DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2020)

XV DOMENICA DOPO PENTECOSTE.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani – comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La Lezione dell’Ufficio in questo giorno coincide spesso con quella del libro di Giobbe. Questo pio e ricco signore del paese di Hus, dapprima ripieno d’ogni bene, fu colpito dai mali più spaventosi che si possono quaggiù immaginare. « satana, dicono le Sacre Scritture, si presentò un giorno avanti a Dio e gli disse: Circuivi terram, ho percorsa tutta la terra e ho visto come hai protetto Giobbe la sua casa, le sue ricchezze. Ma stendi la tua mano su di lui e tocca quello che possiede e vedrai come ti maledirà. Il Signore gli rispose: Va: tutto quello che lui possiede è in tuo potere, ma non togliergli la vita. E satana uscì dal cospetto del Signore. E ben presto Giobbe perdette il bestiame, i beni, la famiglia e fu colpito da Satana con un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi fino alla testa ». E Giobbe, disteso su un letamaio, fu costretto a togliere il putridume delle sue ulceri con un coccio » La Chiesa, pensando alla malizia di Satana, ci fa domandare di essere sempre difesi contro gli assalti del demonio, contra diabolicos incursus (Segr.). satana ha l’impero della morte e, se Dio lo lasciasse fare, dicono i Padri, egli toglierebbe a tutti gli esseri la vita che posseggono. S. Paolo definisce una sua malattia: «L’angelo di satana che lo colpisce «. Ed il demonio, dice la S. Scrittura, riduce Giobbe a un punto tale, che il santo uomo può gridare: « Il soggiorno dei morti è diventato la mia dimora, io ho preparato il mio giaciglio nelle tenebre, e ho detto al marciume: tu sei mio padre; alla putredine: madre mia, sorella mia. (XVII, 14). Le mie carni si sono consumate come un vestito roso dai tarli, e le mie ossa si sono appiccicate alla mia pelle ». Così la Chiesa applica ai Defunti il disperato appello che Giobbe fece allora ai suoi amici: «Abbiate pietà di me almeno voi, o amici, poiché la mano del Signore m’ha colpito «. Ma il suo appello rimase senza risposta; Giobbe allora si rivolse verso Dio e gridò con una salda speranza: « Io so che il mio Redentore vive e ch’io risusciterò dalla terra l’ultimo giorno; che sarò di nuovo rivestito della mia pelle e nella mia carne rivedrò il mio Dio. Lo vedrò io stesso e i miei occhi lo contempleranno: questa speranza riposa nel mio cuore ». E Giobbe descrive la gioia con la quale ascolterà un giorno la voce di Dio che lo chiamerà a una vita nuova: «Tu mi chiamerai e io ti risponderò, tu stenderai la tua destra verso l’opera delle tue mani ». – « Il Signore, mettendo fine ai mali che lo travagliavano, gli rese il doppio di quello che possedeva prima e lo colmò di benedizioni più negli ultimi anni di vita che non nei primi ». — La Chiesa, raffigurata in Giobbe, domanda a Dio « di essere purificata, protetta, salvata e governata da Lui » (Oraz.). Col Salmo dell’Introito essa dice: « Rivolgi, o Signore il tuo occhio verso di me ed esaudiscimi, che io sono povera e mancante di tutto (Versetto 1°). Signore, abbi pietà di me, che ho gridato verso di te tutto il giorno. Vieni alla mia anima che io ho elevata fino a te (Versetto 4°). Io ti loderò, o Signore, poiché mi hai liberato dall’inferno più profondo (Versetto 13°)». Co! Salmo dell’Offertorio essa aggiunge: « Io ho atteso il Signore con perseveranza, ed Egli infine si è volto verso di me, ha esaudita la mia preghiera e ha messo sulle mie labbra un cantico nuovo». Questo cantico è quello delle anime cristiane risuscitate alla vita di grazia. « È bello, esse dicono, lodare il Signore e annunciare la sua grande misericordia » (Grad.). « Sì, davvero il Signore è il Dio onnipotente, il Gran Re che regna su tutta la terra » (All.).L’Epistola di S. Paolo è intieramente consacrata alla vita soprannaturale che lo Spirito Santo dà o rende alle anime. « Se noi viviamo per lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito», cioè siamo umili, dolci, caritatevoli, verso quelli che cadono, ricordandoci che noi siamo deboli e che di fronte al supremo Giudice porteremo il fardello delle nostre colpe personali. Contraccambiamo generosamente con beni temporali (denaro, cibi vesti) le persone che ci predicano la parola di Dio (divina parola che dà la vita) e non indugiamo, perché Dio non tollera che ci burliamo di Lui. Il raccolto sarà conforme alla natura della semenza gettata. Seminiamo opere piene di spirito soprannaturale e mieteremo la vita eterna. Non tralasciamo un istante di fare il bene. Evitiamo le opere della carne che sono la mancanza di carità, l’orgoglio, l’avarizia e la lussùria, poiché quelli che commettono peccati sono morti alla vita di grazia e non mieteranno che corruzione. Usciamo, dunque, dalla morte e viviamo come veri risuscitati.

— Il Vangelo ci dà questo stesso insegnamento raccontandoci la risurrezione del figlio della vedova di Naim. Gesù, vedendo il dolore di questa madre, fu mosso a compassione: si accostò al feretro e toccando il morto disse: «Giovinetto, te lo comando, alzati! ». E subito il morto si levò e cominciò a parlare. E tutti glorificavano Iddio dicendo; « un grande profeta è apparso in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo ». Il Verbo facendosi carne si è accostato alle anime che giacevano nella morte del peccato, e, commosso dalle lacrime della Chiesa, nostra madre, le ha resuscitate alla vita della grazia. Poi, mediante l’Eucaristia ha posto nei corpi un germe di vita, affinché essi risuscitino nell’ultimo giorno (Com.). — Fa, o Signore, che il nostro corpo e la nostra anima siano interamente sottomessi alla influenza dell’Ostia divina, affinché l’effetto di questo sacramento domini sempre in noi (Postcom.). – Vivificati dallo Spirito Santo, solleviamo con sollecitudine quelli che sono morti alla vita della grazia, aiutiamo con le nostre sostanze quelli che con la parola della verità diffondono la vita dello Spirito, e promuovono sempre più in noi la vita soprannaturale che abbiamo ricevuta nel Battesimo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]


Ps LXXXV: 4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.

[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.

[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10

Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

[Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda inviandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronto con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia.]  

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

CONOSCI TE STESSO

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere. Questo esame:

1 È necessario, data la nostre debolezza.

2 Dev’essere spassionato.

3 Deve prendere a guida il Vangelo.

1.

Non siamo avidi di vana gloria. Se l’uomo conoscesse bene se stesso, si convincerebbe che non ha troppi motivi di vanagloriarsi. La dignità dell’uomo è certamente grande. Dio lo ha costituito re del creato. Noi ammiriamo certi appartamenti dei palazzi reali. Tappeti, arazzi, quadri, affreschi, intarsi, fermano l’attenzione del visitatore, che non sa staccarsi da quelle sale. Queste sono le abitazioni che gli uomini hanno preparato per i re di questo mondo. Senza confronto più splendida è l’abitazione che Dio ha preparato per l’uomo. Salomone, nello splendore e nel lusso superò tutti i re d’Israele. Pure Gesù dichiara che un giglio del campo, cresciuto senza alcuna cura di giardiniere, veste più splendidamente di Salomone. E quel che si dice del giglio, si dica di tutta la creazione, che Dio ha apparecchiata per dimora dell’uomo. Nessun tappeto può gareggiare con la magnifica armonia di verde e di fiori, che ornano le nostre pianure, con lo strato di candida neve che copre le vette dei monti. Nessun pennello potrà uguagliare, riproducendole, certe scene della natura. Dev’esser pur grande l’uomo, se Dio ha preparato per lui una tale abitazione. Molto più grande ancora ci appare, se consideriamo la sua creazione. Dio, creandolo, disse: «Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, e abbia potere sui pesci del mare e su gli uccelli del cielo, e su tutti gli animali e su tutta la terra» (Gen. I, 26). L’uomo, creato a somiglianza di Dio, è da Lui costituito re della creazione. Quale grandezza e quale dignità! Si comprende come Davide, rivolto a Dio, esclamasse: «Chi è mai l’uomo? Tu l’hai fatto di poco inferiore agli Angeli, l’hai coronato di gloria e di onore; gli hai dato il dominio su le opere delle tue mani, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi» (Ps. VIII, 5-7). – Ma lo stesso Davide domanda ancora: « O Signore, che cosa è l’uomo, a cui hai voluto farti conoscere, o il Figlio dell’uomo che tu ne fai conto? L’uomo è simile al nulla, i giorni di lui passano come ombra» (Ps. CXLIII, 3-4). È questo dal lato fisico. Dal lato morale egli è costretto ogni giorno a confessare: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matth. XXVI, 41). Se l’uomo dovesse pensare alla instabilità della sua vita e alle miserie che l’accompagnano, invece di coltivare la vanagloria per la sua dignità, dovrebbe esaminare, se a questa dignità non venga meno con la sua condotta. Nessuno vorrà certamente confondere la dignità con la virtù. La dignità dell’uomo, creato a somiglianza di Dio, non gli impedisce di scendere al livello degli animali irragionevoli. E siccome le azioni che non corrispondono alla sua dignità saranno un giorno giudicate da Dio, la più elementare prudenza suggerisce di prevenir questo giudizio, col metterci noi a giudicar noi stessi; e così vedere, dove c’è da continuare, dove c’è da riformare. È un giudizio che non bisogna, naturalmente, ripetere sempre, perché la chiamata al giudizio di Dio può venire da un momento all’altro.

2.

Se alcuno crede di essere qualche cosa, mentre non è nulla, costui illude se stesso. E noi siamo veramente nulla. Anche se presentemente uno non è peccatore, non deve credersi qualche cosa. « Avessi anche esercitato la virtù dai primi anni, avrai anche commessi molti peccati. Che se credi di non averne, pensa che questo non avvenne per tua virtù, ma per la grazia di Dio » (S. Giov. Cris. In Ep. Ad Tit. Hom. V, 3). Ma è poi proprio vero che sei senza peccati? È tanto facile illudersi! « Se vi fu peccato in cielo, quanto più in terra? Se vi fu delitto in quelli che sono liberi dalla tentazione corporale, quanto più in noi che siamo circondati da una carne fragile e diciamo con l’Apostolo: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?» (S. Girol. Epist. 122, 3 ad Rust.). La nostra illusione deriva dal fatto che non conosciamo noi stessi. Ci sono di quelli che conoscono a meraviglia città e paesi molto lontani, e non conoscono i luoghi che confinano col loro paese o con la loro città. Ci sono quelli che parlano speditamente lingue straniere, e non sanno parlare la lingua propria. Ci sono Cristiani che conoscono le mancanze e i difetti degli altri e non conoscono le mancanze e i difetti propri. Il Battista, ai sacerdoti e ai leviti mandati dai Giudei a interrogarlo, risponde, parlando del Messia: « In mezzo a voi sta uno che non conoscete » (Joan. I, 26). Questa risposta è a proposito di un gran numero di Cristiani.

— In mezzo a voi sta uno che non conoscete: non conoscete il vostro cuore; non conoscete il vostro interno. Non vi date cura di osservare se l’anima vostra conserva ancora la grazia di Dio, o se l’ha perduta, se i vostri affetti sono per Dio o per il mondo. — E non conoscendo il nostro interno, non possiamo essere che degli illusi. –  Generalmente non si vuole interrogare il proprio interno, perché si ha paura delle risposte che ci potrebbe dare. Se la nostra coscienza ci rivelasse sempre cose a noi grate, non avremmo difficoltà a interrogarla. S. Paolo, in mezzo dell’Areopago di Atene, tiene un mirabile discorso, che attira l’attenzione di tutti. Ma quando viene a parlare del giudizio e della risurrezione dei morti la scena cambia. « Sentita nominare la risurrezione dei morti; gli uni se ne burlarono, gli altri poi dissero: Ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta » (Act. XVII, 32). Quella verità non piaceva ai superbi o gaudenti filosofi della Grecia: bisognava far tacere, bellamente, chi ne parlava, e licenziarlo. Quando i responsi della coscienza non ci piacciono, quando da essa si leva qualche voce ammonitrice, cerchiamo di tutto per farla tacere. — T’ascolteremo un’altra volta — diciamo dentro di noi. E intanto il danno è tutto nostro. Un uomo d’affari, non si contenta di esaminare l’attivo, ma esamina con attenzione il passivo, altrimenti non saprà mai come guidarsi nei suoi affari. Noi dobbiamo interrogare la nostra coscienza non con il proposito di trovarvi tutto bene; ma con il proposito di trovarla qual è realmente. Non solamente dobbiamo interrogare la coscienza su quel che abbiamo, ma anche, e specialmente, su quel che ci manca. «Perciò — dice S. Bernardo — non sii pigro nell’indagare che cosa ti manca, né di arrossire di confessare che qualche cosa ti manca» (De cons. l. 2. c. 7). – Coloro che negli affari riscontrano delle perdite, indagano le cause per poter porvi rimedio; così devesi fare anche quando si esamina la propria coscienza. A un esame superficiale non si scorgeranno sempre queste cause, ma a un esame diligente esse non possono sfuggire. – Un foro praticato da una talpa, da una biscia, la penetrazione d’una radice di albero nell’argine d’un fiume, in tempo di piena, sotto la pressione della corrente, possono facilmente aprir la via all’acqua, che, aumentando sempre più, aprirebbe una breccia nell’argine, e andrebbe a riversarsi sulle campagne. I profani passano sull’argine del fiume, senza badare a queste piccolezze: ma gli incaricati, esaminano l’argine attentamente e frequentemente; e quando scorgono uno di questi piccoli guasti, con la costruzione della coronella, un piccolo argine esterno di forma arcuata, provvedono a eliminare il pericolo. — Certe tendenze, trascurate perché sono ancora deboli, certe mancanze di cui non facciamo conto, perché non ci tolgono la grazia di Dio, ci possono predisporre sotto la violenza delle passioni, in circostanze impreviste, a dei gravi crolli spirituali. Un’occhiata attenta anche ad esse nel nostro esame.

3.

Si dice che la più difficile cosa che vi sia, è conoscer se stesso. I motivi di questa difficoltà sono molti. Non ultimo, però, è la falsa norma che si adotta per conoscer se stessi. Generalmente si giudica se stessi nel confronto con gli altri; e così avviene che crede di aver motivo di gloriarsi chi, giudicato davanti a Dio, non avrebbe che motivo di arrossire. È un sistema molto comodo di accontentar il nostro amor proprio, e di esimerci dall’obbligo di migliorar noi stessi. Se nessuno va esente da mancanze, o per lo meno, da difetti, è facile trovarli in coloro che ci circondano. Ma il nostro egoismo non ci lascia vedere che i difetti degli altri: non ce ne lascia scorgere la virtù. Inoltre, ci dà occhi di lince per vedere quello che fa il prossimo, e ci lascia ciechi per vedere quel che facciamo noi. Siamo come quelle macchine, che coi loro fanali gettano fasci di luce che rischiarano la strada, ma esso rimangono nell’oscurità. È facile, con questo sistema, il ragionamento: “in fondo, sono migliore di tanti altri; non faccio quel che fanno essi, quindi posso esser tranquillo. Se si salveranno essi, a maggior ragione mi salverò io”. Contro questa illusione ci premunisce l’Apostolo: Ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi in se stesso. Non ci dice: Confrontate le vostre azioni con quelle del vostro prossimo. Se in qualche cosa vi trovate migliori del prossimo vostro, state tranquilli: non avete più nulla da fare. Ci dice: Ciascuno esamini le proprie opere. Il che vuol dire : «Esaminiamo noi stessi e le nostre opere per vedere se vengono da Dio» (S. Efrem. in h. 1). Le azioni del prossimo non centrano, dunque, pur nulla in questo affare del nostro esame. Per vedere se le nostre azioni vengono da Dio, non abbiamo che da confrontarle con la dottrina del Vangelo. – Il Vangelo è una norma infallibile, e prendendolo per norma nel nostro esame non cadremo nel pericolo di essere ingannati. Mettendo la nostra coscienza di fronte al Vangelo, vedremo ciò che c’è da levare, ciò che c’è da aggiungere. Uno troverà che è dominato dalla superbia, l’altro dall’avarizia. Questi vedrà che è schiavo dell’ira, quell’altro dell’invidia, della lussuria, della gola. Chi, alla fine della giornata, trova che non ha messo via nulla di buono per l’eternità, si persuaderà che è un servo inutile. – Confrontando le nostre azioni con la legge di Dio, conosceremo veramente noi stessi. Siccome però, « ogni uomo, quantunque santo, quantunque giusto, quantunque progredito, in molte cose è un abisso » (S. Agostino. Enarr. in Ps. XLI, 13), domandiamo a Dio che ci aiuti ad acquistar questa conoscenza, dicendogli con Davide: «Scrutami, o Dio, ed esamina il mio Cuore: interrogami e ti siano manifesti i miei pensieri, E vedi se è in me la via dell’iniquità, e guidami per la vita eterna» (Ps. CXXXVIII, 23-24).

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime.

[È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm.

[È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja.

[Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

[“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).]

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la morte.

Ecce defunctus efferebatur filius unicus matris suæ-

Luc. VII.

Fermiamoci, fratelli miei, a considerare qualche tempo lo spettacolo compassionevole che l’odierno Vangelo ci mette avanti gli occhi: gli è un figliuolo teneramente amato, unica consolazione di una madre che fondava su di lui grandi speranze, e la morte lo ha mietuto nella primavera de’ suoi giorni. Convien forse stupirsi di veder questa madre immersa nel più amaro dolore, spargere torrenti di lagrime accompagnando una pompa altrettanto luttuosa, quanto inaspettata? Egli è dunque vero, miei cari uditori, che la morte non rispetta alcuno, che così i giovani come i vecchi sono soggetti ai suoi colpi, e che né il vigore dell’età, né la forza del temperamento non possono preservarcene. – Accostatevi al feretro di questo giovane, voi tutti che mi ascoltate, e vedrete il termine fatale a cui vanno le grandezze, le ricchezze, i piaceri e le lusinghe del mondo. Ah! che la vista del sepolcro è ben possente a staccarci dalla vita, a farci abbandonar il peccato, a portarci alla penitenza e alla pratica di tutte le virtù cristiane! Il pensiero della morte è amaro, è vero, a chiunque non ama la vita se non per godere dei beni e dei piaceri che ella presenta, perché quest’idea gli rammenta con dolore che deve un giorno lasciarli: ma benché molesta sia e dolorosa la sua rimembranza, nulla vi è di più salutevole; poiché vi si trova il rimedio a tutti i vizi, e i motivi più forti per praticare la virtù. Pensiamo dunque alla morte, fratelli miei, e pensiamoci sovente; si è il mezzo di prepararci ad essa come conviensi. E per trattare questo soggetto con ordine, due cose noi considereremo nella morte: la sua certezza e la sua incertezza. – Nulla di più certo che la morte; noi dobbiamo dunque prepararci alla morte primo punto; nulla di più incerto che il tempo della morte; dobbiamo dunque tenerci pronti in ogni tempo, secondo punto.

I . Punto. Noi morremo tutti, miei cari fratelli: Statutum est hominibus semel mori (Hebr. IX). Ma quand’anche Dio medesimo non si spiegasse così chiaramente sul nostro destino, noi non avremmo per chiarircene che a gettare gli occhi su ciò che accade al di fuori e al di dentro di noi. La terra che noi calchiamo coi piedi ci dice nel suo linguaggio che saremo un giorno rinchiusi nel suo seno. Quei morti che noi diamo seppellire ci avvertono che noi dobbiamo seguirli ben tosto: Hodie mihi, cras tibi. Noi prendiamo una strada ove voi camminerete necessariamente come noi. Portiamo ancora al di dentro di noi il principio e la risposta della morte, dice l’Apostolo. L’età, le malattie, i travagli indeboliscono la nostra sanità e precipitano ogni giorno verso la sua rovina la casa terrestre del nostro corpo. Ogni passo che facciamo ci conduce alla tomba, e fra poco andremo noi ad abitare con gli altri in quel tetro e nero soggiorno dei mortali: nulla di più certo, nulla di più inevitabile. – Senza fermarmi di più a provarvi una verità di cui la giornaliera esperienza deve convincerci, procuriamo in quest’oggi, fratelli miei, di penetrare il senso della sentenza di morte portata contro tutti gli uomini, e di farvene vedere l’esecuzione, a fine di trarre da questo principio le conseguenze salutevoli che contiene. Questa sentenza dee eseguirsi sopra tutti gli uomini: Statutum est hominibus. Non deve eseguirsi che una volta sola: Semel mori; due circostanze che ci devono indurre a prepararci alla morte. Appena il primo uomo ebbe trasgredito il comando del Signore, che in punizione della sua disubbidienza fu condannato alla pena di cui era stato minacciato; ma non fu già contro lui solo pronunciata la sentenza; siccome tutti i suoi figliuoli hanno parte al suo delitto, così furono compresi nel suo castigo. La morte è divenuta lo stipendio di quel peccato: Stipendia peccati mors (Rom. VI). Infatti, sin da quel momento si vide effettuarsi nella posterità di Adamo quella terribil minaccia che Dio gli fece: Morte morieris (Gen. II) voi morrete; ella è cosa stabilita: Statutum est; voi morrete, cioè un giorno voi uscirete da questo mondo come vi siete entrati. Dopo aver dimorato un certo numero di giorni, che Dio vi ha fissati, il tempo finirà per voi, e non sarete più del numero dei viventi: Morte morieris. Voi morrete, cioè un giorno voi lascerete beni, case, parenti, piaceri, società; voi non avrete più commercio con gli uomini. La terra, la putredine, i vermi diverranno il vostro retaggio; essi vi terranno il luogo di padre, di madre, di fratelli, di sorelle: Putredini dixi pater meus es, mater mea, et soror mea vermìbus (Job. XVII), Voi morrete, cioè verrà un giorno in cui gli occhi vostri non vedranno più, le vostre orecchie più non udiranno, la vostra bocca non parlerà più, le vostre mani non agiranno più, i vostri piedi più non cammineranno: dopo il momento in cui la vostr’anima sarà separata dal vostro corpo, questo corpo di cui vi prendete tanta cura non sarà più riguardato che come un oggetto di orrore. Egli sarà posto in un feretro e si porterà nella terra per involarlo alla vista degli uomini. Ah! che diverrà allora quella carne nutrita con tante delicatezze, quella bellezza conservata con tanti artifizi? Ella diverrà, fratelli miei, quel che sono già divenuti tanti altri, che voi avete veduto spirare sotto ai vostri occhi per diventare il pascolo dei vermi. Se ne dubitate, andate in quelle tombe a vedere il destino di coloro che vi sono rinchiusi: tale sarà il vostro: Veni et vide (Jo. XI). Venite e mirate in quel sepolcro lo stato, ove la morte ha ridotto quella persona che avete conosciuta, con cui avete vissuto alcuni mesi, alcuni giorni sono: Veni et vide. Mirate quella carne putrefatta, corrosa dai vermi, che esala un odore insopportabile; mirate quelle ossa spolpate sparse qua e là; quel capo sfigurato. Riconoscete voi quella persona? Distinguete voi quel ricco dal povero, quel grande dal piccolo, quella bellezza che incantava gli occhi del mondo, su cui voi ancora gettati avete illeciti sguardi? Ah! qual cangiamento la morte ha fatto in sì pochi giorni? – Tale è, fratelli miei, la sorte che dovete voi medesimi aspettarvi; quei morti sono stati quel che voi siete, sì ricchi che voi, altrettanto ed anche più distinti che voi: voi sarete un giorno quel che sono essi, cioè terra, cenere e polvere: Qaod vos estis, nos fuimus, et quod nos sumus, vos eritis. Ah! Che questa vista del sepolcro è capace di staccarci dalla vita, dal mondo e da noi medesimi! Ella è che ha fatti i santi con le impressioni salutevoli che ne hanno ricevute. Testimonio un Francesco Borgia, il quale vedendo nel feretro il corpo della più bella principessa del suo secolo, la trovò sì sfigurata che formò sin da quel momento il disegno di abbandonar il mondo per non attaccarsi che a Dio. Questa vista del sepolcro produrrebbe in noi i medesimi effetti, se ci riguardassimo sovente in quello specchio, che ci rappresenta ai naturale ciò che noi tutti saremo un giorno. – Imperciocché finalmente, fratelli miei, non v’è alcuno di noi che sfuggir possa ai formidabili colpi della morte: statutum est hominibus. Ella non risparmia alcuno, colpisce i ricchi come i poveri, i sapienti come gl’ignoranti, i re sul trono, come i sudditi nelle loro capanne; nulla può placarla o resisterle. Invano per difendersene i potentati dell’universo farebbero radunare tutte le loro forze; invano porrebbero in uso tutte le scienze e tutte le arti: può bensì taluno prolungar la sua vita di qualche giorno, ma tosto o tardi convien morire. Da che il mondo sussiste, si è forse veduto qualcheduno esente da questa legge? Quanti re conquistatori di nazioni che non sono più? Quanti grandi del mondo, ricchi, sapienti, la cui gloria si è terminata al sepolcro? Quante persone abbiamo noi medesimi vedute con cui siamo vissuti? Quanti dei nostri parenti, dei nostri amici sono di già ridotti in polvere! Essi sono passati: noi passeremo come essi, e verrà il giorno in cui si dirà di noi quel che si dice di essi: non è più, non vive più, è morto. – Ah! quanto questo pensiero: un giorno io non sarò più sulla terra, è capace di staccarci dalla vita d’inspirarci un generoso dispregio per tutto quello, che chiamasi grandezze, ricchezze, fortuna, stabilimenti vantaggiosi, allegrezza, piaceri, divertimenti del secolo! Tutto deve terminar nel sepolcro, e nulla ne porteremo con noi: pensiamo a questa verità, che è il mezzo di prepararci a ben morire. Mentre in che consiste questo apparecchio alla morte? A vivere in un intero distacco dalle cose del mondo e rinunciare al peccato, alle occasioni del peccato. Or nulla di più capace che il pensiero della morte a produrre in noi questi effetti. Come potrebbe alcuno staccarsi dal mondo, se lo riguardasse con l’Apostolo come una figura che passa? Come ricercherebbe egli i beni, gli onori, i piaceri del mondo, che sono i funesti prìncipi del peccato, se li rimirasse nel medesimo punto di vista, che li vedrà all’ora della morteæ? Praeterit figura huius mundi (1 Cor. VII.) Grandi del mondo che vi riputaste superiori agli altri a cagione del grado che occupate, e degli onori che vi si rendono, sareste voi dunque sì fortemente invaghiti di questi onori che fomentano il vostro orgoglio, se pensaste che passeranno come fumo, se rimiraste il sepolcro come lo scoglio inevitabile della grandezza, della nobiltà e della gloria? Avreste voi in dispregio gli altri, se rifletteste che la morte vi uguaglierà con il più vile degli uomini? Vos autem sicut homines moriemini (psal. LXXXI). Ricchi della terra che tanto vi affannate per accrescere i vostri tesori o formarne, e per acquistare eredità, come potreste voi attaccarvi ai beni frivoli e caduchi, se foste convinti che quei beni passeranno in altre mani, che nulla porterete con voi; che quelle case fabbricate con tante spese, quelle camere così artificiosamente addobbate saranno abitate da altri e che voi non avrete per dimora che un sepolcro? Solum mihi superest sepulchrum (Giob. II). E voi che, senza far conto del solo affare degno delle vostre attenzioni, cioè della vostra salute, non pensate che ad appagare passioni brutali, accordereste voi a quelle passioni ciò che domandano, se pensaste che quei corpi che nutrite con delicatezza, che abbandonate all’intemperanza, saranno un giorno il pascolo dei vermi? Convien forse far tante spese per una carne, che deve perire? E voi finalmente, disonesti, il cui cuore è attaccato all’oggetto di una passione impura; restereste voi sì lungo tempo prigioni nelle sue catene, se rimiraste quell’oggetto, quella bellezza nello stato in cui la morte deve ridurla, cioè in uno stato di fetore e di putrefazione che vi farebbe orrore? Ah! che questa vista sarebbe capace di disgustartene! Ma voi opponeste queste riflessioni ai colpi micidiali di cui la passione vi minaccia. – Ma se malgrado le forti sollecitazioni della grazia, malgrado gli avvertimenti dei confessori, dei predicatori, il vostro cuore non vuol fare questo sacrificio in un tempo in cui lo fareste con merito, il tempo verrà in cui lo farete malgrado vostro ed inutilmente pervoi: la morte romperà quei legami fatali che vi attaccano alla creatura: ellavi rapirà quell’idolo che adorate, vi separerà da quelle persone, da quelle occasioni che vi rovinano. Ah! Fratelli miei, non aspettate che la morte vi sforzi ad una separazione violenta ed infruttuosa, da quegli oggetti cari alla vostra felicità; rinunciate prima da voi medesimi a tutti i piaceri che vi potete trovare; e questa separazione, questa rinuncia volontaria sarà il principio della vostra felicità. Non aspettate di pensare e di prepararvi a morte quando il momento fatale ne sia giunto. Non si muore che una sol volta, e dal momento della morte dipende la nostra felicità o la nostra miseria eterna: Statutum est semel mori. – Seconda ragione che deve indurvi ad apparecchiarvi alla morte. Se la morte fosse una pena che si potesse subire più di una volta, arrivarvi senza avervi pensato, sarebbe un grande mancamento, pure non sarebbe irreparabile. Ma perché la sentenza è senza appello, tutto ciò che èal di là della morte è eterno ed immutabile, perciò morire senza avervi pensato si è morire per essere sempre infelice: l’albero resterà eternamente, dice Gesù Cristo dalla parte che sarà caduto; se è dalla parte di mezzogiorno o di settentrione, non cangerà più sito. Quanto è dunque terribile questo momento della morte, fratelli miei! Perché  è difficile far bene ciò che non si fa che una sola volta, e, che se non si fa bene, ha conseguenze sì funeste. Ma come lusingarci di riuscir in un affare di sì grande importanza, se non abbiamo ogni cura di ben prepararvici? Tutta la vita dovrebbe essere un continuo apparecchio alla morte; tutti i nostri pensieri, tutti i nostri passi debbono colà terminarsi. Invano riusciremmo in tutti gli altri affari; se manchiamo in questo, nulla abbiam fatto. Contuttociò, benché assaissimo importi agli uomini il prepararsi a ben morire, chi sono coloro che vi si apparecchiano? Chi sono coloro ancora che vi pensano? Nulla è sì frequente come la morte, nulla che ci tocchi sì da vicino, e nulla che sia più dimenticato. Il suono delle campane ci avverte della caduta degli uni; vediamo portar alla terra gli altri, che godevano di egual sanità che noi alcuni giorni sono, e non pensiamo che dobbiam ben tosto seguirli. È ben poca cosa l’uomo, diciamo alla vista di una pompa funebre, e pure non diventiamo migliori, dice s. Agostino, perché ci dimentichiamo subito lo spettacolo che dovrebbe farci rientrar in noi medesimi, e che ben presto presenteremo agli altri. Al vedere la condotta della maggior parte degli uomini, si direbbe che si credono immortali; essi operano come se non dovessero mai morire. Chi direbbe che quell’uomo avido dei beni e delle ricchezze pensa che deve morire, poiché non pensa che ad accumulare, a fare acquisti, a far valere un negozio, intraprende mille affari, si carica di mille imbarazzi cui la vita la più lunga non potrebbe bastare? Non si direbbe forse che ella è in sua disposizione? Ah insensato! forse in questa notte ti domanderanno la tua anima; e per chi sarà quello che hai accumulato? Per eredi ingrati che vorrebbero forse già vederti nel sepolcro. A che ti servirà l’esserti travagliato per gli altri, mentre nulla fai per te stesso? Siate dunque, fratelli miei, più attenti ai vostri veri interessi e pensate coll’apparecchiarvi alla morte ad assicurarvi una sorte per l’eternità. Chi sono coloro, torno a dire, che pensano e si preparano alla morte? Sono forse quegli uomini voluttuosi che hanno messo tutta la loro contentezza in questo mondo? che affidansi alla robustezza del loro temperamento? Sono forse quei peccatori abituati, che marciscono per mesi ed anni nel peccato, e differiscono la loro conversione alla morte? Essi la riguardano siccome molto lontana mentre ella tiene lor dietro da vicino. Ma questi insensati si ritrovano ad un tratto sorpresi; la morte viene, ed essi non son pronti; dopo aver passati i loro giorni nei beni e nelle delizie, cadono nell’inferno. Ecco il termine fatale a cui conduce la dimenticanza della morte. Pensatevi dunque fratelli miei, ma preparatevi ad essa in ogni tempo. Mentre non solamente è certo che noi morremo, ma non ne sapremo giammai il momento.

II. Punto. Sì, fratelli miei, la morte è incerta, per riguardo allo stato in cui ci troverà. Io dico primieramente che essa è incerta, perché deve sorprenderci. Si è Gesù Cristo medesimo che ce ne assicura, allorché dice che verrà nell’ora in cui non vi penseremo: Qua hora non putatis (Luc. XII). Ed è per questa ragione che egli paragona la morte ad un ladro, che per venir a capo dei suoi disegni sceglie il momento in cui di nulla sospettiamo; così la morte verrà in un tempo in cui nulla vi penseremo. Ella rapirà in mezzo dei suoi piaceri quel libertino, che si prometteva ancora lunghi anni di vita; ella sorprenderà quell’uomo che aveva formato intraprese per molti anni, dopo cui sperava vederle eseguite. Non lo vediamo forse, fratelli miei, accadere tutti i giorni? Quanti hanno cominciato affari, a cui la morte non ha lasciato il tempo di finirli? Ecco quel che accadrà a voi medesimi che mi ascoltate; voi non avrete terminati alla morte tutti i vostri affari: ma ciò che sarà più funesto per voi si è che non avrete forse ancora lavorato come conviensi. Voi vi affidate ad un tempo che forse non avrete. Vi sarà per voi un anno, in quest’anno un mese, in questo mese un giorno, in questo giorno un’ora, in cui morrete: ma quando sarà quest’anno, questo mese, quest’ora? Ecco quello che non sapete: Nescitis diem, neque horam (Matth. XXIII). Sarà forse il trentesimo, il quarantesimo anno della vostra età? Sarà forse l’anno venturo? Ecco ciò che vi è ignoto. Quanti avevano cominciato quest’anno che credevano finirlo, ed hanno vedute deluse le loro speranze? Quanti ve ne ha che non lo vedranno! Chi può lusingarsi che dopo aver veduto il mattino del giorno, ne vedrà la sera, o che il lenzuolo ove riposa non servirà a seppellirlo? Niuno può prometterlo, niuno può contare sopra un sol giorno di vita. Dio così ha voluto, così ha ordinato, nei disegni della sua sapienza; Egli ci tiene occulto il nostro ultimo giorno, dice s. Agostino, per impiegarci a ben regolare tutti gli altri giorni: Latet ultimus dies, ut obsenentur omnes dies. Imperciocché, fratelli miei, che accadrebbe mai, se ciascuno conoscesse la misura dei suoi anni? Oimè! Noi vedremmo gli uomini passare tutta la loro vita nell’iniquità, aspettare per darsi a Dio non l’ultimo anno, neppure l’ultimo giorno, ma, l’ultimo momento? Se i più degli uomini, non ostante l’incertezza della morte, differiscono sino a quel momento la loro conversione, che sarebbe se quell’ultimo momento lor fosse noto? Con molta saviezza adunque e per nostro vantaggio ci ha lasciati Iddio nell’incertezza dell’ora di nostra morte. Or se ella è incerta, qual precauzione non conviene usare per preservarsi dalle sue sorprese? Perché non correggere sin dal presente quel cattivo abito, non lasciare quell’occasione di peccato, non restituire quei beni mal acquistati, non riconciliarsi con quel nemico? Aspettate voi che la morte vi sorprenda in quel cattivo abito? Che vi trovi impegnati in quell’occasione, carichi di quella roba altrui? E se essa vi sorprende in quel pessimo stato, sarete voi ben ricevuti al giudizio di Dio quando direte che la morte non vi ha lasciato il tempo di eseguire un progetto di conversione, che avevate formato? Il Signore vi risponderà che voi eravate assai avvertiti delle sorprese della morte, che bisognava tenervi in guardia, che bisognava esser pronto quando ella verrebbe. Estote parati (Luc. XII). Voi non avete voluto profittare del tempo, delle grazie che vi erano date, dunque è colpa vostra, se siete condannati alla morte eterna: Perditio tua ex te Israel (Oseæ III). – Chi è avvertito che i ladri debbono assalire la casa, saccheggiarla e dargli la morte, lascia egli forse le porte aperte? Non porta forse via il suo danaro, o si munisce di un soccorso? Ecco il vostro ritratto, voi siete sicuri che la morte deve venire come un ladro, che vi sorprenderà all’ora che voi mai vi pensate; e pur vivete così tranquillamente come se nulla aveste a temere, come se Dio vi avesse promesso un certo numero di anni da vivere, come se pendesse da voi di allontanare l’ora della vostra morte; mentre non sapete se avreste solamente quest’anno, e siete altronde sicuri della testimonianza di vostra coscienza, che non siete in stato di comparire avanti Dio, e che sarete condannati al fuoco eterno. La spada della giustizia di Dio è pronta a colpirvi; non dipende che da un filo il quale può rompersi in un istante e voi non prendete misura alcuna per allontanare la disgrazia onde siete minacciati; voi dormite tranquillamente sull’orlo del precipizio, ove siete presti a cadere. Qual follia! Qual accecamento! Oh! fratelli miei, siate più. saggi e più sensibili ai vostri veri interessi.Incerti come siete del giorno in cui dovete morire, vivete tutti i giorni come se doveste ogni giorno morire; poiché la morte è incerta non solo quanto al tempo, ma ancora quanto allo stato in cui deve sorprenderci. Si è quest’ultima incertezza che deve, fratelli miei, penetrarci di un salutevole timore, e farci prendere tutte le precauzioni possibili per apparecchiare ad una santa morte; mentre finalmente che c’importa d’ignorare il tempo di nostra morte, se noi siamo sicuri di morire in buono stato? Morire in istato di grazia è il dono della perseveranza finale; grazia speciale, che noi possiamo. domandar a Dio, dice s. Agostino , ma che niuno di noi può meritar in rigor di giustizia né sicuramente prometter la grazia di cui un s. Ilarione, dopo settant’anni di penitenza, temeva ancor di essere privo, perché ella dipende dalla pura misericordia di Dio. Or chi di noi, fratelli miei, può essere certo di aver questa grazia? Chi di noi può promettersi di morire nell’amicizia di Dio? Chi vi ha detto, peccatori, che Dio aspetterà, per togliervi da questo mondo, che voi abbiate fatta penitenza dei vostri peccati? Chi vi ha promesso che voi non sarete sorpresi dalla morte in quel funesto stato? Che voi sarete assistiti dai sacramenti e dagli altri aiuti necessari? Oimè! Forse voi non avrete il tempo di ricevere questi aiuti, perché credete poterlo sempre avere! Forse all’uscir da quella partita di piacere, da quel luogo di dissolutezza, da quel convito d’intemperanza, da quella occasione di peccato, la morte, che non aspetta se non quel momento per colpirvi, non vi lascerà che il tempo di riconoscere che morrete in istato di peccato: In peccato moriemini. Volete voi, fratelli miei, evitare questa disgrazia, anzi volete voi assicurarvi il felice stato in cui dovete morire? Vivete meglio che non avete fatto sino al presente; e benché incerta sia la morte per riguardo alle sue circostanze, voi potete, per quanto è in voi, rendere certa una morte preziosa. Per questo che convien fare? Fate per tempo e durante la vita, come le vergini sagge, provvisione d’olio, cioè di virtù e di buone opere; le vostre lampade siano sempre accese , affinché all’arrivo dello sposo siate ammessi nella sala del convito. Temete la sorte delle vergini stolte, che ne furono escluse per avervi pensato troppo tardi: indarno vanno esse a provvedersi dell’olio quando sono avvertite dell’arrivo dello sposo; egli viene in quel frattempo, e al loro ritorno trovano la porta chiusa : Clama ed ianua. Invano dimandano esse con raddoppiati gridi che loro sia aperta: Domine, aperi nobis; non hanno altra risposta che quelle spiacevoli parole: Nescio vos, ritiratevi, voi venite troppo tardi, io non vi conosco. Oh! chi potrebbe comprendere, dice il pontefice s. Gregorio, qual sensibile affanno, qual orribile disperazione cagionò loro un sì amaro rifiuto! Tale sarà il dolore di un’anima che all’uscir da questa vita si troverà sprovveduta di buone opere. Vanne, le dirà il Signore, io non ti conosco; tu non entrerai giammai nel mio regno: Nescio vos. Vegliate dunque, conchiude Gesù Cristo, perché non sapete né il giorno, né l’ora in cui verrà: Vigilate quia nescitis diem necque horam. – Or in che consiste questa vigilanza che deve servirvi di apparecchio alla morte? Io la riduco a cinque punti principali, che vi propongo per pratica, terminando questa istruzione.

Pratiche. 1. Per ben prepararsi alla morte, bisogna pensare spesso, non in una maniera vaga e generale, ma in una maniera propria, e particolare che faccia su di noi una salutevole impressione. Io debbo morire un giorno e morrò più tosto che non credo, dobbiamo noi dire; bisogna principalmente fare questa riflessione allorché assistiamo alle esequie di un morto: forse per me farassi ben presto questa cerimonia, forse sarò io il primo per cui deve aprirsi la terra. Conservate diligentemente questo pensiero; andate di tempo in tempo, almeno una volta alla settimana, a meditare sulla morte nel luogo che avete eletto per vostra sepoltura. Occupatevi, sull’esempio di s. Antonio, in questo salutevole pensiero la mattina alzandovi dal letto: Forse io non vedrò la sera: coricandovi: Forse io non vedrò la mattina. Eccomi questa sera più vicino alla tomba che non era questa mattina.

2. Per ben prepararsi alla morte, bisogna sempre essere nello stato in cui si deve morire, cioè nello stato in cui si deve stare, vale a dire in istato di grazia; e non rimaner giammai in quello in cui non si vorrebbe morire, cioè in istalo di peccato. Perciò, fratelli miei, interrogate adesso la vostra coscienza. In quale stato siete voi? In quello del peccato? Uscitene al più presto per non essere sorpresi dalla morte.

3. Non aspettate all’ora della morte a fare le restituzioni di cui siete incaricati, a fine di essere padroni di voi medesimi in quegli ultimi momenti, e non pensare che all’affare della vostra salute.

4. Fate adesso tutto quel che vorreste aver fatto all’ora della morte, e nulla fate di quel che vorreste allora non aver fatto. Accostatevi al lato di un moribondo, e domandategli quali sono i suoi sentimenti, ciò che egli pensa dei beni, degli onori, dei piaceri. In qual dispregio non li ha egli? Dispregiateli nello stesso modo. Quale stima al contrario non la egli delle croci, dei patimenti, delle umiliazioni e di tutti i santi esercizi della vita cristiana? Vorrebbe che tutta la sua Vita fosse passata, come quella dei più gran santi. Pensate adesso come lui, entrate ne’ suoi sentimenti, e farete tutto il bene che Dio domanda da voi per prepararvi a ben morire. Ricordatevi che il tempo della morte è il tempo della messe, e che la vita è il tempo proprio a seminare. Voi non raccoglierete del grano in un campo ove nulla avete seminato! Bisogna dunque, dice l’Apostolo, far il bene senza interruzione, a fine di mietere alla morte: Homni facientes non deficiamus, tempore enim suo metemus (Gal. VI) . Profittate del tempo per guadagnar il cielo, perché non ve ne sarà più dopo la morte: sia questo il vostro motto ordinario: Deum tempus habemus, ojieremur bonum.

5. Nulla amate, nulla stimate, se non quello che vorreste aver amato e stimato alla morte: in tutti gli affari della vita considerate sempre la morte; in una parola, la morte sia la regola di tutte le vostre azioni. Vivete ogni giorno come se doveste ogni giorno morire, fate ogni mattina questo proponimento: io voglio vivere quest’oggi come se dovessi quest’oggi morire. Beato il servo vigilante che il Signore troverà fedele in queste pratiche! Egli lo farà entrare nel soggiorno della sua gloria. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro.

[Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus.

[I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.

[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.

[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

12 SETTEMBRE (2020): SS. NOME DI MARIA

(A. NICOLAS: LA VERGINE MARIA ed il disegno divino;  Milano C. Turati tip. Ed. 1857)

Dall’Introduzione:

… Ma il mistero della maternità divina si conoscerebbe solo materialmente e molto impropriamente se non si vedesse in questa maternità santa altro che una dignità oziosa ed una funzione accidentale, e se non si onorasse che pel fatto solo di aver portato, di aver dato una volta al mondo il frutto di vita. – Anche in questo caso si dovrebbe onorare, come si onora il legno insensibile della croce. Ma quanto diverso sarebbe l’onore renduto a questa croce, se essa fosse stata dotata di sentimento e avesse avuta una parte nelle virtù e nei dolori di cui è stata un mezzo, nel mistero di grazia onde è stata lo strumento! – Or bene, questa parte l’ebbe la santissima Vergine. Una delle grandi cagioni dell’indifferenza che si ha per il suo culto è questa, che gli uomini si figurano che non è Madre di Dio se non per necessità e per caso; perché bisognava una madre a Gesù Cristo; l’immaginano come una madre ordinaria, o come la madre di un grande uomo, che trova di averlo concepito e partorito tale senza volerlo, senza saperlo, e che non ne riceve onore se non dopo e ben tardi, senza merito personale, senza partecipazione anteriore o posteriore alla grandezza di questo Figliuolo, di cui essa non ha che la vana rappresentazione. E anche questa rappresentazione poi si rifiuta aMaria coll’interpretare empiamente la condotta che Gesù Cristo tenne con Lei, mentre Egli non gliela negava se non perché la negava a sé medesimo, voleva renderla più degna di essa, quando l’ora fosse venuta; e disegnava di darle assai più che la rappresentazione della grandezza, di darle la grandezza medesima in merito ed in esercizio.

Sentiam parlare la dottrina: « Io pongo per primo principio, dice Bossuet, che Dio avendo risoluto nell’eternità di darci Gesù Cristo per mezzo di Maria, Egli non si contenta di servirsi di Lei come di un semplice strumento per questo glorioso ministero; Egli non vuole che sia un semplice canale di una tale grazia, ma vuole che sia uno strumento volontario che contribuisca a questa grande opera, non solo colle sue eccellenti disposizioni, ma anche per un moto della sua volontà (Sermone primo pel giorno della Natività della santa Vergine, Terzo punto). » – Bossuet aggiunge, ciò che non è meno importante e che compie la conoscenza dell’uffizio della santissima Vergine. « Avendo Dio stabilito che la volontà della santa Vergine cooperasse efficacemente a dar Gesù Cristo agli uomini, questo primo decreto non si muta più, e noi riceviam sempre Gesù Cristo per mezzo della sua carità (Sermone quarto per la Festa dell’Annunziazione. Primo punto). » – Noi ci riserbiamo a svolgere nel corso dell’opera questa grande e bella verità, che ci fa veder Maria come uno strumento attivo e continuodella grazia di Gesù Cristo, come un canale animato di questa grazia, come una madre le cui viscere sempre aperte non hanno solo una volta generato Gesù Cristo, ma lo generano continuamente e lo genereranno sino alla fine del mondo ne’ suoi membri, che sono i Cristiani; come nostra Madre per conseguenza senso più vivo della parola, la madre dei viventi, la nuova Eva. – Maria non è dunque solamente un segno, è un sacramento. Il Verbo eterno, che ha illuminato il mondo, il Verbo di Dio continua a darsi al mondo per mezzo di Maria. – Questaproposizione sembrerà scandalosa agli spiriti fortio, come si dice ai dì nostri, agli spiriti privilegiati, perché li obbliga a chiamarsi debitori della pura e viva nozione di Dio che li illumina non solamente a Gesù Cristo, ma ancora all’umile Maria. Ei si befferanno della nostra semplicità; ma il fatto risponde per noi alla loro delicatezza, e qual fatto! – Ponno essi negare che il sole della verità divina, della cnoscenza di Dio, non siasi levato, fa or diciotto secoli, nelle alture dell’Oriente, dal seno di quattromila anni di tenebre, e non abbia cessato sino ai nostri giorni di luminare sino i più umili intelletti? – Ponno essi negare che, qualunque sia lo splendor de’ suoi  raggi, se tutti, credenti ed increduli, umili e superbi, fedeli e bestemmiatori, camminano alla sua luce, il centronon ne sia il Cristianesimo, e il disco, per così dire, non ne sia Gesù Cristo; e che se Gesù Cristo, se il Cristianesimo venisse a scomparire, il mondo sarebbe asperso nell’orrore delle tenebre più spaventevoli? – Ponno essi negare che la nozione del Verbo fatto carne, Gesù Cristo, che è il cristianesimo, poggia e si aggira, in certo qual modo su quella della maternità divina di Maria,come sopra il suo asse, e che il culto, che la devozioe alla santissima Vergine, non sia come la matrice dei veri Cristiani? – Ove sono i veri servi di Dio, se non fra i Cristiani? E dove sono i veri Cristiani, se non fra i pii servi di Maria? – Questo è stato vero in tutti i tempi, ma è più vero che mai oggidì. Di fatto, in passato la fede, la divozione generale dellasocietà collegava il Cristianesimo in tutte le sue parti, e il culto della santa Vergine vi prendeva la parte che esso deve avere nell’economia della Religione. L’empietà generale che venne poscia, assalendo ad un tempo tutti i nostri misteri, mantenne per l’universalità della stessa sua bestemmia quel rapporto che li univa, e il culto della santa Vergine, in questo regno dell’empietà generale, come precedentemente in quello della fede, non ebbe una sorte particolare né per conseguenza un’importanza più speciale. Più sottile, più perfido e più pericoloso dell’empietà scatenata del secolo passato, il razionalismo è venuto a penetrar fra i nostri diversi misteri, e li ha disuniti, alterati, decomposti, col farli suoi proprii. La nozione di Dio, quella della Trinità, quella dello stesso Gesù Cristo, sono diventate, sotto la sua azione, filosofiche, panteistiche, anticristiane, antisociali. Una sola nozione, un solo dogma non fu per anco assalito; che la sua umiltà lo ha sottratto dai pericolosi onori dei filosofi, il loro disprezzo lo ha salvato dalla dannosa lor stima; ed è il dogma della santa Vergine. Si fanno da questi alti intelletti i mille sistemi, le mille religioni diverse di Dio e di Gesù Cristo. Abbracciato o rigettato, solamente il culto della santa Vergine è risparmiato. Maria sola è rimasta quella che essa era in passato, e rimanendo ciò che essa era, essa ha mantenuto ciò che era il Cristianesimo. Essa è stata come l’ancora della Religione. Di nuovo la Madre ha salvato il Figliuolo. A Lei bisogna andare oggidì per ridomandarlo, per domandare il vero Gesù, il vero Dio. Di qui l’opportunità di preconizzare oggidì più che mai il culto della santa Vergine, e la provvidenziale sapienza della decisione che l’ha, non ha guari, dichiarata immacolata, perché ciò torna lo stesso che esaltar nel suo culto il culto di Gesù Cristo, il culto di Dio, che oggidì più che mai devono fare graduatamente un solo culto. – Lutero ha detto che non vi era festa cattolica che egli detestasse più di quella del corpo di Gesù Cristo e della Concezione di Maria; e secondo il suo modo di vedere, aveva ragione rii associar così nella sua ripulsa due cose unite nel nostro culto: la Madre ed il Figliuolo. Di fatto, se non v’è Madre non v’è Figliuolo. Ma ciò che si vuole subitamente aggiungere è che se non v’è Figliuolo non v’è Padre. – Gesù Cristo è nostro fratello per la sua filiazione umana, e per conseguenza per Maria; per questo noi facciamo con lui un solo corpo (multi unum corpus sumus in Christo. Rom. XII, 5), ed Egli ci comunica per viadi adozione la qualità che è a Lui naturale di Figliuoldi Dio. Solamente per questo spirito di adozione, comedice s. Paolo, noi siamo i coeredi di Gesù Cristo, i figli di Dio, e rieeviam la grazia d’invocarlo Padre nostro (Rom. VIII, 15). – L’adorazione del Padre in ispirito ed in verità, il culto di Dio, si attien dunque a quello della Madre di Dio.

Chi non ha Maria per madre non potrebbe aver Gesù Cristo per fratello e Dio per padre.

Perciò la Chiesa Cattolica, con un senso profondamente semplice e vero, introduce in tutte le sue preghiere il Pater e l’Ave, unisce il Padre celeste alla Madre terrena di Gesù Cristo, per ricordarci continuamente che per la Madre noi abbiam dei diritti sul Figliuolo, e pel Figliuol noi ne abbiamo sul Padre. E s. Gregorio di Nazianzo non andò troppo oltre allora che, cento anni prima del concilio di Efeso, riepilogava i titoli della Madre di Dio al nostro culto con queste parole, che si dovrebbero scrivere su tutti gli altari lei consacrati: Si quis sanctam Dei Genitricem non confitetur, a Deitate remotus est. « Quegli che non confessa la santa Madre di Dio è separato dalla divinità (Ep. I ad Cledon). » – Gesù Cristo è un fiore, la cui fragranza è Dio ed il cui stelo è Maria. Isaia lo profetava sotto questa graziosa immagine. Indarno si vorrebbe aver la fragranza senza il fiore, e indarno altresì si vorrebbe avere il fiore senza lo stelo; perocché questo stelo non ha portato il fiore solamente una volta, ma lo porta sempre e lo ha fatto fiorir sempre nelle anime. Chiunque pertanto voi siate, dice san Bonaventura, che aspirate alla grazia dello Spirito Santo, cercate il fiore nello stelo; per lo stelo infatti noi giungiamo al fiore, e pel fiore a quello Spirito della Divinità, del quale esso ha imbalsamato la terra. Quicumque Spiritus Sancti gratiam adipisci desiderata florem in virga quærat: per virgam enim ad florem, per florem ad Spiritum pervenimus(inSpec., cap. 6). – Gli uomini, in questo movimento generale che li riconduce oggi alla fede, sono così disposti che veggono ogni modo di contenderle passo a passo il terreno che Ella ripiglia sopra di essi; di far senza di Dio per essere filosofi, di far senza di Gesù Cristo per essere religiosi, e di far senza di Maria per essere Cristiani. Vana fidanza, che riesce a far solo de’ cattivi filosofi, de’ falsi deisti e de’ poveri Cristiani! « A chi fu manifesta la verità senza Dio? – domanda Tertulliano – a chi fu conosciuto Dio senza il Cristo? A chi è stato pienamente rivelato il Cristo senza lo Spirito Santo (Tert. De anim. Cap. 1), senza Maria che è il suo santuario e la più alta espressione della sua fecondità? » La Santissima Vergine adempie così nell’economia del Cristianesimo una funzione attiva e incessante di maternità, generando gli uomini alla vita di Dio, dopo generato Dio alla vita degli uomini. Ministero meraviglioso e incomparabile, di cui noi ci siamo proposto di tentare la contemplazione e di mostrar le sublimi e commoventi armonie. Maquello che vuolsi aggiungere alla gloria sovreminente della Vergine santissima è che la sua grandezza essenziale, ch’io chiamerò il sommo delle sue grandezze, è l’essere stata fatta degna di questa eccelsa maternità; l’esser stata stata non già presa per necessità e per caso fra le donne a fin di adempire questo prodigioso ministero, ma scelta e benedetta da tutta l’eternità fra tutte le creature per questo prodigioso disegno; più ancora, l’essere stata per questo fine, ricolma, abbellita di tutte le virtù e di tutte le grazie che convenivano a questo incomparabile destino, e l’averne a dismisura moltiplicato il numero, corrispondendovi con tutti gli atti, con tutti i sospiri della sua volontà. Grandezza della quale nessuno, né gli uomini, né gli angeli né Maria stessa, nessuno, Dio solo eccettuato, può misurare la sublimità. – E questa è una creazione a parte, è un mondo spirituale: ciò che l’uomo è nell’ordine della natura, ciò che Cristo è nell’ordine della gloria, Maria lo è nell’ordine della grazia; Ella ne è la meraviglia e la Regina; la Regina degli angeli e dei santi. Essa è un Cielo, come la chiama san Giovanni Crisostomo: Quæ igitur Virgo Mater cœlum. Io vorrei aprire agli sguardi questo mondo e questo cielo. – il lettore che non ha mai meditato su questo mistero e che vi reca un occhio velato dalle cose del tempo non comprenderà la verità del mio entusiasmo. Sembrerà a lui che queste parole feriscano il nulla e non echeggino che nel vuoto; che siano una triviale ridondanza ed una sciocca esagerazione tradizionale. Egli, al vedere la semplicità di Maria e la sua oscurità, della quale gli evangelisti, gli Apostoli e lo stesso suo divin Figliuolo sembrano essere stati i complici infino a che Ella è stata sulla terra, domanderà: Che havvi dunque di sì meraviglioso nel destino di questa donna? E non ci seguirà che collo scoraggiamento della diffidenza, colla noja della frivolezza e coll’ orrore dell’inganno. Tutt’al più egli ci riserverà qualche compassione. – Quando il primo uomo vide il primo sole tramontare sull’orizzonte, venir meno la luce del giorno, cancellarsi il magnifico aspetto della creazione e spegnersi da per tutto il rumore insiem colla luce, e il silenzio e la notte occupar l’universo, qual non dovette essere la disperazione della sua anima ignorante! Quale non sarebbe stata la sua diffidenza se una voce gli avesse detto: Preparati all’ammirazione: poiché da questo fondo di oscurità che ti agghiaccia uscirà tale spettacolo la cui magnificenza sarà eguale a quella del giorno! E quale di fatto non dovette essere il suo rapimento allora che il suo occhio scoraggiato vide spuntare una stella sul firmamento velato dal cielo, indi altre e poi accendersi stelle in ogni parte, il cielo empiersi di raggi e il cupo azzurro della sua volta tutto sfavillare di lumi! Quale non dovette essere sopra tutto la sua estasi allora che vide biancheggiar nell’orizzonte, levarsi ed avanzare, qual reina in mezzo alla sua corte, la luna, dal vergineo splendore; ed al suo apparire, sotto il suo misterioso e potente influsso, muoversi l’aere, purificarsi il cielo, i mari sollevarsi e la terra trasformarsi sotto un velo argenteo di luce! – Tale sarebbe certamente la gioja che noi faremmo provare ai nostri lettori se ci fosse dato di poter mostrar loro Colei della quale è stato detto: « Chi è costei che esce fuora come aurora sorgente, bella come la luna, eletta come il sole, terribile come un esercito messo in ordine a battaglia (Cant. VI, 9)? » Noi vorremo almeno tentarlo. Assunto immenso, poiché abbraccia nientemeno che tutta quanta la Religione. Nei nostri primi Studii ci siamo provati di mostrare il Cristianesimo mercé lo splendore di Gesù Cristo; noi vorremmo in questi farlo rivedere alla dolce chiarezza diMaria. (…) La gloria della santa Vergine, quale noi la concepiamo e vorremmo presentarla, è di non poter essere separata, di venire incessantemente ad unirsi con quella di Gesù Cristo e con quella di Dio: di modo che non si può toccarla senza far risuonare, per dir così, la grandezza di Gesù Cristo e la maestà di Dio medesimo; e il più bell’inno che si possa cantare a Gesù Cristo ed alla divinità è Maria, è per Maria. (…) « Ella è cosa per me venerabile e al mio cuore dolcissima l’avere a parlare, o Dio, della Madre del vostro Figliuolo, che solo ha meritato di ricevere in sé il Dio cui Ella doveva generar uomo, di diventare il trono di Dio e il palazzo del Re eterno, secondo che voi ce l’avete insegnato per mezzo di tutti i vostri santi patriarchi, profeti ed Apostoli, in tante figure e discorsi sui quali si appoggiano la nostra fede e la nostra certezza; perché non fu mai che Voi ingannaste, e non avreste cominciato ad ingannarci e a lasciarci ingannare mostrandoci il vostro Figliuolo coeterno a voi e consustanziale, che dovea incarnarsi e si è incarnato nel seno della Vergine, dalla quale ha preso carne Colui che con Voi ha creato tutti gli esseri corporei, che ne è l’Autore, il governatore e il Dio. Di Lei Egli ha preso la nostra natura, non l’origine, avendo il vostro Santo Spirito santificato, purificato e conficcato in Lei un seno umano per la concezione del vostro Figliuolo: meraviglioso effetto di grazia e dignità che il core non potrebbe concepire e che la lingua tenterebbe invano di esprimere. Tale di fatto è stata questa concezione,  tale è stato questo parto, quale conveniva ad un Dio, ad un Dio che veniva a riscattar quelli che aveva voluto creare; creare con la sua potenza, riscattare con la suaumiltà; pigliando dell’umiltà la natura, santa da un corpo santificato, immacolata da un corpo immacolato; poiché Egli coll’essere concepito e col nascere non ritirò da Ella quella grazia ineffabile di santificazione che aveale concessa in vista del suo concepimento. Per esso io vi supplico, o Signore, poiché per esso voi largite ogni bene, e loscegliete per concederlo, io vi supplico di concedermi che senza offendere una tale santità, giunga a favellarne; e che, non lo potendo interamente, il che torna impossibile ad ogni lingua umana, io ne esponga, almeno in parte, il soggetto qual è. Risuoni esso dunque come da sé medesimo; la sua profonda ricchezza echeggi riccamente la sua eminente santità santamente e il suo inestimabile valore fedelmente in quest’opera. E siccome questo sopravanza la ragione umana, il vostro Spirito sia con me e mi inizii atutta la verità che bisogna esporre. Finalmente, siccome io devo rispondere ad un’aspettazione di profondità e di sublimità a cui non potrei giungere, supplico il mio pio lettore che degni anch’esso pregare per me. Che se sopra alcuni punti non sembrassi inferiore al mio soggetto, la sua riconoscenza ne attribuisca il merito a Dio; se troppo sovente io sarò al di sotto, compatisca alla mia insufficienza, perché, per grande che sia, non potrebbe accusare in me difetto di buona volontà (Homilia IV, De Assumptione Virginis.). »

LO SCUDO DELLA FEDE (126)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO V.

Si difende dalle imposture la verità dei miracoli propri della Religione cristiana,incominciando da quei di Cristo, calunniati dai Giudei.

I. Quella volpe, che, non arrivando alla pergola, sprezzò l’uva con infamarla di agresta, non era favola, era figura perfetta, se fosse stata ordinata a vaticinare quello che poi dovevano far le sette invidiose al nome di Cristiano. Veggon ben queste da un lato, che lo verità della Religione, superando la capacità della nostra mente, non possono per via di ragione umana persuadersi abbastanza; conviene accreditarle per via di ragion divina, quali sono i miracoli. E però si sforzano quanto possono di arrivare a sì alta pergola anch’esse, con provarsi a fare, in confermazion de’ loro errori, qualche opera prodigiosa. Ma perché  gli sforzi son vani (non permettendo la provvidenza, che mai si giunga a contraffare tal opera tutta sua), si rivolgono le meschine a tacciare l’uva di agresta, con divulgare che i miracoli da noi Cristiani arrecati, non vaglion nulla, o sono simulati, o sono superflui, e conseguentemente non sono pienamente efficaci aprovare il vero.

II. Dunque nostro debito è qui di manifestare contra i giudei, e dipoi contra tutti assieme gli eretici, quanto sieno ingiuste queste due eccezioni solenni, da loro date a’ testimoni maggiori d’ogni eccezione, quali sono i miracoli propri nostri.

I.

III. I Giudei, tanto solleciti in voltare le spalle al vero, quanto dovrebbero essere ad abbracciarlo, oppongono, che i miracoli di Gesù, registrati in quattro vangeli, non son da credersi, perché non hanno altro istorico che li narri, fuora de’ nostri, e i nostri tutti sono al pari sospetti, mentre essi furono o divoti, o discepoli di quell’uomo, cui sì nuovi miracoli sono ascritti.

IV. Ma dico in prima: chi dunque dovea narrarli? Forse i gentili, i quali dedicavano i loro libri a principi sì arrabbiati in perseguitare la religione di Cristo poc’anzi nata? Non potea scrittore veruno riferir di lui meraviglie non più sentite, prima di crederle; né potea crederle, senza prima risolversi a non temere gli orrendi scempi destinati a chi le credesse. Ma di tal cuore non erano certamente i profani istorici.

V. Anzi solamente per ciò, perché erano profani, non parea giusto che la provvidenza divina gli eleggesse per testimoni di opere così eccelse. Conciossiachè qual fede in esse meritavan da’ posteri quelle penne che erano tanto apertamente venali, adulatrici, amplificatrici, bugiarde in più altre cose, da loro riferite a capriccio?

VI. Dall’altro lato, con che coscienza si allegano per sospetti gli evangelisti? È vero, che in giudizio vacilla l’attestazione de’ famigliari: ma non già quando si tratti di cose tali, che non potevano o sapersi, o spiarsi, fuorché da loro. In tal caso, i famigliari, anziché esclusi dal giudice, sono ammessi, ed ammessi gli unici, come testimoni oculari, e però più degni.

VII. Inoltre appare chiarissimo, non avere gli Evangelisti scritto adulando ed amplificando, all’usanza di quegli istorici che adattano i racconti ai loro interessi, cambiandosi come i polipi al novello colore di quello scoglio che li nutrica. Imperocché, se tali fossero stati non altro avrebbero raccontato di Cristo, che le sue operazioni meravigliose, dissimulando ad arte la   povertà, i patimenti, gli obbrobri che sempre lo accompagnarono unitamente fino al patibolo. Eppure gli evangelisti han fatto l’opposito, dando sulle loro tele pennellate smorte ai chiarori del loro Maestro, cariche all’ombre. De’ prodigi, chi di lor lasciò l’uno, chi lasciò l’altro: niuno lasciò di riferire, più diffusamente di ogni altra cosa, la morte, a primo aspetto sì indegna da lui sofferta, con aggiungere ai torti fattigli dai nemici fino gli strapazzi usatigli da’ discepoli, o traditori, o infedeli, o incostanti. Certamente, se le penne degli evangelisti non avessero unicamente mirato alla verità, non avrebbono almeno di se medesimi notificati ai posteri sì gran falli, né scrivendo al tempo stesso da luoghi così disgiunti, senzaché l’uno sapesse punto dell’altro, avrebbero concordato a narrare il tutto con tanta uniformità di deposizioni.

VIII. Di poi qual prò gli avrebbe indotti ad ingannare il genere umano con vane fole, sperando di farle credere? Chiunque mentisce, mentisce comunemente, o per timore di qualche male, o per ansia di qualche bene. Ma qual bene ambivano sulla terra i seguaci del Redentore, o di qual male temevano, mentre abbandonavano le ricchezze, e cercavano la povertà; abborrivano le ricreazioni, e correvano ai patimenti; sdegnavano l’aura popolare, e gioivano tra gli scherni? Che se poi morirono sì coraggiosi affin di testificare, che quanto avevano scritto era verità; qual timore di morte poteva prima avvilire le loro penne a lasciar da sé spremere una menzogna?

IX. Eppure ciò prova solo, che gli Evangelisti non volessero fingere quei miracoli; laddove io passo innanzi, e dico di più, che quando avesser voluto, non gli avrebbero neanche potuti fingere. Conciossiaché, chi furono gli Evangelisti? non furon uomini poveri di sapere? Come dunque eglino, se avesser finti i miracoli, gli avrebbero giammai finti con sì bell’arte? Maometto il quale, sprovveduto di ogni lettera, pur volle fìngerli, che non disse a spropositato, o di sciocco, non che di vile? Poco men dunque avrebbero fatto anch’essi gli Evangelisti, o almanco non avrebbero mai saputo vestir que’ fatti di circostanze sì decorose e sì degne, come essi fecero. Può mai da un fondaco di lanaiuoli venire una roba d’oro? tanto più, che ciascuno di quei miracoli fu indirizzato da Cristo a dar, con tale occasione, dottrine eccelse. E queste, come da favoleggiatori sì rozzi si sarebbero quivi potute inserire tutte, anzi intessere sì aggiustate, che neppure un filo vi sia di semplicità? dalla statua si giudica il suo scultore: né può chi mai non toccò scarpelli a’ suoi giorni, fare un colosso simile a quel di Rodi, senza mai dar botta in fallo.

X. Si aggiunga che essi non iscrissero cose accadute avanti il diluvio, che pure tanto giustamente si credono da’ Giudei, avvegnaché le narrasse un solo Mosè. Scrissero cose intervenute addì loro, e così addì parimente di quegli stessi a cui le scrivevano. Quale artifizio potevano dunque avere gli Evangelisti a persuaderle fin a’ loro stessi paesani, s’erano false? Non sarebbero in poco tratto stati anzi tutti convinti di mentitori? Se non furono veri i tanti prodigi vantati in Cristo, dell’acqua mutata in vino, de’ malati che risanò, dei morti che risuscitò, degli energumeni da Lui prosciolti ad un cenno, del pane aumentato, delle procelle abbonacciate, del velo squarciatosi da se stesso, de’ sassi spezzati, dei sepolcri spalancati, del sole tutto oscurato sì stranamente nel giorno della sua vergognosa crocifissione: come tra i Giudei non sollevossi per lo meno un Daniele a scoprire sì alte imposture con lingua intrepida, o come non comparve alcun Matatia, zelatore magnanimo della legge, a ficcare, se non la spada, almeno la penna in gola a menzogne le più sfacciate che mai veruno avesse date fuori ad obbrobrio della lor gente? Eppur i Giudei, non solo non opposero libri a libri, per confutare quanto gli Evangeli affermavano dì stupendo nel Redentore dannato innocentemente a morir da ladro; ma essi medesimi a più migliaia, concorsero ad approvarlo, a tenere indi quel crocifisso per Dio, e a non lasciarsi da Lui staccare neppure da quante funi vennero però loro avventate al collo, per trarli in carcere, e per trascinarli alle croci (Act. II.4. etc.).

XI. E poi, se quelle erano non verità, ma novelle, come le credettero i greci tanto superbi, i parti, i medi, i mesopotami, gli arabi, gli elamiti, gli egizi, e sopra tutti i romani, così alieni dal credere meraviglie? Erano pur tra questi molti filosofi, quali saggi, quali sofistici, che non si gloriavano d’altro, che di mettere al vaglio le novità per vaghezza di ributtarle. Come però il mondo tutto, dentro sì breve tempo, ne venne a credere tante prodigiosissime, e ancor le crede? Forse uno stuolo cencioso di giudei raminghi, che non han né patria, né sacerdoti, né sacrifizi, né fede, né sperienza, né scienza di alcuna guisa, salva quella di usureggiare, potrà dare eccezione a tanti gran principi, a tante città, a tanti cleri, a tante università, che riveriscono quelle storie medesime contraddette dal giudaismo, e le tengono per divine? E perché crede il giudaismo i miracoli di Mosè, di Elia, di Eliseo, se non perché n’è rimasta fra loro tutti una fama così costante, che non poteva derivare se non da testimoni veridici di veduta? Come poi dunque in egual affare essi adoperano più d’un peso, né vogliono colle bilance medesime regolare le credenze loro e le nostre? Quod quisque iuris in alterum statuit, ipse eodem iure uti debet, grida la legge (Extra de constit.c. cum omnes et 1. hoc edictum ff. quod quisque iuris). Anche tra noi è rimasta una fama simile, e fama si invitta, e fama sì invariata dopo il tratto di diciassette secoli ornai trascorsi, che non può avere sua fonte, fuorché nel vero, che è la vena sempre mancante all’istessa altezza.

XII. Si provino un poco gli ebrei presenti a far credere al mondo un solo miracolo operato da alcun de’ loro rabbini novellamente, come gli evangelisti fecero al mondo crederne tanti e tanti, operati addì loro dal Redentore. Strana cosa dunque, che questa arte di fingere meraviglie, sì persuasibili a tutti, si sia perduta; ma a dire il vero, tal arte non vi fu mai. I Giudei ancora, quando le lor meraviglie furono vere, le fecero tosto credere, tuttoché tanto giungessero inaudite, di sole fermo, di mari aperti, di manne amministrate, di piazze smantellate a forza di suono. Se non ne possono al presente far credere neppur una, che segno è? E segno manifestissimo che non l’hanno.

XIII. Finalmente qual cosa da’ lor profeti fu prenunziata più apertamente, che lo stuolo foltissimo de’ miracoli, i quali dovevano accompagnar la venuta del gran Messia? Come se ne sono essi dunque dimenticati? Che se pur vogliono ostinatamente travolgere le scritture su ciò concordi, che diran poi, mentre i maestri medesimi del loro talmud non seppero negare tali miracoli in Gesù Cristo (In tit. Ahedazora ap. Crotium 1. 2. n. 5. in Anot. c. Elbachera ap. Salm. c. 6. tr. 2); né con essi negar li seppero i nemici più giurati che mai sortisse la religion cristiana, senza neppure escluderne un Maometto nel suo alcocorano, non invidioso a Gesù di sì giusta gloria? (Il giudaismo s i compenetra così intimamente col cristianesimo ne’ suoi punti più sostanziali, che ai Giudei non è concesso dalla logica di impugnare i miracoli di Cristo senza rompere in brutta contraddizione).

XIV. E vero dunque (ciò che da principio fu opposto), che i nostri storici furono i primi a narrare gli inauditi miracoli da Lui fatti, perché ciò era più proprio; ma non è vero che gli storici esterni non ne abbiano poi lasciata menzione espressa, come di cosa assai nota. Egesippo (Apud Salm. t. 6. tr. 2) nel libro quinto, riferisce due lettere di Pilato a Tiberio Cesare, in cui mostrasi ripentito dell’ingiustissima condannazione di Cristo, egli dà parte de’ gran miracoli da Lui già fatti in vita, e del maggiore che fece poi risuscitando da morte; ciò che venne tenuto sì fuor di dubbio, che l’istesso Tiberio tentò d’introdur Cristo nel Campidoglio fra la turba degli altri dei; e perché il senato per disposizione divina nol consentì (non convenendo al Dio vero l’andare in riga con dii di stucco, o di sasso), non volle l’imperadore che i Cristiani ricevessero almanco verun contrasto, ma fossero lasciati river in pace, come si eseguì finché a ch’ei visse (Tert., in apol. Euseb. 1. 1. hist. Ec. c. 2).

XV. Ma che? Nostre forse eran le Sibille? Eppure le Sibille non altro fanno, che predicare le operazioni mirabili del futuro Messia, tutte ad una ad una avveratesi in Gesù Cristo, delineato tanto prima sì al vivo ne’ loro versi (Ap. Lact. 1. 4. inst. c. 15).

XVI. Molto meno era nostro Giuseppe Giudeo. E pure è tanto chiaro l’onore da lui renduto al nostro Gesù. che sarebbe solo bastevole a colmar di rossore la sua nazione, se in lei non fosse il volto, conforme al cuore già divenuto di smalto. Eodem tempore, dice egli (Ioseph. 1. 18. Ant. c. 4 ), fuit Jesu vir sapiens, si tamen virum eum fas est dicere. Erat enim mirabilim operum patrator, et doctor eorum qui libenter vera suscipiunt. E poco appresso, riferita che n’ebbe la morte atroce, così soggiugne: Apparuit enim eis tertia die vivus, ita ut divinitus de eo vates hoc et alia multa miranda prædixerant. Ecco dunque che i Giudei non volendo credere ai nostri, sono costretti a non dovere né anche credere a se medesimi, o per lo meno a calpestare quegli stessi scrittori i quali hanno in pregio sopra qualunque altro. Ma così va; Si contuderis stultum in pila non auferetur ab eo stultitia eius(Anche se tu pestassi lo stolto nel mortaio tra i grani con il pestello, non scuoteresti da lui la sua stoltezza. – Prov. II. 23). Quanto vuoti di senno,tanto ostinati, somigliano ad un pallone, chepiù che vien percosso, meno si acquieta.

II.

XVII. Convinti però della verità delle narrazioni, si rivolgono ad intorbidare il fondo di quelle meraviglie sì strepitose di cui non possono divertire la piena. Affermano che i miracoli di Cristo sono da Lui stati operati per arte magica. E che però, se non sono finti nel fatto, sono finti nella virtù (Quest’obbiezione si risolve da sé, sol che si rifletta, che il miracolo è tal fatto sovrannaturale, che da Dio solo ripete la sua cagione efficiente. Un miracolo, operato per arte magica o per forza naturale, senza il concorso diretto di Dio, non è un miracolo). Ma qualemopposizione più sconsigliata.

XVIII. Primieramente una somigliante calunnia ebbero da Apuleio i miracoli di Mosè, e l’ebber da Plinio. Ciò però che i Giudei risponderanno contro di questi in difesa del loro legislatore, risponderemo contro di loro noi, in difesa del nostro.

XIX. Dipoi, come fu mago Cristo, se la sua legge sì severamente proibisce, con tutte le altre scelleratezze, anche questa maggior dell’altre?

XX. Aggiungasi, che le maraviglie de’ magi sono indirizzate comunemente a danno di altrui, avendo per fine o vendette, o violenze, o furori di amore insano, più reo di ogni odio. Laddove i miracoli di Gesù furono sempre rivolti a beneficare i corpi, e più ancora l’anime, tirando ognuno all’amore dell’ onestà.

XXI. Più, l’onor del Padre celeste fu sempre il bersaglio di tutte le sue operazioni meravigliose: che perciò ricusò di operarle senza profitto nella patria incredula; o di operarle per vanità davanti ad un re curioso, anche quando l’operarle potea fin toglierlo dalla morte di croce. Chi mai però vide negli stregoni uno zelo simile, mentre essi sono la ribaldaglia del mondo. e come tali esiliati da tutti i popoli, puniti da tutte le leggi con pene orrende? »

XXII. Finalmente ciò che possono i magi si stende a poco, cioè a molto meno di ciò che possono gli spiriti maligni loro padroni, ai quali né anche permette Dio troppo ampia la sfera del noiare e del nuocere sulla terra. Come però avrebbe potuto coll’aiuto di tali spiriti effettuare Cristo cose tanto superiori alle loro forze, quali erano risuscitare i morti, e tra questi risuscitare in ultimo ancora sé? Come sarebbero mai state così durevoli le sanità da lui restituite agl’infermi se fossero state opere prestigiose e non sussistenti? Come avrebbe Egli insegnate dottrine sì salubri, sì sante, sì celestiali, se fosse stato un uomo indiavolato?

XXIII. I diavoli, quando han concorso ad opere di stupore, vi hanno concorso affine di promuovere singolarmente il culto dei falsi dei, cioè di se stessi, ambiziosissimi, sin dalla origine loro, d’innalzarsi a onori divini. E come dunque potean essi concorrere di buon grado a quelle di Cristo, mentre Cristo era tutto intento ad abbattere il loro culto, e a rimettere quello del vero Dio, con intenzione d’inviare gli Apostoli suoi seguaci per l’universo, alla distruzion general dell’idolatria? Si Satanas in seipsum divisus est, quomodo stabit regnum eius?

XXIV. Si vede bene, che i presenti Giudei son figliuoli peggiori de’ lor padri, mentre non temono di apporre a Cristo una taccia che gli antichi giudici stessi del sinedrio non ardirono di appiccargli (Tit. de Sinedrio et tit. de Sabach, apud Grotium 1.5. n. 5). Questi (se noi stiamo alla fede de’ talmudisti) dovevano essere tutti esperimentati nelle arti magiche per convincere quei che n’erano rei. Come però, per fondamento delle altre accuse da loro date a Gesù, non posero in campo questa dei sortilegi da lui tuttora operati? Misero lui, se glie l’avessero mai potuta attaccare, se non per vera almeno per verisimile, come una volta ma senza frutto tentarono i farisei, quando dissero al popolo ammiratore della possanza da lui già posseduta sopra l’inferno: In principe dæmoniorum eiicit dæmonia(per il principe dei demòni, Egli scaccia i demòni – Luc.XI. 15).

XXV. Sarebbe un non finir mai, se si volessero ad una ad una arrecare tutte le prove, per cui si dimostrano degni di ogni credenza i miracoli del Redentore, indegnissimi di veruna i centrasti che loro si fanno. E però, a ridurre quasi un’iliade in un guscio, possiamo dire che i prodigi di Cristo furono da lui effettuati in così gran numero, al cospetto di tanta gente, in luoghi sì diversi, con modi sì pii, con mano sì poderosa, con imperio di tanta sovranità, non più scorta al mondo, con tanta gloria di Dio, con tanto aiuto de’ popoli, con tanto accrescimento della pietà; e che di più vennero tramandati a notizia con uno stile tanto innocente, da penne si schiette, da persone sì sante, da testimoni cosi bene informati d’ogni minuzia, che il negarli non è solamente un chiudersi gli occhi, è cavarseli dalle casse, per farsi cieco in odio del giorno. Non accade pertanto che gli ebrei sperino colle loro lingue malevole di oscurarli. Sarà loro più facile il sollevarsi contra il sole, ed estinguerlo con un soffio.