
Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884
PARTE PRIMA
CAPO XXV.
L’ astrologia giudiziale non si può né anche fondare sull’esperienza.
I. Le fiere più maliziose sogliono alle lor tane formare due bocche, le quali se da’ cacciatori non sono serrate a un’ora, vana è la caccia. Dopo aver pertanto all’astrologia chiusa una porta della sua tana, che è la ragione, vantata a torto, conviene incontanente chiuder l’altra, che è l’esperienza: tanto più che da questa si fida più di scappare la maliziosa ove le riesca.
I.
II. E indubitato che qualunque esperienza si conseguisce colla induzion di più casi particolari tra loro simili, i quali danno la regola universale, madre dell’arte; e l’induzione, come il filosofo insegna (Arist. metaph. 1. 1. c. I . eth. 1. 6 c. 4), vuol decorso lungo di tempo: che è la cagione onde i giovani ne son privi. Dican però gli astrologi, che esperienza sia mai la loro di lungo tempo? A lasciare andare le favole, Tolomeo riduce le prime prove di una tal arte ai caldei, usi di vivere anticamente all’aperto, per osservare gli andamenti anche minimi delle sfere. Ma i caldei non osservarono altro più che i moti solari ed i moti lunari: e poco attesero a quei degli altri pianeti, come si raccoglie da Ipparco, il quale spogliò per sé tutti i loro fondachi (V. Gassend. tom. 1. 1. 6. c. 1). Eppure quelle osservazioni medesime furono da’ caldei formate alla grossa (come avviene in tutti i principii delle arti), sì perché ancor non avevano altri istrumenti, che mastini e malfatti, sì perché quelli malamente adattavano alle misure (V. Sext. Empir. 1. 1. in mathem. c. 21): onde chi può dire gli errori corrotti in essi, non pure da Tolomeo, ma da tutti i seguenti astronomi, che sulle tavole, formato poi da lui più distintamente, si tennero lunga età per non ire a fondo?
III. Senonchè neppur esse bastarono a preservarli da un generale naufragio, mentre fino al passato secolo tutti al pari, con presupporre che le sfere de’ cieli fosser concentriche, si appoggiarono ad un sistema, convinto ormai e condannato ad evidenza per falso.
IV. E pur v’è di più. Perchè l’età nostra, portando il guardo per mezzo del cannocchiale fin sulle sfere più alte, ha scoperto un nuovo cielo, dirò così, dentro il cielo antico: scoperte stelle senza numero, o massimamente nella via lattea (che per la gran moltitudine che ne accoglie non può non formare una costellazione più attiva di qualunque altra): scoperte ne’ pianeti stessi nuove apparenze, nuovi compagni, nuovi corsi, non più notati che a variare gl’influssi buoni o maligni de’ suddetti pianeti, sicuramente possono molto più, che non può il semplice luogo, considerato sol dagli astrologi nelle loro calcolazioni, o piuttosto finto di un zodiaco posticcio, qual è uno zodiaco fuori del cielo stellato; e scoperte soprattutto macchie vastissime in faccia al sole per cui, quando ancora le osservazioni antiche fossero esatte, verrebbero a scapitare infinitamente di autorità: perciocché essendo queste macchie solari come nuvole immense, riputata taluna eguale a tutta l’Europa (Blancan. in sphaera 1. 10. c. 25), chi può spiegare quanto a quel gran corpo di fuoco, cui stanno opposte, rifrangano la sua possa, con alterare tutti gli effetti sullunari a gran segno? che però a quegli anni, in cui tali nubi sono comparse più smisurate o più stabili, il nostro mondo inferiore ha goduta una state molto più mite, standosi quasi all’ombra di quello sì vaste tende; come per contrario, non essendosi dopo le comete insigni, vedute più in volto al sole per qualche tempo simili macchie, i mesi estivi sono corsi più accesi, e le stagioni più asciutte. Ora, non pure gli astrologi da principio non osservarono nulla di tutto ciò, ma né anche ne fan parola addì nostri come dovrebbero, dappoiché il Galileo, primo discopritore, non di una terra incognita, ma di un cielo, ce ne recò le novelle. Che esperienze però son coteste loro? Bisogna prima fermar come stian le sfere, e dipoi fondarvi i discorsi.
V. Ma questo è ‘l bello, che ne’ caldei tutti gli astrologi notano gravi abbagli quanto al sistema de’ cieli, e in un protestano di non volersi dipartir da’ caldei nelle loro regole. Così fa Tolomeo medesimo (Alex, de Ang. 1. 4. in astrol. c. 4). Ed il Cardano, che vantasi di avere rialzata l’astrologia dalle sue rovine con gloria maggiore che non sortì il Fontana dal rialzarne l’obelisco sì bello del Vaticano, riconosce Tolomeo qual principe degli astrologi; eppure non solamente gli appone abbagli gravissimi sopra i moti del sole e della luna, due pianeti i più validi ad operare; ma di quattro falli, i più solenni nella sua professione, che sono falsa ratio, falsa computatio, falsa observatio, falsa temporum enumeratio (Sect. 1. aph. 71), lo dichiara reo de’ due ultimi chiaramente: quasiché i due ultimi non si tirino dietro ancora i due primi. L’onore istesso fa egli a Giulio Firmico, pronunciando che fu uno sfacciato e uno stolido: l’istesso all’Albumasarre, 1’istesso all’Albubater, l’istesso al Bonato, maestri sommi: laddove quelli che sono poi succeduti al Cardano, tacciano lui di aver errato, qual uomo audace, all’ingrosso, anche ne’ primi principii. E così leggasi il Bellanzo, il Pighio, il Pontano, il Nifo, i l Gaurico, il Giuntino, il Vossio, o sia chi si vuole, non troverassi un astrologo, il quale non danni l’altro d’ignorantissimo, di venale, di vano, di trascurato (Al. de Ang. 1. 4. c. 2). Che però dov’è l’esperienza di sì grand’arte, se in lei non v’è chi seguire con sicurezza, dacché ella nacque?
VI. Almeno fosse vero, che quelle prove alquanto legittime che si fossero tolte per lo passato, potessero adattarsi al tempo presente. Ma non si può. Conciossiachè avanzandosi le stelle fisse col moto proprio dall’occidente verso l’oriente, fino ad un grado, nello spazio di settantadue anni e quattro mesi; ne segue, che oggi abbiano in cielo un posto diverso assai da quello che occupavano al tempo de’ primi osservatori de’ loro corsi (Ricciol. Almag. 1. 4. c. 14): tanto che la prima stella d’ariete, collocata nel destro corno, era, duemila anni sono, nel primo grado dell’istesso ariete, ed ora è nel vigesimonono: e il simile è di più altre (Alex, de Angel. 1. 4. c. 21). Pertanto, cambiato il luogo, di cui i giudiziari fanno così gran caso, vengono a cambiarsi le declinazioni e le altezze meridiane, e conseguentemente ancora gì’influssi, come apparisce nel sole, sì differente ne’ suoi effetti la state da quello che egli è di verno, per la mera diversità di quel posto che tiene in cielo. Sicché non essendo l’ottavo cielo tornato anco nella positura medesima che ebbe al tempo de’ suoi primi osservatori, né potendovi ritornare (come dimostrasi) se non in capo ad anni, per lo meno ventottomila; qualunque prova che adducasi da’ moderni, sarà una prova singolare, e pero non atta a meritarsi nel tribunale della sapienza fede maggiore di quella che si meriti nel tribunale della giustizia la testimonianza d’un solo: Unus testis nullus testis. E posto ciò, chi non vede, per conclusione, che da più prove simili non han potuto gli astrologi cavar finora una regola universale, su cui tenersi nelle loro natività? E se non hanno una regola universale, come possono dunque alla professione che fanno dar nome d’arte? Ella al più è giuoco semplice di fortuna, non è induzione; mentre non ha potuto finora avere per sua guida l’esperienza, ma salo il caso: Experientia facit artem, inexperientia casum.
II.
VII. Che se non l’ha potuta avere finora, la potrà forse avere da ora innanzi? Questo è il peggio: che non potrà: onde se l’astrologo non vuole andare alla caccia dell’ombra propria, che quanto più si segue, tanto più fugge, meglio è che lasci l’impresa.
VIII. I moti di Mercurio e di Marte (che sulle scene de’ genetliaci fanno le prime parti come quelli da cui dipendono gli affari più rilevanti della pace e della guerra), né finora sono ben palesi a veruno, né possono essere. Mercurio si dilunga così poco dal sole, che i più valenti e i più vecchi astronomi appena si potranno dar vanto di averlo veduto in vita loro due volte. Marte poi è così strano ne’ suoi viaggi, che fu creduto dagli antichi talora quasi esule dalla patria, cioè dal suo cielo (Ricciol. Almag. t. 1. in praef. pag. 14). Certa cosa è, che Ticone (il quale nel contemplare le stelle parve un’intelligenza terrena emula delle celesti che le governano) afferma, non potersi per via delle tavole usate saper le congiunzioni di Marte con Saturno più esattamente, che con pericolo di dare lo spazio di tre o quattro giorni di là dal vero ( L . de nova stella). E tuttavia gli astrologi assegnano non solo il giorno e l’ora, ma sino il minuto preciso di tal congiunzione, per adattar bene le cuspidi delle loro case celesti (come ad uno di loro rimproverò l’istesso Ticone) (Ib. Contra Appian.). formandosi gli antichi il cielo a lor modo, quasiché nessuno abbia mai da riconvenirli.
IX. Queste medesime difficoltà s’incontrano più o meno, nel divisare gli andamenti degli altri pianeti ancora: donde nasce il tanto variare che fanno nelle loro effemeridi gli astronomi, benché dotti: nasce il non accertare per appunto nelle predizioni delle ecclissi, in cui spesso discordano le loro tavole l’ore intere; e nasce la necessità che v’è stata perpetuamente di riordinare ad ora ad ora il calendario non mai ben fermo. L’incostanza degli anni è quella che ha portata una tale necessità, non si può negare: ma l’incostanza degli anni ecco donde viene: dal non essersi mai finora potuto arrivare il punto preciso dell’equinozio vernale, che è quello da cui piglia l’anno astronomico il suo principio. So però non si può sapere appunto l’ingresso che fa il sole ne’ propri segni, come si potrà saper quello che facciano ne’ loro gli altri pianeti di lui più occulti? E se non si sa tale ingresso, su che stabiliranno gli astrologi l’esperienze de’ loro superbi annunzi? Potrà definire in qual grado, in qual particella, in qual punto i pianeti si trovino di alcun segno chi non sa quando fu il passaggio lor preciso dall’uno all’altro?
X. Diranno che non è di necessità una cognizione sì esatta di tali tempi e di tali trasmigrazioni, ma che bastane una morale. Questa risposta, che par sostegno da reggere la fabbrica già cascante, è nondimeno un ariete a finir di rovinarla. E che sia tale:
XI. Uno de’ più solenni argomenti a discredito di quest’arte è la diversissima fine che ordinariamente sortiscono due gemelli nati ad un’ora. Di questo argomento si valse Tullio (L. 4. de Div.) coll’esempio di Proclo e di Euristene, signore de’ lacedemoni, pari nel nascere, e dissimigliantissimi sì nel vivere, si nel morire: e più acutamente se ne valse il grande Agostino (L. 5. de civ. c. 6), coll’esempio di due gemelli, diversi ancora di sesso: ed uno, che, tolta moglie, lasciò la casa per andare alla guerra; l’altra vergine, data a guardar la casa. Se dunque fosse vero quello che è primo principio de’ genetliaci, cioè che al primo momento dell’uscir fuori la creatura dall’utero, le stelle natalizie v’improntano i loro influssi per tutto il tempo avvenire, come il sigillo improntasi in una cera: se fosse, dico, ciò vero, converrebbe che i due gemelli sortissero senza divario un destino stesso sino alla fin della vita. Ma per lo più succede tutto l’opposto: dunque conviene che sia falso il principio su cui i genetliaci fondano le avventure.
XII. Lo scudo che essi oppongono a sì gran lancia, fu il pensier sovvenuto a Nigidio Figulo, pensiero a lui così caro per la invenzione, che ne pigliò fino il nome, qual Scipione dall’Africa debellata. Entrato Nigidio nell’officina di un vasaio, mentre il vasaio volgeva appunto la ruota più fortemente, la segnò due volte con due velocissimi tratti di tinta nera che aveva in mano, e fattola poi restare, fè vedere agli astanti, che que’ due segni, benché impressi quasi ad un attimo, erano tuttavia ben distanti l’uno dall’altro, per la celerità della ruota nel suo girarsi. Così disse egli, addiviene nel rotarsi de’ cieli tanto più rapidi. Quel breve tempo che si frammette nel venire i due gemelli alla luce (quantunque immediatamente l’un dopo l’altro) è la cagione della diversità che poi passa nel loro vivere.
XIII. Ora per veder quanto male a loro difesa si vagliano i genetliaci di questa ruota, quasi di fatata rotella, rispondano a Favorino filosofo, che presso Gellio (L. 14. c. 1) gl’interroga di tal guisa: Se uno spazio sì breve, qual è quello che si frappone nel nascimento di due gemelli, è di sì alto rilievo, che basta a collocarli sotto un fato sì differente; com’è possibile, che gli astrologi dalle stelle natalizie possano mai saper nulla degli accidenti futuri a verun mortale, mentre non possono mai sapere accertatamente la positura di tali stelle nell’atto della natività la quale non può avvenire in sì breve tratto, che in breve non abbiano già quello seguito a correre più che la ruota di qualsisia vasellaio: o molto meno possono innalzare il tema di detta natività sulla relazione che sian per darne i genitori, le mammane, i medici, o qualunque altro che fosse assistente al parto: né si può fare mai diligenza che basti a rinvenire questo momento fatale, senza scambiarlo, massimamente in tanta dissension di orologi non mai concordi; eppure un momento che sia pigliato per l’altro, benché immediato, fa tanto svario! Così non intendono gli astrologi, che ad un architetto di castelli in aria non basta l’avere ingegno, vi vuol memoria. Di sopra dicevano essi, che a’ loro assiomi non è necessaria una cognizione esattissima de’ minuti e de’ movimenti, bastandone una morale; ed ora dicono che la diversità d’un momento solo cagiona ne’ gemelli effetti così contrari, non che diversi : Oportet mendacem esse memorem. Se avessero tal memoria, non oserebbero certamente di far gli oroscopi, non solo ai bambinelli, ma alle città. E non veggono essi quanti lustri vogliono a porle in piedi? Eppure non temono di formare ad esse le loro natività: come anticamente un certo Taruzio la fece a Roma, e come ultimamente il Cardano la fece a tante d’Italia (a Venezia, a Bologna, a Milano, a Firenze), dappoi di avere apprese già le loro indoli e i loro istinti, per esser più sicuro d’indovinarli : 0 vim maximam erroris, dicea però bene Tullio (L. 2. de div.) montato in ira: Etiamne urbis natalis dies ad vim stellarum pertinebat ? Fac in puero referre ex qua affectione cœli primum spiritum duxerit: num hoc in latere, aut cæmento ex quibus urbs effecia est, poterit valere?
III.
XIV. Ma, dacché tutto il saper loro si fonda sull’esperienza, dicano inoltre: da quale esperienza si conducono essi ad argomentare il tenor del vivere ed il tenor del morire, dal solo punto del nascere, mentre l’esperienza ci fa vedere in contrario, che tanti entrati nel mondo sotto oroscopi diversissimi, ne escono tuttavia coll’istesso fine? Mi spiegherò. Muoiano oggi due uomini, l’uno in acqua, l’altro di spada: se voi consultate gli astrologi (tanto felici a rinvenire ciò che fu, quanto infelici a dir ciò che sia per essere), vi troveranno subito donde avvenne. Chi naufragò, dicon essi, sortì nascendo la secchia dell’acquario per ascendente: e chi ferito morì in battaglia, sortì la punta acutissima della freccia del sagittario (V. Miletto 3. curs. math. de astr. prop. 9). Fermi le risa chi può, e passi ad addimandare: certo è, che pochissimi appo gli astrologi son gli aspetti significatori di morte in guerra, o di morte in acqua, Postò ciò, quando nel secolo passato 1’armata navale cristiana, rompendo la turchesca di Selimo II, tinse il mare di sangue maomettano, ed empì le spiagge vastissime di cadaveri, dobbiamo noi credere che tutti quei musulmani, periti di ferro fossero stati al nascer loro feriti dalla cuspide del sagittario, e tutti gli affogati nell’onde fossero nati coll’urna in capo di acquario? Non si può dire che sì, perché in tanti natali differentissimi sarebbe stoltizia volerselo divisare. Adunque diversi oroscopi nel nascere portano ad un medesimo termine nel morire.
XV. Senonchè per difendere una falsità minore con una maggiore, sognano essi certe rivoluzioni universali, che tirandosi dietro a forza gli oroscopi particolari, stravolgano loro il corso: come farebbe ad una nave bene avviata dal vento in poppa, un turbine improvviso ed impetuoso sorto da fianco. E queste universali rivoluzioni portano tanti insieme, per loro detto, a perire di naufragio, di fuoco, di ferro e di altre sciagure indebite. Ma se le stelle non sono né segni, né cagioni degli eventi liberi o casuali, conforme abbiamo veduto, ma influiscono al più nel solo temperamento a formare un’indole o un’inclinazione, piuttosto che un’altra: con quali lieve svolgono le cose sossopra in queste universali rovine? Dove s’impressero allora quelle influenze sì maligne al nome ottomano? Nel mare nato già sei mil’anni prima? ne’legni? negli archibusi? nelle aste? nelle spade? nelle saette? nelle munizioni? Dicasi, in che? Di poi, quando a risposta sì capricciosa pur donisi il passaporto non meritato, ne segue dunque, non poter mai gli astrologi predir nulla intorno alla vita ed alla morte degli uomini; perocché sempre rimarrà a dubitare di qualche abbattimento di stelle non preveduto, che tronchi a mezzo la tela incamminata de’ successi privati, coll’occasione di qualche squarcio solenne, recato ai pubblici da tali rivoluzioni.
XVI. Passiamo innanzi. Qual esperienza ha loro insegnato o potrà insegnare, di ascrivere alle stelle, ascrivere ai segni, una man di effetti che manifestamente debbonsi al sole? Eccone chiaro l’esempio. Ascrivono questi i caldi eccessivi di agosto al segno del leone ed alla stella del cane unita a tal segno. Eppur nulla meno. Conciossiachè quelle vampe che noi proviamo quando il sole è in leone, provan gli antipodi quando il sole è in acquario: e il nostro agosto è il loro gennaio, e il nostro gennaio è il loro agosto: cambiandosi tra loro e noi totalmente le altezze meridiane del sole, da cui proviene la state. Quindi se il mondo segua a vivere ancora diecimil’anni, il cane si avanzerà a nascere nel cuore di gennaio. Vogliamo però noi credere che allora il gennaio debba essere sì cocente, come or l’agosto nei giorni canicolari, perché il cane è focoso di sua natura? Eppure così avverrebbe se fosse vera quella distribuzione che fanno gli astrologi di segni ignei e di stelle che buttan fuoco. Qual dubbio dunque che ingiustissimamente attribuiscono essi alle stelle, qual parto suppositizio ciò ch’è del sole, e che però troppo sono da dileggiarsi, quando per la congiunzion de’ pianeti in questi segni ignei, pronosticano incendi sì spaventosi?
XVII. Senonchè non è certo, che tali segni sono tutti fantastici? E come dunque un puro nome avrà forza di operare le più strane cose del mondo? Eppure così è. Distinguono i genetliaci prima il cielo in dodici parti, e danno a questo il nome di case, in cui riconoscono poscia tanto di forza, che un pianeta buono in una casa cattiva divien dannoso, e un pianeta cattivo in una casa buona divien propizio; quasi che qualunque pianeta sia come il pesco, che piantato in Persia è veleno, trapiantato in Italia si dà per cibo: Posuit translata venenum (V. Millet. 10. 3. curs. mat. propos. 3. astr. Alex, de Ang. 1. 4. c. 19. et 1. 4. c. 6). La prima casa, situata all’oriente, dicon essere della vita: e perché, dopo la vita nessuna cosa amasi più della roba; danno la seconda al guadagno: e perché la roba porta gli amici in copia, danno la terza agli amici: e perché la quarta è nel posto principale, detto imo cielo, danno la quarta ai padri, al patrimonio ed a tutto ciò che provenga felicemente da eredità: e perché per questa sogliono star bene i figliuoli, danno la quinta ai figliuoli, intitolandola dalla buona ventura, promessa quivi da Venere; e perché nella sesta, finta sull’occidente scorgono Marte, danno la sesta alla fortuna sinistra, con farla significare i servi e le serve, e le cadute sì orride ai cortigiani; e perché dopo gl’ineguali succedono ben gli eguali, danno la settima alle nozze, in cui godesi l’eguaglianza; l’ottava, scorta da un malefico raggio non aspettato, viene attribuita alla morte già imminente; la nona alla pietà, perché quel luogo, secondo loro, è prossimo al sommo cielo; la decima agli onori, perché è nel mezzo; l’undecima al genio buono, perché v’è Giove: la duodecima finalmente al cattivo, perché così loro aggrada: che è la ragione anche vera di tutto il resto. Voi che leggete, udiste mai zingaresca più dilettevole? Veramente non vi abbisognano catapulte, quando si tratti di abbattere case tali, fondate in aria. Contuttociò domandate prima agli astrologi, perché ripartiscano il cielo in dodici case e non più: non han che rispondervi, mentre la divisione è affatto arbitraria. Gli auguri antichi lo ripartivano in sedici (Tull., de div. 1. 2). Quanto a me io vorrei ridurre tutte queste case a due semplici appartamenti, ed allogarne uno alla temerità di chi propon queste ciance come misteri, l’altro alla leggerezza di chi le crede.
XVIII. Oltre a ciò, non solo gli astrologi disconvengono in tal partizione dagli auguri; ma né anche convengono ben tra loro; perché alcuni nel disegno di case tali seguono l’architettura di Tolomeo, altri quella degli arabi, altri quella dell’Alchibizio, altri quella del Cardano, altri quella del Montereggio (Ap.Ricciol. Almag. 1. 1. c. 14): donde segue, che avendo ciascun di loro una canna diversa per misurarle nell’assegnazion de’ confini, quel pianeta che starà ad albergare nell’undecima casa secondo un ordine, e significherà buoni amici, starà secondo l’altro ad albergare nella duodecima, e significherà prigionia.
XIX. E poi, che sono queste case celesti? Forse palazzi incantati? Sono tante parti di cielo al tutto omogenee, cioè ciascuna della medesima qualità, pura pura, di cui son l’altre. Or come dunque la quinta casa ha da stimarsi della buona fortuna, e ha però ad esser colma di piaceri, di conviti, di conversazioni, di musiche e di regali: e la sesta, che è la contigua, dirò così, a muro a muro, ha da ricettare non altro che malattie, che mestizie, che avversità? Idem manens idem, semper facit idem. Se però gli astrologi non vogliono abusare indiscretamente la credulità popolare, conviene che dimostrino donde mai da un corpo unico ed uniforme ha da provenire questa diversità d’influenze così contrarie, che nel medesimo tempo piova su l’uno aconito, su l’altro ambrosia.
XX. L’istesso dite de’ segni dello zodiaco meri nomi e mere partizioni ad arbitrio; e tuttavia, se si volesse prestar fede alle chiacchiere, questi sono i primi ministri nel governo di tutte le cose inferiori, mentre vogliono che l’efficienza delle stelle sia promossa, sia rattenuta, o sia talora tramutata in contraria dal segno in cui si trova ciascun pianeta. Ci dicano dunque cotesti interpreti delle cose celesti, che sia questo zodiaco sì misterioso per li suoi segni?Non è altro, che il sommo cielo, diviso non dalla natura, che l’ha fatto tutto di un modo, ma dall’astronomia, che l’ha cosi ripartito in tante intersecazioni mentali per favellarne con legge (Alex, de Ang. 1. 4. c. 22). Adunque come non si vergognano i genetliaci di attribuire effetti così diversi a quella parte di mondo superiore, che in sé non ha veruna diversità, per minima ch’ella sia, ma l’ha soltanto nella fantasia dei mortali? Queste parti, che neppure sono parti reali, come son le membra dell’uomo, ma un tutto sempre somigliante a se stesso, da ciascun lato, com’è un cristallo; queste, dico, potranno affatto disgiungersi con chiamarle altre maschie, altre femmine, altre diurne, altre notturne, altre lucide, altre tenebrose, altre stanti, altre pellegrine, e queste medesime avranno sopra i costumi degli uomini, e le lor sorti, tanto differente potere, che possa affermarsi ciò che sì sfacciatamente scrive il Cardano (L. 2. de revol. c. 11). Si ascendit aries, erit natus in timore mortis violentæ; si taurus, ægrotabit ex libidine; si gemini, sollicitabitur in perquirendis secretis; si cancer, erit amator rerum publicarum ? E fin a quando i deliri si venderan dagli audaci a prezzo di oracoli, e si compereran dagl’insani?
XXI. Una pari temerità mostrano questi falsari nel determinare gli effetti delle costellazioni pur ora dette, avendo usurpate le favole de’ poeti per fondo da lavorarvi i punti in aria delle loro vaticinazioni bugiarde. Guai al parto, dice il Cardano, cui servano di ascendenti due pianeti congiunti in pesce: nascerà muto: quasi che l’altre stelle avessero voce da farsi intendere (Alex, de Ang. 1. 2, c. 10). Perché non afferma, che chi nascerà sotto il granchio , avrà all’andare otto gambe invece di due, e quattro chi sotto il capricorno, o sotto il centauro? Guardati, disse altrove l’istesso autore, guardati di non pigliar medicina quando la luna è in toro. E perché? Notisi l’ingegno profondo. Perché lo stomaco non terrebbela, ma come il toro, dopo aver mangiato, richiama alla bocca il cibo, e torna a ruminarlo; così tu saresti costretto a rigettar la bevanda salubre con tua gran pena. Ma piano, che il toro richiama il cibo alla bocca, non vi richiama la medicina. Adunque dirò io, quando la luna è in toro, guardati di non pigliar cibo, perché lo vomiterai: anzi non meno guardati di pigliarlo quando è in montone, perché il montone anche rumina quanto il toro. Eccovi gli assiomi de’ giudiziari (Id. 1. 4. c. 13): e secondo questi udirete, che la spiga in mano della vergine sia feconda di agricoltori: che la lira produca musici valentissimi; che la nave d’Argo sbarchi dall’alto nocchieri; che la corona piova diademi in capo ai re, che lo scorpione empia le case sotto lui fabbricate di scorpioni, impossibili a disnidarsi, ed altre sì fatte inezie, per cui è di stupor grande, che gli astrologi incontrandosi per le vie, possano mai fra loro tener le risa, come Catone soleva dir degli aruspici: Sicutdixit Cato, miravi se, quod non rideret aruspex, aruspicem cum vidisset (Tuli. 1. 2.de div.).
XXII. Per tutte queste cose, e per altre noiose a dirsi, è manifesto quanto a torto presuma l’astrologia di paragonarsi alla medicina, con chiamarsi un’arte ancor ella congetturale. Che arte congetturale, se neppure ella merita il nome d’arte, tanto è priva di ogni ragione e di ogni esperienza? o s’ella è arte, è arte di frappatoro, che spaccia per oro fino quello che neppure può vendersi per orpello; e per dir meglio, è arte da giuntatore, che, vendendo oro falso, riceve il vero, beffando i creduli con un’alchimia più vana, ma più lucrosa: Homines æruscatores, et cibum quœstumque ex mendaciis captantes (Gell, lib. 24. c. 1). Ella è un aggregato di favole e di follie, fondato tutto in analogie puerili di nessun pregio, da che si sa che in cielo non v’ha né toro, né leone, né lupo, né vergine, né scorpione, né sagittari, né pesci; ma corpi lucidissimi, intitolati altrimenti dagli arabi, altrimenti dagli egiziani, altrimenti dagli ebrei, altrimenti da’ cinesi (Montan. in astrol. devict. pag. 38). E se da’ greci anche furono già chiamati con tali nomi (introdotti, come apparisce più verisimile, parte da’ pastori, parte da’ pescatori, usi di fare la loro vita all’aperto), non da altro avvenne, che dalla usata licenza loro poetica d’innalzare sino alle stelle, non solamente gli croi della loro altera nazione, ma sin le bestie, che somigliavano colla loro figura la situazion di quegli astri. Eppure gli astrologi vi discorrono su. come se quei nomi fossero una perfetta definizione della cosa, errando più all’ingrosso di chi alle antiche piramidi dell’Egitto avesse attribuita virtù d’infuocare tutto il paese, perché esse avevano, non pure il nome, ma la figura dal fuoco.
XXIII. Nel rimanente, quando a’ pianeti vogliasi pur dare alcuna virtù reale di formare il temperamento, qual esperienza ha persuaso o potrà mai persuadere agli astrologi un impossibile, cioè, che un agente naturale possa più da lontano, che da vicino ad aiutar l’altro (a guisa di fuoco che scaldi chi più sta lontano dal cammino, che chi dappresso), o possa parimente più da lontano che da vicino a fargli contrasto: a guisa di remora, che molte miglia distante ancor dalla nave l’arresti più, che quando v’è fatta ai lati?Eppure ciò costoro asseriscono francamente, dicendo che gl’influssi di un pianeta non si avvalorano dagli influssi dell’altro, né si rifrangono, quando ambedue sono in un medesimo segno, ma solo quando, già separatisi por tratti immensi di cielo, si mirano dirimpetto, o si mirano di traverso (Alex, de Ang. 1. 4. c. 30): tanto che secondo quattro aspetti soli le stelle si aiutino l’una l’altra, o si sturbino all’operare: fuori di questi, sieno cieche al vedersi e sorde all’intendersi.
XXIV. L’istesso dicasi dell’affermar che un pianeta nell’influire, passi da un estremo all’altro oppostissimo senza mezzo. Non è ciò del tutto impossibile alla natura? Eppure Giove secondo le loro regole, mentre sta nell’ultimo grado, nell’ultimo minuto, e nell’ultimo secondo al segno di gemini, vien riputato dimorare in un segno avverso, e contrarre, dirò così, dalla rea conversazion di que’ due gemelli malnati cinque gradi di nera malignità e contuttociò nel primo minuto del tempo seguente, passando al primo principio del grado del granchio, Giove, non più vestito a bruno, ma a festa, non sì tosto ha messo il pie sopra quella soglia fortunatissima, che diviene tutto benefico e con quattro gradi di profusa liberalità rimira ogni parto. E questo non è più che un volerci persuader che la terra oggi sia tutta sterile, tutta secca, quale è nella bruma algente, e stasera sia tutta gaia, tutta gioconda, qual è nella primavera? Chi può udir cose tali senza piegarsi a compassione della gente che vi dà retta? Eppur la stolta si lascia persuader, che le congiunzioni, le opposizioni, i sestili, gli esagoni, i quadrati, i trini, i trigoni, cioè null’altro che la mera corrispondenza de’ segni in una figura di sei lati, a cagion d’esempio, più che di quattro corrispondenza che altrove nulla opera nella natura di fisico, in bene o in male), solo in questi sette lucidi corpi abbia tal virtù, che ora versi in seno agli uomini ogni ventura, ed ora ad ogni passo spalanchi un precipizio sotto i lor piedi, o erga un patibolo; tanto più che nelle linee s’intende bene, come queste vengano a costituire un quadrato, cioè una figura di quattro angoli, o a costituire un esagono, cioè una figura di sei: ma in corpi tante e tante volte maggiori ancor della terra, per dir così, indivisibili, in cui finiscano quegli angoli tanto validi ad operare?
XXV. Almeno si contentassero di affermare, che per operazioni così stupende, prodotte da que’ punti, vi voglia assai. No: tutto si opera in uno stante: mentre quelle figure a un tratto svaniscono col girar velocissimo delle sfere. Eppure ciò che in uno stante operossi dura, secondo questi, tutta la vita; come se gli uomini si marcassero dalle stelle a guisa, di puledri, che portansi poi quel segno, malgrado loro, benché decrepiti.
XXVI. Se non altro fossero paghi di darci a credere che i pianeti più possano all’influire, quando stan sopra l’orizzonte, che sotto. Né anche a ciò consentono quegli assiomi, che tutto riferiscono ai puri aspetti. Ma Dio buono! Il sole non può sensibilmente più a mille doppi in questo basso mondo, di quel che possono tutti gli altri pianeti? E nondimeno sperimentiamo pur tutti, che quando egli di giorno è sull’orizzonte, ci scalda in altra guisa, che quando egli è sotto l’orizzonte, di notte. Qual esperienza dunque insegna a costoro, che Mercurio, sì poco visibile ad osservarsi, e sì poco valevole all’operare quando è sorto dall’orizzonte, influisca nel feto all’istesso modo che quando è sito? Una lieve nuvola rifrange i raggi del sole, e tutto il materiale e il massiccio del corpo terreno non potrà rifrangere ad una stella il vigore, non potrà indebolirlo? Questo è far peggio assai che da romanzieri, i quali, se non ci raccontano cose vere, ci raccontano almeno le verisimili. Che però giustamente Sisto di Eminga, nobilissimo astronomo del suo tempo, dopo aver confessato lo studio grande impiegato da lui nell’astrologia su gli anni più freschi, conclude alfine così: Curri autem longo usu et experientia multa doctus, rem penitus inspexissem, comperi, astrologicam doctrinam, cui prius, antequam nota esset, impense favebam, esse impossibilem, falsam, nulla fide dignam et inutilem, quia nulla habent rationum momenta genethliaci, solis experimentis artem suam constare profitentur. Expressimus iam experimenta quoque facere adversus genethliacam. Restat, ut omnium scriptorium libri, omnes hominum ordines, omnium gentium linguœ astrologiæ loquantur vanitatem (Sixt. ab Hem. in gen. Caroli V. ap. Alex, de Ang. 1. 5. c. 16 in fine).
IV.
XXVII. Ma che? verissimo è il detto di santo Ambrogio (L. 4. in hex. c. 4): La sapienza de’ genetliaci è tutta in ordire una gran tela di ragno, la quale può ben prendere ogni meschino con sicurezza, ma non può vantarsi di avere mai finora arrestata un’aquila. Che voglio dire? Cervelli deboli di leggeri si trovano andar perduti dietro una scienza sì vana (Se l’astrologia genetliaca è arte di cervelli deboli, non pregiata da verun forte intelletto, non metteva proprio conto, che l’autore l’avesse presa così in sul serio a confutare). Ma quale intelletto forte la pregiò mai! Socrate la dannò come temeraria. Pitagora e Platone, che nell’astronomia studiarono tanto, dell’astrologia non fecero un caso al mondo. Aristotile, quell’uomo sì prodigioso nel render la ragione di tutte le cose, anche più riposte, la curò sì poco, che neppure degnò di farne menzione in verun suo libro né fisico, né morale (Ap. Euseb. 1. 14. de praep. Ev. c. 4). Cicerone (L. 2, de div.) savissimo la derise, ad imitazione di quegli uomini eccelsi, da lui lodati, che, benché peritissimi delle stelle, la dileggiarono. Ippocrate, Galeno, Avicenna, Porfirio, Plotino, Teofrasto, che furono i più dotti de’ loro secoli, certa cosa è che l’ebbero tutti a vile, come han poi fatto concordemente gli astronomi più moderni, arricchiti dal tempo di maggior lume (Perer. in Gen. 1. 2). Sicuramente fra questi può Ticone valore per uno stuolo. Eppure dopo ogni prova, egli dispregiò l’astrologia come vana, e gli astrologi come vaneggiatori (Gassenno in vita 1. 7). E l’unico Tolomeo che la professò tra gli uomini grandi, non la professò per la stima che mai ne avesse, mentre in più luoghi ( L . 1. de iud. cap. 1. Centiloq. sent. 1. et 5. Quadripart. 1. 2). ancor egli l’abbattè poco men che da’ fondamenti: la professò per bisogno: poiché veggendo egli il tenue guadagno che ritraeva dall’astronomia, nella quale era versatissimo, applicossi all’astrologia, volendo, come disse il Cheplero, che una figliuola stolta, qual è l’astrologia, alimentasse una madre savia, qual è l’astronomia: madre che l’avea data al mondo, qual legittimo parto, non può negarsi; ma parto degenerante, quando a poco a poco, da astrologia naturale, ella tralignò in astrologia giudiziale.