IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (1)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (1)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

Il merito nella vita spirituale

NIHIL OBSTAT

Fr. ÉT. LAJEUNIE Fi. P. BOISSELOT

Lecteur en théologie. Lecteur en théologie.

Fr. J. PADÉ Pr. Prov.

Parisiis, 15 Sept. 1935.

NIHIL OBSTAT

F. MAINIL, cens. libr.

IMPRIMATUR

Tornaci, die 11 Octobri 1935

J. LECOUVET, vic, gen

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE

La vita spirituale non è altro che la vita del merito; perché se la vita dell’anima è grazia. Patto di questa vita è l’atto meritorio. Camminare sulla via della perfezione significa avanzare nel merito; c’è quindi progresso o regresso, a seconda che il merito cresca o si fermi. Questo è ciò che dovrebbe essere l’esame di coscienza nei giusti. Fare l’equilibrio nella vita spirituale significa determinare in che misura la somma dei nostri meriti superi quella dei nostri demeriti. È quindi importante spiegare la dottrina cattolica su questo tema e ricordare i principi teologici che sono alla base della vera spiritualità. Il nostro studio prenderà in esame questi punti essenziali, evidenziando come si proceda lungo le applicazioni dell’ordine pratico: la nozione di merito, le condizioni di merito, il principio del merito, l’entità del merito, la ricompensa del merito.

I.

LA NOZIONE DEL MERITO

Questa deriva dalla nozione stessa della grazia, di cui il merito è il germoglìo, la fioritura, il frutto e la corona. La Grazia è chiamata dalle Sacre Lettere una seconda nascita immacolata, incorruttibile, che ci dà il titolo e la qualità di figli di Dio: Sono nati da Dio, dice San Giovanni (S. Giovanni I, 13: “ex Deo nati sunt“). E San Pietro: Tu sei rigenerato non da un seme corruttibile ma incorruttibile (I Pietro, I, 23: “renati non ex semine corruptibili, sed incorruptibili“.2). Chiamati figli di Dio, noi lo siamo in effetti (I Giovanni, III, 1: “ut filii Dei nominemur et simus“). Dopo il nostro Battesimo, nostro padre e nostra madre, contemplandoci con amore nella nostra culla, hanno detto di noi in un dolce trasporto: « Rallegriamoci, ci è nato un figlio! » La famiglia celeste, l’adorabile Trinità, che si china ancora più teneramente su quella stessa culla, ha detto di noi: Ci è nato un Dio, un uomo è nato da Dio, ex Deo nati sunt. Ma cosa ci dà la nascita? La caratteristica della generazione è quella di comunicare un Essere fisico simile al principio che genera: nascere è ricevere da un vivente qualcosa di lui che passa in noi, e che rimane sempre come suo specchio e sua immagine; in una parola, è una nuova natura che sboccia al sole di una nuova vita. Nascendo dall’uomo, noi riceviamo una natura umana e riproduciamo la figura dei nostri genitori; nel nascere da Dio, noi dobbiamo partecipare alla natura divina per riflettere il volto divino. Questo è ciò che ci insegna la scrittura. Dopo aver detto che la grazia è la nostra seconda creazione, una seconda nascita, nova creatura, renati, la si chiama comunione all’Essere di Dio, una partecipazione della sua natura: Divinæ consortes naturæ (II Pietro 1,4: – Vedi il nostro libro: Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a edizione, p. 128). – Se abbiamo ricevuto per grazia una natura divina, dobbiamo avere operazioni dello stesso suo ordine. Secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, il Cristiano è un “Dio in fiore”; esso deve portare frutti divini, cioè operazioni degne di Dio.  Da quel momento in poi, c’è un triplice valore soprannaturale nelle opere del giusto:

Il valore meritorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come degno di ricompensa;

il valore soddisfattorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come riparazione per l’offesa fatta all’infinita Maestà;

il valore impetratorio è la proprietà che possiede la preghiera del giusto, come divina, di ottenere da Dio i beni necessari o utili alla salvezza.

Il merito è come la radice ed il fondamento degli altri due valori, e si potrebbe anche dire che la soddisfazione e l’impetrazione sono una sorta di merito, perché l’opera santa è degna o meritevole dell’accettazione di Dio come riparazione, e la preghiera fatta in stato di grazia e nel nome di Cristo è degna di essere ascoltata da Dio. Ma, prese nello stretto senso, queste nozioni devono essere accuratamente distinte. Il merito si riferisce soprattutto al diritto alla ricompensa, che è l’aumento della grazia in questo mondo, la gloria e l’aumento di gloria nell’altro; la soddisfazione si riferisce alla riparazione dell’offesa; l’impetrazione implica l’efficacia della preghiera in relazione ai beni della salvezza, e l’anima in stato di peccato mortale, non potendo ancora meritare, può pregare. – Il merito è personale, nel senso che l’uomo giusto non può meritare de condigno per gli altri, a meno che non sia costituito il capo morale dell’umanità; la soddisfazione può essere ceduta agli altri; l’impetrazione si estende al di là del merito, perché la perseveranza finale cade al di fuori della sfera del merito, mentre rientra in qualche modo nell’ambito dell’impetrazione, essendo stata promessa da Cristo alla preghiera perseverante fatta nel suo nome. La soddisfazione ha diversi aspetti: dal momento che l’opera del giusto calma l’ira di Dio, essa è propiziatoria; dal momento che inclina Dio a cancellare la colpa del peccatore, è espiatoria; poiché paga il debito dovuto alla giustizia divina, è propriamente soddisfattoria. La propiziazione agisce prima della remissione del peccato, rendendo propizio il Dio irritato dalla colpa; l’espiazione mira alla remissione stessa del peccato, che si fa mediante la grazia santificante; la soddisfazione viene dopo la giustificazione e mira alla soluzione della pena, una volta cancellata la colpa. (cf. “Il Mistero della redenzione” – 2a ed., pp. 262-3). – È soprattutto questo primo valore che consideriamo qui. C’è il merito propriamente detto, il merito della condegnità de condigno, quando l’opera è veramente degna della sua ricompensa, quando c’è una sorta di uguaglianza o proporzione tra le due, in modo che la ricompensa sia dovuta a titolo di giustizia; il merito di convenienza, “de congruo”, è quello che si basa non sulla stretta giustizia, ma su certe esigenze morali che il Remuneratore misericordioso non manca mai di soddisfare: è il diritto dell’amicizia alla ricompensa, jus amicabile ad præmium. – La Chiesa ha definito, contro i protestanti, l’esistenza del merito propriamente detto nei giusti. « Una volta che gli uomini sono giustificati – dice il Concilio di Trento – bisogna loro proporre le parole dell’Apostolo, promettendo alle opere meritorie la corona della giustizia. Come la testa influenza gli arti e la vite influenza i germogli, così Cristo comunica ai giusti la virtù che precede sempre le loro opere buone, li accompagna e li segue, e senza la quale questi atti non potrebbero essere graditi. (Sess. VI, c. 16, can. 32).

II.

LE CONDIZIONI DEL MERITO

Esse devono essere considerate dal lato dell’opera, dalla parte di chi agisce, dalla parte del Remuneratore supremo. L’opera deve essere libera, buona e soprannaturale. Come perfezione della nostra attività, il merito non può che coronare l’Atto veramente umano, che proceda cioè da entrambe le nostre due facoltà principali, l’intelligenza e la volontà; l’atto che è in nostro potere, di cui abbiamo il pieno controllo, e non quello che ci viene imposto da una costrizione esterna o da un impulso fatale della nostra natura (La Chiesa ha dichiarato, contro Giansenio, che il merito richiede questa doppia esenzione, sia della violenza esterna, e sia dalla necessità naturale – Cfr. Denzinger, n. 1094).  Così, gli atti puramente naturali o irriflessivi o involontari, esulano dalla sfera del merito. La conclusione che si deve trarre per la vita spirituale è che le persone che desiderano la perfezione devono stare continuamente in guardia, per diminuire gli atti indeliberati ed accrescere così il tesoro dei loro meriti. – L’opera deve essere buona e soprannaturale, perché è evidente che il movimento non può avvicinarci efficacemente al termine supremo, la gloria, se non sia dello stesso suo ordine e, per così dire, dello stesso grado. Ciò che è essenzialmente richiesto dal canto della persona è lo stato di viatore, perché il merito, come abbiamo appena notato, è un movimento e il movimento si ferma non appena si arrivi al termine. Nostro Signore afferma chiaramente questa verità quando dice: « Devo compiere le opere di Colui che mi ha mandato, fintantoché è giorno. Ecco, viene la notte, quando non si può più lavorare: venit nox, quando nemo potest operari » (Giov. IX, 4). Il giorno è la vita presente; la notte è la morte. Questa è l’interpretazione comune dei Padri, da Origene a Sant’Agostino. Molti teologi protestanti del XIX secolo hanno pervertito questo punto dell’insegnamento tradizionale sostenendo che non tutto è immutabilmente fissato dopo la morte, che la salvezza continua negli inferi, nell’intervallo tra la prima e la seconda venuta, presso quei settori dell’umanità che non sono stati messi in condizione nell’esistenza terrena di decidersi a favore o contro Cristo (A. Grétillat, “Exposé de théologie systém.”, vol. IV, p. 949, Parigi, 1900). La minima esitazione è impossibile su questo argomento. L’anima, uscendo dal corpo, compare alla barra  di Dio per subire un giudizio irreformabile, e, se è in stato di peccato mortale, scende immediatamente all’inferno, mox post mortem, dove subisce un castigo che non avrà fine (Benedetto XII, Constit. Benedictus Deus del 29 gennaio 1336; – Concilio di Firenze, Decreto, pro Græcis; cf. Denzinger, 531, 693). Uno degli schemi del Concilio Vaticano, pur non avendo valore giuridico, traduce fedelmente la credenza certa ed infallibile della Chiesa: « Dopo la morte, che è la fine della nostra vita, l’anima appare immediatamente davanti al tribunale di Dio per rendere conto di ciò che ha fatto nel corpo, sia nel bene che nel male; e dopo questa vita mortale non c’è più spazio per il pentimento ed il ritorno alla penitenza » (cf. Granderath, Acta et Decreta Conc. Città del Vaticano, Friburgo, Brisgou, 1892, p. 564, col. 2). Si potrebbe pensare, di rigore, che il merito accidentale possa accrescersi nell’aldilà; perché seppur la beatitudine essenziale è immutabile, le anime sono capaci di provare nuove gioie accidentali che completano la loro felicità. Ma la dottrina comune in teologia è che anche il merito accidentale si fermi alla morte, e che le glorie accidentali, aggiunte successivamente, sono dovute ai meriti della vita presente, quelli cioè che l’uomo giusto ha meritato quaggiù, e che gli siano conferite nuove gioie in cielo, secondo il suo stato o la sua condizione. La ragione di questo insegnamento è la ragione stessa dell’unione dell’anima con il corpo: l’uomo deve acquisire la sua perfezione nello stato di unione e finché duri l’unione. Per questo San Paolo attribuisce il merito o il demerito solo alle opere che sono state compiute nel mentre l’uomo aveva il suo corpo: « Noi tutti, dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva nel suo corpo ciò che ha meritato stando nel suo corpo, secondo le sue opere, buone o cattive che siano” (II Cor.., V, 10: “Ut referat unusquisque propria corporis prout gessit, sive bonum, sive malum“. Cfr. come da S. Tommaso e P. Cornely, in h. 1). – Un’altra condizione altrettanto indispensabile è lo stato di grazia e di carità. Nostro Signore dichiara che possiamo portare frutti soprannaturali solo se rimaniamo uniti a Lui; così come il tralcio è fecondo solo se attinge la sua linfa dal tronco nutritizio della vite (Giovanni, XV, 4). Ora è la grazia santificante che ci fa vivere e abitare in Cristo.  San Paolo ha proclamato la necessità e l’eccellenza della carità e della grazia, dalla quale essa è inseparabile, in una famosa pagina che è stata definita una delle più eloquenti e sublimi di tutti i linguaggi umani, e che può essere riassunta come segue: « Senza la carità non sono niente, tutte le cose non mi servono a niente, e con essa posso tutto » (I Cor. XIII). – Basti ricordare alcune dichiarazioni del Magistero infallibile. Il Secondo Concilio di Orange definisce: « La ricompensa è dovuta alle opere buone se esse hanno luogo, ma la grazia, che non è dovuta, precede perché esse abbiano luogo” (Can. t8, cfr. Denzinger, 191). – I Padri di Trento concludono precisando: questa grazia che precede l’opera meritoria è la grazia della giustificazione o la grazia santificante, ed è per questo che il Concilio attribuisce il merito solo alle opere dell’uomo giustificato (Sess. V, cap. 16, can. 32). La ragione teologica è abbastanza evidente. Poiché la ricompensa è l’eredità stessa di Dio, la persona capace di meritare è quella che ha il diritto di ereditare da Dio, cioè colui che è suo figlio; poiché il figlio è l’erede di diritto: Si filii et hæredes (Rom., VIII, 17). Solo la grazia santificante può infonderci questa ineffabile filiazione, renderci degli dei e permetterci di portare questa particella della più sublime nobiltà: di Dio, genus sumus Dei – di Lui stirpe noi siamo. (At XVII, 28). È, quindi, questo il primo ed indispensabile principio di ogni merito: una vita che non sia stata feconda è persa in cielo. – Dal canto del supremo Remuneratore, ci deve essere una promessa di ricompensa, perché le nostre opere non potrebbero essere un titolo di giustizia per l’eredità di Dio, a meno che Egli stesso non le abbia ordinate a questo scopo ed abbia promesso di coronarle. Per questo motivo la Sacra Scrittura indica espressamente la promessa divina: « Beato l’uomo che sopporta la prova!….. Egli riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano » (Giac., I, 12: “Accipiet coronam vitæ quam repromisit Deus diligentibus se“). Si può dire che questa promessa si comprende nel fatto stesso della nostra elevazione soprannaturale e che la volontà di conferirci la grazia in vista del fine ultimo equivale ad una promessa: come colui che sparge il seme della pianta vuole i fiori e i frutti che ne sono la corona, così Dio, nell’infonderci la grazia, che è il seme della gloria, ci offre la vita eterna. Concludiamo con il Concilio di Trento: « A coloro che lavorano bene fino alla fine e sperano in Dio, bisogna proporre la vita eterna, sia come grazia misericordiosamente promessa ai figli di Dio da Nostro Signore, sia come ricompensa che sarà fedelmente data, in virtù della promessa divina, alle loro buone opere e ai loro meriti” (Sess. VI, cap. 16). Incoronando i nostri meriti, Dio incorona certamente i suoi doni; ma poiché si è impegnato nei nostri riguardi con le sue promesse, i nostri meriti ci danno diritto alla corona, e questa corona ci viene conferita a titolo di giustizia dal giusto Giudice: San Paolo la chiamava: La corona della giustizia che il Giudice giusto mi darà (« Corona Justitiæ, quam reddet mihi Dominus, in illa die, justus Judex » – II Tim. IV, 8). Da queste poche nozioni teologiche scaturiscono importanti applicazioni per la vita spirituale. Le anime che ci tengono alla loro santificazione dovrebbero spesso ricordare che sono diventate, per grazia, partecipi della natura divina che le pone al livello di Dio, e di conseguenza di operazioni divine di valore inestimabile. Supponiamo che, nella bilancia della giustizia eterna, la preghiera di un uomo giusto, il sospiro di un innocente, la lacrima di una povera madre, da un lato, e tutte le meraviglie del genio e dell’energia umana, dall’altro, siano poste sulla bilancia della giustizia eterna: questa preghiera, questo sospiro e questa lacrima pesano più di tutti i beni della natura insieme… Ma, d’altra parte, quanto dobbiamo essere vigili per rimanere a questo livello soprannaturale, per evitare la dissipazione, per diminuire sempre più gli atti indeliberati, per non perdere nulla del tempo che ci è stato dato nella vita presente, periodo unico per meritare, e per orientare tutte le nostre azioni verso l’eternità e verso la gloria di Dio! Ci resta da esporre una bella dottrina di San Tommaso: siccome nei giusti tutte le azioni che non sono peccati veniali rimangono meritorie, ci resta da spiegare, nello stesso tempo, la natura dell’imperfezione nella vita spirituale. Ciò che è stato appena detto basterà già a farci apprezzare una riflessione del Dottore Angelico: il più piccolo merito o « il bene di una sola grazia vale più del bene della natura intera » (S. Thom., Ia IIæ, q. 113, a. 9, ad 2.). « O parole d’oro – esclama il Cajetano, – parole che dovrebbero essere meditate giorno e notte! Una sola grazia vale più dell’intero universo! Considerate, quindi, l’immensa perdita di coloro che non sanno apprezzare un tale tesoro » (Cajet., Comm. in hunc loc.).

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