LO SCUDO DELLA FEDE (118)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXX.

Che non si può negare l’immortalità, dell’anima umana, senza accusare la natura dì stolta.

I. L’arte del giardiniere non consiste nel fornire il terreno di quelle piante che son più elette; consiste in fornirlo di quelle che son più atte ad appigliarsi nel suolo a lui dato in cura. Non vi nego io però, che le ragioni fisiche dianzi addotte non sieno di natura loro le più gagliarde a manifestare, che l’anima non perisca insieme col corpo: ma perché la mente di molti non n’è capace, giusto è ricorrere ad altre, che forse più facilmente vi alligneranno: e tali son le morali. Eccomi pertanto a provar tre proposizioni, che bene intese guadagneranno la causa, se l’anima non fosse immortale, la natura sarebbe stolta; la virtù sarebbe vizio; il vizio sarebbe virtù.

Vada alle altre innanzi la prima.

I.

II. Due insanie distinguono i più intendenti (Ibid.). L’una, che si oppone alla mansuetudine, ed è crudele: l’altra, che si oppone alla ragione, ed è sciocca: ed ambedue queste insanie dovrebbonsi confessare nella natura, se ella avesse soggettata l’anima umana a leggi di tempo.

III. Sarebbe in prima stata ella verso dell’uomo insanamente spietata. Conciossiachè, se l’uomo morendo morisse tutto, ne seguirebbe, che egli solo fra tutti gli altri viventi

fosse un lavoro imperfetto, e si rimanesse quasi una bozza, bella al certo, ma difettosa; né mai fosse un’opra condotta a fine. Considerate i più sordidi animaluzzi: quei che appena distinguonsi da quel fango, onde sono schiusi, quei, dico, stessi furono pur tanto amati dalla natura, che non volle questa in cuor loro accendere alcuna brama, benché lievissima, senza dare loro anche il modo di soddisfarla. Ma forse avrebbe verso l’uomo osservato nel caso nostro un riguardo simile? Tutto il contrario: perché anzi lo avrebbe formato in guisa, che non potesse mai sperare di giungere dove aspira con ardor sommo.

IV. La capacità dell’intendimento umano è sì vasta, che a riempirla non sono bastevoli tutte le cose che sono, mentre vi sopravanza luogo quasi infinito alla cognizione di quelle ancor che non sono, ma posson essere. E la sfera del volere umano è sì ampia, che non basterebbero a renderla giammai paga neppure quegli innumerabili mondi, a cui sospirava Alessandro, quando ben tutti avessero un esser vero, e non puramente fantastico nel cervello di un delirante. Ora, se l’uomo morendo, morisse tutto, quando mai verrebbe a saziarsi in lui questa fame sì prodigiosa di tutto il vero, non ancora a lui noto, e di tutto il buono? Sicuramente non potrebbe essere ciò nella vita presente, dove egli non possiede né tempo, né mezzi, né modo, né forze a tanto. Adunque converrebbe , che in lui si venisse a trovare questo gran vacuo, sì abborrito per altro dalla natura, e che si vedesse un appetito veemente non solamente non pago, ma inappagabile, contra il costume onninamente serbato dalla medesima ne’ suoi parti, di non farvi mai nulla invano.

V. Più beneficati dunque sarebbero in tale evento quelli i quali mai non uscissero a veder luce: o se non tanto, più fortunate sarebbero almen le bestie, cui non s’intorbida giammai punto il sereno del ben presente dalla sollecitudine del futuro, non ancor posseduto, né giammai dal rammarico del trascorso: non le punge l’invidia dell’altrui sorte, non le stimola l’ambizione, non le strugge l’avarizia; ma contente del loro stato, passano i dì quietamente, provvedute le più con piccolo studio di quanto si ricerca ad alimentarle.

VI. Che se pure anche alle bestie convien morire, quanto è per loro meno amaro un tal calice: mentre lo bevono, per così dire, ad un fiato, senza averlo prima dovuto quasi ricevere a sorso a sorso nel pensier della loro mortalità: e mentre ancora lo bevono, dopo aver bene spesso gustato della vita più lungamente che non fa l’uomo! L’uomo vive poco: e in quel poco è comunemente soggetto a mille cure angosciose, a timori, a tedi, a gelosie, a pentimenti, a pianti, a querele; incontentabile nei prosperi avvenimenti, inconsolabile negli avversi: sempre al giogo di quella servitù, che ugualmente è propria della bassa fortuna e della eminente. In ogni caso le fraudi, i fallimenti, le morti de’ più congiunti, le calunnie, i contrasti, le liti, le infamie, le insolenze, le soverchierie che ricevonsi dai potenti, le necessità di vestirsi, di trafficare di trattare, di spendere, son tutti aggravi, de’ quali, quanto è più caricata la vita umana, tanto è più sgombra la vita universale de’ bruti. Onde, se l’uomo sortisse in fine una morte, qual e la loro, non. vi sarebbe tra’ viventi verun di lui più misero, mentre essendo egli per altro superiore d’infiniti gradì nel conoscimento a quello de’ bruti, conviene, a soddisfarsi, che egli abbia pascoli infinitamente ancora più sostanziosi e più soprabbondanti di tutti i loro.

VII. Oltre a che, quel medesimo vivere così corto che gli è prescritto dalla natura, come potrebbe salvare da crudeltà cosi strana madre? Excellens in arte non debet mori, gridavan da per tutto le leggi (L. ad Best. ff. de pœn.). Però, se la natura ha queste leggi dettate ai legislatori, come ella nelle sue opere le disprezza? anzi non le disprezza no , ma le adempie fedelissimamente con tutte l’altre sostanze, fuorché coll’uomo? Veggiamo pure, che tra le sostanze inanimate, quelle che son le più nobili, sono esenti da corruzione, come i cieli, i pianeti, le stelle. E perché dunque tra le viventi non va così, ma invece di vedere l’anima umana adorna di sì bella prerogativa, vederla, non pur morire, ma morir tosto, sicché talora dalla culla alla tomba non sia per lei quasi altro che un breve passo? Non vi pare una cosa stravagantissima, che potendo la natura esentare dalla falce del tempo la miglior parte dell’uomo, ve la sottoponesse sì crudamente, che si dovesse da noi portare invidia ai corvi, alle cornacchie, ed ai cervi del loro lungo durare sopra la terra, e fino alle serpi del loro ringiovanirsi? Io so che ad un uomo grande (Card. Sforza Pallavicini) facea gran forza a tenere per evidente l’immortalità dell’anima umana, mirar quanti erano quei che morivano in fasce.

VIII. Aggiungete, che la natura, non solamente sarebbe stata crudele con tutti gli uomini, se avesse fatte mortali l’anime nostre, ma crudele anche più coi più virtuosi. Quanto l’uomo è più scienziato e più saggio, tanto più conosce egli il pregio dei beni eterni, e più vi sospira, come a sua limpida fonte. Qual dubbio dunque, che tanto più dovrebbe allora egli vivere sempre afflitto, veggendosi ad ora ad ora cader sul capo quella spada fatale, che invece de’ beni eterni, gli ha da recare un sempiterno esterminio?

IX. Anzi da ciò seguirebbe, che crescendo ne’ buoni ogni giorno il merito di vivere lungamente per la loro virtù, e diminuendosi dall’altro canto la vita, verrebbesi dunque sempre a diminuire quel capitale di premio che loro avanza: onde non solamente dovrebbero militare, già veterani, alle spese proprie, senza speranza più di retribuzione, ma vi dovrebbero rimettere ancora tanto, che mai non divenissero più infelici, che quando avessero già finito di vincere: mercecchè per trionfo darebbesj allor ad essi il gastigo sommo, che è il rimanere privi in eterno di ogni essere, tuttoché tanto bene speso.

X. Per lo contrario, se la natura usasse con alcun uomo, in tale presupposizione di cose, alcuna pietà, guardate a chi l’userebbe: l’userebbe solo cogli empi.

XI. E non è pietà grande a un reo condannato, ingannarlo tanto, che non si accorga diavvicinarsi al patibolo? Questa pietà usa la natura co’ bruti, a cui, come non discuopre alcun bene eterno, per l’incapacità la qual hanno di conseguirlo, così tien loro ascosto l’eterno disfacimento, per non affliggere coll’aspettazione del mal futuro chi non può godere altro bene che il ben presente. Ora, una pietà somigliante verrebbe la natura ad usar cogli empi, cioè con quei che, benché uomini, menano vita da bruti: perché, quantunque non asconderebbe loro del tutto l’ultimo fato, né anche molto con esso gli inquieterebbe, mentre eglino, inebriati da’ loro piaceri, si studiano di tener lontano da sé qualsisia, benché lieve, pensier di morte: vittime, è vero, destinate al macello, ma vittime ben pasciute per ogni prato di trastullo corporeo. Così la prudenza e la pietà sarebbero allora i carnefici più crudeli dell’uman genere, e l’inconsiderazione e l’intemperanza sarebbero i suoi maggiori benefattori: onde pur troppo in tal caso si avvererebbero quei sentimenti di Plinio così stravolti, di riconoscere la natura cogli uomini per matrigna più che per madre, mentre ne’ migliori di loro avrebb’egli infuso, più che in altri, un intimo desiderio di beni eterni, quando al tempo stesso voleva, che fosse loro impossibile il conseguirli.

II.

XII. Senonchè con questo io sono disceso parimente a mostrare nella natura l’altra maniera d’insania, la quale, come sciocca, opponendosi alla ragione, consiste singolarmente in non sapere adattare ad un fine degno i mezzi proporzionati. La natura vuole in primo luogo, che l’uomo sia virtuoso, cioè, che egli serbi nel vivere quelle leggi ch’ella gli ha scolpite nel cuore. Ma quali mezzi avrebbe ella adoperati nel caso nostro a conseguir tanto fine? Mezzi impropri ed inefficaci: mentre la malvagità appena avrebbe di che temere, e la bontà di che consolarsi.

XIII. Io so, che il vizio è pena di se medesimo, per lo tormento che dà la mala coscienza: Prima est hæc ultio, quod, se indice, nemo nocem absoìvitur (Iuvenal.). E così pure premio di se medesima è la virtù, per la tranquillità della mente che reca seco. Ma ciò non può essere né tutto il premio delle operazioni rette, né tutto il castigo delle malvagie. Convenne per necessità, che la maggior parte del bene e del male meritato si riserbasse al tempo futuro, come dimostrano ad evidenza que’ due notabili affetti, la speranza e il timore: la speranza propria de’ buoni, e il timor degli empi (Suar. de an. 1. I c. 10. n. 30).

XIV. È per verità, chi non vede, che il buon governo così ricerca? L’agitamento della mala coscienza non è propriamente pena di essa, è natura. La pena convien che sia qualche male distinto dal male innato, che sempre è nella colpa. Altrimenti, che savio legislatore sarebbe mai quello il quale non stabilisse altro supplizio più terribile ai ladri, agli adulteri, agli assassini, di quel che porta nel loro cuore il rubare, l’adulterare, l’assassinare? I più perversi fra i ribaldi sarebbero i men puniti. E dovremo noi figurarci nella natura quella politica insana che non si tollererebbe in un infimo governante? Anzi dobbiamo confessare, che agli empi riserbi questa una pena, non solo contraddistinta da’ loro eccessi, ma ancor perpetua: conciossiaehè tutto quel male che finisce col tempo, può disprezzarsi, senza imprudenza notabile, come quello che non è male assolutamente, ma è male con eccezione, cioè male a tempo: onde l’uomo non sarebbe stato dalla natura intimorito bastantemente a fuggire i vizi, se non dovesse mai temerne altra multa di quella che può ricevere nella sua vita breve sopra la terra. Quid potest grande esse, quod habet finem? dice un Girolamo (In Ps. 89).

XV. Il somigliarne dite altresì del premio dovuto sempre alle opere virtuose: massimamente che la natura. come ricchissima, non poteva essere men cortese di quello che tra noi sieno i principi dominanti. i quali, con tutta la miseria del loro erario, propongono giornalmente ai popoli loro ricompense distinte da quel bene che porta seco il vivere onesto. Anzi conveniva, che la natura procedesse in ciò maggiormente da pari sua, non assegnando premi corti e caduchi, come fanno i principi nostri, ma premi eterni: altrimenti non avrebbe ella a sufficienza allettato il genere umano a calcare animosamente i sentieri spinosi dell’onestà, a fronte ancora di tutti quei prati ameni, da cui lo lusinga a sé la dissolutezza.

XVI. Tanto più che il genere umano, pur ora detto, per altre ragioni ancora non si può reggere senza questa persuasione, che l’anima sia immortale. Questa credenza, che nacque al nascere del mondo, è stata sempre comune a tutte le genti, come argomentò Cicerone (1. Tusc.) dall’alta stima che tutte le genti fecero de’ sepolcri, nulla stimabili, se dopo morte nessuno v’è, né può esservi, che li curi. Che se qualche ingegno stravolto ha tentato di ripugnare al sentimento concorde di tutti i popoli come già fece Epicuro, è stato giudicato un bruto che parli. Ond’è, che contra Epicuro si sollevarono a gara tanti migliori filosofi d’alto grido (Cic. de senect. I. ult.). Ora quale stoltezza maggiore potrebbe figurarsi nella natura, che l’aver lei scritto di sua mano in tutti i cuori un errore di tanto peso, quale sarebbe questo, se fosse errore, che l’anime ragionevoli siano eterne?

XVII. Direte forse, che il buon governo degli uomini così porta: che questi si persuadano di esser tutti immortali nella miglior parte di sé. Sia come dite. Ma se il buon governo degli uomini porta che si persuadano di esser tali, dunque porta ancora che siano. La natura non ha da reggere l’universo per via d’inganni. E qual ragione aveva ella di non far gli uomini quali era meglio che fossero? Miriamo che ella non ha mancato a veruno degli animali in ciò che era necessario a viver da bestie corrispondenti alle spezie loro: e come dunque avrà ella mancato agli uomini in ciò che è necessario a vivere da sensati?

XVIII. E tuttavia quanto si è divisato fin qui, riguarda solamente il bene dell’uomo. Rimane quello che riguarda anche il bene, se pur vogliamo intitolarlo così, della natura medesima.

XIX. E per qual cagione formò già ella questo mondo sì bello, con tanta varietà di lavori, i più artifiziosi che possano immaginarsi? Non lo formò per fare in esso campeggiare la gloria della sua sapienza inaudita? Ora quali hanno ad essere quegli spettatori che lo vagheggino? Non già i bruti, perché non sono abili a tanto. Hanno ad esser gli uomini. Ma dite a me: Come mai potrebbero gli uomini ciò eseguire, se durassero solo quel poco tratto che albergano in su la terra? Nella loro vita mortale è sì leggera la cognizione che hanno essi di quanto per loro fece il loro Creatore, e sì ristretta e sì rozza e sì grossolana, che appena trapassa la superficie, dirò così, delle cose, senza penetrar sino all’intimo, dove è il meglio. Conviene adunque, che tal contezza riservisi ad altro tempo. Altrimenti questa manifattura dell’universo potrebbe quasi dirsi un lavoro gettato, mentre essa, da chi si deve, non sarebbe mai conosciuta perfettamente. E quale dipintor giudizioso sarebbe quello il quale formasse un quadro di beltà somma, in grazia d’una chiesa, o di una città, e di poi glielo desso con legge tale che non si dovesse finir giammai di rimoverne quella tela che lo ricopre? Eppure non altrimenti avrebbe la natura operato nel caso nostro.

XX. Né state a dirmi, che bastavano gli angeli a vagheggiare sì degna tavola non velabile agli occhi loro. Prima, perché gli Angeli non hanno punto bisogno di argomentare da questo mondo corporeo la vasta mente di quell’artefice sommo che lo formò: la sanno in sé molto bene conoscere da se stessi. Poi, perché questo mondo corporeo di cui si parla, non fu prodotto in grazia di alcun di loro: fu prodotto in grazia’ dell’uomo, il qual, siccome da tante opere belle, soggette a’ sensi, doveva sicuramente ricevere il maggior prò, così era giusto, che con modo ancora speziale le conoscesse, affine di potere indi rendere al fattor d’esse quell’omaggio di lodi e di ammirazione, di amore e di gradimento, che gli doveva per un dono tanto magnifico.

XXI. Non è almen certo, troppo essere conveniente, che l’uomo conosca sé, le sue potenze, le sue passioni, i suoi atti, e quanto in sé racchiude di più stimabile, per tenersi da quel ch’egli è? Ma dov’è che qui possa farlo bastantemente? Lascio dunque a voi giudicare, se sia probabile, che in grazia dell’uomo, sia stato fabbricato, oltre al mondo grande, pieno di tanto creature, anche il mondo piccolo, cioè l’uomo stesso, colmo di tante eccellenze; e poi non abbia l’uomo a finir mai di conoscere tutto ciò che per lui è fatto, ma dopo una occhiata datagli di passaggio, abbia da mancare, e da mancare per sempre, senza avere intesa di tante cose, che pur a lui si appartengono, una millesima parte, e questa parte stessa, più indovinando ancora, che argomentando, e più sognandola, dirò così, che sapendola. Tanto apparato di fiumi, di mari, di monti, di animali e di cieli sì riguardevoli; un corpo umano, organizzato con immenso artifizio: un’anima dotata di tanti pregi, che è uno stupore a pensarvi anche grossamente; per nulla più che per un vivere corto, che appena si sa discernere dal perire? Folle dunque natura, che intende un fine dell’anima ragionevole, e poi non le dà neppur agio da conseguirlo! Ma folle al certo la natura non è: folle è chi la finge tale, negando all’anima l’immortalità, tanto propria di ogni sostanza intellettuale.

XXII. Concludiamo dunque così. Se nella natura non si può fingere insania di alcuna razza, né insania di crudeltà, né insania di balordaggine; conviene adunque che tali abbia fatti gli uomini, quali doveva farli una formatrice pietosa insieme e prudente nel suo operare, cioè capaci di una vita anche eterna

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.