DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.) lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci abiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in aiuto dei bisognosi e si facciano amici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

OMELIA I.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

DIGNITÀ’ DEL CRISTIANO

 (Rom. VIII, 12-17).

L’Epistola è tolta dal cap. VIII della Lettera ai Romani. Lo Spirito Santo è come l’anima della vita cristiana. La carne non ha, dunque, più nulla da reclamare dal cristiano per trascinarlo a seguire le cattive inclinazioni, che danno la morte all’anima. Egli, deve, invece, mortificare le voglie della carne, mediante le opere dello Spirito, se vuol pervenire alla vita soprannaturale. Veri figli di Dio son coloro che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio, seguendo docilmente i suoi impulsi. Questo Spirito, poi, non ci deve incutere timore, come se fossimo servi, ma ci deve ispirare un amore filiale; poiché è lo Spirito della filiazione adottiva, il quale attesta la nostra adorazione a figli di Dio e, per conseguenza, eredi di Lui e coeredi di Gesù Cristo. – Quanto insegna qui S. Paolo, fa pensare alla grande dignità del cristiano, della quale non sarà fuor di luogo dire due parole. Il Cristiano:

1. È figlio di Dio,

2. È l’abitazione dello Spirito Santo,

3. È l’erede del regno celeste.

1.

Quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio.

 Il Cristiano che, ricevuta la grazia dello Spirito Santo vi coopera, cercando di condurre una vita virtuosa, lontana dal peccato, è veramente figlio di Dio. Per mezzo della grazia santificante che riceviamo nel Battesimo, veniamo incorporati a Gesù Cristo. Questa mistica unione è così intima, che diveniamo «membra del corpo di Lui, della carne di Lui e delle ossa di Lui» (Eph. V, 30). E in lui siam fatti figli di Dio. Egli è il Figlio naturale del Padre, il Figlio unigenito; noi siamo i figli adottivi, ma pur sempre figli.Dio è nostro Creatore. Egli ha ci cavato dal nulla. Perciò siamo fattura di Lui. Ma Egli non è solamente Creatore nell’ordine naturale; è Creatore anche in un ordine più elevato; nell’ordine soprannaturale. «Infatti — dice. l’Apostolo — siamo fattura di Lui creati in Gesù Cristo» (Eph. II, 10). Quando noi siamo battezzati in Gesù Cristo diventiamo una nuova creatura, un uomo nuovo, diventiamo «partecipi della natura divina» (ll Pietr. I, 4), diventiamo figli di Dio per mezzo di una generazione spirituale. S. Giovanni ci richiama alla considerazione di tanta dignità, a cui Dio ci ha elevati: «Osservate quale carità ci ha dato il Padre, che siamo chiamati e siamo figli di Dio» (1 Giov. III, 1). Sarebbe già dimostrazione di grande amore da parte di Dio se ci avesse concesso di poterlo chiamare col nome confidenziale di Padre. Ma Egli non si è accontentato d’esser Padre solamente all’apparenza; ma volle essere nostro Padre in realtà; così che noi siamo veramente suoi figli, non di nome, ma anche di fatto. Il Salmista, che invita Israele a lodar Dio per i benefici che ha fatto a Gerusalemme e a tutto il popolo, termina il suo cantico con questa constatazione: «A nessun altro popolo fece altrettanto» (Salm. CXLVII, 20). Nella nuova legge noi possiam dire con tutta verità, che fece altrettanto e molto più al popolo cristiano. I Cristiani, essendo stati adottati a figli di Dio, sono veramente, ben più che il popolo d’Israele: «stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo di acquisto» (I Pt. II, 9). – «Comprendi, cristiano, la tua dignità? associato alla divina natura non ritornare per una indegna compiacenza alle vergogne del passato» (S. Leone M. Serm. 21, 3) «Quanto è turpe offendere un tal padre!» (S. Zenone. Lib. 2, Tract. 22, 3).

2.

E lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che noi siam figli di Dio.

Lo Spirito Santo a coloro, che si lasciano guidare da Lui, attesta con voci interne la consolantissima verità che sono figli di Dio. Queste voci interne sono molteplici. L’esser spinti a chiamar con fiducia e con affetto filiale Dio con il dolce nome di Padre, l’orrore al peccato, l’amor di Dio, la prontezza nei seguir le buone ispirazioni. La pace e la tranquillità della coscienza sono echi di questa voce interna.Questo linguaggio interno dello Spirito Santo suppone che Egli sia presente nell’anima nostra, che sia «abitante in noi» (Rom. VIII, 11). È una verità insegnata ripetutamente da S. Paolo. e da lui richiamata con energia alla mente dei Corinti: «Non sapete che siete il tempio di Dio. e che lo Spirito di Dio abita in voi? »  (I Cor. III, 16). Veramente, tutto il creato è tempio di Dio. La terra, con tutta la sua varia magnificenza, è come lo sgabello del suo trono, gli astri sono come la sua corona. Se noi potessimo sollevarci alle più eccelse altezze, vi troveremmo Dio; se potessimo  portarci dall’uno all’altro confine del mondo, sentiremmo di essere sotto la sua destra; se discendessimo nei più profondi abissi dovremmo confessare col salmista : « ivi tu sei » (Ps CXXXVIII, 8). Se tutto il creato è tempio di Dio, Dio stesso volle scegliersi dei templi particolari. Egli dice sul monte a Mosè: «Ordina ai figli d’Israele che levino per me un contributo… E mi facciano un santuario, si che Io abiti in mezzo a loro» (Es. XXV, 2-8). E quando l’opera è compita, ecco, che una nube vi scende sopra, a significare che Dio prende possesso del tabernacolo, e vi pone la sua dimora (Es. XL, 32, segg.). Più tardi Salomone, in luogo del tabernacolo mobile di Mosè, costruisce sul modello del medesimo, ma in proporzioni e con magnificenza maggiori, un tempio stabile. Di nuovo, nel giorno della consacrazione, una nuvola miracolosa riempie il tempio ad attestare la presenza di Dio (3 Re. VIII, 10). – Ma oltre questi tempi Dio se ne sceglie degli altri. Quando l’anima del Cristiano è purificata nel Battesimo, diventa tempio dello Spirito Santo, il quale, per così dire, vi prende possesso e ne forma la propria dimora: diciamo meglio, forma la dimora della SS. Trinità, perché ove è una Persona divina, ci sono anche le altre. Di chi, mediante la carità, è tempio dello Spirito Santo, dice Gesù Cristo: «Il Padre mio lo amerà, e verremo da lui, a faremo dimora presso di lui» (Giov. XIV, 23). – Sulle case ove abitarono uomini illustri, si mettono delle lapidi commemorative, che ricordano al passante, che quella casa ebbe l’onore d’essere stata l’abitazione del tale o del tal altro personaggio. Talune vengono curate con somma diligenza, perché non vadano soggette a deperimento; altre vengono dichiarate monumento nazionale, perché nessuno osi toccarle, deteriorarle, distruggerle. Sull’anima del Cristiano, che non ha perduto la grazia santificante possiamo leggere un’iscrizione di maggior valore: « Tempio dello Spirito Santo ».

3.

Per mezzo del Battesimo i Cristiani sono divenuti figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo. Ora, se siam figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo. Procediamo di meraviglia in meraviglia. La gloria che attende il cristiano sorpassa ogni intendimento. Gesù Cristo è re della gloria. I Cristiani, fratelli di Gesù Cristo, vengono pure a partecipare della sua dignità regale, poiché « il segno della croce rende re tutti coloro che sono rigenerati in Gesù Cristo » (S. Leone M. Serm. 4, 1). Anche l’eredità che spetta al cristiano sarà un’eredità regale. A lui è concesso da Dio il diritto di « sedere in cielo con Gesù Cristo » (Eph. II, 6). Quando Davide vede avvicinarsi gli ultimi giorni, dichiara suo successore Salomone. Questi viene unto re, e sale il trono del regno. Quei della corte si rallegrano col re Davide, dicendo: «Dio renda il nome di Salomone più grande del tuo nome, e magnifichi il suo trono sopra il tuo trono» (3 Re I, 47). – Il regno dove i Cristiani sederanno con Gesù Cristo, sarà, senza confronto, più magnifico del regno di Salomone. Il regno ereditato da Salomone andò presto diviso, ed ebbe la sua fine. « Il magnifico regno è il bellissimo diadema che riceveranno dalla mano del Signore » (Sap. V, 17), i Cristiani che rimarranno intatti. Quel regno «è una eredità che non impiccolisce pel numero dei coeredi; ma rimane intera tanto per molti, quanto per pochi; tanto per ciascuno quanto per tutti» (S. Agost. Enarr. in Ps. XLIX). La Chiesa, celebrando la gloria d’un santo martire con le parole del Salmista, esclama: «Hai posto, o Signore, sul suo capo una corona di pietre preziose» (Ps. XX, 4). Questa corona di pietre preziose Dio pone non solo sul capo dei martiri, ma sul capo di tutti i giusti. E questa corona non passerà ai successori. Non sarà mai tolta dal capo, su cui Dio l’ha posta. A considerare la grandezza dell’eredità che ci attende, il nostro animo s’accende della brama di andarvi in possesso. Ma per arrivare al possesso di questa eredità è necessario di non rendersene indegni. Le leggi umane contemplano i casi di indegnità, che potrebbero privare un figlio dall’eredità che gli spetta. Per i Cristiani questa indegnità c’è quando si commette il peccato. Quando si commette un peccato grave, lo Spirito Santo, che dimorava nell’anima come amico, consigliere, maestro, se ne parte con tutti i suoi doni, e con lui se ne partono anche il Padre e il Figlio, e l’uomo peccatore rimane privato dal diritto all’eredità. Per arrivare al possesso dell’eredità eterna occorre la grazia di Dio, che noi dobbiam procurare di non perdere mai. In paradiso non ci si va in carrozza. Noi saremo «eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo, se però soffriamo con Lui affine di essere anche con Lui glorificati » (Rom. VIII, 17). «Non si può pervenire ai grandi premi, senza grandi fatiche. Perciò Paolo, eccellente predicatore dice: Non sarà coronato se non chi avrà combattuto secondo le leggi» (S. Gregorio M. Hom. 37, 1). E tutti sappiamo qual è questo combattimento secondo le leggi: nelle molteplici circostanze della vita diportarci secondo l’esempio datoci da Gesù Cristo: osservare con fedeltà i suoi comandamenti.

Graduale

Ps LXX: 1 V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

– Sopra l’abuso delle grazie –

(Redde rationem villicationis tuæ).

Luc. XVI.

In qual imbarazzo, fratelli miei, non si ritrova un uomo il quale, avendo un gran conto da rendere, non ha di che pagare, e si vede obbligato per la sua cattiva condotta a lasciare un posto, che gli era vantaggioso, senz’aver altronde alcun rifugio nella sua disgrazia, non osando neppure chieder limosina per aver onde vivere? Sotto questa parabola Gesù Cristo ci rappresenta nell’odierno Vangelo lo stato di un’anima, che non avrà posto a profitto i talenti che Dio le ha confidati, che avrà abusato dei beni e delle grazie che le ha date. Noi tutti siamo gli economi di Dio supremo padrone delle creature; noi abbiamo ricevuto da Lui dei beni nell’ordine della natura ed in quello della grazia. Ricchezze, sanità, facoltà dell’anima e del corpo, ecco i beni naturali, che ci ha confidati e che vuole facciamo valere per sua gloria e nostra salute. Se noi li abbiamo impiegati in altri usi, Egli ce ne farà rendere un conto terribile: Redde rationem. Ma il più gran conto che noi abbiamo a rendere, fratelli miei, sarà quello dei beni soprannaturali, dei beni della grazia, che ci sono dati per meritar quelli della gloria; beni che sorpassano infinitamente tutti gli altri, il cui malvagio uso renderà il nostro conto molto più terribile. Se noi non abbiamo fatto valer questi beni, se abbiamo abusato di queste grazie, Dio ci dirà come fu detto a quell’economo del Vangelo: Redde rationem, rendetemi conto della vostra amministrazione; ci sarà tolta questa amministrazione, e ci ritroveremo nel medesimo imbarazzo, ed anche più grande che  l’economo del Vangelo; oltre che non potremo più faticare per la nostra salute al momento della morte, che sarà il tempo in cui renderemo conto; non troveremo amici, come quell’uomo, che ci servano di rifugio nella nostra disgrazia; noi saremo condannati con l’ultimo rigore a cagion dell’abuso che avremo fatto delle grazie di Dio. Di questo abuso delle grazie, vengo io quest’oggi a farvi sentire, se si può, tutta la colpa e la disgrazia, per indurvi a fare un santo uso della grazia e a prevenire il conto, che dovrete rendere un giorno a Dio, se non ne avrete profittato. Qual è la colpa d’un’anima, che si abusa della grazia di Dio? Primo punto. Qual è la sua disgrazia? Secondo punto.

I. Punto. Quanto più un bene, che si presenta ci è necessario, tanto più siamo degni di condanna nel ricusarlo. Più questo bene è prezioso in se stesso e gratuito dalla parte di chi l’offre, più si sente egli offeso dell’abuso che se ne fa. Su questa regola, fratelli miei, egli è facile di giudicare quanto sia colpevole un’anima quando rigetta e si abusa della grazia del suo Dio. – Nulla, infatti, è più necessario, nulla è più prezioso della grazia, ossia che si consideri in se stessa, ossia che si riguardi il fine per cui questa grazia data, ossia che facciasi attenzione a quel che costò a Gesù Cristo per meritarcela, e al modo con cui essa ci è data. – Che cosa è dunque la grazia di cui sentite sì sovente parlare, e che è l’oggetto dei vostri desideri e delle vostre preghiere? Ah! se voi conosceste il dono di Dio, si scires donum Dei, quale stima non ne fareste voi, e qual sarebbe la vostra premura di metterlo a profitto! Per spiegarvi, fratelli miei, la natura e l’eccellenza di questo dono prezioso, che ci viene dal cielo, convien qui richiamarvi ciò, che la Religione c’insegna, cioè che noi siamo tutti creati per esser felici della felicità di Dio medesimo, che dobbiamo posseder nel cielo con una chiara visione delle sue adorabili perfezioni. Tale è il fine soprannaturale, a cui Dio ci ha elevati per una disposizione affatto gratuita della sua provvidenza. Siccome questo fine non ci era dovuto, e noi non potevamo arrivarvi con le nostre forze naturali, ci è stato necessario per questo un aiuto soprannaturale, cioè un aiuto che gli fosse proporzionato. Questo aiuto è quello, che noi chiamiamo la grazia di Dio, che supplisce alla nostra debolezza e alla nostra impotenza dandoci non solamente il potere di fare il bene, ma ancora il volere di farlo, come dice il gran Padre della Chiesa s. Agostino. – Or questa grazia ci è così necessaria per meritare la felicità cui Dio ci ha destinati, che senza di essa noi non potremmo giammai arrivarvi, mentre per meritare la vita eterna convien credere in Gesù Cristo, osservare i suoi comandamenti, il che non si può fare senza la grazia di Dio. Niuno può venire a me, dice Gesù Cristo, che non sia tratto da mio Padre. Senza di me, ci dice Egli ancora, voi nulla potete fare: Sine me nihil potestis facere (Jo. XV). Il vostro fondo è così sterile che non è neppur capace di produrre un buon pensiero, l’Apostolo; tutto il nostro potere viene da Dio: Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis, quasi ex nobis, sed suffìcientia nostra ex Deo est (II. Cor.3). Or se noi non siamo capaci di aver un buon pensiero pel cielo, a più forte ragione non possiamo da noi medesimi superare tutti gli ostacoli, che si trovano nella via della salute né praticare le opere meritorie della vita eterna. Noi abbiamo bisogno per questo della grazia di Dio: simili ad infermi, che non possono reggersi in piedi, noi cadremmo ad ogni passo se Dio non ci aiutasse col suo soccorso, né arriveremmo giammai al beato termine della nostra felicità. – Ma come mai la grazia di Dio perfeziona in noi la grand’opera della nostra predestinazione? Questo è quanto convien ancora dirvi per farvene conoscere l’eccellenza, e per una conseguenza necessaria, la colpa di coloro che ne abusano. Questa grazia, dice s. Agostino, ha due prosperità: essa illumina le nostre menti e muove i nostri cuori; Illuminando le nostre menti, essa c’insegna ciò che non sappiamo: ut innotescat quod latebat. Movendo i nostri cuori, ci fa amare ciò, che non ci piaceva: et suave fiat quod non delectabat, gratiæ Dei est. Sì, fratelli miei, è la grazia di Dio, che dissipa le tenebre della nostra ignoranza  che ci scopre le insidie dei nostri nemici, i pericoli della salute, e c’istruisce dei nostri doveri. – Sono buoni pensieri, che Dio ci ispira, lumi che sparge nella nostra anima, quelli che ci fan conoscere il male che dobbiamo evitare ed il bene, che dobbiamo fare. Questa grazia opera altresì sopra i nostri cuori, sopra le nostre volontà, prevenendole, sollecitandole, aiutandole a fuggir il male e a far il bene, che conoscono. Il che voi provate, fratelli miei, in mille occasioni, allorché sentite dentro di voi quei buoni movimenti, che vi portano al bene; allorché dopo la lettura d’un buon libro, dopo una viva esortazione, allorché alla vista d’ una morte subitanea, d’un avvenimento funesto, o anche indipendentemente da qualche causa straniera, vi sentite stimolati, sollecitati interiormente a lasciar il peccato, a rinunciare alle occasioni, a staccarvi dai beni, dai piaceri del mondo, praticar la virtù, e fare una limosina, una mortificazione, ed accostarvi ai sacramenti; è la grazia di Dio, che produce in voi queste sante inspirazioni, questi pii movimenti: e quando vi arrendete ai suoi inviti, ella è ancora che vi aiuta a fare ciò che domanda da voi, e che non potreste fare da voi medesimi senza il suo aiuto. Finalmente, fratelli miei, è la grazia di Dio, che converte il peccatore, che fa perseverare il giusto, che corona i santi: niente di tutto ciò si farebbe senza di essa. Quanto sono dunque colpevoli coloro, che chiudono gli occhi alla luce della grazia e resistono alle sue inspirazioni! – Dio, per un puro effetto della sua bontà, vuol rendere felici gli uomini di cui Egli poteva star senza, cui poteva lasciar nel nulla. Conferisce loro la sua grazia per meritare il posto che loro ha apparecchiato nel suo regno, dove essi non possono giungere senza l’aiuto di questa grazia; e questi uomini ingrati verso Dio, ciechi ed insensibili sopra i loro veri interessi, dispregiano il dono celeste, rigettano il rimedio che Dio loro offre per guarirli, il pane che loro dà per poter cibarli, la luce che fa risplendere per rischiararli; essi calpestano i doni, che la liberalità d’un Dio sparge su loro per arricchirli; preferiscono le tenebre alla luce, beni transitori a beni eterni, uno stato di morte e di miseria ad uno stato di vita e di felicità. Qual ingratitudine verso la bontà di un Dio sì liberale per miserabili creature! Dio ha avuto la bontà di cavare un povero dalla polvere e dal fango ove era immerso, a fine d’innalzarlo sopra un trono di gloria, suscitat de pulvere egenum; e questo povero non vuol profittare della sua buona sorte. Questo verme della terra non si degna di ascoltare il Creatore che lo chiama, dice s. Bernardo: egli ama meglio restar nel fango che uscirne. Questo peccatore insensibile alla voce del suo Dio attende ai divertimenti del secolo, alle follie del mondo; egli antepone la schiavitù del demonio alla felice libertà dei figliuoli di Dio. Lo ripeto, qual oltraggio quale infedeltà verso chi l’ha tanto amato! – Eppure tale è la vostra ingratitudine o peccatori, che mi ascoltate, allorché voi soffocate quei buoni pensieri, resistete a quei buoni movimenti, che vi stimolano, che vi sollecitano a ritornare a Dio, a rompere quelle corrispondenze malvage, che vi tengono allacciati al mondo, ai piaceri, all’oggetto d’una cieca passione, a restituire quei beni mal acquistati, a correggervi di quell’abito in cui marcite da sì lungo tempo, a riconciliarvi con quel nemico, che non potete vedere né soffrire. – Oimè! forse nell’istante ch’io vi parlo, il Signore vi porge la mano per aiutarvi onde vi rialzate: exurge a mortuis (Eph.), voi, ben lungi di porgergli la vostra per aiutarvi da voi medesimi ad uscir dall’abisso, non vi degnate neppure di ascoltar la sua voce, non siete né tocchi dalle sue carezze, né intimoriti dalle sue minacce, voi soffocate i rimorsi della coscienza che vi fa sentire la vostra disgrazia; voi dispregiate gli avvisi dei predicatori, per cui mezzo Dio vi fa intendere la sua voce, mentre questi sono i mezzi di cui servesi Dio per avvertirvi, per rimettervi sul buon sentiero. – Insensibili a tutte queste voci, con cui Dio vi parla, voi restate nell’inazione e nella trascuratezza, e con una ostinata resistenza alla grazia lo combattete, come i Giudei, con un cuor duro ed incirconciso. Schiavi d’una vile creatura, cui voi date la preferenza sul vostro Creatore, amate meglio perdervi con essa, che salvarvi abbandonandola. Voi amate meglio perdere la vostra anima, rinunciare al cielo e dannarvi, che privarvi d’un piacere che passa, d’un bene fragile che non vi appartiene, e che non potete portar con voi. Ah! non meritate voi forse, e con ragione, i rimproveri, che s. Stefano faceva altre volte ai Giudei sopra la loro continua resistenza alla grazia? Vos semper Spiritui Sancto resistitis (Act.). Voi resistete sempre allo Spirito Santo, allontanate da voi questo divino Spirito, che vuol fare in voi la sua dimora; voi profanate un tempio, che Egli ha consacrato, calpestate le sue ricchezze, onde ha adornato il vostro interiore, sia perdendo la sua grazia con il peccato, sia ricusando i mezzi che Egli vi offerisce per ricuperarla: Vos semper Spiritui Sancto resistitis. – Ma perché, o peccatori, vi abusate voi in tal modo della grazia del vostro Dio? Forse non ne conoscete il prezzo? Non sapete voi, che essa ha costato il sangue di un Dio, che è il frutto della sua passione e della sua morte, che è un bene che non vi è dovuto? E questo è ciò, che rende ancora più colpevole l’abuso, che voi ne fate. Sì, fratelli miei, la grazia è il frutto della passione e della morte d’un Dio. Essa non ha potuto essere accordata agli uomini, che a questo prezzo. Fu necessario, per meritarcela, che un Dio si umiliasse, si annientasse, divenisse ubbidiente sino alla morte di croce; cioè a dire, fratelli miei, che la grazia ha costato a Dio più che il mondo intero; poiché la creazione del mondo non gli costò che una parola, laddove la grazia gli ha costato il sangue e la vita. Cioè a dire ancora che la grazia vale più che tutti i tesori e le ricchezze della natura. L’oro e l’argento, paragonati ad essa, non sono che fango. Qual delitto non è dunque dispregiare la grazia, rigettarla, abusarne? Gli è dispregiare i patimenti e la morte di un Dio; è come calpestare il suo sangue adorabile; è un rivolgere contro Dio medesimo i suoi propri benefizi e servirsene per oltraggiarlo. Calpestare il sangue di un Dio! Questo pensiero vi fa orrore; ecco nulladimeno ciò, che voi fate quando rendete inutili le ispirazioni della grazia, quando resistete ai suoi movimenti, per seguire i moti d’una natura corrotta, che vi porta ai piaceri da Dio vietati, quando ricusate di fare il bene, che la grazia v’inspira; mentre tutto questo si è abusar della grazia. Vi pensate voi, fratelli miei? E se vi pensate, come potete voi risolvervi a rendervi colpevoli d’un attentato così enorme come quello dei Giudei, che non ebbero orrore di bagnar le loro mani sacrileghe nel sangue di un Dio ch’essi spargevano senza profittarne? Voi avete sparso, come essi, quel sangue prezioso con i vostri peccati e con le vostre resistenze alla grazia; voi ve la rendete inutile, siccome essi hanno fatto con la loro ostinazione a non voler riconoscere per Messia colui che han crocifisso. E a che serve, che Gesù Cristo sia morto per meritarvi tante grazie, giacché voi non ne profittate più dei Giudei e degli infedeli medesimi che non conoscono il dono di Dio? Nel che voi siete più colpevoli di quegl’infedeli, voi che nel seno del Cristianesimo, ove avete avuta la bella sorte di nascere, ricevete una più grande abbondanza di grazie, che quelli che non vi sono. Grazie della divina parola, che v’istruisce dei vostri doveri, che vi fa vedere la bellezza delle sue ricompense, i rigori dei suoi castighi; e voi non volete ascoltare questa divina parola, vi annoiate, ve ne disgustate quando vi si annunzia. Quanti anche ve ne ha, che non penserebbero giammai a udirla! Grazie di buoni esempi, che dovrebbero portarvi al bene; e voi similmente li dispregiate per non seguire che i cattivi, il torrente, i costumi del mondo. Grazie dei Sacramenti, che sono come i canali di quell’acqua salutevole, che scaturisce per la vita eterna e voi non li frequentate, voi ve ne allontanate, come se fosse una disgrazia l’accostarvisi; o se ad essi vi accostate, si è per profanarli col sacrilegio. – Ah! Cristiani, ciechi in mezzo della luce che vi rischiara, cuori insensibili alle attrattive della grazia, voi meritate d’esser trattati al giudizio di Dio con molto più rigore che un’infinità di popoli, i quali non hanno ricevuto tante grazie come voi. Guai a te, Betsaida, dice Gesù Cristo nel Vangelo, guai a te, Corozaim, perché se Tiro e Sidone avessero veduti i medesimi prodigi che voi, avrebbero fatta penitenza; un’infinità di pagani si convertirebbe, guadagnerebbe il cielo, se avesse, non dico già tutte le grazie, ma una parte solo di quelle che avete ricevute voi; se essi fossero istruiti come voi, se avessero come voi i buoni esempi, i Sacramenti, diverrebbero santi. E tutte queste grazie non hanno ancora potuto fare di voi un buon Cristiano! Che però, dice Gesù Cristo, questi popoli saranno vostri giudici e saranno trattati con meno rigore che voi, perché voi siete più colpevoli di essi, per l’abuso, che voi fate delle grazie, che essi non ebbero. – Ciò che rende ancora molto colpevole questo abuso, si è che Dio non vi deve in alcun modo la sua grazia: sebbene la dia a tutti, perché vuol salvare tutti gli uomini, non lo deve però ad alcuno; ella dipende dalla sua pura liberalità, altrimenti non sarebbe un dono gratuito. Molto meno Egli la deve a voi, o peccatori, che ve ne rendete indegni coi vostri peccati; con le vostre continue resistenze alla sua grazia. Voi meritereste che Dio vi abbandonasse alla vostra infelice sorte, che vi lasciasse nella schiavitù del demonio, che vi lasciasse perire eternamente. – Con tutto ciò questo Dio di bontà non vi tratta come meritate. Egli vi cerca ancora nel tempo medesimo che voi lo fuggite; Egli vi offerisce il suo soccorso per aiutarvi ad uscire dall’abisso ove siete caduti; vi stimola, vi sollecita di ritornare a Lui. Per meglio guadagnarvi, la sua grazia si accomoda, per così dire, alle vostre inclinazioni: ella prende , dice l’Apostolo s. Pietro, tante forme diverse, quante trova disposizioni proprie a secondare i suoi disegni: multiformìs gratia Dei (1 Pet. IV). Per disgustarvi dei piaceri, ella vi sparge amarezze: per farvi amar la virtù, ella ve ne fa gustar le dolcezze. Se voi temete di soffrire, essa v’intimorisce con la vista dei castighi che la giustizia di Dio apparecchia ai peccatori: se amate il premio, essa vi attrae con la vista di quelli che la sua bontà riserba agli eletti. Qui vi procura un mezzo di conversione in un buon avviso o in un buon esempio d’una persona che frequentate. Là in una disgrazia che vi accade, ed in mille altre congiunture favorevoli, che vi presenta, essa vi attrae nel modo più proprio a farvi diventare sua conquista. Qual gratuità! Qual circospezione dalla parte d’un Dio, che vuol salvare la sua creatura! Ma quale ingratitudine, quale infedeltà dalla parte di questa creatura, la quale corrisponde sì poco ai favori del suo Dio, che, invece di metterli a profitto, ne fa un perverso abuso! Non merita essa forse i più severi castighi? E il soggetto del secondo punto.

II. Punto. Siccome è proprio della grazia il rischiarar la mente e muover il cuore, per un effetto del tutto contrario, l’abuso, che se ne fa cagiona l’accecamento della mente e la durezza del cuore. Il peccatore, chiudendo gli occhi ai lumi della grazia, induce Dio a privarlo di quella grazia che lo illuminerebbe; il che fa il suo accecamento. Il peccatore, resistendo agl’impulsi della grazia, contrae una funesta insensibilità, che lo riduce al punto da non essere più commosso: il che fa la sua ostinazione. Terribil castigo dell’abuso delle grazie, che deve indurci a farne un santo uso! – Ella è una giusta pena del peccato, dice s. Agostino, che il peccatore sia privato del bene di cui non ha voluto profittare, e che, non essendosi servito delle cognizioni, che aveva per adempiere i suoi doveri, quando poteva farlo, sarà egli talmente accecato che non saprà più ciò che deve fare quando lo vorrebbe. – Questa sottrazione dei lumi e delle grazie, con cui Dio punisce il peccatore, ci è così chiaramente manifestata nelle Sante Scritture, che non si può leggere senza spavento ciò, che lo Spirito Santo ce ne ha rivelato. Or si è un abbandono ove Dio lascia il peccatore; or sono dense tenebre, che si spandono nella sua mente, e che gli impediscono di vedere la verità. Si è un accecamento con cui Dio lo percuote, un allontanamento, che lo separa dal suo cuore e dalla sua rimembranza. Io ho fatto tutto ciò, che ho potuto, dice Dio per uno de’ suoi profeti, per guarir Babilonia, e questa città ingrata non ha voluto profittare delle mie cure: l’abbandono adesso al suo fatale destino: Curavìmus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam (Jer. LI). Questo abbandono ci è ancora rappresentato sotto la figura d’una vigna che Dio non vuol più coltivare. Che cosa poteva fare, dice Egli, alla mia vigna, che non abbia Io fatto, per farle portar frutti buoni? Io l’aveva piantata in buon terreno; ne aveva tolte le pietre e i triboli; aveva innalzato una torre in mezzo per difenderla dai suoi nemici; l’aveva fatta attorniare d’una forte siepe per renderla impenetrabile ai ladri; dopo tutte queste precauzioni ho creduto che essa porterebbe del frutto. Ho aspettato un anno, due anni, tre anni, e dopo tutto questo tempo, essa non ha prodotto che lambrusche: expectavi, ut faceret uvas, et fecit lambruscas (Isai: V). Ma poiché questa vigna ingrata non ha corrisposto alla mia aspettazione, ecco il trattamento ch’Io le farò: l’abbandonerò, farò tagliar la siepe che la difendeva, auferam sepem eius; e quindi diverrà la preda dei suoi nemici, erit in direptionem; essa sarà rovinata, e fuori di stato di portar buoni frutti; non vi alligneranno più che triboli e spine. – Riconoscete, peccatori, sotto questa sensibile figura, qual è la vostra disgrazia, e quale n’è la cagione; Dio vi ha coltivati, come una vigna che gli era cara. Egli ha piantata questa vigna in un buon terreno, facendovi nascere nel seno della Chiesa; Egli l’ha innaffiata con le acque salutari della sua grazia, l’ha riscaldata coi raggi del sole di giustizia; l’ha fortificata contro i suoi nemici con i potenti aiuti, che le ha dati, con i Sacramenti e con tutti i mezzi di salute che le ha potuto procurare, e voi, invece di produrre buoni frutti, invece di corrispondere alla grazia di vostra vocazione con la pratica delle buone opere e delle virtù cristiane, voi non avete prodotto che frutti d’iniquità. Dio non vede in voi che triboli e spine, funesti rampolli delle passioni da cui vi lasciate predominare. I neri vapori, i fuochi perversi, che eccitano in voi queste passioni v’impediscono di vedere la luce del sole che v’illumina: super cecidit ignis, et non viderunt solem (Ps. XXXVII.) – Ma apprendete qual sarà la vostra sorte.Dio non farà più risplendere su di voi il suo sole; dense tenebre s’impadroniranno della vostra anima, che le faran perdere di vista il fine per cui ella è stata creata, e i mezzi di per venirvi. Dio non farà più cadere su di voi la rugiada celeste della grazia, e la vostra anima non sarà che una terra arida, che non porterà alcun frutto; esposta alle occasioni pericolose, non ne conoscerà gli scogli; abbandonata alle tentazioni del demonio, alla tirannia delle sue passioni, essa ne diverrà lo scherno, ne seguirà tutte le vie inique, cadrà di abisso in abisso, e dall’abisso del peccato nell’abisso dell’inferno.Tali sono, fratelli miei, le funeste estremità, a cui conduce l’abuso, che si fa delle grazie di Dio; si è la disgrazia, che Gesù Cristo ci rappresenta nel suo Vangelo sotto la figura di Gerusalemme distrutta ed abbandonata al furore dei suoi nemici. Ah! se tu avessi conosciuto, diceva questo Dio salvatore piangendo nell’avvicinarsi a questa città, e se in questo giorno , ch’io ti parlo tu conoscessi ancora ciò che può far la tua pace! Ma tutte le cose sono al presente nascoste ai tuoi occhi, verrà un tempo, infelice, per te, in cui i tuoi nemici ti circonderanno, ti assedieranno e ti chiuderanno da tutte le parti; spianeranno le tue case, stermineranno i tuoi abitanti, e non lasceranno pietra sopra pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo della tua visita: eo quod non cognoveris tempus visitationis tuæ (Luc. XIX) Questi tempi infelici sono venuti; le predizioni di Gesù Cristo si sono verificate; l’ingrata Gerusalemme, che Dio aveva governata con le sue leggi, che aveva ricolma dei suoi favori, è stata distrutta e rovesciata dai fondamenti, perché non ha conosciuto Colui che veniva per sua felicità, ha chiusi gli occhi alla luce che la illuminava, e non ha voluto ricevere il Messia che le era inviato da Dio. – Or non era tanto la distruzione della città di Gerusalemme, il rovesciamento delle sue case, che cavavan le lagrime dagli occhi di Gesù Cristo, quanto l’accecamento in cui eransi immersi i suoi abitanti, non volendo riconoscerlo, e lo stato di tenebre e di desolazione in cui doveva cadere nella serie dei secoli quella nazione incredula. Il che possiamo noi osservare in quelle parole in cui Egli le dice, che i misteri, che era venuto a rivelare sono al presente nascosti ai suoi occhi: nunc ascondita sunt oculis tuis. Le aveva Egli anche predetta questa disgrazia allora quando le annunciava che i figliuoli del regno sarebbero scacciati e gettati nelle tenebre esteriori, mentre ali stranieri verrebbero a prendere il loro posto nel cielo con Abramo, Isacco e Giacobbe: Filii regni eiicientur in tenebras exteriores. Si è veduto e si vede tuttora l’adempimento della sua profezia nella riprovazione dei Giudei, e nella vocazion dei gentili. I Giudei erano figliuoli del regno, erano il popolo eletto di Dio, ricolmi delle sue benedizioni e dei suoi favori; ma perché non hanno ricevuta la visita del Signore, sono stati percossi d’accecamento; essi sono esclusi dal regno di Gesù Cristo, ove i gentili, gl’infedeli sono stati ammessi. Siete voi, Cristiani miei fratelli, presentemente i figliuoli di questo regno; voi siete, che Dio ha chiamati per una grazia speciale alla sua ammirabil luce. Ma se, come i Giudei, voi chiudete gli occhi a questa luce, se non profittate della visita del Signore, Egli vi toglierà quelle grazie di cui avrete abusato, per darle ad altri, che ne faranno un miglior uso. Gli stranieri occuperanno i posti che Egli vi aveva apparecchiati nel suo regno. Verrà il tempo, anima infedele alla grazia, che tu sarai come Gerusalemme, circondata, assediata dai tuoi nemici; e il demonio, il mondo, la carne, ti daranno l’assalto: e perché non avrai conosciuta la visita del tuo Dio, ed avrai dispregiate le sue grazie, tu sarai privata dei celesti aiuti; i tuoi nemici s’impadroniranno delle tue ricchezze, rovesceranno l’edificio spirituale della tua salute e ti precipiteranno nel profondo delle disgrazie. – Temete, fratelli miei, un castigo sì rigoroso della divina giustizia; castigo molto più terribile che non le perdite dei beni, le malattie, i sinistri accidenti con cui Dio affligge gli uomini; poiché questi mali possono essere, con il farne buon uso, mezzi di salute e di predestinazione, laddove la sottrazione delle grazie non può condurre che alla riprovazione eterna. Ah! Signore, dovete voi dire, punitemi piuttosto in tutt’altro modo; toglietemi i beni, la riputazione, la sanità piuttosto, che allontanarvi da me con la sottrazione delle vostre grazie. Io sono risoluto, per evitare questa sciagura, di esser fedele a questa grazia, di metterla a profitto sino alla minima parte, di nulla trascurare di ciò, che questa divina grazia mi inspirerà di fare per la mia salute. Voi lo dovete tanto più, fratelli miei, perché se trascurate questa grazia di Dio, se le resistete, dall’accecamento della mente cadrete nella durezza del cuore; altro effetto dell’abuso delle grazie. – Benché severa sia la giustizia di Dio nella sottrazione delle grazie con cui ella punisce il peccatore che ne abusa, essa non porta per altro la sua severità sino a privarnelo affatto. In qualunque stato sia il peccatore, può e deve sperare la salute. Egli ha per conseguenza gli aiuti necessari per salvarsi; il suo male non viene dunque tanto dalla sottrazione della grazia, quanto dalla fatale insensibilità che si contrae resistendovi. Mentre, a supporre, come noi dobbiamo credere, che Dio dà al peccatore medesimo che abusa della grazia, quelle che gli sono necessarie, esse a nulla gli servono, perché non fanno su di lui veruna impressione. E perché non fanno impressione alcuna su quel peccatore? Perché, a forza di resistervi, nulla più lo commuove. Simile ad un infermo, che a forza di prendere rimedi vi si avvezza finalmente, e non ne riceve alcun sollievo, il peccatore con la sua ostinazione distrugge tutta la virtù della grazia, che è il rimedio allo sue passioni. Indurito e come pietrificato nella colpa, egli è sordo alla voce di Dio, in qualunque guisa se gli faccia essa intendere: Impius, quum in profundum venerit, contemnit (Prov. XVIII). Se egli ascolta la divina parola, non è punto commosso, perché nulla gli si dice che non abbia già molte volte udito, e di cui non abbia profittato. Vede egli buoni esempi, e non ne diventa migliore; frequenta i Sacramenti, e non ne riceve il frutto, perché non vi arreca le disposizioni necessarie; li profana all’opposto senza scrupolo e senza rimorso, perché ne ha già più volte abusato. In una parola, il peccatore che abusa della grazia di Dio, non è ammollito da alcuna pratica di divozione né intenerito dalla solennità dei misteri né commosso dalle preghiere né spaventato dalle minacce, né allettato dalle ricompenso; egli non ha né timor di Dio, né carità per il prossimo; egli dispregia tutti gli avvisi che gli si danno, non si corregge per le avversità, si perde nelle prosperità, si fa una fronte di bronzo, che non arrossisce delle cose più vergognose. – Tale è il ritratto che fa s. Bernardo di un cuore indurato. E non è forse quello di un gran numero di coloro, che mi ascoltano? Quanti vediamo noi al giorno d’oggi Cristiani duri ed insensibili a tutto ciò, che si può loro dire per rimetterli nelle vie della salute, che viver vogliono a modo loro? Essi non vorrebbero alcun esercizio di religione né preghiere né parola di Dio né Sacramenti; vanno sino a tal segno di accecamento, di ostinazione, che giustificar vogliono la condotta più sregolata a far credere i più gravi disordini come cose permesse. Donde viene questo male, fratelli miei? Dall’abuso, che han fatto delle grazie di Dio; essi si sono con la loro ostinazione ridotti in tale stato da non essere più spaventati dai pericoli che li minacciano, e da non voler prendere alcuna precauzione per evitarli. Sono tanti Faraoni ostinati, che vedrebbero i miracoli dell’onnipotenza di Dio senza esserne punto commossi. Le pietre e le rupi si spaccherebbero più tosto che questi cuori insensibili alla voce dei ministri del Signore, che loro parlano”. Ed è ciò, che è riferito nella Scrittura d’un re d’Israele, cui Dio inviò un profeta per riprenderlo dell’empietà scandalosa, che l’aveva spinto a salire sull’altare per offrir incenso agli idoli. Il profeta non indirizzò la parola al re, ma all’altare, che si aprì infatti alla voce del profeta, mentre il cuore del re rimase stupido. – Ecco lo stato deplorabile dei peccatori che abusano della grazia; si sono induriti ai suoi colpi più penetranti. Oh quanto è a compiangere questo stato! Se questo e il vostro stato, peccatori che mi ascoltate, piangete voi medesimi la vostra disgrazia, e prendete tutte le precauzioni per uscirne, mentre v’è ancor tempo di ripararla. Dio si degna ancora farsi udire a voi non vogliate dunque indurire più oltre i vostri cuori alla sua voce: Hodie si vocem..

Pratiche. Non dispregiate davvantaggio le ricchezze della sua bontà e della sua pazienza per timore d’ammassar un tesoro d’ira, che cadrà su di voi nel giorno delle sue vendette. Profittate del tempo delle misericordie; aprite gli occhi alla luce, che vi rischiara, per uscir dalle tenebre del peccato e rientrar nelle vie della giustizia. Egli è sì lungo tempo, che la grazia vi stimola a riformar i vostri costumi per seguire un sentiero diverso da quello che sinora seguiste. Non differite dunque a fare quel che dovreste già aver fatto da così lungo tempo. Profittate della grazia che vi è data, la quale forse non ritornerà più. La grazia è un lampo che passa; bisogna profittar senza dilazione della sua luce. A voi, giusti, come a voi, peccatori, s’indirizza questo avviso. Non contate punto sopra una grazia avvenire, che non vi è in alcun modo dovuta; mettete a profitto quella, che vi è data: se voi cooperate a questa grazia, Dio ve ne darà un’altra in ricompensa della vostra fedeltà, che deciderà della vostra conversione, se siete peccatori, o della vostra perseveranza, se siete giusti. Ma se voi abusate di questa grazia, forse quella che deve decidere della vostra eterna sorte, non ritornerà più, Imperciocchè evvi una certa misura di grazie, passate le quali il Signore non dà più quello di scelta e di predilezione, che rendono la predestinazione certa. Egli è dunque molto importante il mettere a profitto le grazie, che Dio vi dà, perché ve ne ha alcune, che decidono della nostra felicità eterna, e forse saranno quelle che trascurerete. – Questo è ciò, che deve, fratelli miei, vivamente eccitare la vostra vigilanza e la vostra attenzione a corrispondere alle grazie di Dio, in qualunque stato voi siate. Mentre conviene osservare, che non sono solamente i gran peccatori, che abusano della grazia, ma sono ancora quei Cristiani indolenti e codardi, che non si credono troppo colpevoli, perché non cadono in grandi disordini e non fanno ingiuria ad alcuno, ma non fanno buone opere, né mettono a profitto le occasioni che hanno di far del bene. Sono ancora quei Cristiani vili e tiepidi, che commettono senza scrupolo piccoli mancamenti, che menano una vita tutt’altro che penitente e mortificata, che accordano alla natura tutte le soddisfazioni che domanda, che trascurano le pratiche di pietà proprie a mantener il fervore; in una parola che resistono a molte grazie, che li leverebbero ad una virtù più perfetta. A forza di resistere a queste grazie, cadono insensibilmente nella colpa, in una specie d’accecamento e di durezza di cuore, in qualche modo più difficile a guarire, che quella dei gran peccatori. – Degnatevi, o Signore di spargere sul vostro popolo qui radunato, quelle grazie forti e potenti che lo tocchino e lo cavino dalla sua miseria. Benché induriti siano i peccatori, la sorgente delle grazie non è esausta per essi; se sono sensibili ai tratti della vostra misericordia si convertiranno, cangeranno di costumi e di condotta, i tiepidi diverranno più ferventi, più umili, più mortificati. Tale è il frutto, ch’io mi propongo di trarre da questa istruzione. – Per assicurarvi, fratelli miei, queste grazie di scelta e di predilezione, cui i giusti medesimi non hanno alcun dritto, siate fedeli ad evitare sino i mancamenti più leggieri, che sono un ostacolo a quelle grazie, e che le allontaneranno da voi. Siate puntuali ad adempiere i più piccoli doveri del vostro stato, le pratiche di pietà che debbono regolare la vostra vita, perché Dio ha annesse grazie particolari alla fedeltà nelle più piccole cose. Iddio ci domanda poco per darci molto. Una preghiera fatta nel tempo notato, una lettura, un esercizio di divozione, una visita al ss. Sacramento, una piccola limosina data ai poveri, una mortificazione leggera, ci possono ottenere grazie speciali di predestinazione. Così, benché la grazia sia indipendente dai nostri meriti, la nostra salute è sempre nelle nostre mani, perché non dipende che da noi, cooperando alle grazie, che Dio ci dà, di attirarne delle più abbondanti, delle più forti, che rendano certa la nostra felicità eterna; non manchiamo, dunque più alla grazia, e la grazia non ci mancherà. Seguitiamo tutte le inspirazioni, che ci vengono dal cielo; lasciamoci condurre dallo spirito di Dio, che ci farà vivere, dice s. Paolo, e non ascoltiamo punto la carne, che ci farà morire. Se noi siamo docili agli impulsi dello Spirito Santo, siamo sicuri d’essere figliuoli di Dio: Quicumque spiritu Dei aguntur , ti sunt filii Dei (Rom. VIII). E se siamo figliuoli di Dio, noi saremo eredi del suo regno, che divideremo con Gesù Cristo suo figliuolo: Hæredes quidem Dei, cohæredem autem Christi (ibid.) Il che io vi desidero.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (121)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXIII.

Della necessità di una vera religione, e del modo di scorgerla tra le false.

I . Se vi ha un Dio nell’universo, v’ha provvidenza. Se v’ha provvidenza, l’anima dunque è immortale. E se l’anima è immortale, forza è che vi sia qualche religione, e religion vera, la quale da tale anima si professi. Eccovi una bella catena d’oro tratta da ciò che si è discorso finora per arrestare i pensieri insolenti degli ateisti.

I.

II. Rimane solo di mostrar loro quest’ultima verità, cioè a dire, la necessità di una vera religione da professarsi (È un fatto di esperienza, che di religioni se ne danno parecchie, diverse ed opposte, come è un pronunciato di ragione, che fra le contrarie religioni dall’umanità professate, una sola può essere la vera e questa necessaria). Ma questo è facile. Conciossiachè, se quella divinità che riconosciamo, non è addormentata, ma provvida, conviene che ella abbia qualche bersaglio a cui ordini l’universo, non intendendosi altro per provvidenza, che una ragione d’indirizzar saggiamente i suoi mezzi al fine. Or questo bersaglio dove ha rimirato Dio nella formazion delle cose non può essere altro che Egli medesimo, il quale, com’è il primo principio di tutte loro, così debb’esserne ancora l’ultimo fine. Non già perché da ciò mai risulti alla sua natura divina alcun pregio intrinseco (non potendo Egli, che è abisso di perfezione, né crescere, né calare dentro di sè), ma perché gliene ridondi bensì qualche onor estrinseco, in virtù di cui soddisfaccia a quella soave inclinazione che Egli ha di essere amato dalle sue creature, e riconosciuto quale lor benevolo autore. Sicché il formar questo mondo non fu altro alla fine, che l’alzare un tempio sontuoso al suo Nome: ed il moltiplicarvi lo creature ragionevoli, non altro fu, che un moltiplicarvi gli adoratori. Ma se è così, fu conseguentemente di espressa necessità, che manifestasse anche agli uomini in qual maniera Egli amasse più di venir da loro adorato in così bel tempio; e con qual culto, con quali cerimonie, con quali riti si dovesse procedere in dargli omaggio. Stabilire ciò fu appunto stabilire la religione di cui si cerca: mentre la religione altro non è che una virtù, che ci tiene legati a Dio con quell’ossequio speciale, che Egli da noi chiede, qual principio dell’esser nostro, e qual fine (S. Th. 2. 2. q. 31. a 1).

III. Che se la bontà divina ha per costume di accoppiare continuamente alla gloria propria l’utilità delle creature, e massimamente di quelle che son capaci di conoscere il loro Autore, e di amarlo, quali sono le ragionevoli; anche per questo capo non potea non esservi qualche vera religione, in virtù di cui divenissero gli uomini più perfetti (Ib. a. 7. in e). E chi non sa che la perfezione di qualunque cosa inferiore consiste in soggettarsi del tutto alla superiore, come si scorge nell’aria, che allora diventa più sincera e più splendida quando si lascia più dominare dal sole? Convenne adunque che a voler essere gli uomini più perfetti si sottoponessero bene a Dio, sì con l’anima, sì col corpo: il che allora accade, quando il corpo co’ riti esterni accompagni l’anima nelle protestazioni interne che tra sé rende alla divina maestà: protestazioni sempre di nuovo merito per la fede, che l’uomo sempre rinnova in esercitarle.

IV. Questa religione poi, che è un beato composto, e d’insegnamenti ad onorar Dio, e di mezzi da guadagnarselo, era parimente di somma necessità al vivere scambievole delle genti in tranquilla unione. Perché, quantunque la giustizia terrena, qualor armata ella va di pene e di premi, sia qualche poco abile a raffrenarle, non è abbastanza; mentre chi occultamente sapesse condurre a fine i suoi disegni perversi di rubare, di ammazzare, di adulterare, si riderebbe di tutte le leggi umane, le quali possono strepitare bensì contra falli noti, ma che possono fare contra i nascosti? Al perfetto governo della repubblica era pertanto necessario anche più il timore di leggi non disprezzabili quali sono le divine. E queste appunto son quelle che intuona al cuor di ciascuno la religione, armata anch’essa e di premi e di pene, ma di altro peso, da compartirsi nella vita di là, che non ha mai fine.

V. Quindi è che la religione parve ad alcuni invenzione sagace della politica, tanto vale al ben governare: Nulla res multitudinem efficacius regit, quam superstitio (Curtius). Ma non considerarono questi sciocchi che la politica non può a veruno fare mai credere fermamente sopra ogni cosa ciò che non gli può dimostrare. Vi vuole a tanto quella grazia interiore, la quale non è potere della politica. Questa al più al più potrà fare tenere per verisimili quegli articoli, che ella va ordinando a capriccio, ma non potrà mai farli indubitatamente tener per veri. E l’opinione ben può fino a certo segno contenere i popoli in freno, ma debolmente, mentre a lei vacilla la mano. Piuttosto da ciò mi giova ritorcere l’argomento in sì fatta guisa. Se affìn di contenere i popoli a freno, è buona una religione anche immaginata, quanto migliore dunque sarà una reale? E se la reale è migliore, chi potrà per questo medesimo dubitar ch’ella non vi sia? Ne ha da sapere un uomo più che Dio stesso ad architettarla? E pur sarebbe così, quando non Dio, ma l’uomo fosse colui il quale avesse inventato un morso sì forte al vizio, e un incentivo sì nobile alla virtù; e ad un tal uomo più dovrebbe il genere umano per lo conseguimento del suo ben vivere, di quello che dovesse al medesimo Creatore per lo conseguimento del puro vivere.

VI. Di poi chi avrebbe potuto la prima volta fingere al mondo una religione non vera, se non a similitudine di una vera che già vi fosse? La copia presuppone l’originale. Il corpo è più antico dell’ombra. Né mai fu prima il ladro a formar la moneta falsa: fu prima il principe a fabbricarne la vera.

VII. Finalmente come potrebbe mai la natura umana, ch’è ragionevole, cavare il suo prò maggiore dalla bugia, che è il maggior nimico ch’ella abbia? La ruggine non perfeziona il ferro, ma lo consuma. E così veggiamo che le religioni bugiarde, non solamente non hanno aiutata mai la natura umana ad operar da quella che ella è, cioè a dire da ragionevole: ma l’hanno fatta degenerare in brutale, come chiaramente si scorge dai tanti vizi, e di alterigia e di senso e di spietatezza che sotto quelle hanno sempre in lei dominato, più che tiranni. Quella religione che riesce giovevole al buon governo è la vera sola, cioè quella la quale fa che l’uomo in terra conosca il suo primo principio, e per conseguente anche il suo ultimo fine, e che a lui si unisca. Onde come i tempi più sontuosi valgono molto ad adornar le città, benché non siano di primaria intenzione eretti per adornarle, ma siano eretti per rendere culto al cielo; così la religione, benché di sua natura sia stabilita ad omaggio del Creatore, giova di riflesso alla vita civile incredibilmente.

VIII. Ripigliando dunque da capo: se Dio v’è, e v’è provvido, e v’è possente, tocca dunque a Lui di vedere come gli piaccia di rimanere onorato dagli uomini in su la terra, non tocca agli uomini di determinare come abbiano ad onorarlo (S. Th. 2. 2. q. 81. art. 2. ad 3). E posto ciò, non vi può esser religìon sussistente, la qual non sia da Dio rivelata di bocca propria (Suarez de fide disp. 4. sect. 1): non già ad ogni uomo il quale a mano a mano entri al mondo, che saria troppo; ma solo da principio ad alcun di loro che l’abbia poi con le sue debite prove trasmesse ai posteri. Che però tutto il nostro studio ha da consistere in questo, in ravvisare la religion da Dio rivelata. Fatto ciò non altro più ci rimane, che andare incontro a quell’unica, e genuflessi baciarle i piedi con intimo sentimento di cattivare ogni nostro orgoglio a’ suoi detti, come a’ divini.

II.

IX. Dove son però quegli audaci, i quali arrivano a dire per loro gloria che non veggono ancora terreno fermo su cui fondare la loro instabil credenza: e perciò riposandosi agiatamente sopra una tale ignoranza, benché supina, come sopra una coltrice di saviezza giacciono in alta notte d’infedeltà, ostentando ancora ad altrui questo loro tenebre, assai più di quegli abissini, tra cui si vanta, quasi più chiaro di volto, chi l’ha più nero? Ah che troppo è bestiale cotesto loro riposo, e troppo ancora è mortale! È bestiale, perché è da bestia non volersi chiarir di una verità così rilevante, che non si può non trovare da chi la cerchi con animo disappassionato, tante sono le faci acceso a scoprirla. Ed è mortale, perché siccome la vera Religione si regge su la vera fede, così la vera speranza della salute si regge su la vera Religione. Dove manchi un tal fondamento, non si può alzare altra molo che rovinosa.

X. Chi però ebbe sorte di nascere in grembo alla vera fede ne ringrazi Dio giornalmente. Chi non ebbela, che ha da fare? Vadane in cerca: né si dia pace finché non giunga a trovarla. Quel Dio, che come prima verità ha manifestati all’uomo gli articoli che egli ha da tenere, e che come prima santità gli ha palesate le virtù parimente che egli ha da esercitare, se vuol salvarsi, non ha favellato di modo che non si possa il suo linguaggio capire da chiunque, sciolto da qualunque perversa anticipazione, cerchi con piena sincerità, non di convincere altri, ma sé medesimo; non di cavillare, ma di credere; non di contendere, ma di capacitarsi. Un panno inzuppato nell’acqua non è atto a imbevere la grana; ma si asciughi ben bene, e la imbeverà.

XI. Oltre a ciò il medesimo Dio sta sempre pronto ad aggiungere nuovi lumi alla fiacca mente, nuovo calore alla fiacca volontà, per cui più soavemente ci affezioniamo allo sue voci, come a veridiche, e alle sue leggi, come a vitali; purché riconoscendo la legittima fede qual dono sommo di Lui, ci forziamo con umilissime suppliche di ottenerlo dalle sue mani, con intenzione di volergliene vivere sempre grati. Non lasciò mai di trovar Dio chi cercollo sinceramente: giacché quanto Egli si nasconde a’ superbi, amatori di se medesimi, tanto si scopre agli umili amatori non di sé ma del vero, il quale alla fine altro non è che Dio stesso: Abscondisti hæc a sapientibus et a prudentibus: et revelasti ea parvulis.