LO SCUDO DELLA FEDE (116)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXVII.

Ragioni che rendono manifesta ad ogni intellettoben disposto l’immortalità dell’ anima umana.

I. Il derivare, qual fonte nato nel fango, da sangue ignobile, è infelicità, non è colpa: onde ciò viene riputato dagli uomini per oggetto di compassione, più che di biasimo. Ma il rinunziare spontaneamente alla nobiltà trasfusaci nelle vene da un eccelso lignaggio non si può udire in chicchessia senza sdegno, mentre ciò è fare come farebbe una fonte, la quale uscita dalle miniere dell’oro per cui passò, corresse a perdersi di voglia sua nella mota. All’istesso modo, l’essere bestia per natura, non è vergogna, dirò cosi, per chi non poteva nascere più che bestia: ma il voler essere bestia per elezione, quando per natura possedevasi un posto poco inferiore a quell’istesso delle intelligenze celesti, oh che vituperio! E pure di questa razza sono coloro, che sostenendo l’anima nostra esser corpo, rinunziano al gran privilegio dell’immortalità, e si recano a gloria di non avere nel nascere e nel morire vantaggio alcuno sulla generazione de’ giumenti: Unus interitus est hominis et iumentorum et æqua utriusque conditio. Similiter spirant omnia, et nihil habet homo iumento amplius (Eccli. 3). Degni, cui sia dato in pena ciocche eglino follemente sperano in sorte, cioè di dovere un dì ritornare all’antico nulla: senonchè più giusta pena sarà per essi il vivere sempre miseri, che il lasciar per sempre di vivere, o così finir le miserie, dalle quali va libero chi non vive.

II. Frattanto a porre maggiormente in chiaro che il loro inganno è più volontario che naturale, esporrò qui brevemente quelle ragioni le quali sono valevoli ad ottenere da ogni intelletto ben disposto una salda credenza della nostra immortalità. E perché nelle battaglie la turba suol essere più d’impedimento al vincere che di aiuto, disporremo il numero degli argomenti in due schiere: l’una conterrà le ragioni fisiche, l’altra conterrà le morali; ed ambedue giunte insieme, saranno, spero, due corpi invitti d’armata a superare ogni dubbio su questa lite, sicché anche in ciò dobbiate usare più di forza a voi stesso per negare di credere, che per credere: se pur non foste ancor voi di coloro che han la mente guernita di ostinazione, cioè di quella maglia che sola è la impenetrabile ad ogni strale di verità.

CAPO XXVIII.

Dalle operazioni intellettive dell’anima ragionevole si fa chiaro ch’ella è immortale.

I . Si può contare tra le più splendide favole degli antichi l’arte di cui si valse già Ulisse per rinvenire Achille travestito, e tramescolato con le donzelle di camera nella corte di Diomede. E fu che penetrando l’accorto capitano fin colà dentro, espose alla pubblica vista di quelle giovani, con ogni guisa di ornamento donnesco, varie armi ancora di lama eletta e di lavoro esquisito: onde correndo a gara tutte le fanciulle a mirare la bizzarria delle vesti, de’ veli e dell’altre nobili gale spiegate in copia, solo un Achille si fermò a far prova dell’arme, ed a maneggiarla, sdegnando il resto. Ora quantunque la poesia vaglia più a ricreare la mente, che ad istruirla, voglio nondimeno che qui ella ci sia maestra del vero o che ci serva, se non altro, di scorta per rinvenirlo, portandoci, su l’allegoria della favola dinanzi addotta, la face innanzi. L’anima umana, confusa fra le sostanze’ corruttibili, e coperta di spoglie anch’esse caduche, rimane sì sconosciuta presso di alcuni, che per poco non la discernono dalle bestie, e ne fanno in cuor loro un’egual ragione. Ma noi, per chiarirci della sua natura, superiore ad ogni essere materiale, andiamo un poco sagacemente indagando qual genio ell’abbia, qual’indole, quale istinto, quale operare: e se in tutto non vedremo tanto di grande, che ci necessiti a giudicarla di condizion trascendente qualunque cosa mortale, io mi contento che qual mortale alla fine la dispregiamo, non meritandosi il vanto d’incorruttibile quel cedro, che, tra noi nato, non ha punto che fare con quei del Libano. Ma s’ella è qual si predica, a che insultarla?

II. Due sono le operazioni proprie dell’anima ragionevole. L’una è l’intendere tutto il vero, e appartiene all’intelletto. L’altra è l’amar tutto il buono, e appartiene alla volontà. Facciamoci dall’intelletto, che in questo cielo domina come il sole: onde egli ci somministrerà tali indizi, che ci apponghiamo : Sol Ubi signa dabit, solem quis dicere falsum audeat? Discorriamo dunque così.

III. E indubitato che un essere meramente corporeo non può operare intorno a un oggetto meramente spirituale, cioè scarico totalmente di ogni materia: perché le cagioni non possono trapassare i confini della loro natura, sicché posseggano una sfera più nobile all’operare di quella che posseggono all’essere: Eo modo aliquid operatur, quo est (S. Th. 1. p. q. 75. art. 1. In.). Ora l’anima umana conosce le cose immateriali, ed intende gli oggetti puramente spirituali, intende le intelligenze intende Iddio. Adunque ne segue che nel suo essere ella sia parimente spirituale, e libera da qualunque materia. Altrimenti che ci potrebbe ella ridire delle cose superiori ai sensi? Nulla più di quello che i sensi ci sappiano ridir delle cose superiori alla loro sfera. Onde come l’occhio non sa mai divisare quel che sia suono, né l’orecchio sa mai discernere quello che sia splendore; così l’intelletto non saprebbe formarsi veruna idea delle cose che non han corpo, s’egli non fosse incorporeo.

IV. Né solamente l’anima sa conoscere gli oggetti spirituali, ma que’ medesimi che sono al tutto sensibili sa ella, dirò così spiritualizzare e spogliar di corpo, considerandoli in universale, e non secondo quell’essere che hanno in sé, ma secondo quell’essere ch’ella dà loro in astratto, cioè con astrarli dalla materia, dal luogo, dal moto, dalla mole, dal tempo e da ogni altra condizione propria dell’individuo. E di tal guisa sono le cognizioni scientifiche, e massimamente le matematiche, e le metafisiche, per cui l’intelletto, assottigliando, e quasi sublimando le cose, e cavandone, per così dire, uno spirito d’intelligenza, si viene a pascere in un puro distillato di verità. Pertanto, se il modo dell’operare segue, come si disse, il modo dell’essere, chi non vede, che quella mente, la quale col suo operare dona all’oggetto un tal essere immateriale, è adorna di un tal essere nel suo fondo, anzi n’è adornissima; mentre, come insegna il filosofo, la potenza sempre è più nobile del suo parto? Faciens est honorabilius facto (L. 3. de an. sext. 1. 9).

V. Aggiungete, che l’anima conosce se medesima ed i suoi atti, e li conosce con una ammirabilissima riflessione, conoscendo infin di conoscere; conosce i suoi pensieri, conosce i suoi proponimenti, conosce i suoi desideri. Onde anche per questo capo debbe ella essere confessata immortale, perché in se stessa ha una sorgente inesausta di verità sicché, come può sempre operare, attingendo nuova acqua di cognizione dalla sua fonte, così può sempre anche vivere. E su ciò appunto i filosofi hanno fondato quel loro celebrato assioma; Omne conversivum supra se est immortale (Auct. 1. de caus.): volendo eglino, che come il moto circolare di sua natura non ha termine, secondo che l’ha il moto retto, così il moto intellettuale delle sostanze che riflettono in se medesime sia perenne: laddove il moto di quelle potenze conoscitive, le quali non si possono riconcentrare in se stesse, soggiaccia al tempo, come vi soggiacciono tutte le potenze brutali.

VI. Senonchè più chiaramente noi possiamo dedurre questa asserzione dalla vastità della sfera, aperta dalla natura alle operazioni dell’anima ragionevole: sfera per poco infinita.

VII. Fra tutte le cose possibili, niuna v’è, che non possa essere oggetto alla mente umana. Anzi qualsisia verità ha per lei gravido il seno di prole numerosissima d’altre verità somigliante; mentre l’anima sa combinare l’una con l’altra, ed ora salire dagli effetti alle cagioni, ora discendere dalle cagioni agli effetti: sa penetrar le cose che sono, e sa discorrere su quelle che ancor non sono: sa fabbricar nuove macchine, sa figurar nuovi mondi, sa fingere nuove idee, senza mai restarsi. Ora chi non iscorge chiaramente in queste operazioni quell’essere illimitato, proprio delle sostanze immaterialissime, che in virtù dell’ampio conoscere vengono poco men che a trasfigurarsi in tutte le cose? Che relazione hanno queste notizie al bene del corpo, mentre anzi son preci che mettono quasi in gara le menti umane colle intelligenze celesti?

VIII. E in queste cognizioni, che nulla giovano ad alcuno de’ sensi, ma son all’anima quasi un mero ornamento, prova ella appunto i suoi maggiori diletti. Archimede nel bagno, arrivando al modo di pesare la lega frammescolata dall’artefice all’oro della corona votiva del re Ierone, concepì tanto giubilo, che uscito quasi di sé, non che da quell’acque, correva ignudo, gridando per le vie pubbliche . che alfin l’avea ritrovata: reperi, reperi (Plut. in Colot.): quasi che cercasse in chi riversare prestamente la piena della sua gioia, tanto era al colmo. Però , se l’anima nelle sue cognizioni non solamente è capace di un tal sollazzo, in cui il corpo ed i sensi non abbiano parte alcuna, ma n’è capace in grado cosi eccessivo, che la cavi estatica quasi dal corpo e da’ sensi; chi non verrà con evidenza a conchiudere, che ella non è adunque immersa nel medesimo corpo, come sostanza materiale ancor essa, ma che sopra lui, e sopra tutti i sensi propri di lui, si solleva qual puro spirito?

II.

IX. Ponete ora al confronto le notizie dei bruti se sì vi aggrada. e i loro piaceri. Le notizie son tanto scarse, che non solamente non eccedono la sfera delle cose sensibili, ma sono ristrette ancora a ciò meramente che serve al corpo, o per mantenimento dell’individuo, o per propagazione al più della specie. Tra le cose ancora sensibili non conoscono mai, se non le particolari che sono in atto: né mai si curano di risaperne in generale l’origine o le occasioni: non giudicando eglino degli oggetti, se non così grossamente, quanto gli apprendono, o come amici della loro natura, o come nemici.

X. E i piaceri poi quali sono? Sono forse quei che procacciava un Caligola al suo palafreno sì caro, quando non pago di avergli formata già la stalla di marmi, la mangiatoia di avorio, e la gualdrappa di ostro più che reale, gli assegnò la sua nobile paggeria, con intendimento di crearlo console, e poco men che collega nel principato? Nulla meno. I piaceri sono que’ soli che con tenuissima rendita possono i bruti spremere dagli esterni due infimi sentimenti, cioè dal tatto e dal gusto. Onde, se quell’imperatore non era imbestialito più ancora della sua bestia, ben potea scorgere, che più di tante burbanze e di tante borie sarebbe ad essa di favore uno staio di biada eletta.

XI. E chi non sa, che dagli altri tre sentimenti più sollevati, cioè dalla vista, dall’udito, dall’odorato, se coglie un bruto qualche fior di sollazzo, non è per altro, se non perché questi sensi gli arrecano qualche novella di un oggetto che sia giocondo, o che sia giovevole agli altri due? Così non gli son graditigli odori, se non in quanto gli danno sentore di cibo, o presente, o prossimo; né gli è gradita la vista delle piagge, de’ prati, o delle foreste, se non in quanto vagliono a ricrearlo coi loro pascoli: e sebben taluno de’ bruti vince gli uomini nella perspicacia del vedere, come il lince; dell’udire, come la lepre; dell’odorare, come il bracco: non ritroverete però mai, che si vaglia di una tal perfezione per nitro fine, che per provvedersi di oggetti confacevoli al corpo, o per iscansare i nocivi. Laddove l’uomo, non solamente è capace di diletti superiori a lutti i sensibili, ma quei medesimi che egli ricoglie da’ sensi, sa indirizzare ad un fine altissimo, d’imparar qualche vero nascosto in essi: facendo però più stima di quei piaceri sensibili che sono più opportuni alle scienze o alle esperienze. E in quegli stessi i quali sono ordinati alla conservazione della vita, ama sposso, più che null’altro. l’invenzione e l’ingegno, come appare chiarissimo ne’ conviti, in cui la minore impresa è talor quella che si appartiene alla gola, in paragone di quella dell’apparato, dell’argenteria, dei trionfi, delle sinfonie, de’ servizi, e dell’ordine dato alle vivande con tanta disposizione, che ornai non meno d’arte ricercasi in uno scalco a schierare un numero senza fine di piatti sopra una mensa, di quella che si richiegga in un capitano a schierare un esercito alla campagna.

XII. Pertanto, dacché i rivi, ridotti in canali stretti, acquistano maggior lena, riduciamo in breve ancora noi tutto l’arrecato fin ora, e diciam cosi. La sustanza ascosta di ogni essere si conosce dalla sua operazione, come la radice dalla pianta per cui fu fatta: e l’operazione dal suo soggetto, come la pianta dal frutto cui fu ordinata. Però, considerando noi l’oggetto proprio delle cognizioni brutali, da una parte sommamente ristretto nella sua sfera, dall’altra parte nella sua sfera stessa nulla fecondo, se non di quei beni che son graditi al gusto per vivere, ed al tatto per generare, dobhiam dedurre, che la sostanza della lor anima stia totalmente immersa nella feccia del corpo, sicché non possa separarsi da questo, senza lasciare subito di operare, e conseguentemente di essere. Per opposito, rimirando noi il modo di operare dell’anima ragionevole, tanto superiore a ciò che giova o gradisce al medesimo corpo dov’ella alberga, siamo costretti a confessare che l’anima sia superiore incomparabilmente al medesimo corpo, sicché né muoia insieme con esso lui, nè sia dominata dal tempo, ma tenga bensì il tempo sotto i suoi piedi per dominarlo »

III.

XIII. E pur mi resta in questo ancora che aggiungere di più forte. Se il corpo muore, è perché fuori di sé ha infiniti contrari che lo combattono; e infiniti hanne ancora dentro di sé, come gli ha qualunque composto. Ma l’anima semplicissima qual può averne? Accoglie in se stessa con somma pace tutti i contrari possibili, conoscendo ad un tempo e vero e falso, e caldo e freddo, e chiaro e fosco, e dolce ed amaro: tanto che questi non solo a lei non apportano male alcuno, ma la avvalorano, rendendola sempre più, qual debb’essere, intelligente. E come dunque ha da morire ancor ella, se niuno può darle morte ? Si ha ella forse ad uccidere da se stessa? Che se i sensi corporei dai loro oggetti i più graditi ricevono ancora danno, quando questi siano eccessivi, accecandosi gli occhi ad un acceso splendore, e assordandosi gli orecchi ad un alto strepito; il solo intelletto dall’eccellenza del buon oggetto riceve maggiori forze, e quanto conosce più, tanto sempre si abilita a più conoscere. Che timor dunque di perire può essere a chi non ha né anche chi lo debiliti? Sic mihi persuasi, etc. (diceva Tullio (De senect.), quantunque per bocca altrui) cum simplex animi natura esset, nec haberet in se quidquam admixtum dispar sui atque dissimile, non posse eum dividi; quod si non possit, non posse inferire. Ragione di tanto peso, che niuno v’ha fra’ teologi, che non l’abbia fatta anch’egli trionfare solennemente nella sua cattedra.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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