SACRO CUORE DI GESÙ (31): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA ESTREMA AGONIA

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

IL SACRO CUORE DI GESÙ

DISCORSO XXXI.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua estrema agonia.

Su, o miei cari, su ascendiamo al monte santo di Dio, ascendiamo al Calvario, e contempliamo il Crocifisso Gesù sull’altare del suo sacrifizio. Oh Dio! che spettacolo si presenta ai nostri occhi! In che stato è ridotto l’amabile Gesù e quali sofferenze lo aggravano nel corpo e nell’anima! Eccolo sospeso tra cielo e terra, ritenuto da grossi chiodi su d’un infame patibolo, coperto di sangue e di piaghe dalla testa ai piedi. Egli soffre, e senza aicun sollievo. Se cerca riposarsi sui piedi, ohimè! non ha per appoggiarli se non il ferro, che li trapassa; se vuole riposarsi sulle mani, non fa che allargarne le piaghe e produrre una dolorosa tensione alle sue braccia; se egli abbassa la testa, accresce il peso del suo corpo, e il petto si gonfia, e la respirazione gli si fa più penosa; se Ei la solleva, la corona di spine incontra il legno della croce e le spine penetrano più addentro. Così non vi ha parte alcuna del suo Corpo adorabile, che non soffra un indicibile tormento. – Ma ben più gravi sono i tormenti della sua anima. Quando un uomo sta agonizzando, si vede circondato dalle persone più care, che gli prodigano le tenerezze più affettuose, e gli recano ogni possibile sollievo, gli porgono qualche stilla di consolazione. Per Gesù non è così. Tutto ciò che lo circonda è per Lui cagione di pena, tutto contribuisce a schiacciare il suo tenero Cuore ed a generargli nello spirito i più accascianti pensieri. Ai piedi della croce vede la sua Madre, S. Giovanni, e le pie donne, immerse nella più grande afflizione; dintorno alla croce vede una soldatesca insolente ed un vile popolaccio, che lo insulta e lo maledice; accanto alla croce, a destra ed a sinistra, vede crocifissi due ladroni per sua maggior ignominia. Oh se almeno lanciando lo sguardo nell’avvenire vedesse la croce tornare di salute a tutti gli uomini! Ma invece Egli ha pur dinnanzi questa dolorosissima vista, che la croce sarà di scandalo pei Giudei, e quale stoltezza ai Gentili. Povero Gesù! quanto soffre per ciò nell’anima sua! Eppure in mezzo a sì terribili sofferenze Egli apre ancora il suo labbro divino per parlare. E per quale ragione? Forse per maledire a’ suoi patimenti? per imprecare a’ suoi crocifissori? per scatenare i fulmini delle sue vendette?… Ah! no, certamente. In quegli estremi istanti della sua agonia Egli sembra dimenticare affatto le pene atrocissime che soffre e non ricordare ed aver presente altro, se non che Egli è un padre, che muore. E come ogni padre di famiglia che sta per morire si dà tosto la più viva sollecitudine di dichiarare a’ suoi figli le sue ultime volontà e di fare in loro vantaggio il suo testamento, così a questo stesso fine Gesù Cristo apre ancora il suo labbro divino e per ben sette volte ancora Egli parla. Per tal modo facendo uscire dal suo Cuore agonizzante sette parole, e compendiando con esse tutte le sue lezioni, tutti i suoi esempi, tutte le prove del suo amore infinito per noi, ci fece sempre meglio toccare con mano, che la causa vera, che lo ha confitto come vittima sull’altare della croce, più assai che non la perfidia de’ Giudei, è stata la carità immensa che nel Cuor suo ci ha portato. Raccogliamoci adunque anche noi presso la croce di Gesù Cristo per intendere le sue parole, ed ascoltandone oggi le tre prime, riconosciamo come per esse questo Padre e maestro divino ci abbia animati a confidare tutti nella sua infinita misericordia e a darci a Lui senza più mai abbandonarlo.

I. — Miei cari! Quale lo avevano descritto i profeti, Gesù Cristo ora veramente sulla croce l’uomo dei dolori, vir dolorum. Eppure a quei dolori atrocissimi, che già pativa nelle sue piaghe, veniva ad aggiungersi in questo momento un altro dolore, ancor più crudele per le anime delicate e sublimi, quello cioè degli insulti e delle derisioni. Benché dinnanzi all’estremo supplizio di un uomo, per quanto scellerato e odiato, sogliano spegnersi gli odii e cader le ire, e non sia mai lecito ad alcuno di compiacersi delle sue pene, di oltraggiare la sua persona e d’insultare al suo dolore, tuttavia per Gesù non accade così. A Lui è negato ogni riguardo. Al vederlo in quel misero stato pendente fra due malfattori, i Giudei esultano di gioia infernale e privi di ogni senso di umanità si fanno a recargli le più orribili ingiurie. Chi lo guarda e lo beffeggia, chi batte palma a palma e lo bestemmia, chi fa fischiate o digrigna i denti, chi crolla il capo e sogghignando esclama: « Va! Suvvia! Tu, che distruggi il tempio di Dio e lo rifabbrichi in tre giorni, salva ora te stesso! Se sei figliuolo di Dio discendi dalla croce! » Ma più empi e protervi di questa vile plebaglia, i sacerdoti, i maggiorenti e i maestri della legge scagliano contro del Giusto inverecondi motti e feroci bestemmie. « Cotesto maliardo, dicono quei tristi, ha salvato gli altri, salvi ora se stesso, se gli basta il vigore. Ei si disse re d’Israele, via! discenda dalla croce sotto gli occhi nostri e non tarderemo a credere nel regno suo. Si è vantato Figliuolo di Dio: vediamo come Dio si affretti a liberarlo. » Oh scellerati Giudei! E non vi basta l’essere venuti a capo delia vostra impresa? Gesù voleste confitto in croce, ed ecco Egli è in croce confitto; a vista delle sue piaghe rimanetevi almeno dall’amareggiarlo con nuovi obbrobri! Ma no! Con delitto più esecrando nel mirare le ambasce del Salvatore più inacerbano la loro collera e più aggravano il loro disprezzo. E Gesù? … Il profeta Isaia, che già molti secoli innanzi aveva descritte e piante le pene destinate al sospirato Redentore, erasi piaciuto dipingerlo a sé e agli altri in sembianza di mite ed innocente agnello, che condotto ad essere ucciso non apre il suo labbro al menomo lamento. Ed invero Gesù, satollo di ogni maniera di obbrobri e di patimenti, da crudi carnefici flagellato e coronato di spine, caricato di pesante croce, e con calci e percosse spinto e trascinato per l’erta di un monte, ed ivi disteso, inchiodato ed innalzato su d’un infame patibolo, mai non aperse la bocca; e a tanti clamori levati contro di Lui non mai altro oppose che un generoso silenzio. – Ma caro Gesù! egli è tempo, che parliate. La vostra dignità fa oltraggiata; il vostro Padre fu offeso; e ciò che è, più ributtante, s’insulta all’innocenza, nella quale voi state per spirare, su, su parlate! Una sola vostra parola sarà bastante a far di tutti questi miserabili un mucchio di cenere! Parlate, che lo aspetta il cielo, che impaziente si è coperto di tenebre.. Parlate … lo aspetta la terra, che trema inorridita bevendo il vostro sangue, parlate… lo aspetta fremendo tutta la natura … parlate, lo aspettano istupiditi gli Angeli … parlate… lo aspettano pieni di rabbia e d’invidia i demoni… parlate… lo aspetta il vostro stesso Padre celeste, che stringe ormai i suoi fulmini per vendicarvi … parlate… Sì, parla Gesù, parla! … ma ben diversamente, da quello che noi aspettiamo. Quanto più forti s’innalzano le voci del cielo e della terra, degli angeli, degli uomini e degli stessi demoni a chiedere vendetta, tanto più forte innalza Gesù il grido dell’amore; e rompendo alla fine i suoi silenzi, rivolti in alto gli oscurati suoi occhi : Padre, esclama, perdona loro, perché non sanno quel che si facciano:

Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt! (Luc. XXIII, 34) Oh parole! oh preghiera! oh misericordia infinita di Gesù Cristo! questo Agnello divino ha interrotto al fine il suo silenzio, ma non per altra ragione che per domandar grazia e perdono a’ suoi crudeli nemici. Ed in qual modo! Con quale efficacia! Quando si farà a lagnarsi del suo abbandono, l’ascolteremo rivolgersi al suo Padre celeste col nome di Dio: Deus, Deus meus; ma ora trattandosi di assicurare a’ suoi crudeli nemici il perdono, lo chiama col nome più dolce che vi sia, col nome di padre, quasi per dirgli: Ricordatevi che Voi siete padre, il più tenero, il più amoroso, il più misericordioso, e che io vi sono il figlio più umile, più sottomesso, più ubbidiente, sino al punto da sacrificare la mia vita fra i più atroci tormenti per compiere la vostra volontà: obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Per le qualità adunque, che adornano la paternità vostra e la mia figliolanza, voi dovete passar sopra al delitto, che costoro han commesso e perdonarli: Pater, dimitte illis. Inoltre ad ottenere più sicuramente l’effetto della sua preghiera, con somma premura si fa ancora in essa a scusare l’enormità del delitto de’ suoi crocifissori, e dice: Non conoscono quello che fauno: Non enim sciunt quid faciunt. Come per dire: Non hanno conosciuto abbastanza che Io sono il Re della gloria, il Salvatore del mondo, il Figlio di Dio; ed è perciò che nel loro furore si sono scagliati a far scempio di Colui, che dovrebbero amare, lodare, benedire, adorare. Sebbene adunque sia grande la loro malizia nell’imperversare che fanno così crudelmente contro di me, abbi tuttavia riguardo, o mio Padre celeste, alla loro ignoranza ed al loro accecamento: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ah! ben a ragione osserva S. Agostino, non mai vi è stato un avvocato così sollecito, così abile, così efficace a perorare la causa del suo cliente, quanto lo è stato Gesù Cristo nel perorare quella degli stessi suoi crocifissori; perciocché con una prece piena di misericordia infinita allontana da essi la condanna eterna. Per tal guisa mentre i suoi nemici Io provocavano insolentemente a comprovare la sua divinità col discendere dalla croce e salvare se stesso, Egli diede loro una prova di gran lunga  maggiore di quella che chiedevano, e pur rimanendo sulla croce si manifestò Dio nel modo più splendido e più degno, col fare una preghiera, come nota S. Bernardo, non mai intesa per lo innanzi, e che solo un Figlio di Dio, un Dio Egli stesso, poteva fare. Ma perché mai nostro Signor Gesù Cristo ha voluto fare questa preghiera non già in silenzio, nel secreto del suo Cuore Santissimo, ma bensì ad alta voce da essere intesa da tutti coloro, che stavano intorno alla sua croce? Per due principali ragioni. La prima si fu, perché Gesù Cristo divenuto sull’altare della croce vittima di salute per noi, volle continuare, tuttavia sopra di essa, come sopra la cattedra più degna di lui, ad essere il nostro divino maestro e modello. E poiché già più volte nel corso della vita ci aveva ripetuta la legge del perdono, volle ancora ripetercela un’altra volta ed animarci alla sua pratica con queste sublimi parole, e confermarla con questo ammirabile esempio. Dopo di che, chi vi sarà ancora tra di noi, che al più piccolo affronto, che gli sia fatto, vada tosto in collera, e risponda colle ingiurie, coi giuramenti di odio e di vendetta, colle sfide ingiuste e scellerate? Vi sarà ancora tra di noi, chi avendo ricevuto una qualche offesa la covi e l’ingrandisca nel suo cuore, senza volerla affatto perdonare? Ah! si ricordi il misero, che lo stesso Gesù Cristo in altra circostanza ha solennemente dichiarato, che con la stessa misura, con cui avremo misurato gli altri, saremo misurati pur noi, vale a dire che se noi non perdoneremo agli altri le ingiurie, che ci avessero fatte, Iddio non perdonerà neppure a noi i nostri peccati, e che un giudizio senza misericordia è preparato a colui, che non usa misericordia; ma che il vero Cristiano invece, che docile alla dottrina di Gesù Cristo, e imitatore esatto del suo esempio, non concepirà, né conserverà ira od odio per le offese ricevute, che anzi ricambierà le medesime coll’amore, col benefizio e colla preghiera, sarà certamente da Dio perdonato delle sue colpe e premiato largamente delle sue buone opere. Animo adunque, o miei cari, non rendiamo inutile quella divina condotta, che Gesù Cristo ha tenuto in questa circostanza, per nostro ammaestramento ed esempio, ma a sua somiglianza siamo generosi del perdono anche al nostro più fiero nemico. – Ma la seconda ragione, per cui Gesù Cristo ha fatto ad alta voce questa preghiera di perdono, si fu perché conoscessimo, che colla stessa preghiera Egli chiedeva la stessa grazia non solo per coloro che direttamente lo avevano crocifisso, ma ancora per tutti i peccatori, di ogni tempo e di ogni luogo, i quali ancor essi coi loro peccati hanno cooperato alla passione e morte di Gesù Cristo. Ed in vero il divin Redentore rivoltosi al suo Padre celeste non gli disse: Padre, perdona ai Giudei; ma disse: Padre, perdona loro, volendo dire con questa espressione, come ne insegna S. Giovanni Crisostomo: Padre, perdona ai Giudei, perdona ai gentili, perdona agli estranei, perdona ai barbari, perdona al primo uomo, perdona alla sua posterità, perdona, perdona a tutti. Oh pensiero consolantissimo per noi: Tra i patimenti così atroci, che egli soffriva sopra la croce per cagion nostra, Gesù Cristo non ci ha dimenticati; e sebbene vedesse come anche noi colle nostre iniquità ci univamo ai crudeli Giudei per disprezzarlo e dargli la morte, sebbene conoscesse che in noi vi è maggiore malizia, perché peccando sappiamo di offendere il più grande dei sovrani, il più tenero dei padri, il più affettuoso tra gli amici, tuttavia pure di noi ha sentito pietà, pure per noi ha implorato perdono, e noi pure ha scusati col dire: Non sanno il male che fanno: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Certamente Gesù Cristo non poteva far uscire dal suo Cuore pieno di amore per noi, una preghiera di più grande misericordia. Ma ciò, che più di tutto ci deve consolare si è, che come tutte le preghiere di Gesù Cristo furono sempre dal suo celeste Padre esaudite, così pure fu esaudita questa. Alla voce potente con cui il Salvatore implorava perdono per i suoi crocifissori e per tutti gli uomini del mondo, Iddio si mosse a pietà, e spense la sua collera, colla penna intinta nel sangue istesso del suo Figlio cancellò il funesto decreto che ci condannava alla morte. Da quell’istante adunque fu stabilito che i nostri peccati per i meriti di Gesù Cristo ci siano perdonati, a sola condizione che col suo divin Sangue facciamo scorrere altresì le lagrime di una vera penitenza. Se è così, o miei cari., non tardiamo più un istante a spezzare le pesanti catene del peccato, veniamo tosto correndo a gettarci anche noi ai pie’ della croce di Gesù Cristo, e al suo Sangue prezioso congiungendo le lacrime nostre, meritiamo davvero che il Padre celeste ci perdoni, e non indarno per alcuno di noi Gesù Cristo abbia detto: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ma passiamo alla seconda parola.

II. — I profeti della passione e morte di Gesù Cristo, tra le molte circostanze, che ne predissero, vi fu anche questa: che Egli sarebbe stato annoverato fra i scellerati : Et cum sceleratis reputatus est. (Is. xxxv) E lo stesso divin Redentore nell’orto del Getsemani, avendo rivolto la parola a’ suoi discepoli, asserì che era necessario che questa profezia si adempisse: Hoc quoque oportet impleri in me: et cum iniquis deputatus est. (Luc. XXII, 3) E questa profezia ancor essa si adempì.Ed in vero mentre Egli era condotto sulla cima del Calvario,insieme con Lui furono condotti due ladroni, al par di Lui condannati alla morte; e come Lui furono crocifissi, l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Ora, uno di essi,quello che stava alla sinistra, aveva preso egli pure a bestemmiare Gesù, e gli andava dicendo: « Su, se tu sei veramente il Messia, dammelo a conoscere col salvare te stesso e noi!Ma al contrario il ladro che si trovava alla destra e che fino

allora era stato uno scellerato egli pure, inorridito all’udire il compagno del suo supplizio ad insultare così il moribondo Signore, gli volge tosto questo giusto rimprovero: « E come? nemmeno tu, che pur stai sulla croce, temi la collera di Dio, che ti unisci a questo popolo scellerato per insultare un innocente? Noi, sì che soffriamo le pene giustamente dovute ai nostri delitti, ma questi che cosa ha fatto di male? » Rivoltosi quindi al divin Redentore con un’aria tutta umile, con voce supplichevole e col cuore spezzato dal dolore delle sue passate colpe: Signore, gli disse, ricordati di me, quando sarai giunto nel tuo regno: Domine, memento mei, cum veneris in regnum tuum. (Luc. XXIII, 42) Oh fede meravigliosa di questo buon ladrone! Oh mutamento ammirabile del suo cuore! Oh conversione portentosa sopra ogni altra! Fu grande, senza dubbio, la conversione di Maria Maddalena, perciocché una giovane ricca e peccatrice per eccellenza tutto ad un tratto vincendo le inveterate abitudini della colpa, sinceramente pentita andò a gettarsi ai piedi di Gesù Cristo per darsi interamente al suo amore; ma alla fin flne ella si convertiva, quando alla parola di Gesù Cristo i ciechi riacquistavano la vista, i sordi l’udito, i muti la loquela, i lebbrosi e gli infermi la guarigione, e i morti stessi la vita, allora insomma che Gesù comprovava coi miracoli che Egli era veramente Dio.. Così pure fu grande la conversione di Paolo, perché nell’atto stesso che questo fiero persecutore dei novelli seguaci del Nazareno si scagliava a ricercarli per incatenarli e farli condannare, fu di repente tramutato in un vaso di elezione e in un apostolo delle genti; ma egli si convertiva, quando una subita luce si faceva ad investirlo, quando un colpo ignoto lo balzava da cavallo e quando una voce poderosa risuonava per l’aria gridando: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ma questo ladro invece si convertiva allora, che Gesù Cristo pendeva dalla croce egli pure, come un vil malfattore, quando era svillaneggiato non solo dalla plebe, ma dagli stessi sacerdoti e maggiorenti, quando appariva agli occhi di tutti come un prodigio di umiliazione e di miseria. Sì, fu allora, che quest’uomo, sino a quel punto ostinato nel delitto, in un istante si converte, e benché vegga Gesù Cristo in mezzo a tanto obbrobrio, crede fermamente, che Egli sia l’innocente, il santo per eccellenza, il sovrano padrone del regno celeste, il Salvatore divino del genere umano; e fu allora che, rimproverato acerbamente il suo compagno degli insulti, che gli profferiva contro, a lui si rivolse, e colla fede più viva, coll’umiltà più profonda, colla contrizione più perfetta gli disse: Signore, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno: Domine, memento mei, cum veneris in regnum tuum. Ma tutto ciò, o miei cari, non fu che un miracolo della potenza della grazia, della bontà di Gesù Cristo. Fu Egli, che sebbene come uomo stesse soffrendo ogni sorta di ludibri, di scherni e di tormenti, come Dio dispiegò ed esercitò in questo ladro quella forza ineffabile, che penetra nelle menti più ottenebrate e le illumina, che tocca i cuori anche più duri e li muta, che comanda alle volontà anche più ribelli e le doma. Fu Egli che commosse quest’uomo sino a quel momento indurato nella colpa, fu Egli che lo animò di una fede sì viva, di una umiltà sì profonda, di una contrizione sì perfetta; fu Egli che gli ispirò e gli suggerì quella bella preghiera; fu Egli che in un attimo, di questo scellerato fece un penitente, un profeta, un evangelista, un martire, un confessore, un predicatore pubblico e coraggioso della sua innocenza, della sua potenza, del suo regno, della sua divinità e della sua redenzione. E così, mentre i Giudei, stupidi e maligni, collocando Gesù tra due ladroni, non avevano pensato ad altro che a maggiormente avvilirlo, beffati da Dio nella loro stupidità e malizia, non servirono invece che a renderlo più glorioso, dandogli agio anche qui di esercitare la sua misericordia, di manifestarsi Dio e di acquistare un nuovo adoratore. Ma se la conversione repentina di questo ladro fu anzitutto l’opera della grazia di Gesù Cristo, non lasciò di essere da parte del ladro una pronta e fedele corrispondenza alla medesima. Epperò questa condotta così ammirabile non poteva rimanere senza premio. Che farà adunque Gesù Cristo? Che cosa gli risponderà? Ah! Gesù Cristo, ascoltata l’umile e confidente preghiera, piega amorosamente verso di lui il suo capo, e con somma dolcezza gli risponde: « Te lo assicuro, oggi sarai meco in paradiso: » Amen dico Ubi: hodie mecum eris in paradiso. (Luc. XXIII, 43) Oh parola! oh risposta degna, d’immortale memoria! Oh prontezza della misericordia divina nel muovere incontro al peccatore penitente ed assicurarlo non solo del perdono, ma della eterna beatitudine. « Oggi sarai meco in paradiso, » vale a dire: Tu chiedi che Io mi ricordi di Te entrato che sarò nel mio regno, ma Io ti dono assai più di quello che chiedi; oggi stesso, prima che il giorno finisca, tu, benché sia stato ladro, sarai in mia compagnia; oggi stesso ti mostrerò agli Angioli come primo trofeo della mia grazia, come primo frutto della mia redenzione; oggi stesso insieme coi giusti che mi attendono nel limbo ti darò a vedere la mia essenza divina, in cui propriamente consiste la vera gloria del paradiso: Hodie meoum eris in paradiso. È dunque vero! L’uomo può ancora allargare alla speranza il suo cuore, quando pure ha passato una vita intera nelle abominazioni del peccato? Sì, o miei cari, nella sua infinita misericordia Iddio è pronto sempre ad accogliere nelle sue braccia il povero peccatore, anche allora che da lunghissimi anni sta lontano da lui. Forse vi saranno qui tra voi di coloro, che da dieci, venti, trenta, quarant’anni accumulano iniquità sopra iniquità, miserie sopra miserie, delitti sopra delitti, e che in questo istante medesimo all’udire il miracolo della grazia del Crocifisso sentono in fondo all’anima un salutare risveglio, che li fa esclamare: Oh se anch’io … Deh! assecondino essi il primo impulso della divina misericordia; non si spaventino al pensiero delle infinite colpe passate; non rispondano alla brama di convertirsi: Per noi è inutile; Dio non ci perdonerà più; no, o dilettissimi, ma, contemplando il buon ladrone accanto a Gesù Cristo, come lui percuotano il Cuore amoroso, come lui gli dicano contriti ed umiliati: Domine, memento mei: Signore, ricordati di me, volgimi il tuo sguardo amoroso; miserere mei; abbimi compassione. E d ancor essi potranno sentirsi ripetere questa consolante parola: Oggi sarai meco in Paradiso: Hodie mecum eris in paradiso. Sì, oggi, perché per la grazia di Dio, l’anima del peccatore può essere spezzata da un dolore sì grande delle proprie colpe, da ricolmare in un istante gli abissi, che la separano da Dio. Senonché, o miei cari, imitando la illimitata fiducia, con cui questo ladro corrispose alla grazia divina, guardiamoci bene dal differire come lui sino agli estremi della vita la nostra conversione. È vero, questo ladro si convertì e si fece santo, direi in quel momento medesimo, in cui l’anima gli fuggiva dal corpo; ma ben diversamente il cattivo ladrone in quel momento istesso si ostinava nella sua colpa, nella sua cecità, nella sua malizia; e propriamente vicino a Gesù Cristo, mentre il sangue di Lui si versa per la salute degli uomini, mentre le sue piaghe stanno aperte per riceverli, mentre insomma la grand’opera della redenzione si compie, egli, il disgraziato, si perde e si avvia con precipizio all’inferno. Ah ciò vuol dire adunque che il divin Redentore, nella misericordia infinita del Cuor suo, assicura il paradiso ai veri penitenti, che docili all’azione della sua grazia prontamente vi corrispondono, ma che d’ordinario abbandona alla loro trista sorte quegli uomini superbi ed ostinati che respingono le misericordiose sue chiamate. Ciò vuol dire che ad ottenere la salute non basta esser vicini alla Croce di Gesù Cristo, frequentando la chiesa, ascoltando anche ogni giorno la messa, intervenendo a processioni e ad altre pratiche devote, se per siffatto modo stando presso alla stessa croce pur si continua ad essere nemici di Gesù Cristo tenendo nell’animo il peccato e nutrendo perciò una profonda inimicizia con Lui. Ciò vuol dire che se si può perire sullo stesso Calvario presso alle piaghe ed al sangue del divin Redentore, vi è ben da tremare per coloro che se ne vivono lontani nei teatri, nei balli, nei ridotti, nei conviti, nelle conversazioni, negli scandali e nella corruzione del secolo. Ciò vuol dire insomma che la misericordia divina non manca a chi prontamente la vuole, la cerca, la invoca, ma che può mancare in eterno a chi ne abusa, a chi non la cura, a chi volontariamente la sfugge. Deh! o miei cari, se oggi la voce di. Gesù Cristo agonizzante, sprigionandosi dal suo Cuore divino ha ferito le nostre orecchie, non vogliamo indurare i cuori nostri. La gioventù, la sanità, il tempo potrebbero sul più bello mancarci, perché la morte propriamente come un ladro può coglierci quando meno si aspetta. Diciamo dunque ancor noi a Gesù Cristo con prontezza e con sincerità: Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno; perché a tutti Gesù Cristo risponda: Oggi sarai meco in paradiso: Hodie mecum eris in paradiso.

III. — Ma ecco che Gesù apre un’altra volta il suo labbro divino e pronunzia un’altra parola, la più dolce, la più tenera, la più consolante di tutte, quella parola con cui ci diede Maria SS. per Madre. Ma perché questa parola è così grande, che basta da se sola a costituire una delle prove supreme dell’amore di Gesù Cristo per noi, dobbiamo senza dubbio riservarla da sola e per altro giorno alle nostre considerazioni. Passiamo ora adunque a meditare la quarta parola, che il divin Redentore profferisce. Gettando lo sguardo sopra la terra sembra di non vedere altro che pene, guai e dolori; tendendo l’orecchio a noi d’intorno sembra non udire altro che lamenti, gemiti e pianti! Tant’è! Dopo la caduta del nostro progenitore il soffrire è divenuto legge universale per tutti gli uomini. Noi cominciamo a piangere appena nati, e il dolore, fattosi compagno del nostro viaggio attraverso a questa valle di lagrime, più non ci lascia sino al termine. Vi ha forse alcuno tra di voi, sebbene entrato da pochi anni per questo cammino della vita, che ignora ancora l’amarezza del pianto! Vi è stato o condizione che si possa sottrarre al dolore? Soffre il povero, ma non soffre meno il ricco; soffre il suddito, ma soffre pure il sovrano. Tutti, tutti soffrono; e in quanti modi diversi! Ma per quanto gravi siano tutto le sofferenze, a cui variamente sono gli uomini assoggettati, forse non ve n’è alcuna maggiore di quella, che opprime un’anima innocente, destinata ingiustamente al supplizio e per essere creduta rea, abbandonata persino dalle persone a lei più care. Io me la immagino quest’anima infelice in un giovane sventurato, che lanciatagli contro la falsa accusa di aver cospirato contro la patria, caricato di ferri vien gettato nel fondo di tetra prigione, perché ivi aspetti il giorno, in cui sarà tratto alla morte. Gli amici, anziché pigliar le sue difese, per timore di essere trascinati nella stessa iniqua sentenza, si sono nascosti. Ognuno tra gli stessi parenti lo aborre, ognuno lo abbandona al suo destino; nessun lo compiange, lo soccorre. Lo stesso suo vecchio padre, quel padre che prima tanto lo amava, ora ritenendolo egli pure colpevole, e costringendo al silenzio ogni affetto di natura, non ricorda il figlio che per far pesare sul suo capo tremendo la sua maledizione! Ah! dite: vi può essere afflizione più grave di questa? Morire innocente e abbandonato maledetto dallo stesso padre! Ahimè! o miei cari, che questa è propriamente la condizione di Gesù Cristo! Anche questa terribile parola: Maledictus, qui pendet in ligno! doveva per Lui essere adempiuta. Gesù Cristo, vero Figliuolo di Dio, innocente, senza macchia, segregato dai peccatori, colmo di tutte le ricchezze della grazia e della santità, non per necessità, ma per amore venuto sulla terra ad operare la nostra salute, si è rivestito di tutti i peccati degli uomini affine di espiarli. Ma da quell’istante medesimo che Egli fece sue tutte quante le nostre iniquità, il suo divin Padre lo riguardò come reo delle medesime, e senza punto risparmiarlo prese a percuoterlo terribilmente. Lo percosse nella sua nascita, e Gesù patì la povertà, il freddo, la miseria; lo percosse nella sua vita privata e Gesù patì l’esiglio, l’indigenza, la fatica; lo percosse nella sua vita pubblica e Gesù patì l’ingratitudine, gl’insulti e le maledizioni; lo percosse nella sua passione e Gesù patì l’abbandono dei discepoli, il tradimento di Giuda, la cattura, gli obbrobri, la flagellazione, la coronazione di spine, la condanna a morte, il portar la croce, l’esservi sopra confitto; lo percosse sulla croce istessa e in mezzo a quegli atroci tormenti, che andava soffrendo, lo lasciò nel più desolante abbandono. Non già, o miei cari, che il divin Padre abbandonasse Gesù Cristo in quanto alla natura divina, per cui sono tra di loro una cosa sola ed inseparabile, ma lo lasciò tuttavia in abbandono coll’esporre la sua umana ed inferma natura alle potestà delle tenebre, col lasciarlo in balìa de’ suoi nemici, in preda al furore degli nomini e dei demoni, a tutte le ignominie, a tutti gli insulti, a tutte le pene e a tutti gli orrori della croce; col sottrargli ogni protezione, col negargli ogni stilla di consolazione e di refrigerio, e qualunque siasi di quelle dolcezze, con cui confortando poscia i martiri li rendeva contenti e giulivi negli stessi più atroci tormenti, col lasciarlo insomma come immerso ed affogato in un mare di amarezza, anzi col gettarvelo Egli stesso: Proprio filio non pepercit, ned prò nobis tradidit illum. A questo colpo non poté più resistere l’agonizzante Gesù, e raccolto sulle labbra quel misero avanzo di fiato che gli era rimasto, si lamentò d’un sì doloroso abbandono, esclamando a tutta voce: Dio, Dio mio, perché mi hai Tu abbandonato? Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? (MATT. XXVII, 46). Oh parole da far tremare la terra, da ecclissare il sole, da sbalordire tutta la natura! Certo è, che non vi era cosa più famigliare a Gesù Cristo, quando parlava a Dio o di Dio, che chiamarlo col nome di Padre! Eppure in così grande occasione, in tanta necessità di conforto, dimenticato questo dolce nome, lo chiama col nome augusto e terribile di Dio! Deus, Deus meus! Ah! queste non furono certamente le voci della natura divina, ma bensì le voci della inferma umanità, che vedendosi dall’Eterno Padre trattata come se non fosse quella del suo Figliuolo, non ebbe più l’ardire di chiamarlo Padre, e lo chiamò Dio. E volle dire : « Mio Dio, che io chiamo con questo nome, perché sembra che Tu stesso abbia dimenticato di essermi Padre; lasciandomi a soffrire in questo mare di amarezze senza una stilla sola di quella consolazione, che neppure negasti ad un ladro, che per enormi delitti mi pende su d’un patibolo qui vicino; Dio, Dio mio, perché, mi hai così abbandonato: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? » Oh parole! Oh lamento da impietosire un cuore di sasso! Ma di queste parole, di questo lamento noi siamo stati le causa coi nostri peccati. Questa è la conseguenza, questo l’effetto di quell’ingrato abbandono, che noi tante volte adoprammo con Dio. Sì, egli è per te, o superbo sapiente del mondo, perché abbondonasti le verità della fede, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o magistrato iniquo, perché abbandonasti la giustizia, che Dio ha abbandonato Gesù, egli è per te, o vile schiavo degli umani rispetti, perché abbandonasti la pratica della santissima Religione, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o miserabile assetato dei beni della terra, perché abbandonasti l’equità ne’ tuoi guadagni e il rispetto alle altrui sostanze, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o sacrilego infame, perché abbandonasti la santità nei sacramenti, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, scellerato marito, perché abbandonasti la tua sposa, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o padre snaturato, perché abbandonasti la cura de’ tuoi figli, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o donna vana e superba, perché hai abbandonato la modestia e l’umiltà; per te, o donzella scandalosa, perché abbandonasti il pudore; per te, o giovane dissoluto, perché abbandonasti l’onestà; per te, figliuolo ingrato, perché abbandonasti l’onore a’ tuoi genitori; per me, sacerdote e religioso indegno, perché abbandonai la santità ed il fervore; egli è per tutti noi, perché tutti abbiamo abbandonato Gesù che Gesù fu abbandonato da Dio! E perché lo abbandonammo? Oh stolti che fummo, Gesù stesso lo dice: « Abbandonarono me, fonte di acqua viva per scavarsi delle sozze pozzanghere! Dereliquerunt me, fontem aquæ vivæ, et fonderunt sibi cisternas… dissipatas. Per un capriccio, per un puntiglio, per una vendetta, per uno sfogo di carne, per un umano riguardo, per una lettura cattiva, per un discorso disonesto, per un piacere da nulla, che non ci ha fruttato che amari rimorsi. Se adunque Gesù Cristo ha sofferto l’abbandono del suo divin Padre per cagion nostra e di questo abbandono gliene ha mosso lamento, non fu già una lagnanza delle pene, che soffriva Egli stesso, ma piuttosto una lezione sensibile delle pene, cui andiamo incontro noi a cagione de’ nostri peccati. Vox istadice S. Agostino – doctrina est, non querela. I peccatori, che si danno con tanta licenza a contentar le passioni, a seguire il vizio, a commettere la colpa, abbandonano violentemente Iddìo, e si allontanano da lui: Elongaverunt a me; (GER. II, 5) ma il Signore abbandona alla sua volta questi peccatori e si fa lontano da essi: Longe est Dominus ab impiis. (Prov. xv, 29) Allora poi soprattutto, quando gli sciagurati si sono ostinati nella via dell’impenitenza e han fatto i sordi ai non pochi richiami della divina misericordia, allora Iddio pronunzia per essi la sentenza dell’eterno abbandono: Curavimus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam. (GER. LI, 9) Ed allora effettuandosi questa feribile sentenza, verrà giorno, in cui i peccatori grideranno come Gesù Cristo: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti meiE questa straziante elegia del loro cuore, affranto da una maledizione irrimediabile, riempirà l’eco della loro eternità. Ecco la pena terribile, che Gesù Cristo ci ha posto innanzi in quel suo grido. E tutto ciò non fu un’altra prova della sua Carità infinita per noi? Non ha voluto per tal guisa animarci quanto più gli era possibile a non voltargli più mai le spalle, a non volerlo più. abbandonare? Ah! che le mire caritatevoli del Cuore di Gesù Cristo non siano frustrate! Che tutti abbiamo pietà dell’anima nostra! Che tutti prontamente risolviamo di unirci a Gesù Cristo per non abbandonarlo più mal e per non esserne più mai abbandonati. Sì, o Cuore Santissimo, noi ci stringiamo in questo momento alla vostra croce, e confidati nei meriti infiniti del vostro Sangue e delle vostre Piaghe, noi giuriamo solennemente di star sempre d’ora innanzi a voi uniti colla grazia vostra, di seguirvi dappertutto, in tutta la vostra dottrina e in tutti i vostri esempi, per meritarci un giorno la felicissima sorte di unirci a voi con un nodo indissolubile e godere della vostra beata compagnia per tutti i secoli.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.