DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (9)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [9]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXI.

Si conferma quel che s’è detto con alcuni esempi.

Racconta Simone Metafraste nella Vita di S. Giovanni Limosiniero, Arcivescovo d’Alessandria, che un uomo ricco aveva un figliuolo da lui grandemente amato: e per impetrare da Dio, che gli conservasse la vita e la sanità pregò il Santo, che facesse orazione per lui, dandogli gran quantità d’oro da distribuire per limosina ai poveri secondo questa intenzione. Il Santo lo fece, e a capo di trenta giorni quel figliuolo morì. Il padre ne restò afflittissimo, parendogli, che l’orazione e la limosina fatta per esso fossero state fatte in vano. E avendo notizia il Patriarca della sua afflizione, fece orazione per lui, chiedendo a Dio che lo consolasse. Esaudì il Signore la sua orazione, e una notte mandò un Angelo santo dal cielo, il quale apparve a quell’uomo, gli disse, che dovesse sapere, che l’orazione che s’era fatta pel suo figliuolo era stata esaudita, e che per essa il fanciullo era in cielo vivo e salvo, e che era stato per lui espediente il morire in quel tempo in cui era morto, per salvarsi; perché se fosse vissuto, sarebbe stato cattivo, e si sarebbe renduto indegno della gloria di Dio: e gli disse di più, che sapesse, che nessuna cosa, di quante ne accadono in questa vita, accade senza giusto giudizio di Dio, sebbene le ragioni de’ suoi giudizi sono occulte agli uomini; e che perciò non dee l’uomo lasciarsi prendere da tristezza disordinata, ma ricevere con animo paziente e grato le cose che Dio ordina. Con questo celeste avviso il padre del morto fanciullo rimase consolato e ben inanimato a servir Dio. – Nell’Istoria Tebea (Hist. Theo. lib. 2, c. 10) si narra una grazia singolare che S. Maurizio, capitano che fu della Legione Tebea, fece ad una gentildonna molto sua devota. Aveva costei un solo figliuolino, e acciocché s’allevasse a buon’ora in religiosi costumi, nel fine della sua tenera età la madre lo consacrò nel monastero di S. Maurizio, sotto la cura e il governo de’ Monaci, come in quei tempi si costumava di fare; e come lo fecero il padre e la madre con Mauro e Placido, e alcuni altri nobilissimi Romani in tempo di S. Benedetto, e molti anni dopo lo fecero con S. Tommaso d’Aquino nel monastero di Monte Cassino la sua madre Teodora e i Conti d’Aquino suoi fratelli. S’allevò in quel monastero l’unico figliuolo di detta gentildonna in lettere, e costumi, e nella disciplina monastica, molto bene; e già aveva cominciato a cantare soavissimamente in Coro in compagnia de’ Monaci, quando sopraggiuntagli una febbretta se ne morì. Andò la sconsolata madre alla chiesa, e con infinite lagrime accompagnò il morto sino alla sepoltura: ma non bastarono le tante lagrime per temperare il dolore della madre, né per ritenerla dall’andar ogni giorno a quella sepoltura a piangerlo senza misura; il che molto più faceva, quando mentre si dicevano gli Uffici divini si ricordava di esser priva d’udir la voce del figliuolo. Perseverando la gentildonna in questo sì mesto esercizio, non solo di giorno in chiesa, ma anche di notte in casa, senza potere pigliar riposo, vinta una volta dalla stanchezza se ne restò addormentata, e in quel sonno le apparve il santo capitano Maurizio, che disse: Perché, o donna, stai continuamente piangendo la morte del tuo figliuolo, senza poter dar fine a tante lagrime? Rispose ella: Non potranno mai tutti i giorni della mia vita por fine a questo mio pianto: e perciò fin che vivrò piangerò sempre il mio unico figliuolo, né cesseranno questi miei occhi di spargere continue lagrime, fin a tanto che la morte non li chiuda, e separi da questo corpo questa sconsolata anima. E il Santo replicò: Ti dico, donna, che non t’affligga, né stii più a piangere il tuo figliuolo per morto, perché in realtà non è egli morto, ma vivo, e se ne sta in gaudio con noi altri nell’eterna vita: e per contrassegno di questa verità che io ti dico, levati su di mattina al Mattutino, e udrai la voce del tuo figliuolo fra quelle dei Monaci che canteranno l’Ufficio divino; e non solamente lo godrai domattina, ma anche tutte le altre volte che ti troverai presente alle divine Lodi in cotesta chiesa: cessa dunque e metti fine alle tue lagrime, poiché hai più tosto occasione di grande allegrezza che di tristezza. Svegliata la donna, aspettava con desiderio l’ora del Mattutino, per chiarirsi affatto della verità, restando tuttavia con .qualche dubbio, che questo fosse stato un mero sogno. Giunta l’ora, ed entrata ella in chiesa, riconobbe nel canto dell’Antifona la soavissima voce del beato suo figliuolo; e assicurata già della sua gloria in cielo, scacciato da sé tutto il dolore, rendette infinite grazie a Dio, godendo ella ogni giorno quella gratissima voce negli Uffici divini di quella chiesa, consolandola Dio in questa occasione e facendola ricca con questo dono. – Racconta un Autore (Flor, de Enriq. Gran. lib. 4, c. 63. ), che andando un giorno un cavaliere a caccia gli sbucò davanti una fiera, e la seguitò egli solo, senza alcun servidore, perché gli altri erano occupati intorno ad altre fiere: e seguitandola con grande ansietà si allontanò assai, e arrivò ad una selva ove udì una voce umana assai soave. Maravigliossi egli di udir in un deserto una voce tale, parendogli, che non potesse essere de’ suoi servidori, né meno d’altra persona di quel paese; e desiderando pur di sapere che cosa fosse quella voce, entrò più dentro nella selva, e vi trovò un lebbroso spaventevole in vista e molto stomachevole, il quale aveva talmente maltrattata la sua carne, che s’andava consumando in ciascuna parte e in ciascun membro del suo corpo. Il cavaliere a quella vista restò perplesso e come spaventato; nondimeno, sforzandosi e facendosi animo, se gli accostò, lo salutò con parole molto dolci, e gli domandò, se era quegli che cantava e donde gli era venuta voce sì dolce. Rispose il lebbroso: Io, signore, sono quel desso che cantava e questa è voce mia propria. Come ti puoi rallegrare, disse il cavaliere, avendo tanti dolori? Rispose il povero: Fra Dio Signor mio, e me, non v’è altra cosa di mezzo che questo muro di fango che è questo mio corpo: fracassato questo, e tolto via questo impedimento, andrò a godere la visione della sua eterna maestà: e vedendo io, che ogni giorno mi si va disfacendo a pezzi a pezzi, mi rallegro e canto con una incredibile allegrezza del mio cuore, aspettando, come aspetto la separazione da questo corpo, dappoiché per fin a tanto che io non lo lascio, non posso andare a goder Dio, fonte viva ove si trovano quelle inesauste vene di vero gaudio che dureranno per sempre. – S. Cipriano racconta d’un Vescovo (D. Cypr. lib. de mort.) il quale trovandosi per una grave infermità molto vicino a morte, affannato e sollecito per la presenza di essa, supplicò il Signore che gli allungasse la vita. Gli apparve un Angelo in forma di un giovine molto bello e risplendente, il quale con voce grave e severa gli disse: Pati timetis, exire non vultis, quid faciam vobis? Da un canto temete il patire in questa vita, e dall’altro non volete uscir da essa; che cosa volete che io vi faccia? dimostrandogli, che non piaceva a Dio questa ripugnanza nell’uscire da questa vita. E dice S. Cipriano, che l’Angelo gli disse queste parole, acciocché nella sua agonia le dicesse e le insegnasse agli altri. – Narra Simeone Metafraste, e l’apporta il Surio (Sarius tom. 1, fol. 237), del santo abbate Teodosio, che sapendo il Santo quanto utile sia la memoria della morte, e volendo con questo dar occasione a’ suoi discepoli di far profitto, fece aprir una sepoltura, e aperta che fu, si pose co’ suoi discepoli intorno a quella, e disse loro: Già è aperta la sepoltura; ma chi di voi sarà il primo a cui abbiamo da celebrar qui i funerali? Allora uno di que’ discepoli, chiamato Basilio, il quale era Sacerdote euomo di gran virtù, e così era molto disposto e preparato ad eleggersi la morte con molta allegrezza, lo prese per la mano, e inginocchiatosi gli disse: Benedicimi, o Padre, che io sarò il primo a cui s’hanno qui afare gli Uffici de’ defunti. Egli lo chiede, eil Santo glielo concedette. Comanda il santo abbate Teodosio, che se gli facciano subito in vita tutti gli Uffici soliti a farsi per i morti, il primo giorno, il terzo, il nono, e indi gli altri, che si fanno a capo di quaranta giorni. Cosa meravigliosa! finite le esequie e l’ufficio a capo de’ quaranta giorni, stando il monaco Basilio sano e salvo senza febbre, senza doglia di capo, e senza alcun altro male, come chi è preso da un dolce e soave sonno, se ne passa al Signore a ricever il premio della sua virtù e della prontezza e allegrezza colla quale aveva desiderato di vedersi con Cristo. E acciocché si vedesse quanto era piaciuta a Dio questa Prontezza e allegrezza colla quale il santo Monaco desidero uscire di questa vita, dietro aquesto miracolo ne succede un altro. Dice Simeone Metafraste, che per quaranta altri giorni dopo la sua morte lo vide l’abbate Teodosio venir ogni giorno al Vespro e cantar in Coro cogli altri discepoli: sebbene gli altri non lo vedevano né lo sentivano cantare, se non un solo che fra gli altri era insigne in virtù, chiamato Aecio, il quale lo sentiva cantare, ma non lo vedeva. Questi andò a trovare l’abbate Teodosio, e gli disse: Padre, non senti cantar con noi altri il nostro fratello Basilio? E l’Abbate rispose: Lo sento e lo veggo; e se vuoi, farò, che tu ancora lo vegga. E radunandosi il giorno seguente in Coro pel consueto Ufficio, vide l’abbate Teodosio, come soleva, il santo monaco Basilio che cantava cogli altri al solito, e lo mostrò col dito ad Aecio, facendo insieme orazione, e pregando Dio, che aprisse gli occhi di quell’altro Monaco, acciocché ancor esso lo potesse vedere. E avendolo veduto e riconosciuto, andò subito correndo da lui con grand’allegrezza per abbracciarlo; ma non lo potè prendere, che sparì subito, dicendo con voce che da tutti fu udito: Restatevene con Dio, Padri e Fratelli miei, restatevene con Dio, che da qui avanti non mi vedrete più. – Nella Cronaca dell’ Ordine di S. Agostino (Chron. Ord. S. Aug. cent. 3) si narra di Colombano il giovine, nipote e discepolo del santo abbate Colombano, che avendo grandissime febbri e trovandosi vicino a morte, è come pieno di grande speranza desiderando di morire, gli apparve un giovine risplendente il quale gli disse: Sappi, che le orazioni del tuo Abbate e le lagrime ch’egli sparge per la  tua salute impediscono la tua uscita da questa vita. Allora il Santo si lamentò amorevolmente col suo Abbate, e piangendo gli disse: Perché mi violenti tu a vivere una vita tanto piena di tristezza, quanto è questa, e m’impedisci l’andare all’eterna? Con questo l’Abbate cessò dal piangere e dal fare orazione per lui; e così radunatisi i Religiosi, e presi egli i santi Sacramenti, abbracciandolo tutti, morì nel Signore. – S. Ambrogio riferisce de’ popoli della Tracia (D. Ambr. de fide resurr.), che quando nascevano gli uomini, piangevano; e quando morivano, facevano gran festa. Piangevano il nascimento, e celebravano e festeggiavano il giorno della morte, parendo loro, e con molta ragione, dice S. Ambrogio, che quei che venivano in questo mondo miserabile, pieno di tanti travagli, erano degni d’esser compianti, eche quando uscivano da quest’esilio, era ragionevole far festa e allegrezza, perché si liberavano da tante miserie. Or se coloro essendo Gentili e Pagani, e non avendo cognizione della gloria che noi speriamo e aspettiamo, facevan questo; che cosa vorrà la ragione che sentiamo e facciamo noi altri i quali illuminati col lume della Fede abbiamo notizia de’ beni che vanno a godere quei che muoiono nel Signore? E così con molto maggior ragione disse il Savio, che è migliore il giorno della morte che quello della nascita: Melior est dies mortis die nativitatis (Eccle. VII, 2). S. Girolamo dice (D. Hieron. ep. ad Tir.), che per questo Cristo nostro Redentore, volendo partirsi da questo mondo per andare al Padre, disse a’ suoi discepoli i quali se n’attristavano: Si diligeretis me, gauderetis utique, quia vado ad Patrem (Jo. XIV, 23): Non sapete quel che fate: se m’amaste, più tosto vi dovreste rallegrare, perché vo al mio Padre: e per lo contrario, quando si risolvette di risuscitar Lazzaro, pianse. Non pianse, dice S. Girolamo, perché Lazzaro fosse morto (Ibid. XI, 35), poiché subito l’aveva da risuscitare; ma pianse, perché aveva da ritornare a questa vita miserabile: piangeva, perché quegli che Egli aveva amato e amava tanto, doveva ritornare a’ travagli di quest’esilio.

CAPO XXII.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere ne’ travagli e nelle calamità universali ch’Egli manda.

Non solo abbiamo d’avere conformità alla volontà di Dio ne’ travagli e avvenimenti nostri propri e particolari; ma anche dobbiamo averla ne’ travagli e nelle calamità pubbliche e universali, di carestie, di guerre, d’infermità, di morti, di peste e altre simili, che il Signore manda alla sua Chiesa. Per quest’effetto bisogna supporre, che quantunque da un canto sentiamo queste calamità e Castighi, e ci dispiaccia il male e il travaglio de’ nostri prossimi, come la ragion vuole; nondimeno dall’altro canto, considerandoli in quanto sono volontà di Dio, e ordinati dai suoi giusti giudizi, per cavare da quegli i beni e frutti di sua maggior gloria ch’Egli sa, ci possiamo conformare in essi alla sua santissima e divina volontà; in quella maniera che lo veggiamo in un Giudice che sentenzia uno a morte, al quale sebbene da una parte dispiace che quell’uomo muoia, e di ciò ne provi gran pena per la compassion naturale, o per essere colui suo amico; nondimeno dall’altra parte dà la sentenza, e vuole che muoia, perché così conviene al ben comune della Repubblica. E ancorché sia vero, che Dio non volle obbligarci a conformarci alla volontà sua in tutte queste cose in tal modo, onde giungessimo a volerle ed amarle positivamente, ma si contentò, che le sopportassimo con pazienza, non contraddicendo né ripugnando alla sua divina giustizia, né mormorando di essa; dicono nondimeno i Teologi e i Santi (D. Bonav. 1 sent. d. 48, r. 2, et alii.), che sarà opera di maggior perfezione e merito, e più perfetta ed intera rassegnazione, se l’uomo non solo sopporterà con pazienza queste cose, ma anche le amerà e le vorrà in quanto sono volontà e beneplacito di Dio, e ordinazioni della sua divina giustizia, e servono per maggior sua gloria. Così fanno i Beati in cielo, i quali in tutte le cose si conformano alla volontà di Dio, siccome lo dice S. Tommaso (D. Thom. 2. 2, q. 9, art. 10 ad 1) e lo dichiara S. Anselmo (D. Ans. lib. similitudinum, c. 63) con questa similitudine, che nella gloria la nostra volontà e quella di Dio saranno così concordi, come sono di qua i due occhi di un medesimo corpo, che non può l’uno di essi guardare una cosa senza che la guardi l’altro ancora: e perciò benché la cosa si vegga con due occhi, sempre pare una medesima. Siccome dunque tutti i Santi colà in cielo si formano alla volontà di Dio in tutte le cose, perché in tutte esse veggono l’ordinazione della sua giustizia e il fine della sua maggior gloria a cui vanno indirizzate; così sarà gran perfezione, che noi altri imitiamo in questo i Beati, volendo che si faccia la volontà di Dio qui in terra come si fa in cielo. Il voler quello che Dio vuole, per la medesima ragione e fine per cui Dio lo vuole, non può non essere cosa molto buona. Possidonio riferisce di S. Agostino nella sua Vita, che essendo la città d’Ippona, ov’egli risedeva, assediata da’ Vandali, e veggendo esso tanta rovina e mortalità, si consolava con quella sentenza d’un Savio: Non erit magnus magnum putans, quod cadunt ligna et lapides, et moriuntur mortales: Non sarà grand’uomo quegli che penserà, che sia una gran cosa che le pietre e gli edifici cadano, e che muoiano i mortali. Con maggior ragione dobbiamo noi altri consolarci, considerando, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, e che questa è la volontà sua, e che quantunque la cagione per la quale Egli manda questi travagli e calamità sia occulta, non può essere che sia ingiusta. I giudicii di Dio sono molto profondi ed occulti; sono un abisso senza fondo, come dice il Profeta: Judicia tua abyssus multa (Psal. XXXV, 7): e non dobbiamo noi altri andargli investigando col nostro basso, corto e difettoso intelletto; che questa sarebbe gran temerità. Quis enim cognovit sensum Domini? aut quis consiliarius ejus fuit ((2) Ad Rom. XI, 34, et Isa. XI. Ì3)? Chi t’ha fatto del consiglio di Dio, per volerti intromettere in questo? Abbiamo però da venerare con umiltà i suoi profondi giudizi, e credere, che da Sapienza infinita non viene né può venire se non cosa molto buona, e tanto buona, che il fine di essa sia il nostro maggior bene e utilità (Supra c. 9). Abbiamo da camminare sempre con questo fondamento, credendo di quella infinita bontà e misericordia di Dio, che non manderebbe né proietterebbe simili mali e travagli, se non fosse per cavarne da essi beni maggiori. Vuole Iddio per questa strada guidare molti al cielo, i quali d’altra maniera andrebbero in perdizione. Quanti sono quelli che con questi travagli ritornano di cuore a Dio e morendo con vero pentimento de’ loro peccati si salvano, e altrimenti si sarebbero dannati? E cosi quel che pare castigo e flagello, è misericordia e beneficio grande. Nel secondo Libro de’ Maccabei dopo di aver l’Autore raccontata quell’orribile e crudelissima persecuzione dell’empio re Antioco, e il sangue che sparse senza perdonare a fanciullo né a vecchio, né a donna maritata né a vergine, e come spogliò e profanò il Tempio, e le abominazioni che in esso si commettevano per comandamento suo; aggiunge e dice: Obsecro autem eos, qui hunc librum lecturi sunt, ne abhorrescant propter adversos casus, sed reputent ea, quæ acciderunt, non ad interitum, sed ad correptionem esse generis nostri (II. Mach, VI, 12): Io prego tutti quelli che leggeranno questo libro, che non si perdano d’animo per questi sinistri avvenimenti; ma si persuadano, che Dio ha permessi e mandati tutti questi travagli non per distruzione, ma per emendazione e correzione della nostra gente. S. Gregorio (D. Greg. lib. 2 mor. c. 32) a questo proposito dice molto bene: La sanguisuga succhia il sangue dell’infermo, e quel che pretende, è saziarsi di esso e beverselo tutto se potesse; ma il medico pretende cavar con essa il sangue cattivo edar sanità all’infermo. Or questo è quello che pretende Dio per mezzo del travaglio e della tribolazione che ci manda: e siccome l’infermo sarebbe imprudente, se non si lasciasse cavare il sangue cattivo, avendo più riguardo a quel che pretende la sanguisuga, che a quello che pretende il medico; così noi altri in qualsivoglia travaglio che ci venga, sia per mezzo degli uomini, o sia per mezzo di qualsivoglia altra creatura, non abbiamo da riguardare ad esse, ma al sapientissimo medico Iddio, perciocché tutte esse servono a Lui di sanguisughe e di mezzi per evacuar il sangue cattivo e per darci intera sanità. E così abbiamo da persuaderci e credere, che ogni cosa Egli ci manda per maggior bene e utilità nostra. E ancorché non vi fosse altro che volerci il Signore gastigare in questa vita come figliuoli, e non differirci il castigo nell’altra; sarà questa una grazia e un beneficio molto grande. Si narra di S. Caterina da Siena (lu Vita S. Cath. de Sen. p. 2, e. 4), che trovandosi molto afflitta per una falsa accusa data contro di lei, toccante la sua onestà, le apparve Cristo nostro Redentore il quale teneva nella sua man dritta una corona d’oro, ornata di molte gioie e pietre preziose, e nella mano manca teneva un’altra corona, ma di spine, e le disse: Figliuola mia diletta, sappi, che è necessario che sii coronata con queste due corone in diverse volte e tempi; però eleggi tu quel che vuoi più tosto: o esser coronata in questa vita presente con questa corona di spine, e che quest’altra preziosa ti sia riservata per la vita che ti ha da durar in eterno, ovvero che ti sia data in questa vita questa corona preziosa, e per l’altra ti sia riservata questa di spine: e la santa vergine rispose: Signore, è già molto tempo ch’io rinunziai la mia volontà per seguir la vostra; perciò non tocca a me l’eleggere: tuttavia se voi, Signore, volete ch’io risponda, dico, che io sempre in questa vita eleggo l’esser conforme alla vostra santissima passione, e per amor vostro voglio abbracciar sempre pene per mio refrigerio: e detto questo prese la corona di spine colle proprie mani dalla sinistra del Salvatore, e se la pose sul capo con quanto poté di forza e con tanta violenza, che le spine glielo forarono tutto all’intorno talmente, che da quell’ora innanzi sentì per molti giorni un grave dolore nel capo per esservi entrate le spine.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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