LO SCUDO DELLA FEDE (126)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO V.

Si difende dalle imposture la verità dei miracoli propri della Religione cristiana,incominciando da quei di Cristo, calunniati dai Giudei.

I. Quella volpe, che, non arrivando alla pergola, sprezzò l’uva con infamarla di agresta, non era favola, era figura perfetta, se fosse stata ordinata a vaticinare quello che poi dovevano far le sette invidiose al nome di Cristiano. Veggon ben queste da un lato, che lo verità della Religione, superando la capacità della nostra mente, non possono per via di ragione umana persuadersi abbastanza; conviene accreditarle per via di ragion divina, quali sono i miracoli. E però si sforzano quanto possono di arrivare a sì alta pergola anch’esse, con provarsi a fare, in confermazion de’ loro errori, qualche opera prodigiosa. Ma perché  gli sforzi son vani (non permettendo la provvidenza, che mai si giunga a contraffare tal opera tutta sua), si rivolgono le meschine a tacciare l’uva di agresta, con divulgare che i miracoli da noi Cristiani arrecati, non vaglion nulla, o sono simulati, o sono superflui, e conseguentemente non sono pienamente efficaci aprovare il vero.

II. Dunque nostro debito è qui di manifestare contra i giudei, e dipoi contra tutti assieme gli eretici, quanto sieno ingiuste queste due eccezioni solenni, da loro date a’ testimoni maggiori d’ogni eccezione, quali sono i miracoli propri nostri.

I.

III. I Giudei, tanto solleciti in voltare le spalle al vero, quanto dovrebbero essere ad abbracciarlo, oppongono, che i miracoli di Gesù, registrati in quattro vangeli, non son da credersi, perché non hanno altro istorico che li narri, fuora de’ nostri, e i nostri tutti sono al pari sospetti, mentre essi furono o divoti, o discepoli di quell’uomo, cui sì nuovi miracoli sono ascritti.

IV. Ma dico in prima: chi dunque dovea narrarli? Forse i gentili, i quali dedicavano i loro libri a principi sì arrabbiati in perseguitare la religione di Cristo poc’anzi nata? Non potea scrittore veruno riferir di lui meraviglie non più sentite, prima di crederle; né potea crederle, senza prima risolversi a non temere gli orrendi scempi destinati a chi le credesse. Ma di tal cuore non erano certamente i profani istorici.

V. Anzi solamente per ciò, perché erano profani, non parea giusto che la provvidenza divina gli eleggesse per testimoni di opere così eccelse. Conciossiachè qual fede in esse meritavan da’ posteri quelle penne che erano tanto apertamente venali, adulatrici, amplificatrici, bugiarde in più altre cose, da loro riferite a capriccio?

VI. Dall’altro lato, con che coscienza si allegano per sospetti gli evangelisti? È vero, che in giudizio vacilla l’attestazione de’ famigliari: ma non già quando si tratti di cose tali, che non potevano o sapersi, o spiarsi, fuorché da loro. In tal caso, i famigliari, anziché esclusi dal giudice, sono ammessi, ed ammessi gli unici, come testimoni oculari, e però più degni.

VII. Inoltre appare chiarissimo, non avere gli Evangelisti scritto adulando ed amplificando, all’usanza di quegli istorici che adattano i racconti ai loro interessi, cambiandosi come i polipi al novello colore di quello scoglio che li nutrica. Imperocché, se tali fossero stati non altro avrebbero raccontato di Cristo, che le sue operazioni meravigliose, dissimulando ad arte la   povertà, i patimenti, gli obbrobri che sempre lo accompagnarono unitamente fino al patibolo. Eppure gli evangelisti han fatto l’opposito, dando sulle loro tele pennellate smorte ai chiarori del loro Maestro, cariche all’ombre. De’ prodigi, chi di lor lasciò l’uno, chi lasciò l’altro: niuno lasciò di riferire, più diffusamente di ogni altra cosa, la morte, a primo aspetto sì indegna da lui sofferta, con aggiungere ai torti fattigli dai nemici fino gli strapazzi usatigli da’ discepoli, o traditori, o infedeli, o incostanti. Certamente, se le penne degli evangelisti non avessero unicamente mirato alla verità, non avrebbono almeno di se medesimi notificati ai posteri sì gran falli, né scrivendo al tempo stesso da luoghi così disgiunti, senzaché l’uno sapesse punto dell’altro, avrebbero concordato a narrare il tutto con tanta uniformità di deposizioni.

VIII. Di poi qual prò gli avrebbe indotti ad ingannare il genere umano con vane fole, sperando di farle credere? Chiunque mentisce, mentisce comunemente, o per timore di qualche male, o per ansia di qualche bene. Ma qual bene ambivano sulla terra i seguaci del Redentore, o di qual male temevano, mentre abbandonavano le ricchezze, e cercavano la povertà; abborrivano le ricreazioni, e correvano ai patimenti; sdegnavano l’aura popolare, e gioivano tra gli scherni? Che se poi morirono sì coraggiosi affin di testificare, che quanto avevano scritto era verità; qual timore di morte poteva prima avvilire le loro penne a lasciar da sé spremere una menzogna?

IX. Eppure ciò prova solo, che gli Evangelisti non volessero fingere quei miracoli; laddove io passo innanzi, e dico di più, che quando avesser voluto, non gli avrebbero neanche potuti fingere. Conciossiaché, chi furono gli Evangelisti? non furon uomini poveri di sapere? Come dunque eglino, se avesser finti i miracoli, gli avrebbero giammai finti con sì bell’arte? Maometto il quale, sprovveduto di ogni lettera, pur volle fìngerli, che non disse a spropositato, o di sciocco, non che di vile? Poco men dunque avrebbero fatto anch’essi gli Evangelisti, o almanco non avrebbero mai saputo vestir que’ fatti di circostanze sì decorose e sì degne, come essi fecero. Può mai da un fondaco di lanaiuoli venire una roba d’oro? tanto più, che ciascuno di quei miracoli fu indirizzato da Cristo a dar, con tale occasione, dottrine eccelse. E queste, come da favoleggiatori sì rozzi si sarebbero quivi potute inserire tutte, anzi intessere sì aggiustate, che neppure un filo vi sia di semplicità? dalla statua si giudica il suo scultore: né può chi mai non toccò scarpelli a’ suoi giorni, fare un colosso simile a quel di Rodi, senza mai dar botta in fallo.

X. Si aggiunga che essi non iscrissero cose accadute avanti il diluvio, che pure tanto giustamente si credono da’ Giudei, avvegnaché le narrasse un solo Mosè. Scrissero cose intervenute addì loro, e così addì parimente di quegli stessi a cui le scrivevano. Quale artifizio potevano dunque avere gli Evangelisti a persuaderle fin a’ loro stessi paesani, s’erano false? Non sarebbero in poco tratto stati anzi tutti convinti di mentitori? Se non furono veri i tanti prodigi vantati in Cristo, dell’acqua mutata in vino, de’ malati che risanò, dei morti che risuscitò, degli energumeni da Lui prosciolti ad un cenno, del pane aumentato, delle procelle abbonacciate, del velo squarciatosi da se stesso, de’ sassi spezzati, dei sepolcri spalancati, del sole tutto oscurato sì stranamente nel giorno della sua vergognosa crocifissione: come tra i Giudei non sollevossi per lo meno un Daniele a scoprire sì alte imposture con lingua intrepida, o come non comparve alcun Matatia, zelatore magnanimo della legge, a ficcare, se non la spada, almeno la penna in gola a menzogne le più sfacciate che mai veruno avesse date fuori ad obbrobrio della lor gente? Eppur i Giudei, non solo non opposero libri a libri, per confutare quanto gli Evangeli affermavano dì stupendo nel Redentore dannato innocentemente a morir da ladro; ma essi medesimi a più migliaia, concorsero ad approvarlo, a tenere indi quel crocifisso per Dio, e a non lasciarsi da Lui staccare neppure da quante funi vennero però loro avventate al collo, per trarli in carcere, e per trascinarli alle croci (Act. II.4. etc.).

XI. E poi, se quelle erano non verità, ma novelle, come le credettero i greci tanto superbi, i parti, i medi, i mesopotami, gli arabi, gli elamiti, gli egizi, e sopra tutti i romani, così alieni dal credere meraviglie? Erano pur tra questi molti filosofi, quali saggi, quali sofistici, che non si gloriavano d’altro, che di mettere al vaglio le novità per vaghezza di ributtarle. Come però il mondo tutto, dentro sì breve tempo, ne venne a credere tante prodigiosissime, e ancor le crede? Forse uno stuolo cencioso di giudei raminghi, che non han né patria, né sacerdoti, né sacrifizi, né fede, né sperienza, né scienza di alcuna guisa, salva quella di usureggiare, potrà dare eccezione a tanti gran principi, a tante città, a tanti cleri, a tante università, che riveriscono quelle storie medesime contraddette dal giudaismo, e le tengono per divine? E perché crede il giudaismo i miracoli di Mosè, di Elia, di Eliseo, se non perché n’è rimasta fra loro tutti una fama così costante, che non poteva derivare se non da testimoni veridici di veduta? Come poi dunque in egual affare essi adoperano più d’un peso, né vogliono colle bilance medesime regolare le credenze loro e le nostre? Quod quisque iuris in alterum statuit, ipse eodem iure uti debet, grida la legge (Extra de constit.c. cum omnes et 1. hoc edictum ff. quod quisque iuris). Anche tra noi è rimasta una fama simile, e fama si invitta, e fama sì invariata dopo il tratto di diciassette secoli ornai trascorsi, che non può avere sua fonte, fuorché nel vero, che è la vena sempre mancante all’istessa altezza.

XII. Si provino un poco gli ebrei presenti a far credere al mondo un solo miracolo operato da alcun de’ loro rabbini novellamente, come gli evangelisti fecero al mondo crederne tanti e tanti, operati addì loro dal Redentore. Strana cosa dunque, che questa arte di fingere meraviglie, sì persuasibili a tutti, si sia perduta; ma a dire il vero, tal arte non vi fu mai. I Giudei ancora, quando le lor meraviglie furono vere, le fecero tosto credere, tuttoché tanto giungessero inaudite, di sole fermo, di mari aperti, di manne amministrate, di piazze smantellate a forza di suono. Se non ne possono al presente far credere neppur una, che segno è? E segno manifestissimo che non l’hanno.

XIII. Finalmente qual cosa da’ lor profeti fu prenunziata più apertamente, che lo stuolo foltissimo de’ miracoli, i quali dovevano accompagnar la venuta del gran Messia? Come se ne sono essi dunque dimenticati? Che se pur vogliono ostinatamente travolgere le scritture su ciò concordi, che diran poi, mentre i maestri medesimi del loro talmud non seppero negare tali miracoli in Gesù Cristo (In tit. Ahedazora ap. Crotium 1. 2. n. 5. in Anot. c. Elbachera ap. Salm. c. 6. tr. 2); né con essi negar li seppero i nemici più giurati che mai sortisse la religion cristiana, senza neppure escluderne un Maometto nel suo alcocorano, non invidioso a Gesù di sì giusta gloria? (Il giudaismo s i compenetra così intimamente col cristianesimo ne’ suoi punti più sostanziali, che ai Giudei non è concesso dalla logica di impugnare i miracoli di Cristo senza rompere in brutta contraddizione).

XIV. E vero dunque (ciò che da principio fu opposto), che i nostri storici furono i primi a narrare gli inauditi miracoli da Lui fatti, perché ciò era più proprio; ma non è vero che gli storici esterni non ne abbiano poi lasciata menzione espressa, come di cosa assai nota. Egesippo (Apud Salm. t. 6. tr. 2) nel libro quinto, riferisce due lettere di Pilato a Tiberio Cesare, in cui mostrasi ripentito dell’ingiustissima condannazione di Cristo, egli dà parte de’ gran miracoli da Lui già fatti in vita, e del maggiore che fece poi risuscitando da morte; ciò che venne tenuto sì fuor di dubbio, che l’istesso Tiberio tentò d’introdur Cristo nel Campidoglio fra la turba degli altri dei; e perché il senato per disposizione divina nol consentì (non convenendo al Dio vero l’andare in riga con dii di stucco, o di sasso), non volle l’imperadore che i Cristiani ricevessero almanco verun contrasto, ma fossero lasciati river in pace, come si eseguì finché a ch’ei visse (Tert., in apol. Euseb. 1. 1. hist. Ec. c. 2).

XV. Ma che? Nostre forse eran le Sibille? Eppure le Sibille non altro fanno, che predicare le operazioni mirabili del futuro Messia, tutte ad una ad una avveratesi in Gesù Cristo, delineato tanto prima sì al vivo ne’ loro versi (Ap. Lact. 1. 4. inst. c. 15).

XVI. Molto meno era nostro Giuseppe Giudeo. E pure è tanto chiaro l’onore da lui renduto al nostro Gesù. che sarebbe solo bastevole a colmar di rossore la sua nazione, se in lei non fosse il volto, conforme al cuore già divenuto di smalto. Eodem tempore, dice egli (Ioseph. 1. 18. Ant. c. 4 ), fuit Jesu vir sapiens, si tamen virum eum fas est dicere. Erat enim mirabilim operum patrator, et doctor eorum qui libenter vera suscipiunt. E poco appresso, riferita che n’ebbe la morte atroce, così soggiugne: Apparuit enim eis tertia die vivus, ita ut divinitus de eo vates hoc et alia multa miranda prædixerant. Ecco dunque che i Giudei non volendo credere ai nostri, sono costretti a non dovere né anche credere a se medesimi, o per lo meno a calpestare quegli stessi scrittori i quali hanno in pregio sopra qualunque altro. Ma così va; Si contuderis stultum in pila non auferetur ab eo stultitia eius(Anche se tu pestassi lo stolto nel mortaio tra i grani con il pestello, non scuoteresti da lui la sua stoltezza. – Prov. II. 23). Quanto vuoti di senno,tanto ostinati, somigliano ad un pallone, chepiù che vien percosso, meno si acquieta.

II.

XVII. Convinti però della verità delle narrazioni, si rivolgono ad intorbidare il fondo di quelle meraviglie sì strepitose di cui non possono divertire la piena. Affermano che i miracoli di Cristo sono da Lui stati operati per arte magica. E che però, se non sono finti nel fatto, sono finti nella virtù (Quest’obbiezione si risolve da sé, sol che si rifletta, che il miracolo è tal fatto sovrannaturale, che da Dio solo ripete la sua cagione efficiente. Un miracolo, operato per arte magica o per forza naturale, senza il concorso diretto di Dio, non è un miracolo). Ma qualemopposizione più sconsigliata.

XVIII. Primieramente una somigliante calunnia ebbero da Apuleio i miracoli di Mosè, e l’ebber da Plinio. Ciò però che i Giudei risponderanno contro di questi in difesa del loro legislatore, risponderemo contro di loro noi, in difesa del nostro.

XIX. Dipoi, come fu mago Cristo, se la sua legge sì severamente proibisce, con tutte le altre scelleratezze, anche questa maggior dell’altre?

XX. Aggiungasi, che le maraviglie de’ magi sono indirizzate comunemente a danno di altrui, avendo per fine o vendette, o violenze, o furori di amore insano, più reo di ogni odio. Laddove i miracoli di Gesù furono sempre rivolti a beneficare i corpi, e più ancora l’anime, tirando ognuno all’amore dell’ onestà.

XXI. Più, l’onor del Padre celeste fu sempre il bersaglio di tutte le sue operazioni meravigliose: che perciò ricusò di operarle senza profitto nella patria incredula; o di operarle per vanità davanti ad un re curioso, anche quando l’operarle potea fin toglierlo dalla morte di croce. Chi mai però vide negli stregoni uno zelo simile, mentre essi sono la ribaldaglia del mondo. e come tali esiliati da tutti i popoli, puniti da tutte le leggi con pene orrende? »

XXII. Finalmente ciò che possono i magi si stende a poco, cioè a molto meno di ciò che possono gli spiriti maligni loro padroni, ai quali né anche permette Dio troppo ampia la sfera del noiare e del nuocere sulla terra. Come però avrebbe potuto coll’aiuto di tali spiriti effettuare Cristo cose tanto superiori alle loro forze, quali erano risuscitare i morti, e tra questi risuscitare in ultimo ancora sé? Come sarebbero mai state così durevoli le sanità da lui restituite agl’infermi se fossero state opere prestigiose e non sussistenti? Come avrebbe Egli insegnate dottrine sì salubri, sì sante, sì celestiali, se fosse stato un uomo indiavolato?

XXIII. I diavoli, quando han concorso ad opere di stupore, vi hanno concorso affine di promuovere singolarmente il culto dei falsi dei, cioè di se stessi, ambiziosissimi, sin dalla origine loro, d’innalzarsi a onori divini. E come dunque potean essi concorrere di buon grado a quelle di Cristo, mentre Cristo era tutto intento ad abbattere il loro culto, e a rimettere quello del vero Dio, con intenzione d’inviare gli Apostoli suoi seguaci per l’universo, alla distruzion general dell’idolatria? Si Satanas in seipsum divisus est, quomodo stabit regnum eius?

XXIV. Si vede bene, che i presenti Giudei son figliuoli peggiori de’ lor padri, mentre non temono di apporre a Cristo una taccia che gli antichi giudici stessi del sinedrio non ardirono di appiccargli (Tit. de Sinedrio et tit. de Sabach, apud Grotium 1.5. n. 5). Questi (se noi stiamo alla fede de’ talmudisti) dovevano essere tutti esperimentati nelle arti magiche per convincere quei che n’erano rei. Come però, per fondamento delle altre accuse da loro date a Gesù, non posero in campo questa dei sortilegi da lui tuttora operati? Misero lui, se glie l’avessero mai potuta attaccare, se non per vera almeno per verisimile, come una volta ma senza frutto tentarono i farisei, quando dissero al popolo ammiratore della possanza da lui già posseduta sopra l’inferno: In principe dæmoniorum eiicit dæmonia(per il principe dei demòni, Egli scaccia i demòni – Luc.XI. 15).

XXV. Sarebbe un non finir mai, se si volessero ad una ad una arrecare tutte le prove, per cui si dimostrano degni di ogni credenza i miracoli del Redentore, indegnissimi di veruna i centrasti che loro si fanno. E però, a ridurre quasi un’iliade in un guscio, possiamo dire che i prodigi di Cristo furono da lui effettuati in così gran numero, al cospetto di tanta gente, in luoghi sì diversi, con modi sì pii, con mano sì poderosa, con imperio di tanta sovranità, non più scorta al mondo, con tanta gloria di Dio, con tanto aiuto de’ popoli, con tanto accrescimento della pietà; e che di più vennero tramandati a notizia con uno stile tanto innocente, da penne si schiette, da persone sì sante, da testimoni cosi bene informati d’ogni minuzia, che il negarli non è solamente un chiudersi gli occhi, è cavarseli dalle casse, per farsi cieco in odio del giorno. Non accade pertanto che gli ebrei sperino colle loro lingue malevole di oscurarli. Sarà loro più facile il sollevarsi contra il sole, ed estinguerlo con un soffio.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.