DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (1)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO I.

Si pongono due fondamenti principali in questa materia.

Non sicut ego volo, sed sicut tu (Matth, XXVI,39):

Non si faccia, Signore, come voglio io, ma come volete voi. Per due fini dicono i Santi che discese il Figliuolo di Dio dal cielo e si vestì della nostra carne, facendosi vero uomo: l’uno per redimerci col suo Sangue prezioso, l’altro per insegnarci colla sua dottrina la via del cielo e istruirci col suo esempio: imperciocché siccome non ci avrebbe giovato il saper la via per cui poter camminare, se fossimo rimasi legati nel carcere; così, dice S. Bernardo (D. Bern., serm., 3, in circum., Dom.), non avrebbe giovato il cavarci dal carcere, se non avessimo saputa tal via: e poiché Dio era invisibile, era necessario, che per poterlo noi vedere, seguitare e imitare, Egli si facesse visibile e si vestisse della nostra umanità: in quella guisa che il pastore si veste di un pelliccione formato della stessa delle delle pecore, acciocché queste più facilmente lo seguitino, vedendo la loro similitudine. – E S. Leone papa dice: Nisi enim esset verus Deus, non afferret remedium: nisi esset homo verus, non præberet exemplum (D. Leo P. serm. 1, (le Nat. Dom.): Se Cristo non fosse stato vero Dio, non ci avrebbe apportato il rimedio; e se non fosse stato vero uomo, non ci avrebbe dato l’esempio. L’una e l’altra di queste due cose fece Egli molto compiutamente mercé l’eccesso di quell’amore che portava agli uomini. Siccome dal canto suo fu molto copiosa la redenzione: Et copiosa apud eum redemptio (Psal. CXXIX, 7): così dal canto suo fu anche molto copioso il suo ammaestramento; perché non fu fatto solamente con parole, ma molto più abbondantemente con esempio di opere: Cœpit Jesus facere et docere, dice l’evangelista S. Luca (Act, I, l). Prima cominciò ad operare, il che fece in tutta la sua vita; e dipoi a predicare i tre ultimi anni, ovvero i due e mezzo. – Ora fra tutte le cose che c’insegnò Cristo nostro Redentore, una delle più principali si è che avessimo una piena conformità alla volontà di Dio in tutte le cose: e non solo ce lo insegnò con parole, quando insegnandoci ad orare disse: Una delle cose che avete da chiedere al vostro Padre celeste, è, Fiat voluntas tua sicut in cœlo et in terra (Matth. VI, 10): Facciasi, Signore, la volontà tua in terra siccome si fa in cielo; ma c’insegnò anche e ci confermò molto bene questa dottrina col suo esempio: perché a quest’effetto dic’Egli che scese dal cielo in terra; Descendi de cælo, non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (Jo. VI, 38): Discesi dal cielo, non per fare la volontà mia, ma quella del mio Padre che mi mandò. E al tempo di compiere la grand’opera della nostra Redenzione, il giovedì dopo l’ultima Cena ritiratosi all’orto di Getsemani, ed ivi postosi in orazione, sebbene il corpo e l’appetito suo sensitivo naturalmente ricusavano la morte (onde per mostrare, ch’era vero uomo, disse: Pater mi, sì possibile est, transeat a me calix iste – Matth. XXVI, 39): Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice); nondimeno la volontà sua fu sempre molto pronta e molto desiderosa di bere il calice che il divin suo Padre gli offriva: onde soggiunse subito: No, Signore, non si faccia quello che voglio Io; ma quello che volete Voi. Per pigliar questa cosa dalla sua radice e per fondarci bene in questa conformità alla volontà di Dio, si hanno da supporre due brevi fondamenti, ma molto sostanziali, sopra de’ quali, come sopra due cardini, si ha da appoggiare e raggirare tutto questo affare. Il primo è, che il nostro profitto e perfezione consiste in questa conformità alla volontà di Dio: e quanto questa sarà maggiore e più perfetta, tanto sarà maggiore il profitto. Questo fondamento si lascia intendere facilmente; perché è cosa certa, che la perfezione essenzialmente consiste nella carità e nell’amor di Dio: e tanto sarà uno più perfetto, quanto più amerà Dio. È pieno di questa dottrina il sacro Evangelio; ne sono piene le Epistole di S. Paolo; ne sono pieni i libri de’ Santi: Hoc est maximum et prìmum mandatumCharitas est vinculum perfectionis (Ad Col, III, 14): — Major autem horum est charitas (I ad Cor. XIII, 13). La cosa più alta e più perfetta è la carità e l’amor di Dio. Ora la parte più alta e più pura di questo amore di Dio, e come la sua quint’essenza, è il conformarsi in ogni cosa alla volontà di lui e l’aver un istesso volere e non volere colla Divina Maestà Sua in tutte le cose: Eadem velle et eadem nolle, ea demum firma amicitia est, dice S. Girolamo (Hieron. ep. ad Demetr. ex Cicer. de amicitia), riportando queste parole da lui cavate da quell’antico Filosofo: L’aver un istesso volere e non volere colla cosa amata, è la vera e ferma amicizia. Dunque quanto uno sarà più conforme e più unito alla volontà di Dio, tanto sarà migliore e più perfetto. Inoltre è chiaro che non vi è cosa migliore né più perfetta che la volontà di Dio; dunque quanto più uno si conformerà e si unirà alla volontà di Dio, tanto migliore e più perfetto sarà: come saviamente arguiva lo stesso sovrallegato Filosofo: Se Dio è la cosa più perfetta che si trovi; dunque quanto più una cosa si assomiglierà a Dio, tanto sarà più perfetta. – Il secondo fondamento è, che nessuna cosa può avvenire né succedere nel mondo, se non per volontà e ordinazione di Dio: il che si ha da intendere sempre, eccettuatane la colpa e il peccato; perché di questo non è cagione né autore Dio, né può esserlo. E siccome ripugna alla natura del fuoco il raffreddare, e a quella dell’acqua il riscaldare, e a quella del sole l’oscurare; così ripugna infinitamente più all’immensa bontà dì Dio l’amare l’iniquità. Onde il profeta Abacuc disse: Mundi sunt oculi tui, ne videas malum; et respicere ad iniquitatem non poteris (Habac. 1,13.): Signore, gli occhi tuoi sono mondi, per non vedere il male; e non puoi vedere le iniquità degli uomini. Siccome tra noi, quando vogliamo significar l’odio che uno porta ad un altro, diciamo, che non lo può vedere; così dice che Dio non può vedere le iniquità degli uomini per l’abborrimento e odio grande che porta a quelle: Quoniam non Deus volens iniquitatem tu es, dice David (Ps, V, 5); e altrove: Dilexisti justitiam et odisti iniquitatem (Ps. XLIV, 8). Tutta la sacra Scrittura è piena di espressioni e di formole le quali ci mostrano quanto Dio odia il peccato; onde non può esser cagione né autor di esso. Ma, eccettuatone il peccato, tutte le altre cose e tutti i travagli e i mali di pena che avvengono in questo mondo, tutti avvengono per volontà e ordinazione di Dio. Questo fondamento è anch’esso molto certo. Non vi è fortuna nel mondo: che questo fu errore de’ Gentili. I beni che il mondo chiama di fortuna, non li dà la fortuna, che questa non vi è, ma li dà solamente Dio. Così lo dice lo Spirito santo per mezzo del Savio: Bona et mala, vita et mors, paupertas et honestas, a Deo sunt (Eccli, XI, 11): I beni e i mali, la vita e la morte, la povertà e le ricchezze, Dio è che le dà. E ancorché queste cose avvengano per mezzo d’altre cagioni seconde, è nondimeno certo, che nessuna cosa si fa in questa gran repubblica del mondo; se non per volontà e ordine di quel supremo Imperatore che la governa. Nessuna cosa avviene a caso rispetto a Dio; ogni cosa vien decretata e ordinata da lui, e ogni cosa passa per le sue mani. Tiene Egli contate tutte le ossa del tuo corpo e tutti i capelli del tuo capo; e né pur uno di essi ti sarà tolto senza ordinazione e volontà sua. Ma che dico io di quello che tocca agli uomini? Non cade un uccellino nel laccio, dice Cristo nostro Redentore nel suo Evangelio, senza disposizione e volontà di Dio: Nonne duo passeres asse væneunt: et unus ex illis non cadet super terram sine Patre vestro (Matth. X, 29)? Nemmeno una fronda di un albero si muove senza la sua volontà. Ancora delle sorti, dice il Savio: Sortes mittuntur in sinum, sed a Domino temperantur (Prov. XVI, 33): Sebbene le sorti si cavano da un bussoletto, o da un vaso, non ti pensare che escano a caso; perché escono per decreto della Divina Provvidenza, la quale così vuole e così dispone: Cecidit sors super Mahiam (Act. I, 26): Non cadde a caso la sorte sopra di Mattia; ma fu per decreto e particolare provvidenza di Dio, il quale lo volle eleggere in suo Apostolo per quella via. Arrivarono a conoscere questa verità, anche col solo lume naturale, i buoni Filosofi, e dissero, che sebbene rispetto alle cagioni seconde molte cose sono a caso, nondimeno non sono a caso rispetto alla prima cagione; ma molto di proposito e a bello studio da lei sono prevedute e ordinate: e apportano per esempio: Se un padrone mandasse un servidore in qualche luogo per qualche affare; e per un’altra strada ne mandasse un altro al medesimo luogo, o per lo stesso, o per un altro affare, senza saper l’uno dell’altro, intendendo però egli, che colà si unissero; l’incontrarsi questi due servidori rispetto ad essi sarebbe a caso, ma rispetto al padrone, che lo pretese, non sarebbe a caso, ma cosa pensata e voluta molto di proposito: così qui nel caso nostro, benché rispetto agli uomini avvengano alcune cose a caso, perché essi prima non le intendevano né vi pensavano; nondimeno rispetto a Dio non avvengono a caso, ma con consiglio e volontà sua, che così ha ordinato per i fini segreti e occulti ch’Egli sa. Quel che abbiamo da cavare da questi due fondamenti, è la conclusione , e l’assunto che abbiamo proposto, cioè, che, giacché tutte le cose che ci accadono vengono dalla mano di Dio, e tutta la nostra perfezione consiste nel conformarci alla volontà sua, le riceviamo dunque tutte come venute dalla sua mano e ci conformiamo in esse alla sua divina e santissima volontà. Non hai da ricevere cosa alcuna come venuta a caso, o per industria e per i mezzi degli uomini; perciocché questo è quello che suol cagionare grande angoscia e dolore: non ti pensare che questa o quell’altra cosa ti sia avvenuta, perché quell’altro l’abbia maneggiata; e che, se non fosse stato per la tale o tal altra circostanza, sarebbe succeduta altrimenti: non hai da far conto di questo; ma pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per qualsivoglia via, o giro, che vengano; perché Egli è quegli che le manda per quei mezzi. – Soleva dire uno di que’ famosi Padri dell’eremo (In Vita Patr.), che non potrà l’uomo aver vero riposo né vera contentezza in questa vita, se non farà conto che in questo mondo non vi sia altri che Dio. ed Egli solo. E S. Doroteo dice, che que’ Padri antichi molto attendevano a questo esercizio, dell’assuefarsi a pigliare tutte le cose come venute dalla mano di Dio, per piccole che fossero ed in qualsivoglia maniera elleno venissero; e che con questo si conservavano in gran pace e quiete, e vivevano vita celaste (In Dototh. Doctr. 7).

CAPO II.

Si dichiara meglio il secondo fondamento.

È una verità tanto chiaramente espressa nella divina Scrittura, che tutti i travagli e mali di pena vengono dalla mano di Dio, che non vi sarebbe veru n bisogno di trattenerci in provarla, se il demonio colla sua astuzia non procurasse d’oscurarla; perché dall’altra verità pur certa che abbiamo detta, cioè non esser Dio cagione né autor del peccato, inferisce una conclusione falsa e bugiarda, facendo credere ad alcuni, che, sebbene i mali che ci vengono per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, come l’infermità, la carestia, la sterilità, vengono dalla mano di Dio; perché in queste cose non v’è peccato né vi può essere in creature tali, non essendo capaci di esso; nondimeno il male e il travaglio che accade per colpa dell’uomo, il quale ha dato ferite, o ha rubato ad un altro, o lo ha ingiuriato, non viene dalla mano di Dio, né è guidato dalla sua ordinazione o provvidenza, ma viene dalla malizia e perversa volontà di colui; il che è un error molto grande. Dice molto bene S. Doroteo riprendendo questa cosa, e quegli insieme che non pigliano tutte le cose come venute dalla mano di Dio: Nos vero cum verbum ullum in nos dictum audimus, canes imitamur: hi enim, si quis in eos lapidem jecerit, jaciente dimisso, lapidem remordent; ita nos, Deo relicto, qui nobis tribulationes hujuscemodi ad peccatorum nostrorum purgationem procurata ad lapidem, hoc est ad proximum, currimus (D. Doroth. Doctr. 7): Vi sono alcuni, i quali, quando un altro dice qualche parola contro di essi, o fa loro qualche altro male, dimenticati di Dio, rivolgono tutta la loro ira contro il prossimo; imitando i cani, i quali mordono il sasso, e non guardano alla mano che l’ha tirato, né fanno d’essa alcun conto. Per dar il bando a quest’errore, e acciocché stiamo ben fondati nella verità cattolica, notano i Teologi, che nel peccato che l’uomo commette concorrono due cose; l’una è il moto e l’atto esteriore ch’egli fa, l’altra il disordine della volontà col quale si scosta da quello che Dio comanda. Della prima cosa è autor Dio, della seconda l’uomo. Mettiamo per esempio che un uomo venga a rissa con un altro e che lo ammazzi. Per ammazzarlo gli bisognò metter mano alla spada, alzare e maneggiare il braccio, tirar il colpo, e far altri moti naturali i quali si possono considerare da sé, senza il disordine della volontà dell’uomo che li fece per ammazzar quell’altro. Di tutti questi moti considerati in se stessi ne è cagione Iddio, ed egli li fa, come fa anche tutti gli altri effetti delle creature irragionevoli: perché siccome elleno non si possono muovere né operare senza l’attual concorso di Dio, così neanche potrebbe senza esso maneggiar l’uomo il braccio né metter mano alla spada. Oltre di questo, quegli atti naturali da se stessi non sono cattivi, perché se l’uomo li usasse per sua necessaria difesa, o in guerra giusta, o come ministro della giustizia, e in questo modo ammazzasse un altro, non peccherebbe. Ma della colpa, che è il difetto e disordine della volontà con cui l’uomo cattivo fa l’ingiuria, e di quel traviamento dalla ragione e storcimento da essa, non ne è cagione Iddio; sebbene ciò Egli permette, perché potendolo impedire, non l’impedisce pe’ suoi giusti giudizi. E dichiarano questo con ima similitudine. Si trova uno ferito nel piede, e con esso va zoppicando. La cagione del camminare col piede è la virtù e la forza motiva dell’anima; ma del zoppicare ne è cagione la ferita, e non la virtù dell’anima; così nel- l’opera che uno fa peccando, la cagione dell’opera è Dio; ma l’errare e il peccare operando è del libero arbitrio dell’uomo. Di maniera che sebbene Iddio non è né può essere cagione né autor del peccato, abbiamo nondimeno da tener per certo, che tutti i mali di pena, o vengano per mezzo di cagioni naturali e di creature irragionevoli, o vengano per mezzo di creature ragionevoli, per qualsivoglia via e in qualsivoglia modo che vengano, tutti vengono dalla mano di Dio, e per sua disposizione e provvidenza. Dio è quegli che ha maneggiata la mano di colui che t’ha percosso, e la lingua di colui che t’ha detta la parola ingiuriosa: Si erit malum in civitate, quod Dominus non fecerit (Amos III, 6)? Dice il profeta Amos: ed è piena la sacra Scrittura di questa verità, attribuendo a Dio il male che un uomo ha fatto ad un altro, e dicendo, che Dio è quegli che l’ha fatto. Nel secondo Libro dei Re, parlandosi di quel castigo che Dio diede a David per mezzo del suo figlio Assalonne, per lo peccato d’adulterio e d’omicidio che commise, dice Dio, che un tale castigo glielo avrebbe dato Egli di propria mano: Ecce ego suscitabo super te malum de domo tua, et tollam uxores tuas in oculis tuis, et dabo proximo tuo…. tu enim fecisti abscondite; ego autem factam verbum istud in conspectu omnis Israel, et in conspectus solis (II. Reg. XII. 11, 12.). Quindi è ancora, che i re empii quali per la loro superbia e crudeltà usavanotrattamenti asprissimi col popolo diDio, vengono chiamati dalla Scrittura istrumento della Divina Giustizia: Væ Assur, virga furoris mei (Isa. X, 5): Guai ad Assur, verga del mio furore. E di Ciro re de’ Persi, per mezzo del quale il Signore aveva da castigare i Caldei, dice: Cujus apprehendi dexteram (3 (lbid. XLV, 1), la cui destra mano io ho da maneggiare. Dice molto bene S. Agostino a questo proposito: Impietas eorum tamquam securis Dei facta est. Facti sunt instrumentum irati, non regnum placati. Facti enim hoc Deus, quod plerumque facit et homo. Aliquando iratus homo apprehendit virgam jacentem in medio, fortasse qualecumque sarmentum, cædìt inde fìlium suum, ac deinde projicit sarmentum. in ignem, et filio servat hæreditatem; sic aliquando Deus per malos erudii bonos (D. Àug. in Psal. LXXIII): Procede Dio con noi altri come suol procedere di qua un padre, il quale adirato col figliuolo dà di mano ad un bastone che trova alla ventura, e con esso castiga il figliuolo, gettando poi il bastone nel fuoco e facendo il figliuolo erede di tutti i suoi beni. In questa maniera, dice il Santo, è solito anche il Signore dar di mano a’ tristi e servirsene d’istrumento e di sferza per castigare i buoni. – Nelle Istorie Ecclesiastiche leggiamo, che nella distruzione di Gerusalemme veggendo Tito capitano de’ Romani, mentre passeggiava intorno alla città, i fossi pieni di teste di morti e di cadaveri, e che tutto quel paese circonvicino s’infettava per la puzza, alzò gli occhi al cielo, e a gran voce chiamò Dio per testimonio, com’egli non era cagione che si facesse tanto grande strage (Hist. Eccles. p. 1, lib. 3, c. 1). E quando quel barbaro Alarico andava a saccheggiare e distrugger Roma, gli uscì incontro un venerabile Monaco, e gli disse, che non volesse esser cagione di tanti mali, quanti si sarebbero commessi in quella giornata; ed egli rispose: Io non vo a Roma per volontà mia, ma una certa persona, la quale non so chi si sia, tutto dì mi va stimolando e mi tormenta, dicendomi: Va a Roma, e distruggi la città (Ibid. part. 2, lib. 6, cap. 2). Di maniera che abbiamo a conchiudere, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, per ordine e volontà sua. E così il real profeta David, quando Semei gli diceva tanti improperii e gli tirava sassi e polvere, disse a quei che volevano di lui farne vendetta: Dominus præcepit ei, ut malediceret David: et quis est, qui audeat dicere, quare sic fecerit (II. Reg. XVI, 10)? Lasciatelo stare, ché il Signore gli ha comandato, che dica tanto male contro di me: e vuol dire, che il Signore l’ha preso per suo istrumento per affliggermi e castigarmi. Ma che gran cosa è riconoscere gli uomini per istrumenti della Giustizia e Provvidenza Divina; poiché ne sono anche istrumenti gli stessi demoni ostinati e indurati nella loro malvagità e ansiosi della nostra rovina? S. Gregorio (D. Greg. lib. 18, mor. c. 3) nota mirabilmente questa cosa sopra quello che dice la Scrittura nel primo Libro dei Re: Spiritus Domini malus arripiebat Saul (I. Reg. XVI, 23). Uno spirito maligno del Signore esagitava Saulle. Lo stesso spirito si chiama spirito del Signore e spirito maligno; maligno, per lo desiderio della sua maligna volontà; e del Signore, per dimostrarci, che era mandato da Dio per dar quel tormento a Saulle, e che Dio glielo dava per mezzo di esso: e lo dichiara ivi espressamente il Testo medesimo, dicendo: Exagitabat eum spiritus nequam, a Domino (I. Reg. XVI, 14). E per l’istessa ragione dice il Santo (D. Greg. lib. 14 mor, c. 18), che i demonii, i quali tribolano e perseguitano i giusti, sono chiamati dalla Scrittura, ladroni di Dio, come leggesi in Giob: Simul venerunt latrones ejus (Job XIX, 12): ladroni per la maligna volontà che hanno di farci male; e di Dio, per dimostrarci, che la potestà che hanno di farci male l’hanno da Dio. E così pondera molto bene S. Agostino (D. Aug. in Psal. XXXI, Job I, 21): Non dixit Job, Dominus dedit, diabolus abstulit: Non disse il santo Giob: Il Signore me lo diede, e il demonio me l’ha tolto: ma ogni cosa riferì egli subito a Dio, e disse: Il Signore me lo diede; il Signore me l’ha tolto; perché sapeva molto bene, che il demonio non può far più male di quello che gli è permesso da Dio. E proseguisce il Santo; Prorsus ad Deum tuum refer flagellum tuum; quia nec diabolus tibi aliquid facit, nisi ille permittat, qui esuper habet potestatem: Nessuno dica, il demonio m’ha fatto questo male: attribuisci pure a Dio il tuo travaglio e il tuo flagello; perciocché il demonio non può far niente, nemmeno toccarti un pelo della veste, se Dio non gliene dà licenza. Né anche ne’ porci dei Geraseni poterono entrare i demonii senza domandarne prima licenza a Cristo nostro Redentore, come narra il sacro Evangelio (Matth. VIII, 31). Come dunque toccheranno te, o ti potranno tentare, senza licenza di Dio? Quegli che senza questa non poté toccare i porci, come potrà toccare i figliuoli?

CAPO III.

De’ beni e delle utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio.

Il beato S. Basilio dice, che la somma della santità e perfezione della vita cristiana consiste in riconoscere, che tutte le cose, tanto grandi quanto piccole, vengono da Dio, come da primaria loro cagione, e in conformarci in esse alla sua santissima volontà. Ma acciocché possiamo meglio conoscere la perfezione e l’importanza di questa cosa, e quindi affezionarci più ad essa, e perché procuriamo di farlo con maggior diligenza, andremo dichiarando in particolare i beni e le utilità grandi che rinchiude in sé questa conformità alla volontà di Dio. Primieramente questa è quella vera e perfetta rassegnazione che magnificano tanto i Santi e tutti i Maestri della vita spirituale; e dicono, che è principio e radice d’ogni nostra pace e quiete; perché  rende l’uomo soggetto e lo mette nelle mani di Dio, come un pezzo di creta nelle mani del vasaio acciocché ne faccia quel che vuole; non volendo esser più suo, né vivere per sé, né mangiare, né dormire, né faticar per sé, ma fare ogni cosa per Dio e per piacere a Dio. Or questo opera questa conformità, che con essa si abbandona uno in tutto e per tutto alla volontà di Dio, di maniera tale che altra cosa non desidera né procura, se non che in esso s’eseguisca perfettamente la volontà divina, sì circa quello che l’istesso uomo dee fare, come circa tutto quello che gli può avvenire; e sì circa le cose prospere e di consolazione, come circa le avverse e di tribolazione. Il che piace tanto a Dio, che per questo il re David fu chiamato da esso Dio, uomo secondo il cuor suo: Inveni virum secundum cor meum, qui faciet omnes voluntates meas (Act. XIII, 22, et I. Reg. XIII, 14): perché aveva il suo cuore tanto attaccato e soggetto al cuor del Signore, e tanto pronto e disposto per qualsivoglia cosa ch’Egli avesse voluto imprimere in esso, di travaglio, o d’alleggerimento, quanto è una cera molle per ricevere qualsiasi figura o forma che se le voglia dare: che per questo egli disse una e due volte: Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum (Psal. LVI,  et CVII, 1). Sta disposto il mio. cuore, o mio Dio, sta disposto e preparato. Secondariamente, chi avrà questa interae perfetta conformità alla volontà di Dio, avrà acquistato intera e perfetta mortificazione di tutte le sue passioni e male inclinazioni. Sappiamo bene quanto necessaria è questa mortificazione, e quanto lodata e commendata dai Santi e dalla Scrittura sacra. Ora questa mortificazione è un mezzo che necessariamente si ha da presupporre per venire ad acquistare questa conformità colla volontà di Dio. Di maniera che questo è il fine, e la mortificazione è il mezzo per conseguirlo; e il fine principale sempre suole essere più alto e più perfetto che il mezzo. Che la mortificazione sia mezzo necessario per venire ad acquistare quest’unione e intera e perfetta conformità alla volontà di Dio, si vede molto bene; poiché quello che c’impedisce questa unione e conformità è la nostra propria volontà e il nostro appetito disordinato:e così quanto più uno negherà e mortificherà la sua volontà e il suo appetito, tanto più facilmente si unirà e si conformerà alla volontà di Dio. Per unire e aggiustare un legno rozzo con un altro molto lavorato e pulito, bisogna prima lavorarlo e sgrossarlo; perché altrimenti non si potrà unire né congiungere bene coll’altro. Ora quest’effetto fa la mortificazione; ci va sgrossando,spianando e lavorando, acciocché così ci possiamo unire e congiungere conDio, conformandoci in ogni cosa alla sua divina volontà: e così quanto più uno s’andrà mortificando, tanto più s’andrà unendo e aggiustando colla volontà di Dio: e quando sarà perfettamente mortificato, arriverà a questa perfetta unione e conformità. Quindi ne viene per conseguenza un’altra cosa che può esser la terza; che questa rassegnazione e intera conformità alla volontà di Dio è il maggiore, il più accetto e aggradevole sacrificio che l’uomo possa fare di sé a Dio. Perciocché negli altri sacrifizio fferisce le cose sue, ma in questo offerisce sé medesimo; negli altri sacrifici e mortificazioni la persona si mortifica in parte; come per esempio nella temperanza, o nella modestia, o nel silenzio, o nella pazienza, offerisce a Dio una parte di sè; ma questo è un olocausto nel quale uno s’offerisce interamente e totalmente a Dio,acciocché faccia di lui tutto quello che vuole, come vuole e quando vuole, senza cavarne, eccettuarne, o riservarne per sé cosa alcuna. E così quanto è più pregevole l’uomo delle cose dell’uomo, e quanto è più pregevole il tutto della parte; tanto è più pregevole questo sacrificio che gli altri sacrifizi e le altre mortificazioni. E stima tanto Dio questa cosa, che questa è quella che Egli vuole e domanda, danoi altri. Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 36): Figliuolo, dammi il tuo cuore. Siccome l’astore, uccello reale, non si ciba se non di cuori; così Dio nessuna cosa prezza e stima più che il cuore: e se non gli dai questo, con nessun’altra cosa lo potrai contentare né dargli soddisfazione. Né ci domanda Egli molto, domandandoci questo; perciocché se tutto quello che Dio ha creato non basta per contentar e saziare noi altri che siamo un poco di polvere e di cenere, né resterà soddisfatto questo piccolo nostro cuore con niente meno che con Dio; come pensi tu di contentare e soddisfare Dio, non dandogli né anche tutto il tuo cuore, ma solamente una parte di esso, e riservando l’altra per te? Tu stai in un grande inganno, che il nostro cuore non si può spartire né dividere in questa maniera. Coangustatum est enim stratum, ita ut alter decidat: et pallium breve utrumque operire non potest (Isa. XXVIII, 20): Il cuore è un letto piccolo e stretto, dice il profeta Isaia; non cape in esso altro che Dio solo: e perciò la Sposa lo chiama lettuccio piccolo: In lectulo meo per noctes quæsìvi quem diligit anima mea (Gilib. abb. serm. 2 in Cant, apud Bern; Cant. III, 1): perché aveva il suo cuore talmente ristretto, che non vi capiva altro che i l suo Sposo. E chi vorrà stendere e dilatare il suo cuore per ammettervi un altro, ne scaccerà Dio. E di questo si lamenta la Maestà Sua per mezzo d’Isaia: Quia juxta me discooperuisti, et suscepisti adulterum: dilatasti cubile tuum, et pepìgisti cum eis fœdus (1(1) Isa. LVII, 8 ). Hai adulterato, ricevendo nel letto del tuo cuore qualche altro fuori del tuo Sposo; e per coprir l’adultero scopri e scacci fuori Dio. Se avessimo mille cuori, li dovremmo offrire tutti a Dio, e ci dovrebbe ancora parer poco rispetto a quello che siamo tenuti di fare verso così gran Signore, – Per la quarta cosa, come dicevamo al principio (Sup. cap. I), chi avrà questa conformità, avrà altresì perfetta carità e amor di Dio; e quanto più crescerà in essa, tanto più andrà crescendo in amor di Dio e conseguentemente nella perfezione che consiste in questa carità ed amore. Il che, oltre quel che s’è detto, si raccoglie bene da quello che ora abbiamo finito di dire; perché l’amor di Dio non consiste in parole, ma in opere: Probatio dilectionis exhibitio est operis, dice S. Gregorio (D. Greg. hom. 30, in Evang.): La prova del vero amore sono le opere: e quanto più le opere sono difficili e ci costano più, tanto maggiormente manifestano l’amore: onde l’apostolo ed evangelista S. Giovanni, volendo esprimere sì l’amor grande che Dio portò al mondo, come il grande amore che Cristo nostro Redentore portava al suo eterno Padre, dice del primo: Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Jo, III, 16) ibid. xiv. 31): Fu tanto grande l’amore che Dio portò all’uomo, che ci diede il suo unigenito Figliuolo, acciocché patisse e morisse per noi altri; e del secondo ci riferisce come detto del medesimo Cristo: Ut cognoscat mundui, quia diligo Patrem; et sicut mandatum deditmihi Pater, sic facto; surgite; eamus hinc (idib. XIV, 31): Acciocché il mondo conosca, che io amo il mio Padre, levatevi su, e andiamcene via di qua: e l’affare per cui di là partiva era per andare a patire morte di croce. In questo mostrò egli e die testimonianza al mondo d’amare il Padre nel mettere in esecuzione il suo tanto rigoroso comandamento. Di maniera che nelle opere si dimostra l’amore, e tanto più, quanto elleno sono maggiori e più faticose. Ora questa intera conformità alla volontà di Dio, come abbiamo detto, è il maggior sacrifizio che gli possiamo fare di noi altri; perché presuppone una perfettissima mortificazione e rassegnazione colla quale uno si offerisce a Dio, e si mette totalmente nelle sue mani, acciocché faccia di lui quello che vuole. E cosi non vi è cosa nella quale uno mostri più l’amore che porta a Dio, che in questa; poiché gli dà e gli offre tutto quello che ha e tutto quello che possa mai avere e desiderare, e se più avesse e potesse, tutto pure glielo darebbe.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (2)