di pazienza, e così delle altre virtù. E quanto più ti eserciterai in questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio, e più andrai crescendo e perfezionandoti in essa; tanto più andrai crescendo e perfezionandoti in tutte le virtù. Conjungere Deo, et sustine, ut crescat in novissimo vita tua, dice il Savio (Eccli. III, 2). Congiungiti a Dio, e conformati in ogni cosa alla volontà sua. Conglutinare Deo, dice un’altra versione (Supra tract. 5, c. 14 et 15.): Accostati e unisciti con esso, e in quella maniera crescerai e farai molto profitto. Per questo i Maestri della vita spirituale consigliano (ed è meraviglioso consiglio) che mettiamo gli occhi in una virtù superiore, la quale rinchiuda in sé le altre, e che questa procuriamo principalmente nell’orazione; e a questa drizziamo l’esame e tutti i nostri esercizi, perché, mettendo gli occhi in una cosa, è più facile l’andar dietro ad essa, e acquistando quella si acquista ogni cosa. Ora una delle cose principali, nelle quali possiamo mettere gli occhi per questo effetto, è questa rassegnazione e intera conformità alla volontà di Dio: e così in questa saranno molto bene impiegati l’orazione e l’esame, ancorché vi spendiamo molti anni e tutta la vita ancora; perché, se acquistiamo questa, acquisteremo tutte le virtù. – S. Bernardo sopra quelle parole dell’apostolo S. Paolo, Domine, quid me vis facere (Act. IX, 6.)? Signore, che cosa vuoi che io faccia? dice: O verbum breve, sed plenum, sed vivum, sed efficace, sed dignum omni acceptione (D. Bernard, serm. 1 de conv. S. Pauli). Oh parola breve, ma piena, che ogni cosa abbraccia e nessuna cosa lascia: Signore, che cosa volete che io faccia? parola breve, ma compendiosa, ma vivace, ma efficace, e degna di essere grandemente stimata. Se dunque vuoi un documento breve e compendioso per acquistare la perfezione, eccoti questo: Di’ sempre coll’apostolo S. Paolo: Signore, che cosa volete che io faccia? e col profeta David: Signore, il mio cuore è disposto e preparato; è preparato e disposto per tutto quello che voi volete da me (Psal. LVI, 8 et CVII, 1). Porta sempre questo in bocca e nel cuore; e all’istesso passo che andrai crescendo in questo, andrai crescendo in perfezione. Un altro bene e un’altra utilità abbiamo anche in questo esercizio, ed è, che ne possiamo cavar un rimedio molto buono per certa sorta di tentazioni che sogliono venire. Il demonio procura alle volte d’inquietarci con alcune tentazioni di pensieri condizionali e di certe immaginarie domande: Se uno ti dicesse la tal cosa, che risponderesti? Se accadesse la tal altra cosa, che faresti? in tal caso come ti porteresti? e siccome egli è sottilissimo, ci rappresenta le cose in modo, che per qualsivoglia banda pare che ci troviamo perplessi, e non sappiaci come uscirne; perchè sta ivi il laccio teso, non curandosi il demonio, che sia vera, o apparente, o finta, quella cosa colla quale c’inganna. Pur che egli faccia il fatto suo, di tirar l’uomo a qualche cattivo consentimento, non gl’importa più questa che quell’altra cosa. In queste tentazioni dicono comunemente che la persona non è obbligata a rispondere né col sì né col no: anzi che farà meglio a non risponder cosa alcuna, e questo specialmente conviene più a persone scrupolose; perché se cominciano a tener ragionamenti col demonio, e ad entrar in proposte e risposte con lui, questo è quello che egli cerca, perché non mancano mai a lui repliche, né mai usciranno elleno cosi franche dalla scaramuccia, che non n’escano col capo rotto. Ma una risposta trovo io molto buona e giovevole in queste tentazioni, e l’usar questa tengo che sia meglio che il non risponder niente: ed è appunto quello che andiamo dicendo; cioè, che a qualsivoglia di queste cose può uno rispondere ad occhi chiusi: Se questa è la volontà di Dio, io la voglio. Se Dio vuol questo, lo voglio anch’io. Io vorrei in questo quello che volesse Dio. In ogni cosa mi rimetto alla volontà di Dio. Io farei in questo quello che fossi obbligato e il Signore mi concederebbe grazia che in ciò non l’offendessi, ma facessi quel che fosse volontà sua. Questa è una risposta generale che soddisfa pienamente in qualunque caso; e il darla così in generale non porta seco veruna difficoltà, ma più tosto una somma facilità, poiché siamo certi, che se la cosa propostaci in qualunque supposizione è volontà di Dio, è anche buona: se è volontà di Dio, è anche il meglio: se è volontà di Dio, è quello che a me più conviene. Possiamo dunque con tutta sicurezza abbandonarci alla volontà di Dio e dir tutte queste cose; e con ciò il demonio resterà molto burlato e confuso, e noi altri molto contenti e inanimati colla vittoria. Siccome nelle tentazioni di Fede si dà per consiglio, specialmente agli scrupolosi, che non rispondano ad esse in particolare, ma che dicano in generale: Io tengo e credo tutto quello che tiene e crede la santa Madre Chiesa; così in queste tentazioni è molto buon rimedio il non rispondere in particolare cosa alcuna, ma rimetterci in tutto e per tutto alla volontà di Dio, la quale è sommamente buona e perfetta.

CAPO VIII.

Si conferma con alcuni esempi quanto piace a Dio quest’esercizio della conformità alla volontà sua, e la perfezione grande che è in esso.

Racconta Cesario (Cæs. lib. L. 10 dial. a. 6),che in un monastero si trovava un Monaco al quale aveva Dio conceduta tanta grazia di far miracoli, che gl’infermi guarivano solamente con toccar le sue vesti e la sua cintura. Considerando da un canto il suo Abbate attentamente questa cosa, e dall’altro non vedendo in quel Monaco cosa speciale la quale desse indizio di gran santità, lo chiamò da banda e gli domandò onde mai fosse che Iddio per suo mezzo operava tanti miracoli? Ed egli rispose, che non lo sapeva: perché, diceva, io non digiuno più di quello che digiunano gli altri; non mi disciplino più; non fo più penitenze; né fo più lunga orazione; né fatico né veglio più di essi. Quel, che io posso dire di me, si è, che né le cose prospere m’innalzano, né le avverse m’abbattono: nessuna cosa che avvenga mi turba né m’inquieta: l’anima mia se ne sta con un’istessa pace e quiete in tutti gli avvenimenti, per molto diversi che siano, sì propri, come d’altri. Allora l’Abbate gli disse: Non ti turbasti, o inquietasti alquanto l’altro giorno, quando quel gentiluomo nostro contrario attaccò fuoco alla nostra casa di villa e l’abbruciò? No, disse, io non sentii turbazione alcuna nell’anima mia; perché ho rimessa ogni cosa nelle mani di Dio: e così la cosa prospera, come l’avversa, così il poco, come il molto, lo piglio sempre con egual rendimento di grazie, come venuti dalla sua mano. E conobbe allora l’Abbate, che questa era la cagione di quella virtù che aveva di far miracoli. Blosio narra (Blos, in appendice ad institutionem spirit. c. 1 in fine.), che essendo interrogato da un Teologo un certo povero mendico di vita perfetta, come aveva fatto ad acquistare la perfezione; rispose in questa maniera: Io feci deliberazione di mettermi in tutto e per tutto alla sola divina volontà, alla quale conformai talmente la mia, che quanto Dio vuole tanto voglio io. Quando la fame mi dà fastidio, quando il freddo mi molesta, io lodo Dio: sia l’aria serena, o sia rigida, o tempestosa, similmente lodo Dio: qualsivoglia cosa, che Egli mi dà, o permette che mi venga, sia prospera, o avversa, sia dolce, o amara, la ricevo dalla sua mano con grande allegrezza, come cosa molto buona, rassegnandomi tutto in esso con umiltà. Non ho mai potuto trovar riposo in cosa alcuna, che non fosse Dio: e già ho trovato il mio Dio, nel quale godo un riposo e una pace eterna. Il medesimo Biosio racconta di una santa vergine, che essendo interrogata, come avesse acquistata la perfezione, rispose: Ho presi tutti i travagli e le avversità con gran conformità alla volontà di Dio, come venuti dalla sua mano: e a qualunque persona, che mi facea qualche ingiuria, o mi dava qualche molestia, ho sempre procurato di ricompensargliela con qualche particolar beneficio: con nessuno mi son lamentata de’ miei travagli, ma solamente sono ricorsa a Dio, dal quale ho ricevuto subito fortezza e consolazione (Blos, ubi sup,, et cap, 10 monilis spirit.). Riferisce pure di un’altra vergine di gran santità, che domandata con quali esercizi avesse acquistata tanta perfezione, rispose con molta umiltà, che non le erano mai avvenuti dolori, o travagli sì grandi, che ella non desiderasse di soffrirne de’ maggiori per amore di Dio, tenendoli per suoi singolari favori, e di questi pure giudicandosi indegna (Blos., ut supra). – Narra Taulero (Taul. serm. 1 de circumc.), che varie persone si raccomandavano ad una Serva di Dio totalmente rassegnata nelle divine sue mani, acciocché facesse orazione per alcuni interessi d’importanza; ed ella rispondeva, che l’avrebbe fatta. Alle volte però se ne dimenticava; ma tanto e tanto tutto ciò che le raccomandavano succedeva tanto felicemente, quanto quelle persone sapevano desiderare; onde poi tornavano a ringraziarla come se per l’orazion sua avessero conseguito l’intento: sebbene ella se ne confondeva e diceva, che ringraziasser Dio; poiché essa non vi aveva posto niente del suo. E, perché concorrevano a lei molti in questo modo, ella se ne andò a Dio a formare di lui un’amorevole querela, perché facesse sì prosperamente succedere tutti i negozi che a lei erano raccomandati; che di poi da lei ritornasser le genti a renderne grazie, non avendo ella tante volte per ciò fatto nulla, né porta una supplica: al che rispose il Signore: Vedi, figliuola, quell’istesso giorno nel quale tu mi desti la tua volontà, diedi Io a te la mia: e ancorché tu non mi chiegga cosa alcuna in particolare, quando Io so, che gusti di essa, la fo come tu l’avresti saputa chiedere. – Nelle vite de’ Padri si racconta d’un contadino i cui terreni e vigne rendevano frutti in maggior abbondanza di quelli degli altri suoi vicini, che domandato da alcuni di coloro, come andasse la cosa, rispose, che non si meravigliassero dell’avere lui migliori frutti che essi, perché egli aveva sempre i tempi come li voleva: e molto più meravigliandosi coloro di questa risposta, gli domandarono, come potesse ciò essere; al che replicò: Io non voglio mai altro tempo che quello che Dio vuole: e come io voglio quello che vuol Dio, così Egli mi dà i frutti come io li voglio. – Racconta Severo Sulpizio nella vita del beato S. Martino vescovo, che in tutto il tempo che conversò seco mai noi vide adirato né mesto, ma sempre con gran pace e allegrezza: e la cagione di ciò dice che era, perché quello che gli avveniva egli lo pigliava e riceveva come cosa venuta dalla mano di Dio; e così si conformava in ogni cosa alla volontà sua, con grande tranquillità, composizione d’animo ed allegrezza.

CAPO IX.

D’alcune cose che ci faranno facile e soave questo esercizio della conformità alla volontà di Dio.

Acciocché questo esercizio della conformità alla volontà di Dio ci si faccia facile e soave, bisogna primieramente, che abbiamo sempre avanti gli occhi quel fondamento che mettemmo al principio (Vide supra cap. 1 et 2), cioè, che niuna avversità né travaglio ci può venire, o accadere, che non passi per le mani di Dio e non venga ordinato e misurato dalla sua volontà. C’insegnò Cristo nostro Redentore questa verità non solo in voce, ma anche col suo esempio. Quando comandò a S. Pietro la notte della sua passione, che rimettesse il coltello nella guaina, soggiunse: Calicem, quem dedit mihi Pater, non vis, ut bibam illum (Jo. XVIII, 11)? Non vuoi ch’io beva il calice che m’ha dato il mio Padre? Non disse il calice che m’han procurato Giuda, gli Scribi, i Farisei; perché  sapeva molto bene, che tutti questi non erano altro che come coppieri che lo servivano in porgergli quella tazza preparatagli dal suo divin Padre; e che quello che essi facevano con malizia e con invidia il Padre eterno colla sua infinita bontà e sapienza l’ordinava per rimedio del genere umano. E così disse anche di poi a Pilato il quale vantavasi, che aveva podestà di crocifiggerlo e di liberarlo. Non haberes potesltatem adversum me ullam, nisi tibi datum esset desuper (Jo. XIX, 11): Tu non avresti podestà alcuna contro di me, se non l’avessi avuta dall’alto. Spiegano i Santi: Nisi ex divina dispositione et ordinatione id factum esset ,Di maniera che ogni cosa viene da alto, per disposizione e ordine di Dio. (D. Chrys. hom. 83 in Jo.; D. Cyrill. lib. 12, o. 22 in Jo.; D. Irenœus lib. 4 contra hæreses, c. 34; D. Aug. tract. IV, 26 in Jo.). Disse maravigliosamente questa cosa l’apostolo S. Pietro colà nel capo quarto degli Atti degli Apostoli (IV, (Act. IV, 26 et seq.), spiegando quel testo del Profeta, Quare fremuerunt gentes, et populi meditati sunt inania? Astiterunt Reges terræ, et Principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Chrislum ejus (Ps. II, 1), dice così: Convenerunt enim vere in civitate ista adversus sanctum puerum tuum Jesum, quem unxisti, Berodes, et Pontius Pilatus, cum Gentibus, et populis Israel, facere, qum manus tua et consilium tuum decreverunt fieri: Veramente si unirono in Gerusalemme i Principi e le podestà della terra contra Cristo nostro Redentore per metter in esecuzione quello che nel Concistoro della santissima Trinità era stato determinato e decretato; perché essi non potevano far altro che questo. E così veggiamo, che quando Dio non volle, non fu bastante tutta la potenza del re Erode a privarlo di vita, essendo egli bambino: e sebben fece uccidere tutti i bambini di quel paese circonvicino, nati da due anni in giù; nondimeno non poté incontrarsi in quello che cercava; perché Egli non voleva morire allora. I Giudei altresì e i Farisei vollero più volte metter le mani addosso a Cristo, e dargli morte: una volta tra le altre, nel mentre che trovavasi in Nazaret, lo condussero sulla cima del monte, sul dorso del quale stava edificata quella città, per indi precipitamelo; e dice il sacro Evangelio: Ipse autem transiens per medium illorum, ibat (Luc. IV, 30): Egli se ne andava con molta pace per mezzo di loro; perché non si era eletto quella qualità di morte, e così essi non gliela potevano dare. Un’altra volta lo vollero lapidare; e già avevano alzate le mani per tirargli i sassi; e Cristo nostro Redentore si mette con gran pace a ragionar con essi e a domandar loro: Multa bona opera ostendi vobis ex Patre meo; propter quod eorum opus me lapidatis (Jo. X, 32)? Io ho fatte molte opere buone a benefìcio vostro; per quale di esse mi volete lapidare? Non permise né diede loro licenza di menar le mani: Quia nondum venerat hora ejus (ibid. VII, 30.): Perché non era ancorarrivata la sua ora. Ma arrivata chefu l’ora nella quale Egli aveva determinato di morire, allora poterono eseguire quel tanto che il Signore determinato aveva di patire, perché allora Egli lo volle, ed allora ne diede loro licenza: Hæc est hora vestra et potestas tenebrarum (Luc. XXII, 53): così lor disse quando andarono per prenderlo. Ogni giorno ero con voi nel Tempio, e non mi prendeste mai, perché non era ancor giunta l’ora; adesso è giunta; e perciò eccomi qui, Io son desso quel che cercate. Quanto fece colà Saulle, quanto s’adoperò, quanti mezzi prese, per avere nelle mani David, il che appunto fu figura di quello che poi doveva avvenire nel divin Redentore? Un Re d’Israello contra un uomo particolare: Ut quærat pulicem unum; come disse l’istesso David (I Reg. XXVI, 20, et c. XXIV, 15); e con tutto ciò non gli poté mai riuscire. La divina Scrittura lo nota tanto bene, e ne rende questa ragione: Non tradidit eum Deus in manus ejus (1 Reg. XXIII, 14):Perché non volle Iddio darglielo nelle mani. Qui sta tutto il punto. E così nota molto bene S. Cipriano sopra quelle parole, Et ne nos inducas in tentationem (D. Cypr. serm. de orat. Dom. Matth. VI, 13), che tutto il nostro timore e tutta la nostra divozione e sollecitudine rispetto alle tentazioni e’ travagli hanno da essere in ordine a Dio; perciocché né il demonio, né alcun altro ci può far male alcuno, se Dio prima non ne dà loro licenza. Secondariamente, benché questa verità ben appresa sia da sé sola bastevole e di grande efficacia per indurci a conformarci in tutte le cose alla volontà di Dio; nondimeno non abbiamo da fermarci qui, ma dobbiamo passar avanti ad un’altra cosa che viene in conseguenza di questa, e la notano i Santi (D. Doroth. doct. 13; Nil. c. 29 de orat, in Psal. Dixit Dominus); la qual è, che insieme col venirci tutte le cose dalla mano di Dio, abbiamo da persuaderci, e credere, che vengano per maggior nostro bene e vantaggio (De S. Gertr., ref. Blos. c. 11, mon. spir.). Anche le pene dei dannati vengono loro dalla mano di Dio; non però per utilità e rimedio loro, ma per puro loro castigo: ma le pene e i travagli che Dio manda agli uomini in questa vita, siano giusti, o siano peccatori, abbiamo sempre da credere, e da aver sempre questa ferma fiducia di quella infinita Bontà e Misericordia, che mandandocegli, ce gli mandi per nostro maggior bene e perché questo più ci conviene per l’eterna nostra salute. Così lo disse la santa Giuditta al suo popolo, quando stavano in quell’afflizione e angustia sì grande, assediati da’ loro nemici: Ad emendationem, et non ad perditionem nostram evenisse credamus (Judith VIII, 27). Crediano pure, che Dio ci ha mandati questi travagli, non per nostra rovina, ma per emendazione e utilità nostra. D’una volontà tanto buona, quanto è quella di Dio il quale ci ama tanto, possiamo bene star certi e sicuri, che non vuole se non il bene e il meglio, e quello che più conviene a noi altri: il che appresso si dichiarerà più pienamente (Infra cap. 10 e 22). – In terzo luogo per cavar maggior frutto da questa verità, e acciocché questo mezzo sia più efficace per acquistare una perfetta conformità alla volontà di Dio, non abbiamo da contentarci di conoscere e credere speculativamente, che tutte le cose vengono dalla mano di Dio, né di crederlo in generale e come alla rinfusa, perché così ce lo dice la Fede, ovvero perché così l’abbiamo letta, o udito; ma bisogna, che andiamo attuando e avvivando questa Fede, con procurar di conoscere e di così giudicar della cosa praticamente, di maniera che veniamo a pigliar tutte le cose che ci succedono, come se sensibilmente e visibilmente vedessimo Cristo Signor nostro che ci stesse dicendo: Piglia, figliuolo, che questo tel mando io; è volontà mia, che tu faccia, o patisca adesso questa e questa cosa; perché in questa maniera ci si renderà molto facile e soave il conformarci in tutte le cose alla volontà di Dio. Che se ti apparisse l’istesso Gesù Cristo in persona, e ti dicesse: Vedi, figliuolo, che questo è quello che Io voglio da te; questo travaglio, o questa infermità, voglio che tu patisca adesso per me; in quest’ufficio, o ministero, voglio che tu mi serva; chiara cosa è, che ancorché fosse la più difficil cosa del mondo, la faresti di molto buona voglia tutto il tempo della tua vita, e ti terresti per molto felice, che Dio si volesse servir di te in quella cosa; e per comandartela esso, crederesti, che questa fosse il meglio, e che più ti convenisse per la tua eterna salute, e non ne dubiteresti punto, né ti verrebbe pure un primo moto in contrario. – In quarto luogo bisogna che nell’orazione ci esercitiamo e ci andiamo attuando assai in quest’esercizio, scavando e profondendoci bene in quella ricchissima miniera della provvidenza tanto paterna e tanto particolare che Dio ha di noi altri; perché così facendo c’incontreremo in questo tesoro: il che andremo dichiarando ne’ capì seguenti.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (4)

CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (3)

CATECHISMO CATTOLICO

A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (3)

II.

CATECHISMO PER I FANCIULLI CHE COMPLETANO LA LORO ISTRUZIONE CATECHISTICA

CAPO I.

Del segno della Santa Croce.

(I fanciulli facciano bene il segno della Santa Croce e pronunzino distintamente le parole).

D. 1 . Sei tu Cristiano?

R. Sono Cristiano per grazia di Dio.

D. 2. Chi si può dire ed è Cristiano?

R. Si può dire ed è Cristiano chi ha ricevuto il Sacramento del Battesimo, che è come la porta della Chiesa di Cristo.

D. 3. Ma chi si può dire ed è più propriamente cristiano?

R. Si può dire ed è più propriamente Cristiano il battezzato che professa la vera ed intera fede di Cristo, cioè il cattolico; il quale, se congiunge la fede con l’osservanza della legge del Vangelo, è buon Cristiano.

D. 4. Qual è il segno esterno del Cristiano?

R. Il segno esterno del Cristiano è il segno della Santa Croce.

D. 5. Perché il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano?

R. Il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano perché con esso professiamo esternamente i misteri principali della fede cristiana.

D. 6. Quali sono i misteri principali della fede cristiana?

R. I misteri principali della fede cristiana sono:

1°) l’unità di Dio in tre Persone distinte: Padre, Figlio, Spirito Santo;

2°) l’umana Redenzione compiutasi per mezzo dell’incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, Figlio di Dio.

D. 7. Come il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana?

R. Il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana, perché le parole significano l’unità di Dio in tre Persone distinte, mentre la figura della croce che formiamo con la mano ci richiama alla memoria l’umana redenzione compiuta da Gesù Cristo sulla croce.

D. 8. È utile segnarci col segno della Santa Croce?

R. È utile, anzi utilissimo, segnarci spesso e devotamente col segno della Santa Croce, specialmente al principio e alla fine delle azioni principali.

CAPO II.

Del Simbolo Apostolico.

(I fanciulli recitino distintamente gli articoli del Simbolo).

SEZIONE la. — Del primo articolo del Simbolo, che contiene la dottrina circa la prima Persona della SS. Trinità e l’opera della creazione.

1° Credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra.

D. 9. Che significa: Credo in Dio?

R. Credo in Dio significa: credo fermamente che vi è Dio e a Lui tendo come a sommo e perfettissimo e ultimo fine.

D. 10. Che cosa intendi col nome di Dio?

R. Col nome di Dio intendo un purissimo spirito, infinito nella intelligenza, nella volontà e in ogni perfezione, uno nell’unità di natura ma in tre Persone distinte: Padre, Figliuolo e Spirito Santo, le quali sono la SS. Trinità.

D. 11. Perché le tre Persone Divine sono un solo Dio?

R. Le tre Persone Divine sono un solo Dio perché sono consostanziali: cioè hanno la stessa identica natura divina, e perciò le stesse perfezioni o attributi.

D. 12. Quali sono le principali perfezioni o attributi di Dio?

R. Le principali perfezioni o attributi di Dio sono:

Dio è:

eterno, perché non ha e non può avere né principio, né fine, né successione di tempo;

onnisciente, perché sa e vede tutto, anche le future azioni libere delle creature, gli stessi affetti del cuore e i più riposti pensieri;

immenso, perché è in cielo, in terra, in tutti i luoghi che sono e che possono essere;

giusto, perché dà a ciascuno secondo i meriti o in questa vita, o, infallibilmente, nell’altra;

onnipotente, perché può fare, con un semplice atto della sua volontà, tutto ciò che vuole;

buono, perché ha creato, conserva e dispone ogni cosa, con la sua infinita bontà, potenza e sapienza, e perché tutti i beni che godiamo provengono da Lui, ed Egli ascolta benigno le suppliche di chi lo prega;

misericordioso, perché volendo la salvezza di tutti gli uomini, li ha redenti dalla schiavitù del demonio, dona a ciascuno i mezzi necessari alla salute e non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

D. 13. Che significa: Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra?

R. Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra significa che Dio trasse dal nulla le creature spirituali ecorporali, cioè gli Angeli, il mondo, e poi l’uomo.

D. 14. Dio ha cura di tutte le cose create?

R. Dio ha cura di tutte le cose create in quanto le conserva, difende e governa, talmente che niente accade o può accadere senza il volere o la permissione di Dio.

D. 15. Come si chiama la cura che Dio ha delle creature?

R. La cura che Dio ha delle creature si chiama divina Provvidenza.

D. 16. Quali sono, fra tutte le creature, le più nobili?

R. Fra tutte le creature le più nobili sono gli Angeli e gli uomini.

D. 17. Chi sono gli Angeli?

R. Gli Angeli sono puri spiriti, dotati di intelligenza e di volontà, i quali furono creati nello stato di giustizia e santità, affinché, corrispondendo alla grazia di Dio, si meritassero la gloria.

D. 18. Gli Angeli corrisposero tutti alla grazia di Dio?

R. Non tutti gli Angeli corrisposero alla grazia di Dio: coloro che furono fedeli, godono ora in cielo la visione beatifica di Dio e si chiamano semplicemente Angeli; quelli invece che prevaricarono furono precipitati nell’Inferno e si chiamano demoni; il loro capo è Lucifero o Satana.

D. 19. Dio si serve del ministero degli Angeli?

R. Dio si serve in molte maniere del ministero degli Angeli, specialmente nella cura che Egli ha degli uomini, a ciascuno dei quali assegna, fin dalla nascita, un Angelo per custode.

D. 20. Giova nella nostra vita spirituale che noi abbiamo un culto speciale per il nostro Angelo Custode?

R. Giova molto alla nostra vita spirituale che noi abbiamo un culto speciale per il nostro Angelo Custode, venerandolo e invocandolo, specialmente nelle tentazioni, seguendo le sue ispirazioni, degnamente ringraziandolo e non offendendo mai la sua presenza col peccato.

D. 21. Per qual fine l’uomo fu creato da Dio?

R. L’uomo fu creato da Dio per conoscerlo, amarlo, servirlo e così poi goderlo dopo morte nella visione beatifica eternamente in Paradiso.

D. 22. Quali furono i progenitori del genere umano?

R. I progenitori del genere umano furono Adamo ed Eva, che Dio creò e pose nel Paradiso Terrestre, elevandoli all’ordine soprannaturale e arricchendoli di singolari doni di natura e di grazia.

D. 23. Come Iddio elevò i progenitori all’ordine soprannaturale?

R. Iddio elevò i progenitori all’ordine soprannaturale, dando ad essi la giustizia e la santità che intendeva conferire alla stessa natura umana.

D. 24. Che cosa Dio proibì ai progenitori elevati all’ordine soprannaturale?

R. Iddio proibì ai progenitori, elevati all’ordine soprannaturale, di mangiare il frutto dell’albero della scienza del bene e del male.

D. 25. I progenitori osservarono la proibizione di Dio?

R. I progenitori non osservarono la proibizione di Dio e perciò per questo grave peccato di superbia e di disubbidienza perdettero la giustizia e la santità; ed espulsi dal paradiso terrestre, furono soggetti alla concupiscenza, alla morte, agli altri dolori e alle altre miserie della vita.

D. 26. Adamo, nella sua prevaricazione, nacque anche ai suoi discendenti?

R. Adamo, nella sua prevaricazione, nocque anche ai suoi discendenti, perché non solo trasmise ad essi la concupiscenza, la morte e gli altri castighi, ma comunicò loro la stessa natura umana privata della giustizia e della santità; e in ciò consiste il peccato originale trasmesso alla sua discendenza.

D. 27. Vi fu alcuno preservato immune dal peccato originale?

R. La sola B. V. Maria, dal primo istante della sua concezione, in vista dei meriti di Gesù Cristo, fu, per singolare privilegio di Dio, preservata immune dal peccato originale e perciò si chiama: la concepita senza peccato.

D. 28. Quale dottrina tiene la Chiesa circa il transito della beata Vergine Maria?

R. Circa il transito della beata Vergine Maria, la Chiesa tiene la dottrina che il corpo di Lei si separò dall’anima, (cioè che la B. V. morì), ma che poi ricongiuntasi di nuovo l’anima al corpo incorrotto, la B. V. Maria, per ministero degli Angeli, fu assunta al cielo ed esaltata sopra tutti i cori degli Angeli.

SEZIONE 2a . — Degli altri sei articoli del Simbolo che contengono la dottrina sulla seconda Persona della SS. Trinità e l’opera della Redenzione.

2° e in Gesù Cristo, unico suo Figliuolo, Signore nostro;

3° il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine;

4° patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito;

5° discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte;

6° salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente;

7° di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti.

D. 29. Che cosa crediamo col secondo articolo del Simbolo: e in Gesù Cristo unico suo Figliuolo Signorenostro?

R . Col secondo articolo del Simbolo: e in Gesù Cristo unico suo Figliuolo Signore nostro, noi crediamo cheil Figlio di Dio, il quale, fatto uomo, si chiama Gesù Cristo,

è l’unigenito del Padre, Signor Nostro, vero Dio da Dio vero.

D. 30. Che cosa crediamo col terzo articolo del Simbolo: il quale fu concepito….?

R. Col terzo articolo del Simbolo: Il quale fu concepito crediamo che il Figlio di Dio, al di sopra d’ogniordine naturale, per virtù dello Spirito Santo, presel’umana natura, cioè corpo ed anima, nel seno purissimodella B. V. Maria, e che nacque da Lei.

D. 31. Perché il Figlio di Dio si fece uomo?

R . Il Figlio di Dio si fece uomo per liberarci dal peccato e così ridonarci la gloria del Paradiso.

D. 32. Il Figlio di Dio, facendosi uomo, cessò d’essere Dio?

R . Il Figlio di Dio, facendosi uomo, non cessò d’essere Dio ma, rimanendo vero Dio, cominciò ad essere anche vero uomo.

D. 33. Quante nature e quante persone sono in Gesù Cristo?

R. In Gesù Cristo vi sono due nature, la divina e la umana, ma vi è una sola Persona, quella cioè del Figlio di Dio.

D. 34. Che cosa crediamo col quarto articolo del Simbolo: Patì….?

R. Col quarto articolo del Simbolo: Patì crediamo che Gesù Cristo, per redimere col sangue suo prezioso l’umanità, patì sotto Ponzio Pilato, procuratore della Giudea, morì confitto in croce, e fu dalla croce deposto e seppellito.

D. 35. Che cosa crediamo nel quinto articolo con le parole: discese all’inferno?

R. Nel quinto articolo del Simbolo, con le parole: Discese all’inferno, crediamo che l’anima di Gesù Cristo, separata dal corpo, ma congiunta sempre con la divinità, discese al Limbo dei Santi Padri, dove le anime dei giusti aspettavano la promessa e desideratissima redenzione.

D. 36. Che cosa crediamo nel quinto articolo del Simbolo con le altre parole: il terzo giorno risuscitò damorte?

R. Nel quinto articolo del Simbolo con le altre parole: il terzo giorno risuscitò da morte, crediamo che Gesù Cristo, il terzo giorno dalla morte, per virtù propria, riunì di nuovo l’anima sua col corpo, per risorgere così immortale e glorioso.

D. 37. Che cosa crediamo col sesto articolo del Simbolo: salì?

R. Col sesto articolo del Simbolo: salì…. crediamoche Gesù Cristo, quaranta giorni dopo la sua resurrezione,per virtù propria salì in anima e corpo al cielo, dovesiede alla destra di Dio Padre onnipotente.

D. 38. Che cosa crediamo col settimo articolo del Simbolo: di là ha da venire….?

R. Col settimo articolo del Simbolo: di là ha da venire…., crediamo che Gesù Cristo alla fine del mondoverrà dal cielo con gli Angeli suoi, per giudicare tutti gliuomini, e allora renderà a ciascuno secondo i suoi meriti.

SEZIONE 3a . — Degli ultimi cinque articoli del Simbolo che contengono la dottrina sulla terza Persona della SS. Trinità e la nostra santificazione.

8° Credo nello Spirito Santo;

9° la Santa Chiesa cattolica, la Comunione dei Santi;

10° la remissione dei peccati;

11° la risurrezione della carne;

12° la vita eterna. Amen.

D. 39. Che cosa crediamo con l’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo?

R . Con l’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo, crediamo che lo Spirito Santo è la terzaPersona della SS. Trinità, che procede dal Padre e dalFigliuolo.

D. 40. Quando lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli e che cosa operò in essi?

R . Lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, li confermò nella fede, e li colmò dell’abbondanza de’ suoi doni affinché predicassero il Vangelo e propagassero la Chiesa in tutto il mondo.

D. 41. Che cosa lo Spirito Santo opera nei fedeli?

R . Lo Spirito Santo, con la grazia santificante, le virtù infuse, con i suoi doni e con le grazie attuali d’ogni specie, santifica, illumina e muove i fedeli, affinché essi, corrispondendo alla grazia, giungano al possesso della vita eterna.

D. 42. Che cosa opera lo Spirito Santo nella Chiesa?

R . Lo Spirito Santo, con la sua specialissima e continua assistenza, vivifica la Chiesa, la tiene unita a sé e con i suoi doni infallibilmente la dirige nella via della verità e della santità.

D. 43. Che cosa crediamo nel nono articolo del Simbolo con le parole: la santa Chiesa Cattolica?

R . Nel nono articolo del Simbolo con le parole: la santa Chiesa cattolica, crediamo che v’è una società soprannaturale,visibile, santa e universale che Gesù Cristo,mentre era in terra, istituì e chiamò sua Chiesa.

D. 44. Perché Gesù Cristo istituì la Chiesa?

R. Gesù Cristo istituì la Chiesa per continuare in terra l’opera sua, perché cioè in essa e per essa fino alla fine dei secoli si applicassero agli uomini i frutti della redenzione, compiuta sulla croce.

D. 45. Come Gesù Cristo volle che fosse governata la Chiesa?

R. Gesù Cristo volle che la Chiesa fosse governata dall’autorità degli Apostoli, con a capo Pietro, e dei loro legittimi successori.

D. 46. Chi è il legittimo successore di S. Pietro nel governo della Chiesa universale?

R. Il legittimo successore di S. Pietro nel governo della Chiesa universale è il Vescovo di Roma, cioè il Pontefice Romano o Papa, perché questi succede nel primato di giurisdizione a Pietro, che fu e morì vescovo di Roma.

D. 47. Quali sono i legittimi successori degli Apostoli?

R. I legittimi successori degli Apostoli sono per divina istituzione i Vescovi, posti dal Pontefice Romano a capo delle Chiese particolari che essi governano con potestà ordinaria sotto la di Lui autorità.

D. 48. Quale dunque, tra le varie Chiese che si gloriano del nome cristiano, è la vera Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R . Tra le varie Chiese che si gloriano del nome cristiano, la vera Chiesa istituita da Gesù Cristo è quella governata dal Romano Pontefice e dai Vescovi aventi comunione con Lui.

D. 49. Quale potestà Gesù Cristo diede alla Chiesa per raggiungere il fine della sua istituzione?

R. Per raggiungere il fine della sua istituzione, Gesù Cristo diede alla Chiesa la potestà di giurisdizione e d’ordine: la potestà di giurisdizione comprende la potestà di insegnare.

D. 50. Che cos’è la potestà d’insegnare?

 R . La potestà d’insegnare è il diritto e il dovere della Chiesa di custodire, tramandare e difendere la dottrina di Gesù Cristo e di predicarla a tutti gli uomini, indipendentemente da ogni uman potere.

D. 51. Chi ha nella Chiesa la potestà d’insegnare?

R . Nella Chiesa hanno la potestà d’insegnare il Romano Pontefice e i Vescovi uniti con Lui.

D. 52. Nell’ufficio d’insegnare la Chiesa è infallibile?

R. Nell’ufficio d’insegnare la Chiesa è infallibile quando, sia con l’ordinario e universale magistero, sia col solenne giudizio della suprema autorità, propone alla credenza universale le verità di fede e di morale, o rivelate o connesse con le rivelate.

D. 53. A chi spetta di pronunziare tale solenne giudizio?

R . Pronunziare tale solenne giudizio spetta tanto al Romano Pontefice quanto ai Vescovi e al Papa insieme, specialmente se adunati in Concilio universale.

D. 54. Che s’intende per potestà di giurisdizione nella Chiesa?

R. Per potestà di giurisdizione nella Chiesa, s’intende che il Romano Pontefice in tutta la Chiesa, e i Vescovi nelle loro Diocesi, hanno, per raggiungere il fine stesso della Chiesa, la potestà di governare, cioè il potere legislativo, giudiziario, coattivo e amministrativo.

D. 55. Che cos’è la potestà dell’ordine?

R . La potestà dell’ordine è il potere di celebrare le sacre funzioni, specialmente circa il ministero dell’altare. Tale potestà è conferita alla Sacra Gerarchia, massime ai Vescovi, col sacramento dell’Ordine, e tende direttamente alla santificazione delle anime.

D. 56. Chi è fuori della Chiesa di Gesù Cristo?

R. Fuori della Chiesa di Gesù Cristo sono:

1° i non battezzati;

2° gli apostati manifesti, gli eretici, gli scismatici e gli scomunicati che devono evitarsi.

D. 57. Si possono salvare coloro che sono fuori della Chiesa?

R . Coloro che sono fuori della Chiesa per propria colpa non si possono salvare; quanti invece vi si trovano fuori senza propria colpa possono salvarsi se non muoiono in peccato mortale.

D. 58. Che cosa crediamo nel nono articolo del Simbolo con le altre parole: la Comunione dei Santi?

R. Nel nono articolo del Simbolo con le altre parole: la Comunione dei Santi crediamo che tra i membri della Chiesa, per quell’intima unione che li unisce sotto l’unico Capo Gesù Cristo, vi è una vicendevole comunicazione di beni spirituali.

D. 59. Che cosa crediamo col decimo articolo del Simbolo: la remissione dei peccati?

R. Col decimo articolo del Simbolo: la remissione dei peccati crediamo che nella Chiesa vi è, per i meriti diGesù Cristo, una vera potestà di perdonare i peccati.

D. 60. Che cosa crediamo con l’undicesimo articolo del Simbolo: la resurrezione della carne?

R. Con l’undicesimo articolo del Simbolo: la resurrezione della carne crediamo che alla fine del mondo tuttii morti, richiamati alla vita, risorgeranno per il giudiziouniversale, riprendendo ogni anima il proprio corpo alquale f u congiunta in vita, per non mai più separarsene.

D. 61. Perché Dio volle che i corpi dei morti risorgessero?

R . Dio volle che i corpi dei morti risorgessero, perché l’uomo tutto intero conseguisse, secondo i meriti e per tutta l’eternità, o il premio in Paradiso o la pena nell’Inferno.

D. 62. Che cosa crediamo con l’ultimo articolo del Simbolo: la vita eterna?

R. Con l’ultimo articolo del Simbolo: la vita eterna, crediamo che dopo morte è preparata per gli eletti la perfettaed indefettibile felicità del Paradiso, mentre per ireprobi restano le eterne pene dell’Inferno.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (2)

DELLA PRESENZA DI DIO [2]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO IV.

Che questa perfetta conformità alla volontà di Dio è una felicità e beatitudine qui in terra.

Chi arriverà ad avere questa intera conformità alla volontà di Dio, pigliando tutte de cose che succederanno come venute dalla sua mano, e conformandosi in esse alla sua santissima e divina volontà, avrà acquistata una felicità e beatitudine qui in terra; perché godrà una pace e tranquillità molto grande, e avrà sempre un gaudio ed un’allegrezza perpetua nell’anima sua, che è la felicità e beatitudine che godono di qua i gran servi di Dio: essendo che, come dice l’Apostolo, Non est regnum Dei esca et potus, sed justìtia, et pax, et gaudium in Spiritu sancto (Ad Rom. XIV. 17): Non istà la beatitudine di questa vita nel mangiare e nel bere, né in darsi ai passatempi e ai diletti sensuali; ma nella giustizia e pace e nel gaudio dello Spirito Santo. Questo è il regno del cielo qui in terra e il paradiso de’ diletti che possiamo di qua godere. E con ragione questa si chiama beatitudine, poiché ci fa in un certo modo simili a’ Beati. Perciocché siccome in cielo non vi sono mutazioni, né certi va e vieni; ma sempre stanno fermi e permanenti i Beati in un essere, godendo Dio; così qui quei che sono arrivati a questa intera e perfetta conformità, che tutto il loro gusto e contento sia il gusto e la volontà di Dio, non s’inquietano, né si turbano colle mutazioni di questa vita, né coi vari accidenti che avvengono, perché la lor volontà e il cuor loro è tanto unito e conforme alla volontà divina, che il vedere, che tutte quelle cose vengono dalla sua mano e che si eseguisce in esse la volontà e il gusto di Dio, fa che i travagli si convertano loro in allegrezza; perché vogliono più tosto ed amano più la volontà del loro Signore, che la propria: e così non vi è cosa che possa turbar questi tali; perché se quelle cose che li potrebbero turbare e attristare, che sono i travagli, le avversità, i disonori, sono ricevute da essi e stimate come grazie e favori particolari, per venir loro dalla mano di Dio e per esser quella la divina volontà; non vi rimane cosa che li possa inquietare, né toglier loro la pace e la tranquillità dell’anima. Questa era la sorgente di quella pace ed allegrezza perpetua nella quale leggiamo che vivevano continuamente quei Santi antichi; un S. Antonio, un S. Domenico, un S. Francesco, ed altri simili: e l’istesso leggiamo del nostro S. P. Ignazio (Lib. 5, c. 5 V i tæ P. N. S. Ign.), e lo veggiamo ordinariamente ne’ gran Servi di Dio. Mancavano forse travagli a quei Santi? non avevano forse tentazioni e infermità come noi altri? non avvenivano forse loro vari e diversi casi? sì certamente, e più scabrosi che a noi altri, perché  quei che sono più santi sogliono essere da Dio più provati ed esercitati con cose simili. Come dunque stavano sempre in un medesimo essere? con un medesimo sembiante? con una certa serenità ed allegrezza interiore ed esteriore che sempre pareva che fosse Pasqua per essi? La cagione di ciò era quella che andiamo dicendo; perché erano arrivati ad avere una intera conformità alla volontà di Dio ed avevano posto ogni lor gusto nell’adempimento di essa; e così ogni cosa si convertiva loro in contentezza. Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Ad Rom. VIII, 28): — Non contristàbit justum quidquid ei acciderit (Prov., XII, 21). Il travaglio, la tentazione e la mortificazione, ogni cosa si convertiva loro in allegrezza, perché conoscevano, che quella era la volontà di Dio, e questa era tutta la contentezza loro. Già avevano conseguita la felicità e la beatitudine che in questa vita si può godere, onde stavano come in gloria. Dice molto bene a questo proposito S. Caterina da Siena (D. Cath. Sen. In Dial.), che i giusti sono come Cristo nostro Redentore, il quale non perde mai la beatitudine dell’anima, sebben pativa molti dolori e pene: così i giusti non perdono mai questa beatitudine che consiste nella conformità alla volontà di Dio, ancorché abbiano molte avversità; perché sempre dura ed è permanente in essi l’allegrezza e il gusto della volontà e del voler di Dio che s’adempisce in quelle cose. –  E questa è una perfezione tanto alta e sublime, che l’apostolo S. Paolo dice che supera ogni senso: Et pax Dei, quæ exuperat omnem sensum, custodiat corda vestra, et ìntelligentias vestras in Christo Jesu (Ad Phil. IV): dice, che questa pace supera ogni senso; perché è un dono di Dio tanto alto e soprannaturale, che non può l’intelletto umano da sé solo comprendere, come sia possibile, che un cuore di carne stia quieto, e pacifico, e consolato nel mezzo de’ turbini e delle tempeste, delle tentazioni e de’ travagli di questa vita. S’assomiglia questa cosa a quella meraviglia del roveto che Mosè vide che ardea e non si abbruciava (Es. III, 2); e al miracolo di quei tre giovanetti che stavano nella fornace di Babilonia, i quali in mezzo del fuoco si conservarono sani ed illesi, lodando Dio. Questo è quello che diceva il santo Giob parlando con Dio: Mirabiliter me crucias (Job. X, 16): Mi tormenti, Signore, mirabilmente; dimostrando da una banda il travaglio e dolor grande che pativa, e dall’altra il gusto e la contentezza grande ch’aveva in patirlo, per esser quella la volontà e il gusto di Dio. Cassiano racconta (Cass. coll. 12, c. 13), che stando un santo vecchio in Alessandria circondato da gran moltitudine d’infedeli che gli dicevano molte maldicenze, egli se ne stava in mezzo di essi come un agnellino, sopportando e tacendo con gran quiete di cuore. Lo schernivano, lo percuotevano, gli davano urtoni, e gli facevano altre gravissime ingiurie, e fra le altre cose gli dissero con ischerno: Che miracoli ha fatti Gesù Cristo? Al che egli rispose: I miracoli che ha fatti sono, che mentre io sto patendo le ingiurie che mi fate, non mi sdegni né m’adiri contra voi altri, né mi turbi con alcuna passione; anzi stia apparecchiato a soffrirne ancora delle altre molto maggiori. Questo è un gran miracolo e una molto alta e sublime perfezione. Dicono gli antichi di quel monte della Macedonia chiamato Olimpo, e l’apporta S. Agostino in molti luoghi, che è di tanto grande altezza, che nella sommità di esso non si sentono venti, né vi cadono piogge né nevi: Nubes excedit Olympus (D . Aug. lìb. de Gen. ad litt. in imperfecto, c. 13, et lib. 3, o. 2, et lib, 1 de Gen. contra Manich, c . 15; Lucan. lib . 2 Pharsalic.). Nemmeno gli uccelli vi possono far nido, perché  è tanto alto, che supera questa prima regione dell’aria e arriva alla seconda: e così l’aria è ivi tanto pura e sottile, che non vi si possono né formare né sostentare le nuvole, le quali per ciò hanno bisogno d’aria più densa: e per l’istessa ragione non si possono ivi sostenere su le lor ali gli uccelli, nemmeno vi posson vivere gli uomini, perché essendo l’aria tanto sottile e depurata, non è sufficiente per poter respirare. E di questo diedero notizia alcuni che salivano colà d’anno in anno a far certi sacrifici, ed i quali portavano seco certe spugne bagnate, acciocché mettendosele alle narici potessero condensar l’aria ed essi così respirare. Costoro scrivevano colà su nella polvere certe lettere le quali trovavano l’anno seguente così ben formate e intere come le avevano lasciate; il che non sarebbe potuto accadere, se fossero arrivati colà i venti e le piogge. Or questo è lo stato di perfezione al quale sono ascesi e arrivati quelli che. hanno questa piena conformità alla volontà di Dio. Nubes excèdit Olympus; et pacem summa tenerti. Sono ascesi ed arrivati tanto alto, ed hanno già acquistata una pace così grande, che non vi sono nuvole né venti né piogge che colà giungano, né vi sono uccelli di rapina che insidiino né predino la pace e allegrezza del loro cuore. S. Agostino sopra quelle parole, Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (D. Aug. lib. 1 de serm. Dom. in monte c. 8, in Matth. v. 9), dice, che perciò Cristo nostro Redentore chiama i pacifici, beati e figliuoli di Dio, perché non è in essi cosa che resista né contraddica alla volontà di Dio; ma in ogni cosa si conformano ad essa come buoni figliuoli, i quali in tutte le cose procurano d’assomigliarsi al padre, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che il Padre vuole, o non vuole. Questo è uno de’ più elevati e principali punti che siano nella vita spirituale. Chi arriverà a pigliare tutte le cose che gli avverranno, tanto grandi quanto piccole, come venute dalla mano di Dio, e a conformarsi in esse alla divina volontà sua, di maniera che tutto il suo gusto sia il gusto di Dio e l’adempimento della sua santissima volontà, questo tale ha trovato il paradiso qui in terra: Factus est in pace locus ejus, et habitatio ejus in Sion (Ps. LXXV, 3). Questo tale, dice S. Bernardo (D. Bernard. In sentent.), potrà con ogni sicurezza e fiducia cantar quel Cantico del Savio: In his omnibus requiem qucesivi, et in hæreditate Domini morabor (Eccli. XXIV, 11); perché ha trovato il vero riposo e il pieno e compiuto gaudio che da niuno gli potrà esser tolto. Ut gaudium vestrum sit plenum — Et gaudium vestrum nemo tollet a vobis (Jo. XVI, 24 et 22). Oh se finissimo una volta di metter ogni nostra contentezza nell’adempimento della volontà di Dio, che la volontà nostra fosse sempre la sua e il nostro gusto il suo! Che non avessi io, Signore, altro volere, ed altro non volere, che quello che volete, o non volete voi, e che questa fosse la mia consolazione in tutte le cose: Mihi autem adhærere Deo bonum est, ponere in Domino Deo spem meam (Ps. LXXII, 27). Oh quanto buona cosa sarebbe per l’anima mia unirmi a Dio in questo modo! Oh quanto felici saremmo, se stessimo sempre tanto uniti a lui, che in ciò che facciamo, o patiamo, non riguardassimo altra cosa, se non che stiamo adempiendo la volontà di Dio, e questa fosse ogni nostra contentezza e ricreazione! Questo è quello che dice quel santo uomo: Quegli al quale Dio è ogni cosa, e tutte le cose riferisce a Dio, e vede ogni cosa in Dio, può essere stabile di cuore, e starsene con somma pace in Dio (Thom. A Kemp. Lib. 1, c. 3, n. 2).

CAPO V.

Che in Dio solo si trova contentezza, e chi la metterà in altra cosa non potrà avere contentezza vera.

Quelli che mettono la contentezza loro in Dio e nella sua divina volontà, godono una contentezza ed allegrezza perpetua; perché come stanno appoggiati a quella ferma colonna della volontà di Dio, partecipano di quella immutabilità della volontà divina; e così stanno sempre fermi ed immobili in un medesimo essere. Ma quelli che stanno attaccati alle cose del mondo e in esse tengono posto il cuore e la contentezza loro, non possono avere contentezza vera né durabile; perché camminano insieme con queste cose, e dipendono da esse; e cosi stanno soggetti alle mutazioni delle medesime. Il glorioso S. Agostino dichiara questo molto bene sopra quelle parole del profeta David, Concepii dolorem, et peperit iniquitatem, dicendo: Non enim poterit làbor finiri, nisi hoc quisque diligat, quod invito non possit auferri (D. Aug. in Ps. VII, 15). Tieni per certo, che fino a che non metterai la tua contentezza in quella cosa che da niuno ti può esser tolta contra tua voglia, sempre starai con ansia e con affanno. Leggiamo del nostro P. Francesco Borgia, che arrivato che fu a Granata col corpo dell’Imperatrice, quando si ebbe da far la consegnazione di esso, aprirono la cassa di piombo nella quale stava riposto; e scoprirono la sua faccia, la quale era tanto mutata, tanto brutta e contraffatta, che metteva orrore a quei che la guardavano. Questa cosa cagionò in lui tanto sentimento, che toccandogli Dio il cuore con quel sì gran disinganno del mondo, fece questo fermo proponimento: Io mi risolvo, o mio Dio, di non più servire padrone che mi possa mancare (Lib. 1, c. 7 Vita; P. Franc., de Borgia ). Ora pigliamo noi altri questa risoluzione la quale è molto buona. Io fo proponimento, Signore, di non mettere per l’avvenire il mio cuore in cosa che mi possa mancare, in cosa che possa aver fine, né in cosa che da altri mi possa esser tolta contra mia voglia: perché  altrimenti non potremo avere vera contentezza: Nam cum ea diliguntur, dice S. Agostino, quos possumus contra voluntatem amittere, necesse est, ut prò iis miserrime laboremus (D. Aug. ubi supra): perché se tieni posto il tuo amore e la tua affezione in quella cosa che ti può esser tolta contra tua voglia, senza dubbio quando ti sarà tolta ne sentirai dolore. Questa è cosa naturale, non lasciarsi senza dolore quello che si possiede con amore: e quanto maggiore sarà l’amore, tanto maggiore sarà il dolore: onde confermando questa medesima cosa in un altro luogo il medesimo Santo dice: Qui vult gaudere de se, tristis erit. Se tu metti la tua contentezza nel tal ufficio, o nella tale occupazione, o nello stare nel tal luogo, o in altra cosa simile, cotesta contentezza ti potrà esser tolta facilmente dal Superiore, e così non vivrai mai contento. Se metti la tua contentezza nelle cose che sono secondo la volontà tua, o nell’adempimento di essa, elle si mutano facilmente; e quando bene non si mutassero esse, ti muti tu stesso; perché quello che oggi ti piace e ti gusta, domani ti dispiace e ti disgusta. Se non lo credi, vedilo in quello stolto popolo degl’Israeliti, che favoriti da Dio col miracoloso isquisitissimo cibo della manna, se ne infastidirono e domandarono altro cibo; e vedendosi in libertà, tornarono subito a desiderare la servitù, e sospiravano per l’Egitto e per gli agli e le cipolle che mangiavano colà, e molte volte desiderarono di tornarvi. Non avrai mai contentezza, se la metterai in queste cose: Qui autem de Deo vult gaudere, semper gaudebit; quia Deus sempi ternus est: Ma chi metterà tutta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua divina volontà, vivrà sempre contento; perché Dio è sempiterno, mai non si muta, sempre resta e dura in un essere. Dunque, vis habere gaudium sempiternum? dice il Santo, admire Hit, qui sempiternus est: Vuoi tu avere un gaudio e una contentezza perpetua e sempiterna? metti il tuo cuore in Dio che è sempiterno (S. Aug. tract. 24 in Jo.). Lo Spirito santo assegna questa differenza tra l’uomo sciocco e l’uomo savio e santo: Stultus sicut luna mutatur; homo sanctus in sapientia manel sicut sol (Eccli. XXVII, 12). Lo sciocco si muta come la luna, oggi crescente, domani calante: oggi lo vedrai allegro, domani malinconico; ora d’un umore, e tra poco di un altro; perché tien posta la sua contentezza nelle cose del mondo mutabili e transitorie; e così si muove al muoversi di esse, e va variando al variare de’ loro successi. Nel flusso e riflusso de’ suoi affetti, appunto come il mare, va colla luna, ed è lunatico. Ma l’uomo giusto e santo è permanente come il sole, sempre di un istesso tenore e in un medesimo essere: non sono in esso né crescenze né scemamenti. Il vero servo di Dio sempre sta allegro e contento; perché ha riposta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà che non può mancare né gli può da alcuno esser tolta. Si dice di quel santo abbate chiamato Deicola, che sempre andava ridendo; e domandato per qual cagione, diceva, Christum a me tollere nemo potest (Abb. Deicol. In Vit. Patr.): Sia quel che si voglia essere e venga quello che vuol venire, che nessuno può togliermi Dio. Quest’uomo aveva trovata la vera contentezza; perché l’aveva posta in cosa che non gli poteva mancare e che da nessuno gli poteva esser tolta. Facciamo dunque così noi altri: Exultate, justi, in Domino (Psal. XXXII, 1). S. Basilio sopra queste parole dice: Avvertite, che il Profeta non dice, che vi rallegriate nell’abbondanza delle cose temporali, nemmeno nella vostra molta abilità ed ingegno, non nelle molte lettere e nei grandi talenti che avete, né che vi rallegriate nella buona sanità e nelle grandi forze corporali, nemmeno nell’esser in molta riputazione e in molta stima presso gli uomini; ma che vi rallegriate nel Signore, e che mettiate tutta la vostra contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà; perché questa sola cosa è quella che sazia; e tutto il rimanente non può dare soddisfazione né vera contentezza (D. Basil. 8 in eumdem Ps.). S. Bernardo in un Sermone che fa sopra quelle parole di S. Pietro, Ecce nos reliquimus omnia etc., va dichiarando e provando molto bene questa cosa, e dice: Anima rationalis ceteris omnibus occupavi potest, repleri omnino non potest (2 (2) D. Bern. in Matth. XIX, 27): Tutte le altre cose fuori di Dio possono bensì occupar l’anima e il cuore dell’uomo, ma non lo possono saziare; possono provocare e stuzzicare la fame, ma non levarla: Avarus non implebitur pecunia (Eccle. v, 9): come appunto accade all’avaro il quale, per detto del Savio, ha gran fame di denari; ma abbiane quanti ne può avere, non si sazierà mai: e il medesimo è di tutte le altre cose del mondo, che non potranno giammai saziare l’anima nostra. E ne rende la ragione S. Bernardo con dire: Sai perché le ricchezze e tutte le cose del mondo non ci possono saziare? Quia non sunt naturales cibi animæ (D. Bernard., tract. de dil. Deo c. 3 in fine); perché non sono cibo naturale né proporzionato dell’anima. Siccome l’aria e il vento non sono cibo naturale né proporzionato del nostro corpo, e ti rideresti, se vedessi che un uomo, morto di fame si mettesse colla bocca aperta all’aria, come un camaleonte, pensando di potersi con quello saziare e sostentare, e lo terresti per pazzo; così non è minor pazzia, dice il Santo, il pensare, che l’anima razionale dell’uomo, la qual è spirito, si abbia da saziare colle cose temporali e sensuali: Inflari potest, satiari non potest: Si può gonfiare come un otre coll’aria, ma saziarsi è impossibile; perché non è questo il suo cibo. Dà a ciascuno il suo nutrimento proporzionato, al corpo cibo corporale, e allo spirito spirituale; Panis namque animai justitia est, et soli beati, qui esuriunt illam; quoniam ipsi saturabuntur (Idem sup. Illa verba, Ecce nos reliquimus omnia). Il pane dell’anima, il suo cibo naturale e proporzionato, è la giustizia la virtù; e così solamente quei che hanno fame e sete di questa giustizia saranno beati, perché essi saranno saziati. Il beato S. Agostino dichiarando tuttavia più questa ragione ne’ suoi soliloqui, e parlando dell’anima ragionevole, dice: Facto est capax majestatìs tua!, ut a te solo, et a nullo alio, possit impleri (D. Aug. c. 30 Solil.): Facesti, Signore, l’anima ragionevole capace della tua maestà, di maniera tale che nessun’altra cosa la possa appagare né saziare, se non tu. Quando l’incavo e l’incastro di un anello è fatto alla misura di qualche pietra preziosa, nessun’altra cosa che ivi si metta vi sta bene, né finisce di riempier quel vacuo, se non quella pietra preziosa alla cui misura fu fatto: e se l’incavo è triangolare, nessun’altra cosa rotonda lo potrà empire. Ora l’anima nostra fu creata ad immagine e similitudine della santissima Trinità, con un vacuo e un incavo nel nostro cuore capace di Dio e proporzionato per ricever in sé l’istesso Dio. E così è impossibile ch’altra cosa possa riempiere questo vacuo, che il medesimo Dio. – Tutta la rotondità del mondo non basterà ad empierlo. Fecisti nos, Domine, ad te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te (Idem, lib. 1 Confess. c. 1): Ci facesti, Signore, per te; e così non si può quietare il nostro cuore né aver riposo, se non in te. – È molto buona questa cosa, e si dichiara molto bene con quella similitudine che comunemente si suol portare dell’ago, o frezzetta dell’oriuoletto portatile da sole. La natura di quest’ago, dopo essere stato toccata colla pietra calamita, è di volgersi e guardare verso la tramontana; perché Dio gli diede questa naturale inclinazione: e vedrai quanto sta inquieto quell’ago, e quante volte si gira e si rigira, sin a tanto che si drizzi colla punta a tramontana, e come fatto questo subito si ferma. Or così Dio creò l’uomo con questa naturale inclinazione e risguardo a Lui come a sua tramontana ed ultimo fine: onde finché non metteremo il nostro cuore in Dio, sempre staremo, come l’ago suddetto, mobili e inquieti. A qualsivoglia di quelle parti mobili del cielo che guardi quell’ago, non si quieta; e subito che guarda ad un punto del cielo che non si muove, rimane fisso ed immobile: così mentre metterai gli occhi e il cuore nelle cose del mondo mutabili e transitorie, non potrai aver quiete né contentezza: mettilo in Dio, e l’avrai. – Questo ci dovrebbe muovere grandemente a cercar Dio, ancorché non fosse per altro che per nostro proprio interesse; perché  tutti desideriamo d’aver contentezza. Dice S. Agostino : Scimus, fratres, quoti omnis homo gaudere desiderat; sed non omnes ibi quærunt gaudium, ubi oportet inquivi (D. Aug. serm. 20 de Sanct.): Sappiamo bene, Fratelli miei, che ogni uomo naturalmente desidera contentezza e quiete, e la procura quanto può, perché non ne può viver senza; ma tutto il discernimento, o inganno degli uomini sta nell’affrontare a mettere gli occhi e il cuore nella contentezza vera, o nel mettergli in quella che è apparente e falsa. L’avaro, il lussurioso, il superbo, l’ambizioso e il goloso, tutti desiderano aver contentezza; ma uno mette la sua contentezza nel posseder molte ricchezze; l’altro negli onori e nelle dignità; l’altro nel mangiare e banchettare; l’altro ne’ piaceri disonesti: non hanno affrontato a mettere la contentezza loro ove l’avevano da mettere, e così non la troveranno mai; perché tutte queste cose e quanto è nel mondo, non basta a saziare l’anima né a darle contentezza. E così S. Agostino dice: Quid ergo per multa vagaris, homuncio, quærendo bona animæ tuæ et corporis tui? Ama unum bonum, in quo sunt omnia bona, et sufficit: desidera simplex bonum, quod est omne bonum, et satis est. Idem de Spir, et Anima , c»p, 64.): A che fare ti stracchi, uomicciuolo, cercando queste cose di qua? se vuoi avere sazietà e contentezza, ama Dio, e questo basta; perché  in esso stanno tutti i beni, ed Egli solo è quegli che può saziare ed empiere il desiderio del tuo cuore. Benedic, anima mea, Domino, qui replet in bonis desiderium tuum (Psal. CII, 1, 5). Benedetto, lodato e glorificato ne sia Egli in eterno. Amen.

CAPO VI.

Si dichiara per un altro verso come il conformarci alla volontà di Dio è mezzo per aver contentezza.

Il glorioso S. Agostino, sopra quelle parole del Salvatore, Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo , hoc faciam (D. Aug. tract. 73 in Jo.; Jo. xiv. 13). Qualsivoglia cosa che domanderete al mio Padre in mio nome, vi sarà da me conceduta, dice che non deve uno cercar pace e quiete per la via di far la volontà propria e di conseguire quel che appetisce; perché non è questo il suo bene né quello che gli conviene; anzi questo sarebbe forse male per esso; ma ha da procurare di accomodarsi semplicemente in quel bene, o in quel meglio che Dio gli manda, e questo è quello che ha da chiedere a Dio: Quando enim nos delectant mala, et non delectant bona; rogare debemus pótius Deum, ut delectent bona, quam ut concedantur mala: Se non trovi gusto nell’adempimento della volontà di Dio, che è il vero bene, ma il tuo gusto e appetito ti porta a cercare l’adempimento della tua volontà, hai da chiedere e porger suppliche a Dio, che non ti conceda quello che tu vuoi, ma che ti dia gusto nell’adempimento della sua divina volontà, che è il tuo vero bene e quello che ti conviene. E porta a questo proposito quel fatto che si legge ne’ Numeri (Num. XI, 4), quando i figliuoli d’Israello s’infastidirono della manna del cielo che Dio mandava loro, e desiderarono e domandarono carne, che Dio soddisfece al desiderio loro; ma costò loro molto caro, perché, Adhuc esca? eorum erant in ore ipsorum, et ira Dei ascendit super eos. Et occidit pingues eorum, et electos Israel impediva (Ps. LXXVII): Dio li castigò, facendo una grande uccisione d’essi. È cosa chiara, ch’era migliore la manna del cielo che Dio mandava loro, che la carne da essi desiderata e che le cipolle e gli agli dell’ Egitto per i quali sospiravano; onde non dovevano dimandar queste cose a Dio, dice il Santo, ma sì bene, che risanasse loro il palato, acciocché avessero avuto buon gusto del cibo celeste, e così non avrebbero avuto a desiderare altro cibo; poiché nella manna avevano tutte le cose e tutti i sapori che potevano desiderare (Sap. XVI, 20). Nell’istesso modo quando tu stai colla tentazione, o colla passione, ed hai il gusto corrotto e guasto, sì che non gusti della virtù né del bene, ma come infermo appetisci cose cattive e nocive; non t’hai da regolare col tuo appetito, né hai da volere che s’adempisca quel che desideri; perché questo non sarà mezzo per aver contentezza, ma per aver di poi maggior disgusto e maggiore inquietudine e scontentezza. Quello che hai da desiderare e da domandar a Dio, è che ti risani il palato e ti dia gusto nell’adempimento della santissima volontà sua, ch’è il bene e quello che ti conviene; e in questo modo verrai a conseguire la vera pace e la vera contentezza. S. Doroteo (D. Doroth. Doctr. 9) va in questo per un’altra strada, o per dir meglio, dichiara questa cosa in un altro modo, e dice, che colui il quale conforma in ogni cosa la volontà sua a quella di Dio, di maniera che non ha altro volere, né altro non volere che quello che Dio vuole, o non vuole, viene in questo modo a far sempre la sua propria volontà e ad aver sempre molta pace e quiete. Poniamo esempio nell’ubbidienza, e con ciò resterà dichiarato quel che vogliamo dire, e faremo, come suol dirsi, d’un viaggio due servigi. Diciamo comunemente a quei che vogliono essere Religiosi e camminare per la strada dell’ubbidienza: Avvertite, che qui nella Religione non avete da fare la volontà vostra in cosa alcuna; e S. Doroteo dice: Andate pure alla Religione, che in essa potete ben fare la volontà vostra: io vi darò un mezzo da poter fare tutto il giorno la vostra volontà non pur lecitamente, ma santamente e con gran perfezione. Sapete come? Qui propriam non habet voluntatem, suam ipsius semper agit voluntatem: Il Religioso che è vero ubbidiente, e non ha propria volontà, sempre fa la volontà sua, perché fa sua la volontà altrui: Et sic, nolentes propriam explere voluntatem, invenimur illam semper explevisse: Procurate voi che la volontà vostra non sia altra che la volontà del Superiore; e così tutto il giorno andrete eseguendo la vostra volontà, e con gran perfezione e merito: perché in questa maniera io dormo quanto voglio; perché non voglio dormire più di quello che è ordinato dall’ubbidienza: e mangio quel che voglio; perché non voglio mangiar più di quello che mi è dato: e fo l’orazione, la lezione e la penitenza che voglio; perché in tutto questo non voglio se non quello che dall’ubbidienza è tassato e ordinato: e così in tutto il resto. Di maniera che il buon Religioso, non volendo fare la volontà sua, viene a far sempre la sua volontà: e perciò stanno tanto allegri e contenti i buoni Religiosi. Quel far sua la volontà dell’ubbidienza li fa star sempre contenti ed allegri. In questo sta tutto il punto della facilità o difficoltà della Religione, e da questo dipende l’allegrezza e la contentezza del Religioso. Se ti risolvi di lasciare la tua propria volontà e di pigliare per tua la volontà del Superiore, ti si farà molto facile e soave la Religione, e vivrai con gran contento e allegrezza. Ma se hai altra volontà differente da quella del Superiore, non potrai vivere nella Religione. Due volontà differenti non sono compatibili in un solo. Ancora con non avere noi altri se non una volontà sola, pure perché abbiamo un appetito sensitivo che contraddice alla volontà e alla ragione, abbiamo da fare a difenderci da esso, non ostante che questo appetito sia inferiore e subordinato alla nostra volontà; or che sarebbe, essendoci due volontà, ciascuna delle quali pretendesse essere la padrona? Nemo potest duobus dominis servire (Matth. VI, 24): Nessuno può servire a due padroni. La difficoltà della Religione non istà tanto nelle cose e nei travagli che sono in essa, quanto nella ripugnanza della nostra volontà e nella apprensione della nostra immaginazione: questa è quella che ci rende le cose pesanti e difficili. Questo si conoscerà molto bene dalla differenza che esperimentiamo in noi altri quando abbiamo tentazioni e quando non ne abbiamo; perché quando stiamo senza tentazioni, veggiamo che le cose ci si fanno facili e leggiere; ma ti verrà una tentazione e ti si caricherà addosso una tristezza e malinconia grande; e allora quel che ti soleva esser facile ti diventa molto difficile, e ti pare di non poter portare sì gran peso, e che per farlo bisogna che si congiunga il cielo colla terra. Non istà la difficoltà nella cosa, poiché è la medesima ch’era prima; ma nella tua mala disposizione: come quando l’infermo abborrisce il cibo, non istà il male nel cibo, che questo è buono e ben condito, ma nel cattivo umore dell’infermo, il quale fa che il cibo gli paia cattivo e di mal sapore: così è qui nel caso nostro. Questa è la grazia che Dio fa a quei che chiama alla Religione, il dar loro gusto e sapore nel seguire la volontà altrui. Questa è la grazia della vocazione, colla quale il Signore ci ha fatti di miglior condizione che i nostri fratelli rimasi colà nel mondo. Chi ti diede cotesta facilità in lasciare la volontà tua e in seguir quella di un altro? chi ti diede un cuor nuovo per abborrire con esso le cose del mondo e per gustare del ritiramento dell’orazione e della mortificazione? non sei già nato con questo; no certamente, ma più tosto col contrario: Sensus enim, et cogìtatio humani cordis in malum prona sunt ab adolescentia sua (Gen. VIII, 21). Questa è stata grazia e dono dello Spirito santo: Egli fu quegli che come buona madre ti pose nelle poppe del mondo l’aloe, acciocché ti diventasse amaro quello che prima ti era dolce; e pose mele soavissimo nelle cose della virtù e della Religione, acciocché ti diventasse saporito e soave quello che prima ti pareva amaro e di mal sapore: Domine, qui me custodisti ab infantia, qui abstulistì a me amorem sæculi, diceva già quella gran Santa (In Vita B. Agat. et Eccl. in Off. ejus sol.): Ti rendo, Signore, infinite grazie, perché mi hai custodita ed eletta fino dalla mia fanciullezza e perché hai levato via dal mio cuore l’amor del secolo. Ah! che non è gran cosa quella che noi altri facciamo nel renderci Religiosi; ma è bensì molta e grandissima la grazia che Dio ci ha fatta nel tirarci alla Religione e nel far che gustiamo della manna del cielo, mentre gli altri gustano e si trattengono cogli agli e colle cipolle dell’Egitto. Alle volte mi metto a considerare, come quei del mondo si svestono della volontà loro e fanno propria la volontà altrui per i loro guadagni e interessi, cominciando dal primo personaggio che sta al lato del Re, sino all’ultimo staffiere e all’ultimo mozzo di stalla. Mangiano, come essi stessi dicono, secondo la fame altrui, dormono secondo l’altrui sonno, e sono tanto assuefatti a questo, ed hanno fatta talmente lor propria la volontà altrui, che gustano di quella maniera di vivere e la tengono per trattenimento: Et Mi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant; nos autem incorruptam (1 Cor. IX, 25). Or che gran cosa è. Che noi altri gustiamo di un modo di vivere tanto ben ordinato, quanto è quello della Religione, e facciamo propria la volontà del Superiore, la quale è migliore che la nostra? Se quelli per un poco di onore e di interesse temporale si fanno tanto propria la volontà altrui, che arrivano ad avere per gusto e per trattenimento il seguirla e il fare della notte giorno e del giorno notte; che gran cosa è, che noi facciamo questo per amor di Dio e per acquistare la vita eterna? Risolviamoci dunque di far nostra la volontà del Superiore, e in questo modo faremo sempre la volontà nostra, e vivremo molto contenti ed allegri nella Religione, e sarà la nostra allegrezza e il nostro gusto molto spirituale. Ritorniamo ora al nostro intento e applichiamo questo al nostro proposito. Facciamo nostra la volontà di Dio, conformandoci ad essa in tutte le cose, e non avendo altro volere, o non volere, che quello che Dio vuole, o non vuole ; e in questa maniera verremo a far sempre la propria volontà nostra e a vivere con gran contento e allegrezza. Chiara cosa è, che se tu non vuoi se non quel che Dio vuole, si farà la volontà tua; perché si farà quella di Dio, che è quello che tu vuoi e desideri. Insino Seneca seppe dir questo (1 Seneca in præfat. lib. 3 nat. quæst.). La più alta e più perfetta cosa che sia nell’uomo, dic’egli, è saper sopportare con allegrezza i travagli e le avversità, e tollerar tutto quello che succede, come se di sua propria volontà il tutto gli succedesse; perché l’uomo è obbligato a volere così, sapendo che questa è la volontà divina. Oh! quanto contenti vivremmo, se accertassimo bene a far nostra la volontà di Dio e a non voler mai se non quello che Egli vuole; non solo perché sempre si farà la volontà nostra, ma ancora e principalmente per vedere, che sempre si fa e si adempie la volontà di Dio che tanto amiamo. Che sebbene abbiamo ancora a valerci di quel tanto che ora si è detto; nondimeno in questo poi dobbiamo finalmente venire a fermarci, e in questo abbiamo da mettere ogni nostra contentezza, nel gusto e soddisfazione di Dio, e nell’adempimento della santissima e divina volontà sua: Omnia quæcumque voluit Dorninus, fecit, in cœlo, et in terra, in mari, et in omnibus abyssis ( Ps. CXXXIV, 9): Tutte le cose che il Signore ha voluto, ha fatte, e farà tutte quelle che vorrà; e può fare quanto può volere, come dice il Savio: Subest enim tibi, cum volueris, posse (Sap. XII, 18): Né vi è chi glielo possa impedire, né chi gli possa resistere: In ditione enim tua cuncta sunt posita, et non est qui possit tuœ resistere voluntati (Esther XIII, 9); Voluntati ejus quis resistit (Ad Rom. IX, 19)?

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (3)