26 OTTOBRE 1958: HABEMUS PAPAM – QUELLO VERO

Al calar della notte per cinque minuti è uscito fumo bianco dal camino. Per quanto era possibile sapere al mondo esterno,

era stato eletto un NUOVO PONTEFICE

Nuvole di fumo sono state viste per mezzo di luci puntate sul camino della Cappella Sistina.”

(AP News 27/10/1958, Città del Vaticano – Reportage sull’inconfondibile fumo bianco, visto da tutti, dal camino della Cappella Sistina, la sera precedente.)

( FOTO IN ALTO) da S/R:

(1.) Il Cardinale, Giuseppe Siri di Genova, in Italia era noto per essere il successore designato con cura da S.S. Pio XII.

(2.) Conclave papale del 26 ottobre 1958, ore 18:00: il fumo sbuffa all’esterno della Cappella Sistina per ben cinque minuti, indicando che Siri è stato eletto Papa. Egli ha accettato l’incarico e ha scelto il nome

GREGORIO XVII.

Poi, all’interno del conclave stesso, fu attuato un colpo di stato massonico per cui il Papa appena eletto fu “bloccato” violentemente. (*)

(3.) L’inquietante realtà delle parole di Nostra Signora di La Salette secondo cui:

Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’Anticristo … La Chiesa sarà in eclissi …”,

si è ora tristemente realizzata proprio davanti ai nostri occhi.

(*) La persona così eletta [Papa] acquisisce la piena giurisdizione sulla Chiesa universale immediatamente dopo aver acconsentito, e diventa il Vicario di Cristo sulla terra. ” (“Elezioni canoniche” p. 107, 1917, Imprimatur)

DEO GRATIAS

LUNGA VITA AL PAPA

Nam mysterium jam operatur iniquitatis): tantum ut qui tenet nunc, teneat, donec de medio fiat. Et tunc revelabitur ille iniquus …

(2 Tess. II, 7-8)

Framea, suscitare super pastorem meum, et super virum cohærentem mihi, dicit Dominus exercituum: percute pastorem, et dispergentur oves: et convertam manum meam ad parvulos.

O spada, esci dal fodero contro il mio Pastore e contro l’uomo unito con me, dice il Signore degli eserciti:

percuoti il Pastore,

e le pecorelle della greggia saran disperse; ed io stenderò ai piccoli la mia mano…

(Zac. XIII, 7-8)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (8)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [8]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XIX.

Della conformità che dobbiamo avere alla volontà di Dio sì nella morte come nella vita.

Abbiamo ancora da esser conformi alla volontà di Dio per quel che riguarda o il vivere, o il morire. E sebben questa cosa del morire di natura sua è molto difficile, perché, come dice il Filosofo, Omnium rerum nihil morte terribilius, nihil acerbius (Arist. 3 Æth. c. 6): la morte è la cosa più terribile di tutte le cose umane: nondimeno ne’ Religiosi è tolta via e spianata in gran parte questa difficoltà; perché già abbiamo fatta la metà di questo viaggio, ed anche quasi tutto. Primieramente una delle cagioni per le quali agli uomini del mondo suol riuscir duro il morire e dà loro gran dolore l’arrivo di quell’ora, è perché lasciano le ricchezze, gli onori, i diletti, i trattenimenti, le comodità che avevano in questa vita, gli amici e i parenti; quell’altro la moglie; quell’altro i figliuoli, i quali in quell’ora sogliono dare non poco fastidio, specialmente quando non restano accomodati e collocati. Tutte queste cose già le  ha lasciate a buon’ora il Religioso; e cosi non gli danno fastidio né dolore. Quando il dente è bene scarnato e staccato dalle gengive, allora si cava facilmente; ma se lo vuoi cavare senza scarnarlo, ti cagionerà gran dolore; così al Religioso che già è scarnato e staccato da tutte queste cose del mondo, non cagiona dolore nell’ora della morte l’averle a lasciare; perché le lasciò volontariamente, e con gran merito, fin da quando entrò nella Religione, e non aspettò a lasciarle nel punto della morte; come quei del mondo, che allora bisogna che le lascino per necessità, ancorché non vogliano, e con gran dolore e molte volte eziandio senza alcun merito; poiché più tosto sono le stesse cose che allora lasciano i lor possessori, che questi lascino esse. E questo, tra gli altri molti, è uno de’ frutti che si traggono dal lasciare il mondo e dall’entrare in Religione. S. Gio. Crisostomo nota molto bene (D. Crys. hom. 14 in I . ad Tim.), come a quei che stanno nel mondo molto attaccati alla roba, ai trattenimenti e alle comodità e delizie di questa vita, suol riuscire assai dolorosa la morte, secondo quello che disse il Savio: O mors, quam amara est memoria tua homini pacem habenti in substantiis suis (1(1) Eecli. XLI, 1)! Per fino la memoria della morte è loro amara; or che sarà la presenza di essa? Se questa solo immaginata è amara; che cosa sarà provata? Ma al Religioso il quale ha lasciate già tutte queste cose non è amara la morte, anzi gli è molto dolce e gustosa, come fine e termine di tutti i suoi travagli; e si considera in quel punto come uno che va a ricevere il premio e il guiderdone di tutto quello che ha lasciato per Dio. Un’altra cosa principale che suole cagionar grande angoscia e dolore in quell’ora agli uomini del mondo e render loro la morte terribile e tormentosa, dice S. Ambrogio (D Ambr., de bono mortis, c. 8) che è la mala coscienza e il mancamento di buona disposizione: il che né anche ha né deve aver luogo nel Religioso: poiché tutta la sua vita è una continua preparazione e disposizione al ben morire. Si narra di un santo Religioso, che dicendogli il medico che si preparasse per morire, egli rispose, che da che prese l’abito nella Religione non aveva fatto altro che prepararsi per la morte. Questo è l’esercizio del Religioso. Lo stato istesso della Religione c’instruisce nella disposizione che Cristo nostro Redentore vuole che abbiamo per la sua venuta: Sint lumbi vestri prœcincti, et lucernœ ardentes in manibus vestris (Luc. XII, 35): Tenete cinti i vostri lombi e candele accese nelle vostre mani. S. Gregorio (D. Greg. hom. 13 in Evang.) dice, che il cingere i lombi significa la castità, e il tener le candele accese nelle mani significa l’esercizio delle opere buone; le quali due cose risplendono principalmente nello stato della Religione; e così il buon Religioso non ha occasione di temere la morte. E notisi qui una cosa, già da noi altrove toccata (Vide supra tract.2, c. 5), la quale fa assai al nostro proposito; ed è, che uno de’ buoni contrassegni che vi siano d’aver una buona coscienza e di star bene con Dio, è 1’esser molto conforme alla sua divina volontà in ordine all’ora della sua morte, e lo starla aspettando con grande allegrezza, come chi aspetta il suo sposo, per celebrar con esso le nozze e gli sposalizi celesti : Et vos similes hominibus expectantibus dominum suum, quando revertatur a nuptiis (Luc. XII, 36). E  per lo contrario il dispiacere assai ad uno la morte e il non avere questa conformità, non è buon segno. Si sogliono apportare  alcune buone similitudini per dichiarar questa cosa. Non vedi con che pace e quiete va la pecora al macello, senza aprir bocca né far resistenza alcuna? Ch’è l’esempio che porta la sacra Scrittura per esprimere la mansuetudine con cui andò Cristo nostro Redentore alla morte: Tamquam ovis ad occisionem ductus est (Act. VIII, 32; Isa. LIII, 7). Ma l’animale immondo quanto grugnisce e quanta resistenza fa quando lo vogliono ammazzare? Or questa differenza vi è fra i buoni che sono figurati nelle pecore, e i cattivi e carnali che sono figurati in questi altri animali. Colui che è condannato a morte, ogni volta che sente aprir la prigione, s’attrista, pensando che vengano per cavarlo fuori e appiccarlo; ma l’innocente e quegli che è assoluto, si rallegra ogni volta che la sente aprire, pensando che vengano a liberarlo. Così l’uomo cattivo, quando sente scuotere le sue chiavi, la morte e l’infermità lo stringono, teme, e prova gran pena e affanno, perché come ha macchiata la coscienza, così pensa che presto avrà ad essere condannato alle fiamme dell’inferno per sempre. Ma quegli che ha buona coscienza più tosto si rallegra, perché conosce, che quindi sarà per passare alla libertà e al riposo eterno. Facciamo dunque noi altri quel che dobbiamo come buoni Religiosi: e non solamente non sentiremo difficoltà nel conformarci alla volontà di Dio nell’ora della morte; ma più tosto ci rallegreremo e pregheremo Dio col Profeta, che ci cavi da questo carcere: Educ de custodia (idest de carcere) animam meam (Ps. CXLI, 8). S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Et bestias terræ non formidabis, dice: Justis namque initium retributionis est ipsa plerumque in obitu securitas mentis (D. Greg. lib. 6 mor. o. 16 ; Job v, 22). L’aver nell’ora della morte quest’allegrezza e questa pace e sicurezza di coscienza, dice che è principio del guiderdone de’ giusti: già cominciano a godere una gocciola di quella pace che come fiume abbondante e fecondante ha da entrar subito nelle anime loro: già cominciano a sentire la loro beatitudine. E per lo contrario i cattivi cominciano a sentire il loro tormentO ed il loro inferno, con quel timore e rimorso che sentono in quell’ora. Di maniera che il desiderar la morte ed il rallegrarsi per essa è molto buon segno. – S. Giovanni Climaco dice così: È molto lodevole colui il quale aspetta ogni giorno la morte; ma colui il quale a tutte le ore la desidera, è santo (D. Clim. c. 6). E S. Ambrogio loda quelli che hanno desiderio di morire (D. Ambr. in Orat, funebri de obitu Valentin. Imp. tom. 5, et de fide resurr.). E cosi veggiamo, che quei santi Patriarchi antichi avevano questo desiderio, tenendosi per pellegrini e forestieri sopra la terra, e non per fermi abitatori: Confitentes, quia peregrini et hospites sunt super terram. E come nota molto bene l’apostolo S. Paolo, Qui hæc dicunt, significant se patriam inquirere (Ad Hebr. XI, 14.): Ben dimostravano in questo, che stavano desiderando di uscire da quest’esilio: e questa era la cosa per la quale sospirava il reale Profeta: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est (Ps. CXIX, 5)! Oimè, che si è prolungato il mio esilio! E se ciò dicevano e desideravano quegli antichi Patriarchi, stando allora chiusa la porta del cielo, e non avendovi d’andar essi subito; che sarà adesso che sta aperta e che subito che l’anima è purgata va a goder Dio?

CAPO XX.

D’alcune ragioni e motivi, per i quali possiamo desiderare la morte lecitamente e santamente.

Acciocché possiamo meglio e con maggior perfezione conformarci alla volontà di Dio, sì nella morte come nella vita, porteremo qui alcuni motivi e ragioni per lequali si può desiderar di morire, affinché eleggiamo la migliore. La prima ragione per la quale si può desiderare la morte, è per fuggire i travagli che reca seco questa vita: perché, come dice il Savio: Melior est mors, quam vita amara (Eccli. XXX, 17); è migliore la morte che una vita amara e travagliosa. In questa maniera veggiamo che gli uomini del mondo desiderano molte volte la morte, e la chieggono a Dio, e lo possono fare senza peccato; poiché alla fine sono tanti e tali i travagli di questa vita, che è lecito desiderare la morte per fuggirli (D. Aug. lib. 2 contra 2 epis. Gaud. cap. 22, tom. 7). Una delle ragioni che allegano i Santi dell’aver dati Dio tanti travagli agli uomini è, perché non s’avessero ad attaccar tanto a questo mondo né ad amar tanto questa vita; ma mettessero il loro cuore e il loro amore nell’altra, e sospirassero per essa, ubi non erit luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra (Apoc. XXI, 4), nella quale non vi sarà pianto né dolore. S. Agostino dice, che Dio Signor nostro per sua infinita bontà e misericordia volle che questa vita fosse breve e finisse presto, perché è travagliosa; e che l’altra che aspettiamo fosse eterna, acciocché il travaglio durasse poco, e il godimento e il riposo fosse eterno (D. Aug. sem. 37 de Sanctis, qui est sermo primus in testo omnium Sanctorum). Sant’Ambrogio dice: Tantis malis hæc vita repleta est, ut comparatione ejus mors remedium putetur esse, non pœna (D. Ambr. serm. sup. cit, c. 7 Jo. tom. 2.). È tanto piena di mali e di travagli questa vita, che se Dio non ci avesse data la morte per castigo, gliela avremmo domandata per misericordia e per rimedio, acciocché finissero tanti mali e travagli. Vero è, che molte volte gli uomini del mondo peccano in questo per l’impazienza colla quale pigliano i travagli e pel modo nel quale domandano a Dio la morte, usando termini di lamenti e d’impazienza; ma se gliela domandassero con pace e con sommessione, dicendo: Signore, se vi piace, cavatemi da questi travagli, mi basta quello che ho vissuto; ciò non sarebbe peccato. Secondariamente si può desiderar la morte con maggior perfezione, per non vedere i travagli della Chiesa e le continue offese che si fanno a Dio: come veggiamo che la desiderava il profeta Elia, il quale, veggendo la persecuzione d’Acab e di Jezabele che avevano distrutti gli Altari e uccisi tutti i Profeti di Dio, e che andavano in cerca di lui per lo medesimo effetto, ardendo di zelo dell’onore di Dio, e conoscendo che non vi poteva rimediare, se ne andò ramingo per i deserti della Giudea, e postosi quivi a seder sotto un albero, petivit animæ suæ, ut moreretur; et ait: Sufficit mihi, Domine: tolle animam meam; neque enim melior sum, quam patres mei (III. Reg. XIX, 4.): desiderò di morire; e disse: Mi basta, Signore, quello che sono vissuto: levatemi oramai da questa vita, acciocch’io non vegga tanti mali né tante vostre offese. E quel valoroso capitano del popolo di Dio, Giuda Maccabeo, diceva: Melius est mori in bello, quam videre mala gentis nostra;, et Sanctorum (I Mac. III, 59). Ci mette più conto il morire in guerra, che il veder tanti mali e tante offese di Dio: e con questo esortava ed animava i suoi a combattere. E del beato S. Agostino leggiamo nella sua Vita, che passando i Vandali dalla Spagna nell’Africa, distruggendola tutta, senza perdonare né ad uomo né a donna, né ad Ecclesiastici né a laici, né a fanciulli né a vecchi; arrivarono alla città d’Ippona della quale egli era Vescovo, e l’assediarono da ogni banda con molta gente: e vedendo S. Agostino tanto grande tribolazione, e le chiese senza Preti, e le città co’ suoi abitatori distrutte, piangeva amaramente nella sua vecchiaia, e radunato il suo Clero gli disse: Ho pregato il Signore, che, o ci liberasse da questi pericoli, o ci desse pazienza, o cavasse me da questa vita, per non farmi veder tanti mali; e il Signore m’ha conceduta questa terza cosa, e così subito al terzo mese dell’assedio si ammalò dell’infermità della quale morì. E del nostro S. P. Ignazio leggiamo nella Vita sua un altro esempio simile (Lib. 4, c. 16 Vita; F. N. S. Ign.). Questa è perfezione dei Santi, sentir tanto i travagli della Chiesa e le offese che si fanno alla, maestà di Dio, che non lo possono soffrire, e così desiderino la morte per non veder tanto gran male. – V’è ancora un altro motivo e un’altra ragione molto buona e di molta perfezione per desiderare e domandar a Dio la morte, ed è per vederci ormai liberi e sicuri dall’offenderlo. Perché è cosa certa, che mentre stiamo in questa vita non vi è sicurezza per questo; ma possiamo cadere in peccato mortale; e sappiamo, ch’altri da più di noi i quali avevano gran doni da Dio e che veramente erano Santi, e gran Santi, caddero. Questa è una delle cose che fa più temere i Servi di Dio e per la quale desiderano uscire da questa vita. Per non peccare può uno desiderare di non esser nato né di avere mai avuto essere; quanto più può desiderar di morire? Perciocché è maggior male il peccato, che il non essere: e meglio sarebbe stato il non essere, che l’aver peccato : Bonum erat et, si natus non fuisset homo Me (Matth. XXVI, 24), disse Cristo nostro Redentore di quel disgraziato di Giuda che l’aveva da vendere: Sarebbe stato meglio per lui non esser nato. E S. Ambrogio dichiara a questo proposito quelle parole dell’Ecclesiast (D. Ambr. 13 sup. Psal. CXVIII; Eccli. IV, 2, 3.): Et laudavi magis mortuos, quam viventes; et feliciorem utroque judicavi, qui necdum natus est! Ho lodato più i morti che i vivi, e per più felice di tutti questi ho riputato colui che non è mai nato. S. Ambrogio dice così: Mortuus præfertur viventi, quia peccare destitit: mortuo præfertur qui natus non est, quia peccare nescivit: Il morto è preferito al vivo, perché ha già lasciato di peccare: e al morto è preferito colui che non è nato, perché non ha mai potuto peccare. Onde sarà molto buono esercizio l’attuarci molte volte nell’orazione in questi atti, Domine, ne permittas me separarì a te: Signore, non permettete che io mi separi giammai da Voi. Signore, se vi ho da offendere, levatemi dal mondo prima ch’io vi offenda; che io non desidero la vita, se non per servirvi; e se non vi ho da servire con essa non la desidero (Supra tract. 5, c. 5). Questo è un esercizio molto grato a Dio e molto utile a noi altri, perché in sé contiene un esercizio di dolore e di odio e abborrimento del peccato, un esercizio di umiltà, un esercizio d’amor di Dio, e una domanda delle più grate a Dio che possiamo fargli. Si narra di S. Luigi re di Francia, che alle volte la sua santa madre, Donna Bianca Reina, gli diceva: Vorrei, figliuol mio, vederti piuttosto cader morto sotto a’ miei occhi, che vederti con un peccato mortale su l’anima. E piacque tanto a Dio questo desiderio e questa benedizione che ella gli dava, che si dice di lui che in tutta la sua vita non commise mai peccato mortale (In Vita S. Lud. Reg. Galliæ). Quest’ istesso effetto potrà essere che operi in te questo desiderio e questa domanda. Di più non solo per evitare i peccati mortali, ma ancora per evitare i veniali, de’ quali siamo pieni in questa vita, è cosa buona desiderare la morte. Perché il Servo di Dio ha da star molto risoluto e determinato non solo di morire più tosto che commettere un peccato mortale; ma eziandio di più tosto morire che dire una bugia, che è un peccato veniale: echi veramente morisse per questo, sarebbe martire: dappoiché è cosa certa, che se viviamo, commettiamo molti peccati veniali: Septies enim cadet justus (Prov. XXIV, 16): Sette volte cadrà l’uom giusto, che vuol dire molte volte: e quanto più vivrà, tante più volte cadrà (D. Thom. 2 2, q. 124, art. 5, ad 2). Né solamente per evitare i peccati veniali desiderano i servi di Dio di uscire da questa vita; ma lo desiderano ancora per vedersi liberi da tanti mancamenti e imperfezioni, e da tante tentazioni e miserie, quante ne proviamo ogni giorno: Dice molto bene quel Santo: O Signore, e quanto mai interiormente patisco, mentre pensando nell’orazione alle cose celesti, subito mi si rappresenta alla mente una gran turba di pensieri carnali! Oimè, che vita è questa, ove non mancano travagli e miserie; ove ogni cosa è piena di lacci e di nemici! Imperocché partendosi una tribolazione e tentazione, ne viene un’altra: e durando ancor la prima battaglia, ne sopravvengono molle altre non aspettate. Come può esser amata una vita piena di tanti guai e soggetta a tante calamità e miserie? come si può chiamar vita quella che genera tante morti e tante pesti (Thomas a Kempis, lib. 3, c. 48, n. 5)?Si legge d’una gran Santa che soleva dire,che se avesse potuto eleggere qualche cosa,non n’avrebbe eletta altra che la morte:perché l’anima per mezzo di essa si trovalibera d’ogni timore di far mai più cosache sia d’impedimento al puro amore. Èanche pur cosa di maggior perfezione ildesiderare d’uscire da questa vita, per evitari peccati veniali e i mancamenti e leimperfezioni, di quello che sia il ciò desiderareper evitare i peccati mortali; perchérispetto a questi può darsi che uno si muovaa concepire tal desiderio più per timor dell’inferno e per l’interesse e amor suo proprio,che per amor di Dio: ma l’aver eglitanto amore di Dio, che desideri la morteper non commettere peccati veniali, né mancamenti e imperfezioni, è gran purità d’intenzione e. cosa di gran perfezione. Ma potrebbe dire alcuno: io desidero di vivere per soddisfare per le mie colpe edifetti.A questo rispondo, che se vivendo più, scontassimo sempre le cose passate, e non aggiungessimo nuove colpe, questo sarebbe bene. Ma se non solamente non. I sconti, ma accresci i debiti, e quanto più vivi, tanto più hai di che render conto a Dio,non dirai bene. Dice benissimo S. Bernardo: Cur ergo tantopere vitam istam desideramus in qua quanto amplius vivimus, tanto plus peccamus; quanto est vita longior, tanto culpa numerosior (D. Bern. c. 2 medit.)? Perché desideriamo noi tanto questa vita nella quale quanto più viviamo, tanto più pecchiamo? E S. Girolamo dice: Che differenza pensi tu vi sia fra quello che muore giovine, e quello che muore vecchio, se non che il vecchio va all’altro mondo più carico di peccati che il giovane, e ha più di che rendere conto a Dio (D. Hieron. ep. ad Hel.)? E così S. Bernardo piglia in questo un’altra risoluzione migliore, e dice colla sua grande umiltà certe parole che noi altri possiamo dire con più verità: Vivere erubesco, quia parum pròficio: mori timeo, quia non sum paratus. Malo tamen mori, et misericordia; Dei me committere et commendare, quia benignus et misericors est; quam de mea mala conversatione alicui scandalum facere (D. Bern. de inter. domo, c. 35).Mi vergogno di vivere per lo poco profitto che io fo; e temo di morire perché non istò preparato: con tutto ciò voglio più tosto morire e pienamente abbandonarmi alla misericordia di Dio, poiché Egli è benigno e misericordioso, che proseguire a scandalizzare i miei fratelli colla mia vita tiepida e rimessa. Questo è un molto buon sentimento.Il P. Maestro Avila diceva, che chiunquesi sia il quale tanto solo che si trovi con mediocre disposizione, questo tale dovrebbe più tosto desiderar la morte che la vita, per ragione del pericolo in cui vive di offender Dio, e il quale cessa affatto colla morte. Quid est mors, nisi sepultura vitiorum, virtutum suscitatio? dice sant’Ambrogio.Che cosa è la morte, se non la sepoltura dei vizi e la resurrezione delle virtù (D. Ambros. de bono mortis, c. 4)? Tutte queste ragioni e motivi sono molto buoni per desiderar la morte; ma il motivo di maggior perfezione è quello che stimolava il cuore dell’apostolo Paolo, il quale desiderava di morire per brama di trovarsi col suo Cristo Gesù che tanto egli amava: Desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo (Ad Philip, l, 23). Che dici S. Paolo? Perchè desideri di essere sciolto dal corpo? forse per fuggire i travagli? no per certo, che più tosto gloriamur in tribulationibus (Ad Rom. V, 3): questa è la gloria mia. Perché  dunque? per fuggir i peccati? Né anche: Certus sum enim, quia neque mors, neque vita… poterit nos separare a charitate Dei (Ibid. VIII, 38): era egli confermato in grazia, e sapeva, che non la poteva perdere; e così non aveva occasione di temer questo. Perché dunque desideri tanto la morte? Per vedermi una volta con Cristo. La desiderava per puro amore: Quia amore langueo (Cane, II, 5). Era infermo d’amore, e così sospirava pel suo diletto, e qualsivoglia piccola tardanza gli pareva lunga, per arrivar a godere della sua presenza. S. Bonaventura di tre gradi che distingue 1’amor di Dio, mette questo per ultimo (D. Bonav. process. 6 Relig. c. 11, 12 et 13). Il primo è, amar Dio sopra tutte le cose, amando talmente le cose del mondo, che per nessuna di esse facciamo un peccato mortale né trasgrediamo alcun comandamento di Dio: che è quello che disse Cristo nostro Redentore a quel giovinetto dell’Evangelio: Si vis ad vitam ingredi. serva mandata (Matth. XIX, 17.). Se vuoi conseguire la vita eterna, osserva i comandamenti: e a questo è tenuto ogni Cristiano. Il secondo grado di carità è, non contentarci della osservanza dei comandamenti di Dio, ma aggiungerci i consigli: il che è proprio dei Religiosi, i quali non solo cercano il bene, ma anche il meglio e il più perfetto, conformemente a quello che diceva S. Paolo: Ut probetis, quæ sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta (Ad Rom. XII, 2). Il terzo grado di carità dice S. Bonaventura che è, tanto affectu ad Deum estuare, quod sine ipso quasi vivere non possis. Quando uno è tanto acceso e infiammato d’amor di Dio, che gli pare di non poter vivere senza di Lui: onde desidera vedersi libero e sciolto dal carcere di questo corpo per istarsene con Cristo, e sta desiderando d’essere richiamato da quest’esilio, e che si consumi e cada finalmente questo muro del corpo che sta di mezzo, e c’impedisce il vedere Dio. Questi tali, dice il Santo, hanno la vita in impazienza, o per dir meglio, in fastidio, e la morte in ardente desiderio. Del nostro S. Padre Ignazio leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 1 Vita P. N. S. Ignatii), che era ardentissimo il desiderio che aveva d’uscire da questo carcere del corpo, e che sospirava tanto l’anima sua per andar a trovarsi col suo Dio, che pensando alla sua morte non poteva ritener le lagrime che per pura allegrezza gli piovevan dagli occhi. Ma si dice ivi, che ardeva egli di questi accesissimi desideri non tanto per conseguir quel sommo bene per sé e per riposarsi egli in quella felice vista, quanto, e molto più, per veder la felicissima gloria dell’umanità sacrosantissima di Cristo che tanto egli amava. In quella maniera che suole di qua un amico rallegrarsi di veder ricolmo di onore e gloria quell’altro che egli ama cordialmente: nella stessa desiderava il nostro santo Padre di vedersi con Cristo, dimentico affatto del proprio interesse e riposo, e spinto da puro amore. Questo era l’unico suo desiderio, il protestarsi rallegrando e godendo della gloria di Cristo, e congratulandosi seco di essa, che è il più alto e perfetto atto d’amore a cui possiamo giungere (Infra c. 32). In questo modo non solo non ci sarà amara la memoria della morte, ma più tosto ci darà gran gusto ed allegrezza. Passa un poco più avanti, e considera, che da qui a pochi giorni starai in cielo godendo di quello che né occhio ha veduto, né orecchio ha udito, né può cader in umano intelletto, e che ogni cosa si convertirà in allegrezza e giocondità. Chi non si rallegra, che termini l’esilio e abbia fine il travaglio? chi non si rallegra di giungere a conseguire il suo ultimo fine per lo quale è stato creato? chi non si rallegra d’entrare in possesso della sua eredità, ed eredità tale? Ora per mezzo della morte entriamo a possedere l’eredità del cielo. Cum dederit dilectis suis somnum: ecce hæreditas Domini (Psal. CXXVI, 3). Non possiamo entrare in possesso di quei Beni eterni, se non per mezzo della morte. E così il Savio dice che l’uomo giusto spera nella sua morte: Sperat justus in morte sua (1 Prov. XIX, 32); perché questo è il mezzo e la scala per salire in cielo, e così questa è la consolazione del presente esilio. Psallam, et intelligam in vita immaculata, quando venies ad me (Psal. C, 2). S. Agostino dichiara così questo luogo (D. Aug. tract. 9 sup. Ep. Jo): Signore, la mia attenzione e il mio desiderio, è conservarmi senza macchia tutta la mia vita, e con questa cura e sollecitudine andrò sempre cantando, e l’argomento del mio canto sarà: Quando, Signore, si rivocherà quest’esilio? quando verrete per me? quando, Signore, verrò io a trovar voi? Quando veniam, et apparebo ante faciem Dei (Psal. XLI, 3)? Quando, Signore, mi vedrò avanti del vostro volto? Oh quanto mi viene ritardata quest’ora! Oh quanto sarà grande per me il gusto e l’allegrezza quando mi sarà detto, che ella è già vicina: Laitatus sum in his, qua; dicta sunt mihi: In domum Domini ibimus. Slantes erant pedes nostri in atriis tuis, Jerusalem (Ps. CXXI, 1-2): M’immagino d’aver già posti colà i piedi e di trovarmi in compagnia degli Angeli e di quei Beati, e di star godendo di voi, o Signore, per tutta l’eternità.