LO SCUDO DELLA FEDE (130)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO IX.

Il miracolo de’ miracoli, la conversione del mondo alla fede di Cristo.

I. Ciò che si è divisato fin ora, fa manifesto che le opposizioni eccitate, sì dagli ebrei contra i miracoli di Cristo, e sì dagli eretici contra i miracoli de’ fedeli veri di Cristo, non hanno finalmente nulla di fermo, salvo l’ostinazione degli avversari, che è il solito fondamento de’ loro errori. Tuttavia diamo anche loro, che i prodigi nostri restassero alquanto dubbi; come faranno non pertanto a schermirsi dalla doppia punta con cui gli assale l’acuto s. Agostino ( De Civ. Dei 1. c. 5 ) in quel suo dilemma? O il mondo ha. Ricevuta la fede cristiana mosso dalle miracolose operazioni di quei che la propagarono; e già abbiamo i miracoli contrastati dagl’invidiosi: o l’ha ricevuta senza mirare veruna di tali operazioni; ed ecco un miracolo dunque maggiore di tutti: il mondo convertito senza miracoli. E a ciò che si può rispondere?

II. A voler pertanto penetrar bene la forza di questa argomentazione, tal è la via. La religione di Cristo propone cose sì arduo a credere, sì alte allo sperare, sì difficili all’operarsi, che veggendosi quelle con evidenza e credere e sperare e operar da tanti, non può negarsi, che se ciò è succeduto senza miracoli, convien che Dio abbia interiormente supplito per altro verso. Ma questo non poteva essere se non che sollevando in modo più alto gli uomini, da sé solo, ad aderirgli, con un prodigio maggiore de’ naturali, qual era vincere la resistenza delle materie e de’ corpi (S. Th. 3. p. q.). E chi non sa che niun corpo resiste all’angelo, si che egli di sua virtù non lo possa muovere come vuole? Eppure i cuori degli uomini gli resistono (S. Th. 1. p. q. 111. art. 2). Esset autem omnibus signis mirabilius, si ad credendum tam ardua, ad sperandum tam alta, ad operandum tam difficilia, mundus absque mirabilibus signis inductus fuisset a simplicibus et ignobilibus hominibus (S. Th. contra gentes 1. 2. C. 6). Che un peso minore vinca un maggiore, non sì può conseguire mai senza macchina, dice il filosofo (In Mech. c. 1. n. 2). E questo appunto interviene nel caso nostro, dove pochi e poveri pescatori voltarono sossopra il mondo colla forza di quella leva onnipotente che loro aveva il Redentore apprestata nella sua croce. Ma per concepire giustamente la forza di questa macchina, è di necessità figurarsi al vivo tre cose: l’abisso di quel profondo ove giaceva il mondo, prima di sì ammirabile elevazione di esso alla fede: l’altezza di quel posto a cui fu elevato: e la debolezza dei predicatori evangelici impiegatisi ad elevarlo.

I.

III. Giacea dunque il genere umano in un abisso di tutte le più malvage scelleratezze, e ogni uomo non era più un piccolo mondo, ma bene un piccolo caos di confusione, tanto disordinato in tutto se stesso. Toltone un angolo della Giudea (che pure anche ella rimase offuscata frequentemente dalle tenebre dei popoli circonvicini), tutto il rimanente degli uomini dimorava in un’alta notte. In luogo del vero Dio adorava le creature: né solo le più belle, come il fuoco, il sole, le stelle, o le più benefiche, come le piante fruttuose; ma le più vili, come topi e tafani; e le più nocive, come coccodrilli, scorpioni, serpi, dragoni. Tutti questi ebbero tra le nazioni più colte, non pure dell’Egitto, ma della Grecia, anzi in Roma medesima, i loro adoratori ed i loro altari. E quel che è più, ve gli ebbero uomini peggiori ancor de’ dragoni, cioè uomini pieni di tutti i vizi, o per dir meglio ve gli ebbero fino i vizi stessi degli uomini, convertiti in tanto deità: Ipso, vitia religiosa sunt, atque non modo non vitantur, sed, etiam coluntur (Lact. 1. 1. c. 13. de falsa Rel.). Così potevasi dire allor con Lattanzio: essendosi in fine giunto, non solamente a togliere la vergogna dal volto di tutte le scelleraggini più nefande, ma a coronarle fin di raggi celesti.

IV. Né appariva speranza più di rimedio, mentre i savi stessi del gentilesimo, i quali conoscevan la falsità della lor ingannevole religione, in vece di distoglierne il volgo, ve lo immergevano più altamente, insegnando, che conveniva accomodarsi all’usanza; credere come si volea, ma vivere secondo che si vivea; e praticare quelle cerimonie sacrileghe, se non come grate al cielo, almeno come ordinate dalla consuetudine della patria: che fu appunto ciò che la penna di un Agostino rimproverò sì giustamente a quel Seneca, renduto ahi quanto colpevole, più degli altri, dal suo sapore: Colebat quod reprehendebat , agebat quod arguebat, quod culpabat adorabat (S. Aug. 1. 6. de Civ. c. 50).

V. Che se il ben credere è la prima regola del ben vivere, agevolmente s’intende quanto perversi dovean essere que’ costumi che dipendevano da una fede sì storta! Chi poteva temer di peccare sotto l’imperio di tali dei, che o non conoscevan le colpe, o invece di punirle in altrui, le ammettevano in se medesimi; e dopo avere infamati i talami con gli adulteri insolenti, le torri con gli accessi insidiosi, e le spiagge marittime fin coi ratti non condonabili ai più licenziosi corsari, ostentavano al mondo con caratteri di stelle le loro infamie descritte in cielo? Troppo era naturale il discorso, quantunque pessimo, di colui: Quod, divos decuit, cur mihi turpe putem? Ed infatti tanto erano lontani dal vergognarsi delle loro lascivie questi adoratori di numi sì svergognati, che di esse adornavano le loro solennità, di esse arricchivano i loro sacrifizi, e ad esse davano il nome di riti sacri, benché nell’abbominazione vincessero i medesimi sacrilegi. Onde potè con amaro sdegno esclamare l’istesso s. Agostino: Qualia sunt usacrilegia, si ista sunt sacra? (Libro 2. de Civ.).

VI. Ma forse che il solo popolo vile lasciò lordarsi di questo fango? Arguitelo voi da ciò che il senato di Roma decretò teatri, tempi, onori divini a una tal Flora, laidissima meretrice, in ricompensa di avere questa, morendo, lasciata al pubblico l’eredità de’ suoi beni, cioè l’avanzo infamissimo di quel prezzo che ella aveva ritratto in tanti anni dal vituperoso mercato delle sue carni. Le comete di posto nobile, quali son quelle che appaiono in mezzo al cielo, dilatano più ampiamente i loro effetti malefici sulla terra. Giudicate però quale impressione poteva fare nel mondo soggetto a Roma un esempio si reo, che gli derivava dal senato, capo del mondo.

VII. E pure mi darei qualche pace, se si fossero gli nomini contentati di peccare da uomini, senza volere superare, peccando, nella crudeltà fin le fiere. E qual fiera si trova, che incrudelisca contro i suoi parti innocenti mentre a prò loro divengono anzi le più tenere per amore quelle che sono le più rabbiose per indole? E nondimeno contra i lor parti medesimi tanto già incrudelivano i genitori, che li sacrificavano allegramente, a suono di tamburi e di trombe, dinanzi agl’idoli. Ciò che fu poi costume sì ricevuto tra le nazioni, che anche Gerusalemme, la città eletta dal cielo, più d’una volta non si vergognò d’imitarle, fino ad inzuppare di sangue il più immacolato la terra santa. Così a Lucifero era riuscito il suo secondo disegno, tanto meglio del primo: mentre non avendo egli potuto sollevar se medesimo all’ambita divinità, se n’era da sé quasi formata un’altra, con precipitare tutto il genere umano a dovergli star sotto i piedi per tutta l’eternità, quale schiavo ignobile, in un profondo di mali. Ed egli, benché tiranno, già regnava frattanto per l’universo con pace somma, mentre, da venti secoli almeno, lo possedeva senza contraddizione e senza contrasto. E certamente chi mai poteva voltare indietro la furia di sì gran piena? Quando un rio non è lontano ancor dalla fonte, può divertirsi con qualche facilità; ma come può divertirsi, quando con lungo corso tanto è cresciuto, che allaghi i campi? Un male sì universale, sì vasto, sì inveterato, pareva cambiato in natura. Onde non altro poteva il mondo aspettarsi di quel che accade nelle gravi febbri maligne, quando le viscere infiammate raddoppiano al capo i deliri, e il capo vieppiù fumante per que’ deliri accresce vicendevolmente alle viscere la lor fiamma. Voglio dire che l’intelletto, sempre più ottenebrato dalla volontà perversa, pervertiva sempre più la volontà, e la volontà l’intelletto: e l’intelletto e la volontà aumentavano insieme all’uomo il suo male, affatto insanabile senza cura miracolosa.

II.

VIII. Questo era il baratro, donde aveva il mondo a levarsi. Veggiamo ora il termine dove egli aveva da arrivare; affine di capir bene quanto sia stata grande la resistenza che in tal atto incontrata fu dalla macchina della croce, e pure fu vinta. Questo termine era il sommo della verità e della santità praticabile in su la terra. Intese Cristo di riacquistare al Padre il mondo usurpatogli dal demonio. Intese di sbandirne via tutti i vizi, in un con l’idolatria che tra loro porta corona simile a quella che gode il basilisco tra gli altri draghi. Intese di piantare una legge si bella, che il peccare fosse un amare ciò che ella vieta, e il perfezionarsi non potess’essere se non un eseguire ciò che da lei vien commesso o vien consigliato.

IX. Ora, che Cristo abbia conseguito il suo fine, ne fa ampia fede la vita singolarmente di quei primi Cristiani, chiamati giusti fino dai loro stessi persecutori. Riferisce Eusebio (In vit. Const. 1. 2. c. 49. 50), che l’oracolo delfico, al tempo di Diocleziano, ammutolì sì profondamente, che sollecitato da’ sacerdoti in più modi, non rendé infine altra risposta che questa: Che i tanti giusti turavano a lui la bocca. E i tanti giusti erano i seguaci di Cristo, come i medesimi sacerdoti spiegarono all’imperatore alterato a tal novità. Filone, celebratissimo, non pure tra’ suoi giudei, ma tra gli esterni, i  quel libro che compilò de’ primi Cristiani dì Alessandria, da lui descritti, sotto nome di Esseni, ci fa vedere la loro vita più celestiale, che umana (Baron. an. 46), e Plinio (L. 2. cp. 100), dopo un’accurata ricerca de’ lor costumi, poté scrivere a Traiano, sì avverso alla nostra fede, che ne’ Cristiani non v’era altro di male, che un affetto eccessivo al loro Maestro, da loro amato qual Dio (De Christianis: l. X, lett. 97). Queste sono testimonianze di nemici, e però tanto più autorevoli a chi ci abborre. Onde Atenagora, prima illustre filosofo, e poi più illustre martire del Signore, scrisse già francamente su i primi fogli della sua nobilissima apologia, che niun cristiano cattivo si ritrovava, se pur era vero Cristiano, e non era finto: Nullus christianus malus est, nisi hanc religionem simulanti.

X. La loro fede era sì costante, che i proconsoli e i presidenti si dichiararono presso Cesare, che essi non ritrovavano né croci, né carnefici sufficienti al numero di que’ Cristiani che nelle loro provincie si offerivano generosi alla morte (Anton. Procons. Asiæ, et Tiberius Palæst. Præfect.). La loro carità fu sì accesa, che per essa si discernevano da’ gentili: i gentili attoniti alla nobiltà di spettacolo così nuovo, andavano ogni poco fra sé dicendo: Guardate amore! Volere infino l’uno morir per l’altro: Videte, ut se invicem diligant, ut prò alterutro mori sint parati(Tert. Ap. c. 39). E la loro pudicizia fu sì evidente che più crudo supplizio per qualunque donna cristiana si reputava condannarla a’ lupanari che condannarla ai leoni: Ad lenonem damnando christianam, potius quam ad leonem, confessi estis labem pudicitiæ apud nos atrociorem omni pœna et omni morte reputari (Tert. Ap. c. ult.).

XI. E pure quanto tempo si ricercò a fare questo ammirabile cambiamento di cuori e di costumi nell’universo? Ogni macchina quanto vince di controforza, tanto è necessario che perda di celerità nell’operazione. Ma la macchina della croce non va con sì fatte regole. Quindi è, che una legge, sì ripugnante al vivere di que’ tempi, prevalse sì prestamente, che in capo al secondo secolo poté francamente scrivere Tertulliano (Anno 201. asserit. Spondan. n. 8. scriptum Apol. Tert.), che non v’era più luogo non occupato da’ seguaci di Cristo, fuori di quelli, dov’essi non si degnavano di por piede: Vestra omnia, implevimus, insulas, castella, municipia, conciliabula, castra ipsa, tribus, decurias, palatium, senatum, forum; sola vobis reliquimus tempia.

XII. Pertanto il mondo, da sentina di laidezze cambiossi in un giardino amenissimo di virtù; e la verginità raminga già dalla terra, la poté popolare sì nobilmente, che come scrive Palladio, ne’ giorni suoi, cioè sul principio del quarto secolo, il territorio di una sola città di Egitto alimentava ventimila vergini religiose, viventi tra’ mortali una vita angelica.

XIII. Eccovi il cambiamento de’ costumi, pronosticato dalle sibille sotto nome di secoli d’oro: pronunziato da’ profeti sotto l’allegoria di deserto cambiato in terreno colto: e chiaramente predetto ancora da Cristo innanzi al morire, sotto immagine di trionfo, quando assicurò i suoi fedeli, che Egli, sollevato ormai sul patibolo della croce era per tirare a sé solo tutte le genti: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum. Chi non iscorge però in questa mutazione di giudizii, di voleri, di vita, il dito di Dio, più potentemente impiegato, che non già ne’ portenti sì celebri dell’Egitto, dove pur gli stregoni più contumaci ve l’ebbero a veder chiaro ed a confessarvelo? Digitus Dei est Me.

III.

XIV. Senonchè ci rimane a considerare anche il meglio, cioè la debolezza de’ predicatori evangelici, eletti a fare un cambiamento sì alto. Quando Archimede con le sue leve spinse in mare una nave carica, di sterminata grandezza, restò Ierone si attonito, che esclamò, non doversi più ad un tal uomo negare di credere quanto mai promettesse di voler fare: Archimedi quidlibet affirmanti credendum est (Athen. 1. 5. c. 7. Proc. 1. 2. c. 3): quasi che nell’arte di lui riconoscesse quel principe compilata una piccola onnipotenza. Ora un’onnipotenza non sognata, ma vera, converrà riconoscere certamente nella conversione del mondo, se si rimiri, quanto da sé erano inabili ad ottenerla dodici Apostoli, noveri, semplici, sconosciuti, e privi affatto d’ogni talento che li potesse rendere riguardevoli ad occhi umani. I principi grandi ad ostentazione della loro potenza prendono a fabbricare talvolta in mare, con ergervi lunghi moli ove andarvi a spasso. Ma con ciò anzi vengono a far palese, che, benché principi, non sono da più degli altri, mentre nel mare conviene che anch’essi cerchino fondo sodo, come si fa sulla terra. Iddio per contrario, non solamente sa fondar le sue fabbriche sopra l’onde, ma sa fondarle sul nulla, cioè sopra spalle sì deboli, che, invece dì sostenere l’opera con lo loro forze, abbiano bisogno di essere sostenute.

XV. E perché questa allo spirito è una contemplazione molto gioconda, figuratevi un savio della terra il quale per via si abbatta in un pescatore, solo, scalzo, negletto, qual era Pietro, quando n’andava a Roma per introintrodurvi la fé di Cristo. E quivi fate ragione, che interrogato de’ suoi disegni l’apostolo gli risponda: Venir lui alla città reina del mondo, per renderla a sé ubbidiente: piantar su quell’inclito Campidoglio un labaro trionfale, non più là apparso, e per fondare in quella regia una nuova religione, da cui sia tosto l’antica mandata in bando: aver lui in cuore di farvi adorar qual Dio un uomo di trentatré anni crocifisso novellamente nella Giudea per consiglio degli scribi, per consenso de’ sacerdoti, e per sentenza di Ponzio, presidente romano, fra due ladroni; volervi persuadere, che questo crocifisso non è più morto, ma risorto già dalla tomba, per virtù propria, ad una vita gloriosa che gode in cielo: e che dal cielo è per tornare una volta a giudicare tutto il genere umano, richiamando dalle lor ceneri a nuova vita tutti mortali, per dare loro quella pena o quel premio, che si saran meritato con le lor opere. Non contento di far lui credere a Roma questo verità puramente speculative, voler che in pratica, per amor di quest’uomo, ella si risolva a sfuggire i piaceri come nemici, ad abbracciare la povertà qual tesoro il più fortunato, e ad anteporre le ignominie e le ingiurie a tutti gli onori che prima si comperavano a sì gran costo: voler che quivi si amino tatti insieme come fratelli, e che, se mai da veruno vengano offesi, contraccambino l’odio con benevolenza, gli oltraggi con benefìzi; e che in una parola ciascun sia pronto ad abbandonare e padroni e padri e figliuoli e sposo e sorelle e quanto si possiede di bene al mondo o può possedersi, per ubbidire a questo giustiziato, di cui si parla, e per mantenere inviolabile a lui la fede: né pretender già esso di persuadere, sì strane cose a semplici femminelle: pretender di persuaderle a senatori, a consoli, a capitani, infino a monarchi, sicché si glorino d’imbrandire un giorno la spada ad onore di questo medesimo crocifisso, e credano di nobilitarsi la fronte con la sua croce più che con tutte le loro gemme orientali: pretender di persuaderle alle più scienziate accademie, ad oratori, a favoleggiatori, a filosofi, a gran politici, e a ministri di stato, usi a librare il mondo sulle lor lance; e quel ch’è più, di persuaderle ad uomini tutti immersi nelle dissoluzioni, sicché, sfangandone, curvino a questo nuovo nume lo spirito riverente, e col timore di lui tengano in briglia da ora innanzi le lor passioni scorrette.

XVI. Or che direbbe mai quel savio all’udir tali stravaganze? Credo, che da principio dileggerebbe senza dubbio l’Apostolo come stolto. Ma quando pure, per le parole replicate di questo, inclinasse a credergli, passerebbe egli attonito a domandargli, con qual apparato di ricchezza, di dottrina, di doti, di nobiltà, di compagni, di fautori, intraprendesse un’impresa sì malagevole. E però quanto crescerebbe in lui lo stupore, quando si udisse a tale istanza soggiungere dal buon Pietro, che i suoi compagni son dodici, e che col seguito di pochi altri, da loro ammessi a tal opera, si sono ripartito tutto il mondo abitato, per soggettarlo a questa novella fede: che in arnese tutti vanno sì poveri, come lui: che non pregiano altra dottrina, altre doti, che l’amore a questo medesimo crocifisso: e che quantunque siano pescatori di mestiere, e Giudei di patria, e come Giudei sappiano d’essere l’odio delle nazioni, tuttavia vengono assicurati dal loro Maestro, che pianteranno di certo una tal credenza sulle rovine del culto già universale de’ falsi Dei, e la pianteranno sì salda che tutti i tormenti inventati dalla rabbia dei Cesari in trecento anni, e ne’ secoli susseguenti, invece di svellerla, concorreranno a farle gettar più valide le radici in qualunque lato: né si guardi, tutti al pari loro essere di una lingua, perché ben sapranno usare, dovunque vadano, tuttavia le lingue di tutti, benché mai da lor non apprese.

XVII. E di fatto così è avvenuto: e se noi stupiti non ammiriamo l’evento, è perché nati in questa fede. e nutritivi, non la consideriamo più qual prodigio, ma qual cosa giustissima ad avvenire. Frattanto, ipse modus, quo eredidit mundus, incredibilior invenitur, dice a ragione sant’Agostino (De Civit. Dei 1. 21. c. 5).Se udissimo raccontare che dodici soldati di Europa, sbarcati nell’America, han soggiogata tutta quella parte di mondo, ci sembrerebbe stranissimo a dover crederlo. Ma finalmente quegl’indiani, mal esperti alla guerra, han lance di canne: onde può essere che quei pochi europei, con andar ben guerniti di qualunque arma, e di ferro e di fuoco abbiano abbattuta col timor di sé quella moltitudine che non potevano vincere con la forza. Ma fingete, che dodici indiani, vestiti alla leggera, con le lor piume, sbarcassero al tempo stesso, quale in un porto di Europa, quale in un altro, e con le loro canne in mano per aste superassero in più fazioni eserciti innumerabili di soldati nostrali i più bellicosi; chi mai penerebbe a credere che tal vittoria avvenisse, non per virtù naturale, ma sovrumana, massimamente se quegl’indiani restassero superiori, non ammazzando gli emuli, ma ammazzati? Ora tale è il caso nostro: senonché tanto egli è ancora più stravagante, quanto è più difficile vincere i cervelli e i cuori, che non i corpi. E potrà uomo di senno non confessare la legge cristiana per un lavoro che vien dall’alto? Nullus his contradixerit, nisi qui valide insanus et totus stupidus sit: come ne parve, tanti secoli fa, alla lingua d’oro di Giovanni il Grisostomo (Homilia quod Christus sit Deus). Il vincere l’audacia con la sommessione, l’astuzia con la semplicità, i re coi poveri, i fastosi con gl’ignobili, i filosofanti con gl’idioti, è un’impresa che non poteva disegnarsi da altri che da Dio solo, e da Dio solo eseguirsi. Egli solo è il padron dell’uomo, e così Egli solo può esercitare nell’intimo di lui dominio totale, piegandolo con dolcezza, a ciò ch’Egli vuole, senza punto violargli la libertà. Il diamante, benché sì duro, pure anch’egli ha le vene proprie, per cui lo sanno fendere i gioiellieri ben intendenti. Sia duro quanto si voglia il cuore degli uomini sia restio, ha le sue vene ancor esso, per cui gentilmente vi opera quel Signore che lo formò.

IV.

XVIII. Ponete ora al confronto le mutazioni che le altre sette hanno fatto ne’ lor seguaci. Socrate, Platone, Aristotile, Tullio, Seneca, Plotino, Plutarco, sono i più riveriti maestri dell’antichità. Ora qual gente essi accolsero sotto le loro insegne? Non h inno potuto neppure fare universalmente accettare quelle verità che sono scritte nel cuore umano dal dito dellanatura. Tal è. non esservi più che un Dio solo al mondo. Così credevano in loro cuore ancor essi. E pure, con tutto il loro sapere, a qual città, a qual castello, a qual infimo villaggetto arrivarono a persuadere che, lasciate il culto degl’idoli, abbracciassero quello di un solo Dio? Similmente conoscevano essi il darsi al mondo un’altissima provvidenza de’ nostri affari:l’anima esser immortale: la virtù non dover andar senza premio; il vizio non dovere andar senza pena, né solo in questo mondo, ma ancora nell’altro E pure in quanti fermamente stamparono tali dogmi? Giudicate poi che avrebbero persuaso le loro parole di quelle verità più difficoltose che sormontano tanto ogni umana capacità.

XIX. Ma che dico io de’ filosofi, i quali avevano una sapienza morta nel cuore, e non un vivo spirito di pietà; onde è che potevano fare assai più di strepito, che di scossa. Abramo, Giuseppe, Giacobbe, Mosè, e gli altri amici più intimi del Signore, ancorché da Lui ricevessero tanti oracoli, e tanti altrui fedelmente ne riportassero, poterono forse persuadere ad una intera provincia là nell’Egitto, che ella aderisse con esso loro al gran Dio da loro adorato? Né anche forse lo persuasero ad un’intera famiglia. E quantunque la legge data a Mosè sul Sinai fosse sì giusta, quantunque fossegli bandita quivi da Dio in un apparato di tant’orrore, che pareva anzi indirizzato a punir prevaricazioni, che a pubblicare precetti: quantunque all’adempimento di essa fosse il popolo scorto con una guida scesa dal cielo, la quale precedevalo ad ogni passo: quantunque fosse alimentato a meraviglia da nuvole rugiadose, da rupi serve, da ruscelli seguaci: quantunque fosse condotto per un sentiero, in cui d’ambo i lati aveva per siepe, a tenerlo in via, folto numero di prodigi; contuttociò quanto ebbe Mosè a penare per farlo stare entro i termini del dovere, sicché, non traboccassero ancor egli nelle abbominevoli usanze degli idolatri, è invece di convertire gli abitatori della terra promessa, non si lasciasse pervertire in pochi anni dai loro costumi? Tanto inferiori sono il Sinai al Calvario, la sinagoga alla Chiesa.

XX. Mi vergogno qui poi di rammemorare il sozzo Maometto. Ma, a confusione di quegli stolti i quali lo fanno andare in cocchio coi sommi legislatori. mostri un poco ancor egli la mutazione che recò al mondo la legge da lui data contro ogni legge. Dov’ella entrò, parve entrarvi subito un fuoco divoratore; sicché quella varietà di scena che si scorge intorno al Vesuvio,prima che egli vomiti le sue fiamme infernali sulle campagne, e dappoiché ve la ha vomitate, quella si scorge parimenti nei luoghi soggetti al turco. Qual paese già fecondo d’ingegni, più culto per arti, più costumato per andamenti, più fiorito per lettere, e qual anche  più venerabile por pietà, che la Grecia, e che la stessa Africa quando obbediva a Cristo? E pure, quale più selvaggio, più stolido, più ignorante che l’Africa, o che la Grecia, poiché passarono sotto il giogo ottomano? E quello che ivi ancora è più da notarsi, ciascuno avria divisato che la legge turchesca, con la molteplicità delle mogli da lei permesse, avesse a popolare i paesi dov’ella arriva, sopra ogni credere; e per contrario ella v i arreca a poco a poco un’orrenda desolazione. L’Egitto fu già tanto popoloso, che Pomponio Mela vi annoverò le città a venti migliaia: ed ora è sì scarso, che Leone Africano non gliene dà più di venti. E laddove nell’Africa, l’anno quattrocento settantuno, furono, per testimonianza di Beda, funestate da Unnerico re ariano, quattrocento trentaquattro città, con l’esilio de’ loro vescovi; ora per dotto dì Leone medesimo suo natio, non ve se ne possono contare più di quaranta, quando anche per città si passino luoghi poco degni di tanto nome (Apud Bazium 1. 15. signo 73). E l’istesso proporzionalmente si può affermare della Grecia e dell’Asia, dove l’imperio ottomano si dilatò: tantoché i turchi medesimi, ammirando la strana sterilità che portano per retaggio con esso sé le loro conquiste, son usi dire, che dove il cavallo del gran signore pone il pie non nasce più erba (Boler in relat.).

XXI. Di questa foggia sono que’ cambiamenti che le sette cagionano ne’ lor popoli, e di peggiore sono quelli che cagionano ne’ costumi, mutandoli di buoni in cattivi, di cattivi in pessimi, fino a precipitarli nell’ateismo; come appunto succede fra’ novatori, i quali, non trovando dove alla fine posare il pie, si riducono ad affermare che ciascuno può salvarsi nella sua legge: non si accorgendo i meschini, che l’approvare tutte le religioni, e il negarle tutte, sembrano due contraddizioni formali, e son due sinonimi. Ma che? Questo è l’esito degli animali nati dal putridume terminare in una corruzione maggiore di quella da cui provennero.

XXII. Tornando all’intendimento: chi non vede frattanto, che la fede di Cristo è la vera dottrina uscita dal cielo, mentre per mezzo di essa ha Dio introdotto nel mondo tanto di sapienza e tanto di santità, e ne ha sgombrato tanto di sciocchezze nelle opinioni, e tanto di sozzure nell’opere? Però, o tutta questa mutazione è succeduta a forza di gran miracoli, ed ecco la sottoscrizione che Dio vi ha aggiunto di man propria, affino di accreditarla; o è succeduta senza miracoli; ed ecco divenire un miracolo ancor maggiore quella mutazione ora detta, che, essendo sì inaspettabile e sì inaudita, è da Dio stata operata senza miracoli, e in sì breve ora, che direi esser la fede scorsa immediatamente da un polo all’altro come la luce, se ciò non fosse dir poco, mentre la luce non ha contrario veruno che le resista; ma quanti n’ebbe la fede! Sicché quale scampo ormai resta a chi non confessi, che dal modo medesimo, con cui questa si è propagata nell’universo, dà chiaramente a vedersi, ch’ella è la vera? E se è la vera, che dunque osare di levarsele contro a guisa di vipera ritta al sole, col collo gonfio di livor velenoso, che spiri morte, e con la bocca piena di spume maligne? Meglio è l’umiliarsi, e concedere nuovamente, che ci vuol più a non volere scorgere dove regni la religione sincera, che a risaperlo.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.