DOMENICA DELLA FESTA DI CRISTO RE (2020)

Messa della DOMENICA DI CRISTO RE (2020)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

DOMENICA In festo Domino nostro Jesu Christi Regis ~ I. classis

L’ULTIMA DOMENICA D’OTTOBRE

Festa del Cristo Re.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di prima classe. – Paramenti bianchi.

La festa del Cristo Re, per quanto d’istituzione recente, perché stabilita da Pio XI nel dicembre 1925, ha le sue più profonde radici nella Scrittura, nel dogma e nella liturgia. Merita, a questo riguardo d’esser riportato qui integralmente in versione italiana dall’ebraico, il famoso salmo messianico, che nel Salterio reca il n. 2. Il salmista comincia dal descrivere la congiura di popoli e governanti contro il Messia, cioè il Cristo:

A che prò si agitano le genti

e le nazioni brontolano vanamente?

Si sollevano i re della terra

e i principi congiurano insieme

contro Dio ed il suo Messia:

« Spezziamo i loro legami

e scotiamo da noi le loro catene ».

Popoli e governanti considerano come legami e catene intollerabili i precetti divini e cercano di ribellarvisi: tentativo ridicolo, conati di impotenti contro l’Onnipotente:

Chi siede nei cieli ne ride,

il Signore se ne fa beffe.

Poi loro parla con ira

e col suo sdegno li sgomenta.

Dio stesso dichiara che il Re da Lui costituito su tutto il mondo è il Messia:

« Ho consacrato Io il mio Re,

(l’ho consacrato) sul Sion, il sacro mio monte »..

Alla sua volta il Cristo Re dichiara:

« Promulgherò il divino decreto.

Dio m’ha detto: Tu sei il mio Figlio;

Io quest’oggi t’ho generato.

Chiedi a me e ti darò in possesso le genti

e in tuo dominio i confini della terra.

Li governerai con scettro di ferro,

quali vasi di creta li frantumerai ».

Il Salmista conchiude, rivolgendo un caldo appello al governanti:

Or dunque, o re, fate senno:

ravvedetevi, o governanti della terra!

Soggettatevi a Dio con timore

e baciategli i piedi con tremore;

affinché non si adiri e voi siate perduti,

per poco che divampi l’ira sua.

Felici quelli che ricorrono a Lui!

(Trad. Vaccari)

Un altro salmo, il più celebre di tutto il salterio, insiste sugli stessi concetti: regalità del Cristo, il quale, nello stesso tempo che re dei secoli, è anche sacerdote in eterno; ribellione di re e popoli contro il Cristo; trionfo finale, schiacciante ed assoluto del Cristo sui propri nemici:

Responso del Signore (Dio) al mio Signore (il Cristo):

« Siedi alla mia destra,

finché io faccia dei tuoi nemici

lo sgabello dei tuoi piedi ».

Da Sionne stenderà il Signore

lo scettro di tua potenza;

impera sui tuoi nemici…

Il Signore ha giurato e non se ne pentirà;

« Tu sei sacerdote in eterno

alla guisa di Melchisedecco…».

(Ps. CIX).

Attraverso queste espressioni metaforiche ed orientali infravediamo delle grandi verità religiose e storiche: la dignità assolutamente regale e sacerdotale del Cristo; i suoi diritti, per generazione divina e per la redenzione del genere umano (vedi Merc. Santo, lez. di Isaia, c. LIII 1-12); la signoria di tutto il mondo (vedi Fil. II, 5-11); la feroce guerra mossa al Cristo dagli avversari in tutto ciò che sa di religioso e particolarmente di cristiano; la vittoria del Cristo Re. Venti secoli di storia cristiana dicono eloquentemente quanto siasi già avverata la Scrittura. Da Erode, cosi detto il Grande, che s’adombra del Cristo bambino, a Caifa, che paventa per la sua nazione, e Pilato, che teme per la sua sedia curule, ai Giudei, uccisori del Cristo e persecutori degli Apostoli, agli imperatori romani, che ad intervalli perseguitano la Chiesa per oltre due secoli, fino alle moderne rivoluzioni che tutte si accaniscono anzitutto e soprattutto contro la Chiesa, è una lunga incessante storia di ribellioni di popoli e principi contro Dio ed il Cristo Re. Se guardiamo semplicemente al nostro secolo, alla persecuzione sanguinosa dei Boxer contro i Cattolici cinesi, alle persecuzioni del Messico, a quelle di quasi tutta l’Europa, dalla Russia alla Spagna, che guerra al Cristo Re! È fatale; ma altrettanto fatale la vittoria del Cristo. Ai suoi discepoli il Cristo Re dice: Confidate: io ho vinto il mondo (Giov., XVI, 33). Ai suoi nemici: Chiunque cadrà su questa pietra sarà spezzato; e colui sul quale la pietra cadrà sarà stritolato, Luc. XX, 18). Per impartirci tale dottrina « un’annua solennità è più efficace di tutti i documenti ecclesiastici, anche i più gravi» (Pio XI, enciclica 11 dic. 1925). La festa di oggi è una grande lezione per tutti: lezione specialmente di illimitata fiducia pei veri fedeli: Felici quelli che ricorrono a Lui (al Cristo Re). Lezione anche di devoto, generoso servizio sotto il vessillo del Cristo Re. La Messa odierna ricorda soprattutto la gloria tributata al Cristo Re dai beati del Cielo (Introito); il regno del Figlio Unigenito, ed il suo primato assoluto in tutto e su tutto (Epistola); quel regno celeste che Gesù ha rivendicato davanti a Pilato, il quale non credeva che al proprio grado e stipendio (Vangelo). il Prefazio canta le caratteristiche sublimi del regno del Cristo.  – Gesù-Cristo è il Verbo creatore, è l’Uomo-Dio seduto alla destra del Padre, è il nostro Salvatore. Sono questi i tre titoli di regalità.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum.

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]
Ps LXXI: 1
Deus, iudícium tuum Regi da: et iustítiam tuam Fílio Regis.

[Dio, da al Re il tuo giudizio, ed al Figlio del Re la tua giustizia] –


Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum…

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza. Forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in dilécto Fílio tuo, universórum Rege, ómnia instauráre voluísti: concéde propítius; ut cunctæ famíliæ géntium, peccáti vúlnere disgregátæ, eius suavissímo subdántur império: Qui tecum …

[Dio onnipotente ed eterno, che ponesti al vertice di tutte le cose il tuo diletto Figlio, Re dell’universo, concedi propizio che la grande famiglia delle nazioni, disgregata per la ferita del peccato, si sottometta al tuo soavissimo impero: Egli che …].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 12-20
Fratres: Grátias ágimus Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem ejus, remissiónem peccatórum: qui est imágo Dei invisíbilis, primogénitus omnis creatúra: quóniam in ipso cóndita sunt univérsa in cœlis et in terra, visibília et invisibília, sive Throni, sive Dominatiónes, sive Principátus, sive Potestátes: ómnia per ipsum, et in ipso creáta sunt: et ipse est ante omnes, et ómnia in ipso constant. Et ipse est caput córporis Ecclésiæ, qui est princípium, primogénitus ex mórtuis: ut sit in ómnibus ipse primátum tenens; quia in ipso complácuit omnem plenitúdinem inhabitáre; et per eum reconciliáre ómnia in ipsum, pacíficans per sánguinem crucis ejus, sive quæ in terris, sive quæ in cœlis sunt, in Christo Jesu Dómino nostro.

[Fratelli, ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in Lui ogni pienezza e per mezzo di Lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.]

Graduale

Ps LXXI: 8; LXXVIII: 11
Dominábitur a mari usque ad mare, et a flúmine usque ad términos orbis terrárum.

[Egli dominerà da un mare all’altro, dal fiume fino all’estremità della terra]

V. Et adorábunt eum omnes reges terræ: omnes gentes sérvient ei.

[Tutti i re Gli si prostreranno dinanzi, tutte le genti Lo serviranno].

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Dan VII: 14.
Potéstas ejus, potéstas ætérna, quæ non auferétur: et regnum ejus, quod non corrumpétur. Allelúja.

[La potestà di Lui è potestà eterna che non Gli sarà tolta e il suo regno è incorruttibile]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. – Joann XVIII: 33-37

In illo témpore: Dixit Pilátus ad Jesum: Tu es Rex Judæórum? Respóndit Jesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Judǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Jesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Judǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Jesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.

[In quel tempo, disse Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.  Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”].

OMELIA

 [Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pesiero, Milano, VI ed. 1956]

LA REGALITÀ DI CRISTO

Il conquistatore della Terra Promessa, l’invitto condottiero d’eserciti, stanco e vecchio presentiva che la sua giornata era al tramonto, e la morte gli era dietro le spalle. Allora in Sichem radunò tutte le tribù d’Israele coi loro principi, coi seniori, coi giudici, coi magistrati: la pianura, come un prato quando passa il vento, fluttuava di persone. E Giosuè parlò al popolo così: « Stirpe d’Israele! I vostri padri, spesse volte, hanno servito a re e a dei stranieri e furono schiavi in Mesopotamia e in Egitto. Ora il Signore vi ha liberati da ogni tirannia e con la sua mano vi ha deterso il pianto dagli occhi: vi diede una terra meravigliosa che voi non avevate lavorato; vi diede città che voi non avevate costrutte; vi diede oliveti e vigne che voi non avevate piantato. Dopo tutto questo, voi siete ancora liberi. Volete ritornare schiavi dei tiranni o dei falsi dei a cui servirono in Egitto e in Mesopotamia i vostri padri, o volete unicamente ubbidire al Dio nostro, al vero Re? Scegliete. Io e la mia famiglia siamo decisi a servire il Signore. Tutto il popolo rispose: « Non abbiam altro fuori di Lui: Lui solo è nostro Re ». « Allora togliete in mezzo a voi gli dei stranieri, e servite al Dio nostro e ubbidite ai suoi comandamenti » rispose Giosuè. Fu dunque conclusa un’alleanza solenne tra il popolo e il Signore, e una pietra stragrande fu posta in memoria sotto una guercia. « Ecco questa pietra starà in testimonianza per voi e per le generazioni che verranno, — esclamò Giosuè, — perché nessuno osi negare quello che a Dio ha giurato ». Tutto il popolo si disperse e ciascuno ritornò alla propria casa (Giosuè, XIV, 1-27). – Nel 1925, come il vecchio condottiero d’Israele, Pio XI parlò a tutto il popolo Cristiano con una magnifica lettera. « Le nostre anime hanno un Re grande e buono: un Re che è morto per darci la vita, ha versato il suo sangue per affrancarci dalla schiavitù del peccato, ha istituito il sacramento dell’Eucaristia per rimanere in mezzo a noi a governarci. Purtroppo, molti uomini si sono a Lui ribellati per tornare schiavi delle passioni e del demonio. Che scegliete: o servire satana e il mondo per poi essere dannati nel fuoco eterno o servire Gesù Cristo nell’osservanza dei comandamenti e nel rinnegamento degli istinti cattivi per poi essere beati in paradiso? ». Tutti i Cristiani di buona volontà hanno risposto: « Noi scegliamo d’essere sudditi di Gesù Cristo: nessun altro re conoscono le nostre anime ». Allora il Papa, in memoria perenne della consacrazione del mondo intero a Cristo Re, ha posto non una pietra fredda e muta, ma una festa devota ed entusiastica, da celebrarsi ogni anno nell’ultima domenica d’ottobre: la festa della Regalità di Nostro Signor Gesù Cristo. Per ciò oggi raccogliamo la nostra mente a meditare: chi è questo Re, come è il suo regno, quali sono i suoi nemici.

1. IL RE

Dice il santo Vangelo che sotto il pretorio di Pilato la plebe di Gerusalemme urlava: «Abbiamo trovato costui che sollevava il popolo a rivoluzione; ha cominciato dalla Galilea ed è venuto fin qua dicendo a tutti d’essere il Re dei Giudei ». Pilato ode le accuse ed in segreto interroga Gesù per sapere la verità. Gli domanda: « Sei tu il Re dei Giudei? » Gesù non risponde. « Non odi — continua Pilato — quante cose costoro gridano contro di te? Discolpati ». Gesù non risponde ancora. « Ma dunque — insiste il giudice romano — sei Re davvero? ». « Tu l’hai detto: io sono Re ». Rex sum ego (Giov., XVIII, 37). Ed aveva ragione. Chi è il re? è colui che sopra gli altri ha il triplice potere di far leggi, di giudicare, di punire. Orbene, Gesù Cristo possiede questo triplice potere. – Ha il potere di far leggi. « Voi sapete — diceva alle turbe il Maestro divino — che fin ora c’è stata una legge che permetteva l’odio al nemico e la vendetta fino a dente per dente, occhio per occhio. Adesso io vi do la legge dell’amore: fate del bene a quelli che vi fan del male, pregate per quelli che vi perseguitano e vi odiano. Voi sapete che fin ora c’è stata una legge che proibiva l’adulterio; adesso io vi dico che anche uno sguardo immodesto e un pensiero cattivo è peccato.. Voi sapete che fin ora c’è stata una legge che puniva i ferimenti e gli omicidi; adesso vi dico che punirò col fuoco anche le parole ingiuriose ed offensive » (Mt., V). – Ha il potere di giudicare. Spiegando ai discepoli la parabola della zizzania, Gesù disse che quando verrà nella sua maestà, starà sopra un trono, e gli Angeli saranno in giro a lui: allora separerà gli uomini a uno a uno, secondo il giudizio dei loro peccati (Mt., XIII, 40). E S. Giovanni ebbe una terribile visione: « Ho visto — scrive — tutti i morti, e grandi e piccoli, radunati davanti a un trono altissimo: furono aperti i libri delle loro opere e Gesù li giudicava secondo quello che vi stava scritto » (Apoc, XX, 12). Del resto lo diciamo nel Credo che Cristo « ascese al cielo: di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti ». – Ha il potere di punire e di premiare. Parlando del giudizio finale il Signore ha detto : « Allora il Re a quelli di destra dirà: venite, o benedetti del Padre mio, vi ho preparato un regno eterno di delizie, perché quando avevo fame voi mi sfamaste e quando avevo sete voi mi dissetaste. Ma poi volgendosi a quelli di sinistra dirà: voi che m’avete fatto patire e fame e sete siete condannati all’inferno col demonio e gli angeli ribelli» (Mt., XXV, 33-45). Dunque Gesù Cristo è Re. – È Re perché Dio gli ha dato ogni potestà su tutta la terra. È Re perché tutti gli uomini erano schiavi del peccato ed Egli li ha comprati non con oro né con argento ma col prezioso sangue suo. È Re perché tutti gli uomini erano sotto il dominio del demonio per il peccato originale ed Egli li ha conquistati morendo sulla croce. Per natura, per acquisto, per conquista è nostro Re e noi lo riconosciamo: « Tu Rex glorìæ, Christe! ».

2. IL REGNO

«Sono Re!» disse Gesù a Pilato. «Ma il mio regno non è di questo mondo. Se fosse di questo mondo i miei discepoli con le spade mi avrebbero difeso dai Giudei, e milioni di Angeli invincibili avrebbero sterminato i miei nemici ». Il Regno di Gesù Cristo non è un regno materiale. Egli avrebbe potuto venire al mondo come un potente imperatore, con la sua capitale, col suo palazzo, col suo esercito, con la sua flotta: ne avrebbe avuto anche il diritto. Però, per nostro amore preferì la stalla alla reggia, la corona di spine alla corona d’oro, la canna allo scettro, la croce al trono. Ma se il suo Regno non è materiale è però superiore ad ogni altro. I re di questo mondo comandano sui corpi, Egli sui cuori. I re di questo mondo si fanno ubbidire con la forza, Egli con l’amore. I re di questo mondo hanno palazzi e troni ed Egli ha le sue chiese e i suoi altari. I re di questo mondo hanno gli eserciti ed anch’Egli li ha, e più belli e più valorosi: sono migliaia di fanciulle che amano conventi ove per Lui consumano la vita, adorandolo giorno e notte; sono migliaia di uomini che rinunciano alle carriere fulgide del mondo, ai guadagni e si fanno religiosi, sacerdoti; sono migliaia di giovani robusti che hanno il coraggio di lasciare il paese dove sono nati, e la patria amata, e vanno per deserti e per selve, fino agli ultimi confini del mondo, senza nulla fuor che un crocifisso per estendere il Regno di Cristo. – Il Regno di Cristo è universale. Ogni regno di questo mondo ha i suoi confini: l’Italia è limitata dalle Alpi e dal mare, l’Inghilterra non regna sulla Russia né sulla Francia…, anche l’impero romano che fu il più grande di tutti aveva le sue colonne d’Ercole. Il regno di Gesù Cristo non ha confini: è grande come tutta la terra. Su ogni campanile di ogni paese trovate la croce; tra l’erba di ogni cimitero trovate la croce; nelle capanne dei selvaggi trovate la croce. Se il Papa, viceré di Cristo, dice una parola, quella parola con venerazione è ascoltata in ogni parte del mondo. – Il Regno di Cristo è eterno. Quando Gesù Cristo cominciò a regnare, sul mondo comandavano gl’imperatori romani: ora, tutti gli imperatori romani sono morti e morto è il loro impero, mentre ancora Cristo vince, regna, comanda. Era già mille anni che viveva la Chiesa di Cristo, quando Guglielmo il Conquistatore stabiliva in Inghilterra la dinastia dei re Anglo-Normanni; ora quella dinastia con tutti i suoi re è spenta, mentre ancora Cristo vince, regna, comanda. Erano già mille e duecento anni che c’era la Chiesa di Cristo, quando in Austria cominciò la dinastia degli Absburgo; ora quella dinastia con tutti i suoi re è spenta, ma Cristo ancora vince, regna, comanda. Erano già mille e seicento anni che regnava Cristo quando ascendeva al trono della Russia la casa dei Romanoff; ora quella casa nella grande guerra si è estinta, ma Cristo ancora vince, regna, comanda. Dov’è Nerone che voleva soffocare in fasce il regno di Dio? È morto, cacciando nel cuore il suo pugnale. Dov’è Giuliano l’Apostata che voleva distruggere fin anche il nome di Cristiano? È morto, sconfitto in guerra, disperatamente urlando: «Galileo hai vinto!». Dov’è Lutero che ha strappato mezza Europa al dolce giogo di Gesù? È morto, guardando il cielo con occhi delusi. Anche Voltaire che voleva schiacciare con le sue mani come una formica il Re dei Re, è morto mordendo come un cane le sue coperte. Anche Napoleone, che aveva osato dare uno schiaffo al vecchio Papa e trascinarlo in esilio, è morto, vinto e solo, in uno scoglio in mezzo alle acque.E Cristo vince, regna, comanda ancora oggi, e vincerà e regnerà e comanderà anche domani. Sempre.« Io sono un Re umile e mite di cuore » ha detto Gesù, « e il giogo del mio regno è dolce e soave ».

3. I NEMICI

Se è così, è chiaro che i nemici di Cristo e del suo regno son quelli che il cuore non hanno umile e mite, ma superbo e crudele. Ed ha cuore superbo chi non vuole pregare. « Pregare? ma chi, se non mi manca niente? Ho salute, ho danari, ho divertimenti, ho piaceri, che altro posso desiderare di più? Non ho bisogno di nessuno, nemmeno di Dio ». E non vedono che sono sepolcri imbiancati con dentro l’anima morta e putrefatta; non sanno che anche i beni materiali sono dono di Dio; di Dio che li ha creati, che li conserva, che li ha redenti, che li giudicherà un giorno. Questi superbi di cuore hanno orrore di accostarsi ai Sacramenti. « Confessarci? in che cosa abbiamo sbagliato? e chi ha diritto di sapere i miei segreti? Comunicarci? noi non siamo deboli, noi facciamo da soli ». – Ed ha cuore ribelle chi non osserva i comandamenti : « Io non sono suddito di nessuno » dicono in pratica i nemici del Regno di Cristo, e disubbidiscono a tutti i comandamenti. Credono che Gesù non possa comandare a loro di non bestemmiare, di non rubare; e soprattutto, non vogliono nessun freno ai loro piaceri. Pretendono di poter lecitamente pensare e dire le cose più invereconde, pretendono di poter lecitamente soddisfare alle passioni più vergognose. Nemici del purissimo regno di Cristo sono quelli che diffondono lo scandalo, che leggono libri osceni, che frequentano balli e spettacoli dove regna il demonio; nemici del regno di Cristo sono quelli che dissacrano il sacramento del matrimonio e trascurano l’educazione cristiana dei figli; nemiche del regno di Cristo sono quelle disgraziate che nonostante i comandi del Papa e dei Vescovi si coprono con vesti di pagana sensualità; con vesti che cominciano troppo tardi, finiscono troppo presto e sembrano tessute col vento. – Ed ha cuore duro chi odia i suoi nemici e conserva nel cuore le offese, e con gioia velenosa aspetta il momento di rendere il male ricevuto o di farne uno maggiore; il regno di Cristo è regno d’amore e le sue leggi sono soltanto di amore e di pace. – Ed ha cuore egoistico chi non sente compassione dei bisognosi, degli ammalati che domandano cure e conforto, dei poveri che chiedono un po’ di pane, delle Missioni e delle opere buone che aspettano la nostra offerta, delle anime del purgatorio. Ma se con segno più evidente e infallibile volete distinguere i nemici del Regno di Cristo, guardate se odiano il Papa, se lo calunniano, se lo disobbediscono: chi è nemico del Vice-Re è nemico del Re.

CONCLUSIONE

Un piccolo re di Normandia, dopo lunghe peregrinazioni e vicende, tornava dalla Crociata nel suo regno. Camminava a stento per i digiuni e le fatiche, ed aveva una ferita ancora aperta e sanguinante sul petto. Quando toccò i confini della sua terra due lagrime gli sgorgarono da sotto le nere ciglie e gli rigarono il volto. Era forse mezzodì e faceva caldo. Nell’ascendere incontrò un uomo che portava una brocca colma di acqua fresca: «Sono il tuo re che torna: dammi da bere». L’altro guardò stupito e gli rispose villanamente: «Non conosco nessun re: tu sei uno straccione!» e riprese la sua strada senza più voltarsi indietro. Il povero re tristemente lo vide sparire dietro una siepe e mormorò : « Domani, avrai sempre sete senza poter bere mai nel mio regno ». Intanto scendeva la sera e la reggia era ancora lontana. Annottava, quando vide disegnarsi sul sentiero una striscia di luce; c’era una casa. Attraverso a la porta socchiusa guardò in quella casa: sul tavolo fumavano le vivande, un uomo una donna e un giovanotto soltanto sedevano in giro. Il re aveva fame e sonno; fermandosi sulla soglia, gemette: « Date al vostro re, o buona gente, un pane e un po’ di paglia per dormire ». Il marito s’alzò di scatto bestemmiando, e lo scacciò fuori nell’oscurità, e chiuse l’uscio col chiavistello. Il povero re sotto le stelle intinse il dito nella sua ferita sanguinante sempre e scrisse sull’architrave di quella casa : « Non est pax nec hodie nec cras ». Albeggiava appena, quando entrò sotto il portone della sua reggia. Non riconobbe più la sua casa così splendida una volta, così pulita: sembrava ora la scuderia. Sentì un gran vociare venire dalle sale, si fermò in ascolto: « Il Re è morto: è finito il tempo della tirannia. Si ordini a tutto il paese di bruciare la sua aborrita immagine, si stabiliscano grandi feste in cui ciascuno farà quello che vuole ». Il povero Re non poté più trattenersi dalla commozione, sospinse la porta e gridò: « Rallegratevi! il vostro Re è tornato a regnare». Fu un urlo: tutti quei maggiorenti e principi levarono i pugni contro di lui: «Via! non ci sono più Re». Da quel giorno in quel regno cominciarono le rapine, le violenze, le pesti, le guerre, i terremoti. Cristiani, comprendete la bella leggenda. Cristo, il Re dei nostri cuori, torna a regnare. Guai all’individuo che non lo disseterà con la sua anima! avrà sempre sete nel fuoco dell’inferno. Guai alle famiglie che non lo accoglieranno! non avranno più pace, né in questo né nell’altro mondo. Guai alle nazioni che non rispetteranno i suoi diritti inviolabili! saranno oppresse dai disastri fisici, economici, morali.

LA FESTA DI CRISTO-RE (1)

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps II: 8.
Póstula a me, et dabo tibi gentes hereditátem tuam, et possessiónem tuam términos terræ.

[Chiedi a me ed Io ti darò in eredità le nazioni e in dominio i confini della terra]

Secreta

Hóstiam tibi, Dómine, humánæ reconciliatiónis offérimus: præsta, quǽsumus; ut, quem sacrifíciis præséntibus immolámus, ipse cunctis géntibus unitátis et pacis dona concédat, Jesus Christus Fílius tuus, Dóminus noster:Qui tecum …

[Ti offriamo, o Signore, la vittima dell’umana riconciliazione; fa’, Te ne preghiamo, che Colui che immoliamo in questo Sacrificio, conceda a tutti i popoli i doni dell’unità e della pace: Gesù Criato Figliuolo, nostro Signore, Egli …]

Præfatio
de D.N. Jesu Christi Rege

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui unigénitum Fílium tuum, Dóminum nostrum Jesum Christum, Sacerdótem ætérnum et universórum Regem, óleo exsultatiónis unxísti: ut, seípsum in ara crucis hóstiam immaculátam et pacíficam ófferens, redemptiónis humánæ sacraménta perágeret: et suo subjéctis império ómnibus creatúris, ætérnum et universále regnum, imménsæ tuæ tráderet Majestáti. Regnum veritátis et vitæ: regnum sanctitátis et grátiæ: regnum justítiæ, amóris et pacis. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigénito, Gesú Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacífica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloriao, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVIII:10;11
Sedébit Dóminus Rex in ætérnum: Dóminus benedícet pópulo suo in pace.

[Sarà assiso il Signore, Re in eterno; il Signore benedirà il suo popolo con la pace]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimóniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, qui sub Christi Regis vexíllis militáre gloriámur, cum ipso, in cœlésti sede, júgiter regnáre póssimus: Qui

[Ricevuto questo cibo di immortalità, Ti preghiamo o Signore, che quanti ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re, possiamo in cielo regnare per sempre con Lui: Egli che …]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE  

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROBATIONS

Visto e approvato:

Rome, Angelico, le 10 aprile 1927. Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMIS D’IMPRIMER :

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR :

Parisiis, die 5 a decembris it>27. V. DUPIN, v. g.

CAPITOLO V

UNA DELLE MANIERE PIU EFFICACI DI PROCLAMARE QUESTA REGALITÀ, È L’ISTITUZIONE D’UNA FESTA SPECIALE DI GESÙ-CRISTO RE UNIVERSALE.

Era certamente necessario che un’enciclica papale esponesse questa dottrina con tutta la solennità del Magistero Supremo. Ma è questo sufficiente per il popolo sul quale lo spirituale fa poca impressione, a meno che non sia presentato in modo visibile, palpabile e che parli alla sua natura intera? Dal momento che anche Dio si serve di sacramenti sensibili per condurre l’uomo alla conoscenza dei misteri soprannaturali, è quindi opportuno istruire i credenti con delle feste esteriori, che scuotano le anime colpendo i sensi, che traducano la verità divina col linguaggio efficace delle realtà concrete e sottomettano tutto l’uomo a Dio con il suo corpo ed il suo spirito (Cf. S. THOM., III a., q. 60, a. 4). Si possono qui applicare le parole con cui il Concilio di Trento dimostra la necessità di una celebrazione speciale del Santissimo Sacramento: “È giusto e opportuno che i Cristiani riservino alcuni giorni per testimoniare con un significato più accentuato e più straordinario quanto siano riconoscenti al loro comune Signore e Redentore per questo ineffabile e divino beneficio. Occorreva che la verità, anch’essa vittoriosa, celebrasse il suo trionfo sulla menzogna e l’eresia, cosicché i suoi avversari, alla presenza di tale splendore e in un così grande gioia della Chiesa universale, si fermasse come distrutta ed annientata, o che, almeno coperto da vergogna e confusione, tornasse a resipiscenza (Conc. Trid., sess. XIII, cap. 5. — Cf. can. 6). “Così, ai nostri giorni, la verità apparirà in tutto il suo splendore, Gesù Cristo sarà compensato dell’ingratitudine e degli oltraggi, i suoi diritti rivendicati, se la sua assoluta regalità è celebrata con una festa solenne. – Ecco ciò che ben comprendono sia i prelati o capi di Ordini religiosi, che hanno chiesto al Sommo Pontefice una Messa e un ufficio in onore della Regalità Sociale di Gesù Cristo. Già una petizione firmata dal Cardinal Sarto, il futuro Pio X, e da altri rappresentanti del Sacro Collegio, era stata indirizzata a Leone XIII, che si degnò di farne buona accoglienza. Da allora, il movimento si è sviluppato in tutto il mondo, più di settecento membri della gerarchia hanno insistito presso la Santa Sede per l’istituzione di una festa speciale di Gesù Cristo Re universale delle società (Le suppliche rivolte al Santo Padre, sono state firmate da 40 cardinali, 703 Arcivescovi o Vescovi, 102 superiori degli Ordini religiosi, 12 Università, tra le quali la Gregoriana e l’Angelico) per dimostrare che è necessario una proclamazione eclatante, stabilendo abbagliante annuncio, come necessario, una festa speciale. –

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* *

L’obiezione spontanea, ripetuta tante volte, è che bisogna diffidare di feste nuove, come di devozioni nuove. – Tutta la questione, risponderemo, è sapere se ne risulti una nuova gloria per Nostro Signore! In questo caso, non abbiamo che da gioire, poiché noi dobbiamo trovare le nostre gioie migliori in ciò che glorifica Dio. E, proprio come la scienza medica non può che fare buona accoglienza ad un nuovo rimedio, se è questo davvero efficace, quindi la teologia e la pietà non potranno che trarre beneficio dall’uso di un rimedio appositamente adattato al male più terribile della nostra epoca, questo laicismo di cui abbiamo parlato. – Una festa speciale, si aggiunge, deve essere riportata ad un fatto storico o ad uno di quei misteri esterni che ricordano la vita, la passione, la resurrezione e l’ascensione di Nostro-Signore, o la discesa visibile dello Spirito Santo sugli Apostoli, e non riferirsi ad un’idea, un concetto o ad un oggetto invisibile, come la dignità regale di Cristo. – La risposta viene da se stessa: poiché la liturgia è l’espressione vivente del dogma e che la legge della preghiera esterna è anche la legge della fede interiore, una festa visibile, può riferirsi ad un oggetto, può riferirsi ad un oggetto invisibile, purché questo oggetto non rimanga vago ed astratto, ma sia ben determinato e definito, e si affermi con qualche manifestazione sensibile, e che ci sia un motivo speciale per giustificare un culto speciale. È così che la Chiesa ha potuto istituire la festa della Santissima Trinità e la festa del sacerdozio di Nostro Signore. Ora, in questo caso, l’oggetto è tutto di fatto preciso e concreto, Gesù Cristo, Re universale delle nazioni e delle società, con quelle qualità e attribuzioni molto nette che la Scrittura e la Tradizione gli hanno dato in termini propri. Sottolineiamo che questa regalità non rimane astratta; essa si è irradiata e si è affermata, non solo nell’Epifania, ma anche nella maggior parte dei misteri della vita di Nostro Signore. – Ma allora, si dirà, essa è sufficientemente onorata negli altri misteri, e quindi non c’è bisogno di una nuova festa. – No, rispondiamo noi. Essa si afferma tra le altre per non rimanere puramente invisibile; essa non è espressamente onorata con questo oggetto e motivo speciale che deve caratterizzarla. A Natale, il Salvatore appare in tutto il suo  essere, con la sua bontà e dignità, apparuit humanitas, apparuit benignitas, come dice la liturgia citando San Paolo, non è questo il Re che si impone al mondo. All’Epifania, Nostro Signore si rivela ai Gentili buoni, che lo riconoscono come re; ma queste non sono ancora le nazioni organizzate in società che proclamano i propri diritti, e, se questa è già la festa della manifestazione di Gesù Cristo, non è ancora la festa della sua sovranità sulle società stesse. Inoltre, all’Epifania, Egli non ha ancora tutti i suoi titoli di re: se Egli è sovrano per diritto di nascita fin dall’inizio, la sua regalità per diritto di conquista si completa con la sua morte sulla croce. Nella solennità della Domenica delle Palme, si intende bene che i Giudei acclamano il figlio di Davide, ma non si scorge con sufficienza il suo impero sulle società umane. La Resurrezione mostra il suo potere sulla morte e sull’inferno; l’Ascensione, il Trionfatore che si innalza sopra tutti i cieli; resta da celebrare in maniera più caratteristica il Re delle nazioni da quaggiù. Nell’ufficio del Santissimo Sacramento adoriamo il Cristo sovrano delle nazioni, Christum Regem dominantem gentibus, da un punto di vista particolare, che ci ricorda gli effetti del cibo eucaristico qui se manducantibus dat spiritus pinguedinem. La festa del Sacro Cuore esalta certamente Gesù Re, ma l’oggetto non è il medesimo della festa progettata. Nel culto del Sacro Cuore l’oggetto specialmente considerato è l’amore, il termine è Gesù tutto amante e tutto amabile, e dunque il Re d’amore; qui l’oggetto è la sovranità regale in se stessa, il termine è Gesù Re in assoluto, su tutti gli uomini e su tutte le creature, e che deve imporre il suo impero, anche là dove il suo amore è respinto. Così dunque, poiché l’oggetto è diverso, c’è bisogno di una festa nuova e speciale. – Ma le anime veramente pie, che cercano soprattutto gli interessi dell’unico Maestro, non hanno da temere che la nuova festa possa nuocere alla devozione del Sacro Cuore; questa devozione, al contrario, non può che avvantaggiarsene, perché il Re dell’Amore è onorato per il fatto che si proclama il Re Universale e la solennità che esalta la regalità senza restrizioni lascia intendere che Gesù regna soprattutto attraverso la carità (Su questo soggetto si veda il bel libro di Mons.  SINIBALDI, Segretario della sacra Congr. dell’Università: il Regno del Sacro Cuore, Milano 1922 – Nel libro citato il Vescovo Sinibaldi espone i seguenti argomenti: Gesù è Re. – Gesù è Re d’amore. – Gesù è Re con il suo Cuore. – Gesù governa con l’amore. – Gesù chiede solo amore). La portata della festa è perfettamente caratterizzata dalla liturgia, di cui stiamo per riassumere i principali insegnamenti.

CAPITOLO VI

GLI INSEGNAMENTI DELLA LITURGIA NELLA FESTA DI DI GESÙ – CRISTO RE

Una festa liturgica è più efficace anche di un documento pontificio solenne. Il documento è rivolto soprattutto allo spirito; la liturgia, all’uomo intero, perché grazie alle cerimonie e ai riti esteriori, alle parole e ai canti, la si comprende con l’aiuto del corpo e delle diverse facoltà, i propri sensi e l’immaginazione, il cuore e la volontà, non meno che con l’intelligenza. – Il documento di per sé ha solo un effetto passeggero; la celebrazione, che si rinnova periodicamente, ne moltiplica e perpetua i risultati. Il documento è l’espressione scientifica della fede; la festa ne è il linguaggio e l’azione, come un dramma vivente, che traduce con energia il sacro dogma. Un rapido studio della liturgia di questa nuova festa ci mostrerà come sono tutti gli insegnamenti così profondi di quella gloriosa solennità sono riassunti nell’Ufficio e nella Messa. Insisteremo sul Prefatio, che è uno splendido poema, che celebra con magnificenza i nostri più alti misteri.

I.

L’Ufficio e la Messa.

Fermiamoci innanzitutto al titolo: « Ultima domenica di ottobre, festa di Gesù Cristo Re ». Bisognava evitare che vi fosse confusione con altre feste del Salvatore e, quindi, celebrarlo a una data abbastanza lontana dalle feste del Santissimo Sacramento e del Sacro Cuore. Si poteva scegliere solo una domenica perché il popolo cristiano potesse restituire al suo Re il più splendido tributo pubblico. Siccome la liturgia delle domeniche dopo la Pentecoste ricorda il regno di Cristo sulla terra, che si completa con il trionfo dei suoi servi e dei suoi soldati associati alla sua felicità, la festa è giustamente collocata nell’ultima domenica di ottobre, seguita, molto opportunamente, della solennità di Ognissanti. – Erano stati espressi desideri per un titolo più esplicito, ad es. re delle nazioni, re dei secoli. Aggiungere questa o qualsiasi altra cosa sarebbe stato restringere la regalità assoluta. Tutto l’insieme della festa dimostra con certezza che Cristo è il re delle nazioni e delle società, e fin dai primi Vespri, l’Inno lo saluta Regem gentium, il Re che l’intera società deve onorare, i governanti, i magistrati, i padroni, i legislatori. Ma c’è ancor di più, perché Egli è il Re dell’intera creazione, universorum rege, come dice la colletta della Messa, e, secondo l’espressione dell’Inno, il Principe di tutti i secoli. Conviene, senza dubbio, esaltare il regno sociale del Cristo, e noi comprendiamo che le riviste ed i Congresso pongono particolare enfasi su questo tema e ne fanno risaltare questo aspetto. Ma, mi diceva un giorno Pio XI, possiamo concepire un regno che non sia sociale? È questo e molto di più, è sia all’interiore che esteriore, invisibile e visibile, spirituale e temporale, senza limiti e senza riserve e senza fine. – Diciamo dunque semplicemente con la liturgia: il Cristo Re, e, come consiglia il Papa: il regno di Cristo, senza l’amplificazione dei pleonasmi e senza la restrizione degli epiteti.L’oggetto della festa è la dignità regale o l’impero assoluto: mentre nel Sacro Cuore noi Consideriamo l’amore e Gesù che regna attraverso l’amore,qui è la regalità in se stessa, è Gesù che deve regnare anche là dove il suo amore è respinto. L’ufficio mette in piena evidenza questo regno eterno, al quale tutte le nazioni devono sottomettersi, sotto pena di condannarsi altrimenti alla rovina ed alla distruzione; perché ogni regno che non riconoscerà questo Sovrano perirà o sarà colpito da sterilità. Tale è il riassunto dei Mattutini e delle Lodi. Gli Inni cantano il Monarca che tiene lo scettro dell’universo, e la Messa, il Re di tutte le cose, sotto lo stendardo del quale abbiamo la gloria di combattere e di trionfare. – Ma, se l’oggetto della nostra festa non è lo stesso della festa del Sacro Cuore, lo scopo è necessariamente identico, le due solennità devono concludersi nell’amore; ed è per questo che Pio XI, istituendo una nuova e distinta festa, ha voluto che la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore sia fatta nello stesso giorno, come risposta efficace della terra e come degno coronamento di tutti gli atti liturgici. – I fondamenti di questa regalità possono essere fatte risalire ai due capitoli che l’enciclica di Pio XI sviluppa magistralmente: per diritto di eredità, in virtù dell’unione ipostatica, e per diritto di conquista, in virtù della Redenzione, come il nostro opuscolo ha già esposto. Il Cristo, come Dio, ha un impero universale allo stesso titolo del Padre; come Dio e uomo, o come Verbo incarnato, è erede del Padre ed associato a tutto il suo impero. Dal primo istante dell’Incarnazione, la Persona divina ha unito la sua Umanità santa, l’ha penetrata, l’ha imbalsamata e questa sostanziale unzione è l’unzione di gioia che ha consacrato Gesù Re e Pontefice per l’eternità. – In virtù di questa consacrazione, egli merita un tale onore per cui gli Angeli e gli uomini devono adorarlo non solo come Dio, ma anche con la sua umanità santa, e possiede una potenza tale che tutte le creature devono assolutamente sottomettersi al suo impero anche come uomo (Act. Apost. Sed., XVII, 58, 599.). Ecco perché San Paolo ci dice che quando Dio introduce il suo Figlio nel nostro universo, comanda ai suoi Angeli di adorarlo: Et adorent eum omnes angeli Dei (Hebr. I, 6). Questa è stata la prima intronizzazione di Gesù Cristo Re nella creazione, quando gli Angeli lo hanno adorato ed acclamato per primi come loro Capo. Per noi umani, come abbiamo già spiegato, Egli è Re per un titolo particolarmente dolce; noi siamo chiamati populus acquisitionis, il popolo della sua conquista, proprio come Lui ha acquisito la sua Chiesa a prezzo del suo sangue, e per il fatto che ci riscattato a un tale prezzo, noi non siamo più nostri, non possiamo più venderci o farci schiavi degli uomini (1 Petr., II. 9; Act. XX, 28; 1. Cor, VI, 19, 20; 1, Petr., I, 18.3). – Tutto l’insieme dell’officio della Messa fa emergere questi due titoli. La Colletta afferma questo diritto di nascita, in virtù dell’unione ipostatica. Così come già San Paolo diceva: hæredem universorum, la liturgia canta: universorum Regem. I Mattutini celebrano il Messia che si è affermato Re come Dio stesso, che riceve in eredità le nazioni della terra, alle quali l’Onnipotente sottomette tutte le creature, alle quali i re di quaggiù vengono a rendere omaggio, e il cui trono deve durare tanto quanto l’astro del giorno e l’astro della notte. Le lezioni del secondo notturno, tratte dall’enciclica, insistono su questo titolo di unione sostanziale, e l’omelia, tratta da Sant’Agostino, ci mostra in Gesù il vero sovrano, che è Re e dei Giudei e dei Gentili, perché è Figlio di Dio, perché il Signore gli ha detto: “Oggi Ti ho generato, chiedimi, ed io ti consegnerò le nazioni e come dominio l’universo intero. L’Introito della Messa considera in particolare il diritto di conquista e di redenzione: Egli merita di ricevere tutti gli onori della regalità dell’Agnello che è stato immolato. Ma ben presto riappare il diritto di nascita, sia nell’epistola, in cui San Paolo glorifica il regno ed il potere del Figlio diletto di Dio, di Colui che ha il primato assoluto, perché è l’immagine del Dio invisibile; sia nel Vangelo, dove Nostro Signore, interrogato da Pilato, afferma chiaramente di essere Re; sia nel prefatio, in cui il Cristo è chiamato sacerdote e re in virtù della sostanziale unzione dell’Incarnazione. Una lettura sommaria dei testi è sufficiente per constatare che la liturgia mette in rilievo sia il diritto di nascita, come l’antifona dei primi Vespri, al Magnificat, ricorda che Gesù riceve da Dio il trono di Davide; sia il diritto di conquista, parlando del Signore che ci ha lavati nel suo sangue; sia il diritto e quasi abitualmente i due titoli insieme, come l’antifona dei secondi Vespri, al Magnificat, esalta il Sovrano che porta il mantello della natura umana e che ha la virtù divina, il Re dei Re, il Signore dei Signori. È quindi ben vero che la liturgia è la teologia vivente della festa. Ci resta da dimostrare come il poema del Prefatio traduce e glorifica tutto il dogma dell’Incarnazione.

II

Il Prefatio della nuova Messa.

È con tutto lo slancio del lirismo biblico e con tutta la magnificenza di un poema che il Prefatio solleva i cuori, delizia gli spiriti:  « È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigenito, Gesù Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi Egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacifica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine … » Il Prefatio unisce in Cristo il sacerdozio e la regalità e mostra che entrambi tendono allo stesso termine e hanno gli stessi effetti. Bellissima e profonda associazione, che è già contenuta nel canto immortale del profeta salmista (Ps. CIX). Sotto l’ispirazione dell’Altissimo, David esclama: « Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché non ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi » Questa è la dignità regale del vero Signore, che deve regnare in mezzo ai suoi nemici, perché è il Figlio di Dio, generato prima dell’aurora. Subito dopo il veggente celebra il mistero del sacerdozio: “Il Signore ha giurato e non si pentirà: Tu sei un sacerdote in eterno secondo l’ordine de Melchisédech “. Poi il salmo ritorna alla regalità del Sovrano che giudicherà le nazioni, distruggerà la testa dei malvagi, per stabilire il regno della giustizia. È molto interessante che David unisca, come inseparabili, nel Messia, i due titoli di Re e Sacerdote, e che  sottolinei con tanta enfasi la maestà del giuramento: « Sì, il Signore ha giurato: Juravit Dominus; ha giurato, e non si pente Juravit et non peœnitebit eum; Egli ha giurato a te, mio Gesù, a te suo Figlio, a te fratello dell’umanità, ha giurato che tu sarai Sacerdote per sempre, sempre, sempre: tu es sacerdos in æternum. Gesù è Sacerdote in virtù del giuramento di Dio. Capisci che un atto così solenne non può avere come scopo il conferire un titolo che è puramente onorifico (Padre MONSABRÊ, XLII conferenza, Quaresima del 1879.). » Di per sé, la regalità, che comprende i poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo (L’enciclica di Pio XI sul Cristo Re fa ben emergere questo triplice carattere della sua regalità. Act. Apost. sed., XVII,599.), è ben distinta dal Sacerdozio, il cui ruolo è quello di pregare, sacrificare, santificare; ma in Cristo la triplice potenza del Re si conduce al fine del Sacerdozio, che è la salvezza del mondo. Per mostrare quanto sia teologico questo bel Prefatio, vi spiegheremo che una stessa unzione sostanziale consacra il Cristo allo stesso tempo Re e Pontefice e quanto siano inseparabili in Nostro Signore i poteri e gli effetti della regalità e del sacerdozio.  Abbiamo già detto che la sostanziale unzione della Persona divina stabilisce il Cristo Re, perché, in virtù di tale unione, Egli merita di essere venerato dagli Angeli e dagli uomini e ha il diritto a che tutte le creature siano soggette al suo impero. Vediamo come lo consacra pontefice. Il sacerdote è essenzialmente mediatore, posto tra la terra ed il cielo per far salire verso Dio i doni dell’uomo – la preghiera ufficiale ed il sacrificio, che sono il nostro obbligo fondamentale – e far discendere i doni di Dio sull’uomo, la grazia ed il perdono, che dovrebbero condurci alla salvezza. Ne consegue quindi che il triplice buon ruolo del sacerdote, come abbiamo detto, è quello di pregare e sacrificare, in nome dell’umanità, e di santificare gli uomini, in nome di Dio. In virtù della grazia d’unione, il Cristo è  mediatore, perché se la natura divina si unisce alla natura umana in una sola Persona, abbiamo immediatamente un intermediario tra Dio e gli uomini. Da quel momento in poi, Egli può stabilire la corrente dalla terra al cielo, pregare a nome di tutti gli esseri umani, di cui è rappresentante ufficiale, sacrificare o immolarsi Egli stesso come vittima per tutti i suoi membri, e far discendere la corrente dal cielo alla terra, santificare comunicando agli uomini la scienza del soprannaturale e della grazia che li fanno vivere (Encicl. di Pio XI, lectio V della Festa di Gesù-Cristo Re). – Pertanto, il Cristo è sacerdote, necessariamente, essenzialmente, per la stessa Incarnazione stessa: la sua vocazione al sacerdozio è inclusa nell’atto stesso  che ne ha decretato l’Incarnazione. San Paolo, che insiste sulla necessità della chiamata divina onde costituire sacerdote, dichiara che Cristo è stabilito pontefice da Colui che gli ha detto: “Tu sei mio Figlio, Io oggi ti ho generato. (Hebr. V) Così il Salvatore è Sacerdote sacro nello stesso momento in cui è stabilito re sul Monte Sion. – Comprendiamo allora, come Pio XI, il 28 dicembre 1925, nell’allocuzione solenne a conclusione delle feste per il centenario di Nicea, abbia potuto dire: « Nel Cristo si diffuse e si diffonde inesauribile ed infinita, questa Unzione sostanziale, che lo ha consacrato Sacerdote in eterno (Civiltà Cattolica, 1926, p. 182, e  Bollettino per la commemorazione del XVI centenario del concilio di Nicea, n° 6, p. 195). » Si vede ora di quale serena e profonda chiarezza si illuminano le parole del nostro Prefatio: « O Dio, che hai unto con l’olio di esultanza Sacerdote eterno Sacerdote e Re dell’universo Gesù Cristo, tuo Figlio unigenito e nostro Signore… » Non è meno chiaro che gli effetti della regalità e del sacerdozio in Gesù Cristo sono inseparabili; poiché la sua regalità tende alla salvezza delle anime ed il suo sacerdozio, santificando e redimendo il mondo, riesce a stabilire il regno universale ed eterno. – Il potere legislativo in Gesù Cristo è veramente sacerdotale, perché promulga questa legge della vita divina, questa scienza del soprannaturale, che le labbra del sacerdote devono dare alle anime (Questa è stata infatti la concezione che si aveva del ruolo del sacerdote nell’antico Testamento, conservare e dare la scienza o la dottrina rivelata: « Labia sacerdotis custodient scientiam et legem ex éjus ore requirent. » MALACH., II, 7); questo codice evangelico che comprende la santità comune attraverso la pratica dei comandamenti, la santità perfetta attraverso la pratica dei precetti e dei consigli, la santità suprema, che giunge fino all’eroismo permanente. Infine il potere giudiziario in Lui è ugualmente sacerdotale, perché Egli deve cacciare il principe di questo mondo (S. Giov. XVI, 11) castigare il peccato, vendicare i diritti misconosciuti e con ciò procacciare questo regno di giustizia che il sacerdote deve annunciare e promuovere. Infine, il potere esecutivo in Lui è sacerdotale, perché Egli deve mettere in opera e condurre a buon termine questi mezzi di salvezza la cui economia è affidata al ministero sacro del Sacerdozio. D’altra parte, tutto l’officio sacerdotale di Gesù-Cristo deve servire al suo regno, perché si riporta alla redenzione e la redenzione è uno dei titoli della sua regalità soprannaturale. Ecco ancora ciò che il Prefatio fa emergere pienamente, celebrando nel contempo e gli effetti del sacerdozio, sia gli effetti della sua regalità: immolandosi come vittima, Gesù compie i misteri della redenzione umana; dopo aver sottomesso tutte le creature al suo impero, Egli offre il regno universale all’immensa maestà di Dio. Occorreva certo che la medesima unzione di esultanza consacrasse Sacerdote e Re il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza: se fosse stato solo un Re, non potevasi offrire e immolare come vittima per la nostra redenzione; se fosse stato solo un sacerdote non avrebbe potuto rimettere a Dio un regno. Ma, poiché Egli è nel contempo pontefice e re, il seguito del Prefatio appare piena di armonia e bellezza: Egli compie la grande opera della nostra redenzione e rimette al Padre il regno eterno ed universale di giustizia, di amore e pace! – Ecco come la meditazione dei testi liturgici di questa bella festa ci insegnerà a penetrare nelle sante profondità del Cristo Re e Pontefice e ci introdurrà così alle fonti della grazia, della santità e della vera e duratura felicità.

CAPITOLO VII

LE FELICI CONSEGUENZE DI QUESTA FESTA

L’enciclica sottolinea energicamente le felici conseguenze che devono derivare dall’istituzione di questa festa.  In relazione alla Chiesa. Questa festa dimostrerà che la Chiesa, la società perfetta, istituita da Gesù Cristo, ha diritti imperscrittibili, che gli Stati devono garantire la sua piena indipendenza e libertà di azione in tutte le questioni relative alla sua missione divina, che è proprio quella di promuovere questo regno benedetto del Cristo, procurando la salvezza delle anime. Bisogna che questa Chiesa debba poter governare liberamente attraverso il suo Capo visibile, il Romano Pontefice, Vicario di Nostro Signore, con la gerarchia composta dai Vescovi, dai sacerdoti e dai ministri, e anche con gli Ordini e gli Istituti che sono la prova vivente della sua meravigliosa fecondità.  – In relazione allo Stato religioso. Questo stato deve assicurare il regno del Salvatore, combattendo le tre grandi concupiscenze attraverso la pratica dei voti, e facendo risplendere nella Chiesa la nota o l’aureola della perfetta santità.  Questo è il magnifico insegnamento che San Tommaso aveva così ben formulato (S. TOMMASO, IIa IIæ q. 164) e che l’enciclica consacra solennemente. Il Papa indica il posto e il ruolo degli Ordini e degli Istituti religiosi nella società del soprannaturale: essi costituiscono lo stato di perfezione. « Essi fanno sì che la santità donata alla Chiesa dal suo divino Fondatore, come carattere e segno distintivo, risplenda sempre con maggiore splendore davanti allo sguardo dell’universo. »  Questa è una splendida apologia degli Ordini e delle Congregazioni: i religiosi hanno diritto alla libertà stessa di cui debba godere la Chiesa  società perfetta, perché Cristo è Re! – Sì, se Cristo è Re nella società, Egli chiede che la sua Chiesa e lo stato religioso, che appartiene all’integrità di questa Chiesa, godano della libertà indispensabile alla loro missione, che è quella di espandere il suo regno benedetto … In relazione alla società civile. Bisogna che essa debba essere governata secondo i principi del diritto cristiano. Cristo Re deve essere rappresentato nel tribunale, dove si fa giustizia; nella scuola, dove si insegna. Egli merita il culto pubblico nella città; e i capi di Stato saranno giudicati per aver violato questo diritto sovrano di Nostro Signore o per aver voluto rimanere neutrali. Questo è il grave monito del Sommo Pontefice alle Nazioni!  Nella direzione interiore delle anime. Riassumiamo ciò che abbiamo detto in precedenza. Gesù eserciterà il suo dominio su tutte le nostre facoltà: sullo Spirito e sulla volontà, che deve essere conforme ai giudizi ed alla volontà dell’unico Re; sul cuore e sugli affetti, per realizzare l’ideale che San Tommaso esprime in poche parole, cioè amare nulla e nessuno più di Dio, tanto quanto Dio, a malgrado Dio (S. THOM., IIa IIæ, q. 184, a. 3, ad 3); finanche sui nostri corpi e sulle nostre membra, che devono cooperare come strumenti nell’opera della giustizia e della santità, arma justitiæ Deo (Rom. VI, 18).  – Il vero Cristiano si ricorderà che servire Cristo è regnare; e così come santa Teresa provò una sorta di brivido quando sentì cantare le parole del Credo: Cujus regni non erit finis, anche noi saremo consolati dal pensiero che Cristo è per sempre nella gloria del Padre e che, se rimarremo legati a Lui senza riserve e senza ritorno, sarà vero il dire della nostra felicità e del nostro regno, come quello della sua beatitudine e del suo regno a Lui: non erit finis, non vi sarà fine! Abbiamo appena assistito ad una doppia proclamazione della regalità di Gesù Cristo; 1 un dottrinale, con questa magnifica enciclica, in cui tutta la dottrina è stata esposta con ampiezza; l’altro liturgica, con questa solenne festa, in cui la legge della preghiera esteriore è venuta a glorificare la legge della fede e del dogma. Sarà possibile desiderarne una terza, sia dottrinale che liturgico, se i vescovi e i cardinali e il Papa, in una parola, tutti i membri della Gerarchia, riuniti in un concilio ecumenico, definissero questo regno universale e celebrassero insieme davanti a tutto il mondo, di cui sono i rappresentanti spirituali, la solenne festa di  Gesù Cristo Re delle nazioni, delle società, dell’intero universo.  – Se questo trionfo completo è ancora lontano, i veri credenti possono prepararlo e con la loro vita veramente cristiana dire già: Cristo è vittorioso, Cristo regna, Cristo ha un impero assoluto. Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat…  Non bisogna dimenticare che, secondo le parole della Prefazio, la ragione per cui Gesù è Sacerdote sacro e Re, e proprio per questo è voluta l’Incarnazione, è la redenzione umana. L’unzione sostanziale che è l’unione ipostatica avviene affinché Cristo si offra Egli stesso sull’altare della croce. – Nostro Signore appare anche essenzialmente vittima così come Sacerdote e Re. La sua liturgia canta sempre di un’incarnazione redentrice, di un Uomo-Dio che è il Salvatore, e così ci invita ad andare fino al sacrificio di noi stessi per andare al fine all’amore….

FINE

QUÆ ENIM PARTECIPATIO CHRISTI AD BELIAL?

Al S. Giuseppe de Merode di Roma, via la maschera (… non la mascherina): onore a satana e festeggiamo halloween! Senza vergogna i modernisti spudorati gestiti dalla sinagoga vaticana per ammaestrare le nuove generazioni al satanismo … quæ enim partecipatio… (2 ad Cor. VI, 15) … 

Eccoci in una classe dei bambini delle elementari, mascherina e distanziamento, giacca e cravatta. Entra la maestra, laica consacrata (… a chi?) delle prestigiose Scuole un tempo cattoliche istituite da S. Giovanni Battista de la Salle, fiore all’occhiello dei Fratelli delle scuole in Italia:

– Bambini, oggi facciamo una bella paginetta sulla festa di Halloween, mi raccomando un bel disegno a tutta pagina, facciamo onore al festeggiato.

– Il bambino in giacca e cravatta perplesso ribatte: Ma non è questa la scuola di San Giuseppe? Non abbiamo fatto la preghiera a Gesù? … E che c’entra la festa di Halloween con San Giuseppe?

Se fosse stato più grandicello avrebbe probabilmente dette le stesse parole che S. Paolo scriveva ai fedeli di Corinto … quæ enim partecipatio Christi ad Beliaal? Cosa centra, cosa ha a che vedere Cristo con Beliaal?

La maestra, un po’ infastidita non risponde e procede col programma previsto. Anzi – dice – adesso vedremo pure un bel filmato sulla festa … evidentemente è il materiale didattico da mostrare, speriamo non imposto o concordato coi capi.

Il bambino, con gli occhioni sgranati, ben deciso ribatte senza rispetto umano: Io non lo guarderò e farò qualche altra attività, ma questa festa del demonio io non la voglio guardare.

Anche gli altri bambini più “rispettosi”, avvertono la situazione imbarazzante e mugugnano. La maestra capisce l’antifona e cambia atteggiamento … Ma ci sarà da fidarsi domani?  

Le nuove generazioni bisogna plasmarle fin da piccole, il ferro si batte quando è molle e non resiste. Oggi Halloween, a quando il catechismo olandese ed il Khamasutra? In puero spes …. Il motto dell’Istituto … In prospettiva cristiana … dovrebbe essere. Ma oggi qual è la Spes? La spes cristiana o la spes modernista ecumenica che accanto a Cristo mette i Beliaal alla pari, alla Vergine  santa sull’altare sostituisce il Buddha ascitico, a S. Giuseppe oppone gli empi Lutero e Calvino ed il sozzo Enrico VIII, alla Chiesa Cattolica pareggia indifferentemente la sinagoga talmudica e la moschea del Corano ebionitico baciato come libro di pace? Oggi Halloween e domani Tutti i Santi … questo povero bimbo ne avrà da vedere di cose strane, … gli si dirà così, ed il contrario di così … tanto è la stessa cosa gli diranno, siam tutti salvi, c’è misericordia per tutti: siamo gnostici-panteisti, mica stupidi e ottusi Cristiani che credono all’inferno, al peccato che dà morte all’anima, alla redenzione, alla grazia e ai meriti da conquistare per la vita eterna! A questi educatori modernisti però, il Cristo ha dato già la sua sentenza inappellabile:

qui autem scandalizaverit unum de pusillis istis, qui in me credunt, expedit ei ut suspendatur mola asinaria in collo ejus, et demergatur in profundum maris.

…. chi scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, è meglio che si leghi una pietra da macina al collo e si sprofondi nel mare …

(Matt. XVIII, 6)

LO SCUDO DELLA FEDE (132)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO XI.

Differenza che possa tra i veri martiri Della Chiesa, e i pretesi martiri delle sette.

I. Tutte le repubbliche han sempre costumato di onorar sommamente gli uomini giusti e gli uomini forti: avendo elleno, come nota Aristotile (1. Rhet. c. 10. n. 5), gran bisogno d’ambedue loro: di forti in tempo di guerra, di giusti in tempo di pace. Non è però da stupire, se tutte le sette abbiano ambito parimente l’onore de’ loro martiri come di uomini in cui veggono eminentemente accoppiate queste due virtù stimabili; la fortezza nell’incontrare la morte, e la giustizia nell’incontrarla a titolo il più bello di qualunque altro, qual è quello di testificare a favor della religione. Ma non accade promettersi di falsificare mai queste gemme sì pellegrine. È troppo chiara l’arte di scernere dalle vere le contraffatte. Stabiliscasi però in primo luogo ciò che si debba intendere per martirio.

II. Per martirio si debbe intendere una morte sofferta in testimonianza della verità, della virtù della fede (S. Th. 2. 2. q. 124. art. 1. etc.), E ciò basta a confondere tutti i maomettani, i quali ardiscono di collocare tra’ martiri i loro soldati morti in battaglia. Senonchè una frenesia somigliante cadde anche in capo a Foca imperatore d’oriente, quando egli entrò in pretensione, che i suoi soldati, guerreggiando contra i nemici della religion cristiana, e morendo per loro mano, si avessero da ciascuno in grado di martiri (Spond. an. 610. n. 2). Ma una tale ambizione fu rigettata, con sentenza concorde da tutti i Vescovi, i quali considerarono saviamente, non darsi il sangue da simili combattenti per confession della fede, ma per conservazione della repubblica: né darsi spontaneamente da chi non fa resistenza all’assalitore, ma vendersi piuttosto a prezzo accordato, da chi però tira soldo, e fa quanto può per uccidere l’avversario, non che da lui goda mai di restar ucciso ad onor divino.

III. Lasciato dunque un tale stuolo di martiri troppo impropri, favelliamo sol di coloro che hanno perduta puramente la vita in grazia della lor fede. E qui le sette, sì antiche come moderne, si arrogano di avere una copia grande di simili testimoni a loro favore: Vivebant ut latrones, honorabantur ut martyres, disse sant’Agostino dei donatisti, e dir si potrebbe, con debita proporzione, di vari eretici più moderni, che non cedono aniuno dei trapassati nell’ambir molto. Ma a capir meglio quanto ciò si arroghino invano, si vuole considerare come tre cose ne’ testimoni richieggonsi a piena pruova: il numero, la concordia, la dignità (S. Th. in Ps. 47).

I.

IV. Ora a rifarci dal numero: certa cosa è che le sette, appena nate, diramansi in molti capi, con divenire a poco a poco tante idre mostruosissime. Non possono dunque essere se non pochi color che muoiono per le loro credenze particolari; ne posson essere senonchè in pochi luoghi. Là dove i martiri della chiesa cattolica sono tanti, che a ripartirli in un anno, a tanti per dì, ne toccherebbero in ciascun di trentamila a solennizzare con propria festa (Genebr. in Ps. 78). E questi poi sono di modo distribuiti per l’ambito della terra, che non vi ha niuna provincia nel mondo antico, niuna del nuovo, che non sia inebriata altamente del loro sangue, o almeno bagnata. Siccome la virtù eroica de’ martiri e la loro fortezza doveva essere sempre un argomento invincibile a persuadere la vera religione, ed a dimostrarla; così in ogni luogo volle la provvidenza tenere accesi questi, dirò così, fanali di santità, i quali a tutte le genti fin da lungi scorgessero il vero porto. Pertanto se in tutti i tribunali il maggior numero vince sempre il minore, non saran certo sì temerarie le sette che vogliano mantenere tuttora il campo dopo il cimento, a guisa di vittoriose, se furono sì temerarie in entrarvi per cimentarsi.

V. Tanto più che queste, per essere così varie, come fu detto, nelle loro credenze, qual concordia potranno giammai provare ne’ testimonij da loro addotti a lor conto? A cagion d’esempio, la setta di Lutero, appena comparsa, si divise in più sette: sicché negli anni scorsi da lui fino al Bellarmino se ne annoveravano già da cento (Bellar. de not. Eccl. c. 10). Dal che ne viene che se per difenderle con audacia ne fosse stato abbruciato dagl’inquisitori un centinaio di persone (il che ne anche da loro può dimostrarsi), non più che un piccolissimo mucchio di tali ceneri toccherebbe a ciascuna di tante sette fra sé contrarie. L’istesso dicasi de’ calvinisti, degli anabattisti. degli zuingliani e di quanti altri in questi ultimi secoli hanno infettata co’ fiati pestilenziali de’ loro dogmi la nostra Europa. I loro testimoni non possono essere più concordi che i loro maestri, i quali, alzando nel loro capo un tribunale assoluto di religione, hanno oggi mai conseguito che tante sieno le fedi, quante le teste.

VI. Rimane sola dunque ad esaminarsi l’ultima condizione, ma la più forte di tutte le altre, che è la dignità di conseguire credenza a cagion de’ meriti.

VII. La nobiltà de’ natali, il senno, la sapienza hanno tanto di autorità, che tutti coloro i quali si presumono privi di tali doti, quali sono gli schiavi, i fanciulli, le femmine, i poverelli, sogliono per ciò solo venire esclusi dall’attestare ne’ tribunali, parendo la loro fede tanto men valida, quanto maggiormente venale. Se così è, dicano dunque gli adamiti e gli anabattisti, cioè coloro che fra gli altri settari si confidano più di poter mostrare molti ritratti dì martiri gloriosi uccisi per la loro fede: che nomi scrivono sotto di tali ritratti? Nomi di plebe vile, ignorante, ingannata, cui per lo più persuadevano i seduttori che, posta appena al supplizio, avrebbe veduto calare dal cielo gli angeli a liberarla fin dalle fiamme. Donde chiaro apparisce che ancor quei miseri tolleravano, è vero, ma diabolo possidente, non perseguente, come scrisse sant’Agostino di altri lor pari (Serm. 2 de s. Vinc.). Per contrario la fede cattolica, che pompa non può fare di cavalieri, di consoli, di patrizi, di condottieri di eserciti, di principi, di prelati, di regi illustri, di donne scese da stirpe ancor imperiale, di savi, di senatori, di letterati i più chiari al mondo, che incoronarono lo splendore del loro sangue e la sublimità del loro sapere, con la ghirlanda maestevole del martirio?

VIII. E questo è il meno in paragone della probità de’ costumi.

IX. La maggior parte de’ martiri menavano antecedentemente una vita sì religiosa, che quella sola poteva renderli venerabili al mondo per tutti i secoli. In ogni caso, certo è che in loro non punivasi altro che la profession cristiana, che è quanto dire punivasi l’innocenza: De vestris, rinfacciava a’ gentili già Tertulliano (In Apolog.) con lingua intrepida: de vestris semper æstuat carcer, de vestris semper metallo, suspirant, de vestris bestiæ saginantur. Nullus ibi Christianus, nisi plane tantum christianus: quod si et aliud, iam non christianus. Potranno forse non arrossire le sette, se con esse ragionisi di virtù? non potran certo, se non han la fronte incallita al pari del cuore. Ma non può sconvolgersi troppo questo pantano, altrimenti ne rimarrebbe infettata l’aria, tanto egli è sozzo. Solo accennerò brevemente che le due sette i cui seguaci sian morti con apparenza di più insolita intrepidezza, son quelle appunto, che da me furono rammemorate poc’anzi, cioè i nuovi adamiti nella Boemia, e i nuovi anabattisti nella Moravia, mentre di ambedue questi contan gli storici (Æneas Sil. hist. Boem. c. 21 Fior. Rem.) un andar lieto che facevano al palo apprestato ad arderli. Ora che una tale costanza in tutti quegli infelici non fosse intrepidità, ma bestialità trasfusa in loro da quello spirito reo che gli possedeva già da lungo tempo, ne può far fede la loro vita laidissima. Degli anabattisti basti il sapere che sì la comunanza delle mogli, sì la pluralità erano tra i primi articoli della lor riforma; ciò che sognato da Platone, quanto al primo, e preteso da Maometto, quanto al secondo, basterà a renderli sempre infami a tutti i legislatori (Gault. sec. 12. p. 659 e 660. Prateol. in Adamit,. Gault. sec. 16 in Anab. err. 11). Tra loro ogni donna era obbligata a soggettarsi alla lascivia di ogni uomo, e ogni uomo a saziar la libidine d’ogni donna: con una legge a cui non sono legati né anche i bruti, padroni in un tale genere di se stessi. E può stimarsi che la costanza di questi venisse poi da Dio più che dal diavolo? Mortis contemptum in martyribus pietas, in illis cordis duritia oreralur .S. Bern. sec. 66 in Cant.).

X. Oltre a ciò, quei che tra loro furono straziati in più strane guise, eran colpevoli non solo di esecrande disonestà, ma di fellonia manifesta, mentre sottraevano con sedizione espressa, sé e ciascun altro al dominio de’ loro principi, affermando che la libertà del vangelo richiede di non riconoscere alcun sovrano sovra la terra (Gault. 1. c. err. 17).

XI. E quel che è più, né anche ritrattavano i loro inganni e la loro empietà quando erano per morire, come nemmeno le sogliono ritrattare gli altri settari, che niente più abborriscono che il ridirsi, benché convinti. Un certo Lucilio, propagatore dell’ateismo per la Francia, preso in Tolosa, e condannato alle fiamme, in udirsi dir che chiedesse perdono a Dio, al re, alla giustizia, de’ suoi misfatti, rispose appunto così: Quanto al chieder perdono a Dio, non saprei come farlo, mentre io tengo, non esservi Dio veruno. Quanto al chiederlo al re, io mai non l’offesi; e quanto al chiederlo alla giustizia, vada ella pure al diavolo, che io non la riconosco; se pure non è una favola questa ancora, che dicono, dei diavoli (Gault. in Addit. an. 1719. c. 19).

XII. Di tal razza sono gli eroi che presso le sette rimangono in tanto merito, che si tenta di sollevarli fino agli altari, per quella ombra che mostrano di fortezza, la quale in sostanza non è fortezza, è protervia, è perversità, e però nuova colpa, e colpa spesso maggiore ancor delle antiche. Altro vi vuole a formare un verace martire: Martyres veros non pœna facit, sed causa (Aug. ep. 167). Tutta l’acqua del mare non è bastevole a fabbricare una perla, se ‘l cielo non entra a parte del bel lavoro con le sue rugiade purissime. E così parimente tutti i tormenti del mondo non possono fare un martire, se la grazia di Dio, qual rugiada di paradiso non entra a parte per disegnare, costituire, e compire sì nobil opera ordinata a morir per le verità insegnate da Cristo (S. Th. 2. 2. q. 124. a. 5. in c.).

XIII. Ma perché ancora que’ fuochi pazzi, i quali vanno per l’aria, si acquistano presso il volgo imperito il nome di stelle, per quella poca striscia di luce che gli accompagna nella loro funesta caduta; facciamoci a rimirar più di professione questa durezza con cui sono morti vari uomini scellerati tra gli ebrei e tra gli eretici, dannati al fuoco per li loro eccessi nefandi; e dimostriamo la differenza che v’ha tra la fortezza de’ veri martiri, e de’ supposti; considerando le condizioni che accompagnavano la loro morte, e gli effetti che la seguivano.

II.

XIV. La morte de veri martiri, così bella Come erane la cagione, veniva accompagnata continuamente da più miracoli: miracoli di pazienza, miracoli di potenza: di pazienza dalla lor parte, di potenza dalla divina. Qual miracolo di pazienza non fu vedere fino il sesso più imbelle di donne, di donzelle, di fanciullette, durar costanti fra quante orribili pene sapea mai specolare la crudeltà, piuttosto che piegare un solo ginocchio avanti una statua, in onta del vero Dio? Si sono bene ritrovati più eretici, andati incontro alla morte impavidamente: ma come furiosi, non come forti. Dei donatisti narra sant’Agostino (Epist. 56), che, durante tuttora il culto degl’idoli correvano a quelle infami solennità; non già per impedirle a qualunque rischio, ma per accrescerle, con farsi in compagnia di vari idolatri scannare anch’essi vittime a satanasso. Altri, scontrando passeggeri armati per via, minacciavan di ucciderli, se non venivano prima da loro uccisi, senza altro prò, che di accrescere il numero degli assassini. Ed altri da sé stessi ne andavano come matti, chi a balzare ne’ precipizi, chi a buttarsi ne’ pozzi, chi a slanciarsi d’accordo nelle fiumane, perché non fossero solamente que’ porci indiavolati, che tanto osarono nel lago de’ Geraseni. Ma che? vi sarà però chi mai dica che questi siano miracoli di pazienza? Sono questi miracoli di furore, simile a quello di Giuda, che col suo laccio fu l’ammaestratore di tali martiri. Pazienza è star fra’ tormenti con pace d’Angelo, come vi stavano i martiri Cristiani. Ma questa è quella che non sanno imitare i martiri del diavolo.

XV. Quindi è che gli eretici, se hanno talora incontrata anch’essi la morte, non solamente hanno sempre incontrato una morte breve, ma l’hanno incontrata di più con maniere improprie, superbe, spropositate, le quali, siccome non potevano in esse venir da Dio, che mai non opera senza infinita sapienza, né venire dalla natura, la qual da sé non le detta (come opposte al suo bene), ma le declina; così riman chiaro che venivan ne’ miseri dal diavolo loro dementatore, che non potendo operar né anche da più di quello che egli è, cioè da diavolo, se giammai gli ha sospinti a morti più acerbe, gli ha dipoi quivi subito abbandonati: mercecchè può ben egli dare temerità da incontrare qualsisia patimento senza atterrirsi, ma non può dare virtù di patir con pace. Michele Serveto, innovatore dell’arianismo, sentenziato in Ginevra al fuoco da chi non lo meritava meno di lui, cioè da Calvino: posto in quel tormento sì orribile, disperò: e muggendo a guisa di toro, chiese a’ giudici un coltello in prestito da uccidersi prontamente, ma non l’ottenne (Bellac. in Prœf. controv. de Christo). Onde altro non gli restò che morire arrabbiato, prima che arso. Ecco pertanto la pazienza ammirabile de’ settari, ecco la loro possanza! L’alchimia ha ben ritrovato modo di fissare l’argento vivo, sicché resista al martello: ma non già di fissarlo, sicché resista anche al fuoco. Può ben essere dunque che la ostinazione naturale di un cuore, avvalorata dagl’impulsi e dagli impeti del demonio, si fissi infino a sopportare i colpi di un dolore più comunale; ma dove si troverà che giammai si fissi alla prova di quei tormenti più intensi e più interminati, a cui non può stare salda la carne umana senza miracolo? Dove si vedrà mai fra tutte le sette chi reggesse a ventotto anni di martirio, come un Clemente di Ancira, che solo bastò a stancare più cesari furibondi, e a bagnare del sangue, da lui gettato senza risparmio, più provincie, ove andò prigione per Cristo? Un uomo tale può dalla Chiesa Cattolica opporsi solo, alla fortezza di tutti i falsi martiri delle sette, e un uomo tale può confonderli tutti. Ma che dissi un uomo? Una donna potrà anch’ella confonderli, benché sola. Mi si trovi in tutte le sette una verginella di tredici anni, com’era Agnese, che abbia mai sopportato tanto di strazi con eguale intrepidità: anzi con brio superiore aquel di qualunque sposa andata alle nozze. Non la troveranno in eterno: Una mulier, adunque, una mulier fecit confusionem in domo regis Nabuchodonosor (Iudith. XIV, 16). E quel che io dissi di una si invitta vergine, potrei dire di un figliuoletto ancora di dodici anni, quale fu Vito (15 Jun.). Chi hanno gli avversari da porgli afronte? Noi abbiamo un Agapito (18 Aug.) , un Marcellino (2 Ian.), un Marnante (27 Aug.), un Modesto (12 Febr.), un Venanzo (18 Maii), un Pontico (2 Iun.), un Pastore (6 Aug.), un Celso (12 Iun.), un Ammonio (12 Febr.), un Amonino (3 Sept.), e più altri fanciulli illustri, da potergli almeno mettere in compagnia. Ma i settari chi hanno? Ne pure un solo. Possono ben dunque le vespe imitare le api nel fabbricare i lor favi, ma non le possono imitar già nell’empire i favi di mele, non dico eletto, ma neppure comunale.

XVI. Che so dai miracoli di pazienza noi vorremo passare a quei di potenza, operati dal cielo, o affin di sottrarre i nostri martiri dai tormenti, o affine di farli in essi trionfar di giubilo; qui si che converrà a chi che sia de’ contrastatori seppellirsi ben tosto per confusione, non che nascondersi. Un tal calvinista (Gaul. Tab. Chron. in addit. p. 15, an. 1627) in Alencon di Normandia, condotto da’ suoi gravi eccessi alla forca si dichiarò di rimanersi nella sua perfida religione ostinato fino all’estremo. Appena fu però egli gittato giù dalle scale, che ecco a un tratto il capestro far da rasoio. Gli recide il collo ad un colpo: sicché cadendo il capo da una banda, il corpo dall’altra, ebber tutti a fuggir per lo spavento, cresciuto in sommo dal veder la lingua sacrilega rimasa da se sola attaccata al busto, quando dal busto n’era già divelta la gola. Di questo genere di miracoli avversi alla loro gloria, non favorevoli, sarebbe agevole a qualsiasi de’ settari addurre più d’uno, mentre più d’una volta ha la provvidenza voluto manifestare che la lor morte non è corona della fede, ma pena della perfìdia: Illorum mors non est fidei corona, sed pœna perfidiæ (S. Cyprian. I de simpl. Prælat.). Di altra qualità di prodigi in comprovazione della loro innocenza, o de’ loro insegnamenti, non ne recheranno pur uno. come né anche potranno un solo arrecarne di quella meravigliosa allegrezza, sì comune ai martiri nostri, e pure sì strana, che talora gli ha fatti chiamar vezzi le loro catene, rose i carboni, rugiade le caldaie, giorno di natale il giorno del loro martirio, baciandone gli strumenti per tenerezza, e rimunerandone i manigoldi per gratitudine come fe’ san Cipriano, che dichiarò su quell’atto, erede di tutto il suo chi lo decollò. Una fortezza volgare, mentrella incontra i pericoli per un bene non percettibile ai sensi, diviene per ciò solo fortezza eroica. Quanto più eroica dovrà dunque essere quella che per tal bene non solo incontra i pericoli, ma vi gode, ma vi gioisce? Potrà in un mare di pene far che scaturisca una fonte di paradiso altri che quel Dio che tanto cortesemente promise a’ suoi di cambiar loro in latte l’onde salmastre Inundationes marìs quasi lac suges (Deut. XXXIII. 19) Quindi si dice tanto giustamente de’ martiri, che fortes facti sunt in bello (Hæbr. 1. 31): non ante bellum, ma in bello, perché essi conseguivano la virtù nell’atto stesso di averla ad esercitare, che è il sommo indizio che in lor veniva dall’alto. Così una Felicita che sprezzò poscia intrepida e ferri e fiere, gemeva prigione tra le angosce del parto, perché diceva che nel parto toccava a lei di combattere co’ dolori, nel martirio avrebbe in lei combattuto per lei Gesù (Bar. an. 305). Quel corallo che nascosto sott’acqua non era più che erba molle, al veder il cielo s’indura come una gemma.

XVII. Non accadrebbe all’intento passar più oltre, tanto convien che cedano i novatori: ma non è men di ragione lasciare indietro quella testimonianza che della beata morte de’ martiri danno gli effetti a lei susseguenti, sì ne’ fedeli, che tanto più sempre crescono di fervore sì nella fede che tanto più si dilata sempre di culto. Fu sì da lungi che le carneficine usate ne’ martiri spaventassero i Cristiani accorsi a vederle, che anzi li ricolmavano quasi tutti di nuova lena. Un leone crocifisso, là nell’Africa presso Cartagine fu di sì gran terrore agli altri leoni, che, come è fama, non ardirono più di accostarsi a quella città, cui recavano dianzi continui danni (Plin. 1. 8. c. 16). In simile forma crederono i proconsoli e i presidenti di potere atterrire un tempo i fedeli, ponendo loro innanzi agli occhi spettacoli sanguinosi d’altri lor pari, lacerati, impiccati, infranti, arrostiti sulle vie pubbliche. E puro non sol la morte di pochi, ma la strage stessa di dieci mila per volta rincorava i vivi, e cambiava in tanti leoni fin gli agnelletti (dico i bambinelli innocenti), non che sgomentasse i leoni.

XVIII. Né all’esempio de’ martiri si accendevano puramente i fedeli, ma talora i nemici stessi, cambiatisi in professori animosi di quella fede, di cui erano dianzi arrabbiati persecutori. E può bramarsi miracolo più evidente? L’acque medesime, se sono troppo eccessive, sullo sfiorire di una vigna, l’abbattono nulla meno di una tempesta. E pure la vigna della Chiesa appena piantata fu sì robusta, che non pur le piogge di sangue, che la inondarono, ma i diluvi, valevano a fecondarla felicemente, non a distruggerla. È celeberrimo il detto di Tertulliano (In Apolog. in fine): Plures effìcimur, quoties metimur a vobis. Semen est sanguis christianorum – (Tipo vivente dei martiri cattolici è Cristo Gesù. siccome quegli, che diede la vita in olocausto a Dio sopportando il massimo dei tormenti per la più santa delle cause, la salute delle anime umane. A quel tipo s’inspirarono i martiri cristiani di tutti i tempi e luoghi: da esso attinsero la forza sovrumana e la costanza che spiegarono in omaggio alla fede: in essa dimora la ragione, per cui il sangue dei martiri, a dire di Tertulliano, era seme di nuovi credenti); – concorrendo a sì prodigiosa fertilità l’agricoltore divino, con la forza di quella grazia che egli infondeva negli animi più protervi, e concorrendovi i martiri con l’efficacia di quell’esempio che davano più che mai sull’estremo passo, mentre morivano vittime di carità verso Dio, stando con l’anima tutta in Gesù crocifisso, idea di martirio: e vittime di carità verso il prossimo, pregando per quegli stessi che li martirizzavano sì empiamente, quasi ferro infocato, che percosso più sull’incudine, più sfavilla. Mostrino ora le sette ne’ loro pretesi martiri una carità somigliante. Ma dove la troveranno, se non la fingono? La loro virtù maggiore consisteva in morire non bestemmiando: a guisa di quei monti bituminosi, che allora solamente sono innocenti quando stanno cheti, né scagliano dalle viscere fuoco e fiamme a ferire il cielo. Qual meraviglia però che la morte dei loro non abbia mai vantaggiato il loro partito, ma sempre diminuitolo? La loro pertinacia, come era naturale o era diabolica, così non aveva forza di muovere mai veruno ad abbracciare la rea setta in cui si morivano, ma valeva solo a renderla più esecranda. Quella fiamma che imbianca l’argento vero, consuma l’artifiziato. Se là vite secca si poti, non però rigermoglia come la verde. E se il seme guasto si seppellisca, non per questo moltiplica come il sano.