LO SCUDO DELLA FEDE (113)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIV.

L’astrologia giudiziale non ha ragione su cui si fondi.

I . Se i genetliaci hanno a risaper dalle stelle qualche poco degli eventi futuri, o liberi, o casuali, convien di necessità, che le stelle ne sieno, o segni, o cagioni; non avendo esso altre voci da palesarli. Ma le stelle non sono né cagioni, né segni di tali eventi; adunque è manifesto, che i genetliaci non possono dalle stelle risaper nulla degli eventi futuri, o liberi, o casuali, neppur da lungi. Tutta la difficoltà si riduce a mostrar per vera la minore proposizione; non si potendo contendere la maggiore, se non da chi non la intenda. Dunque mostriamola con levar prima alle stelle la virtù loro attribuita di sogni, giacché la godono a torto.

I.

II. E qui addimando: Se elleno sono segni delle vicissitudini umane, che segni sono i segni naturali, quale è l’iride della serenità, o segni, come dicono, a piacimento, quali sono la tromba e il tamburo della battaglia? Naturali non sono, perché, se fossero tali, non potrebbe non avvenire tutto ciò che da loro è significato. Ed ecco tolta in tal caso la contingenza, e con la contingenza il libero arbitrio, (mentre all’uomo tanto sarebbe il divertire ciò che di lui dicono i cieli, quanto il distogliere i cieli da’ loro corsi); eccovi l’uomo, non più uomo, ma bruto, e bruto guidato con freno d’oro bensì, ma però più forte: onde possa un puledro sperar di rompere quella cavezza che il priva di libertà, ma non lo possa già sperare un mortale, nato al comando: eccovi il destino funesto: eccovi il diamante fatale: eccovi tutte a terra le leggi più venerabili, come inette: ed eccovi alla giustizia cadute da una mano le bilance che ci ha, dall’altra la spada: le bilance, come inutili a pesare i meriti proceduti da forza; la spada, come iniqua a punire i falli. E però chiaro a chi ritiene scintilla ancor di discorso, che le stelle non possono essere segni naturali de’ fatti umani. E se non sono qual dubbio v’è, che non possono ne meno dirgli in confidenza agli astrologi, checché questi si vantino di saperli sì per minuto?

III. Saranno dunque segni imposti da libera istituzione: Sicché quel Dio, che antivede le cose prima che avvengano, abbia congegnati i pianeti con sì bell’arte, che questi col fuggirsi, coll’incontrarsi, coll’intrecciarsi, e col muoversi in tante guise, formino un’istoria del vivere di ciascuno in quel vasto cielo, che egli però distese a guisa di pelle: Extendens cælum sicut pellem (Ps. 103,2). Così le stelle non inducono alcuna necessità, ma sono meri interpreti del futuro, come sono i profeti: onde a saper ciò che dicano, basta intenderli.

IV. Un tal rispondere non può in prima valere per gli ateisti, perché essi negano la cura a Dio delle cose. Per quelli poi che l’ammettono, non può stare, perché se le stelle sono segni istituiti dalla provvidenza divina a farci antivedere sì il nostro male, come dunque Dio non c’invita a una scuola riguardevole di prudenza, con esortarci a leggere in quel suo libro continuamente, o a cercare chi vi legga per noi se non lo intendiamo? Anzi Egli non fa altro che ritirarci da tale studio, con metterlo in derisione. A chi sperava assai dalle stelle (e fu Babilonia) Stent, disse egli, stent, et salvent te augures cœli, qui contemplabantur siderei, et supputabant menses, ut ex eìs annuntiarent ventura tibi – si presentino e ti salvino gli astrologi che osservano le stelle, i quali ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà.(Is. XLVII. 13). Ed a chi ne temeva (ed era Gerusalemme) A signis, disse, a signis cæli nolite metuere, quæ timent gentes – … e non abbiate paura dei segni del cielo, (Ier. X, 2). Se dunque per avviso di Dio medesimo non dobbiamo noi regolarci da tali segni, né a sperar bene, né a temer male, che segni sono? Sicuramente non sono segni da Dio istituiti a significarcelo, ma segni finti dagli uomini a lor piacere; onde che resta a noi far più di quei libri, i quali ci dichiarano tali segni? Resta gettarli sul fuoco. Tanto fecero quei gentili, convertiti già in Efeso dall’Apostolo, e tanto abbiamo a far noi: Multi autem ex eis, qui fuerant curiosa sentati contulerunt libros, et combusserunt coram omnibus – … e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti.  (Act. XIX. 19). E che quei fossero libri di astrologia, ne fa fede sant’Agostino (In Ps. 61) . L’avere però Dio steso il cielo a guisa di pelle, fu solo per denotarci, averlo steso con tanta facilità con quanta da noi suole stendersi un padiglione (Bellar. i n Ps. 103. 2). Ma se egli è padiglione, conviene adunque, che qualcuno ce l’alzi, a volere entrarvi col guardo.

V. E vaglia la verità, se in cielo fosse cosi descritta l’istoria dell’ avvenire, come pur si divisano tali astrologi, chi mai di loro potrebbe aspirare ad intenderla, senza Dio che gli porgesse quasi in mano le chiavi di sì gran cifera? Potrebbe forse una chiave tale porgersi dall’inferno? Ma come dall’inferno, se quegli spiriti non l’hanno sicuramente nemmen per sé ? Quinci è, che negli antichi oracoli sì famosi di Delfo, di Didone, di Delo, aveano i demoni per uso di dare risposte sì artifiziose. sì ambigue, che del pari valessero ad ogni evento: Ibis redibis non morieris in bello. Che accadeva loro però lavorar questi, come specchietti a più facce, se le verità contingenti stanno là sui cieli descritte a sì chiare note? Non hanno i demoni all’ingegno più forti l’ale, di quelle che abbiavi verun astrologo sommo? Ora come dunque non potevano essi poggiar tant’alto da leggere quei caratteri i n vicinanza, ed esporli poi, con gloria tanto maggiore, alla vista de’ riguardanti in uno specchio pianissimo di parole sincere e schiette? So non lo fecero, segno dunque è, che non lo potevano fare: e posto ciò, convien dire, che il futuro accidentale e arbitrario non è da Dio registrato in que’ vasti fogli. E quando volessimo violentar la ragione a credere, che vi fosse, non v’è registrato di modo che possa leggersi da nessun occhio creato, se Dio non glielo discopra. Ma con chi Egli ciò fece mai, se piuttosto egli divietò qualunque spezie di auguri, con dichiararsi, che sue parti sono renderli tutti vani? Ego sum Dominus, irrita faciens signa divinorum – Io sono il Signore, … Io svento i presagi degli indovini (Is. XLIV, 25). Forse. Dio scrisse tali cose in cielo per gli Angeli dell’empireo, a cui le può tanto meglio mostrare in se medesimo quando voglia?

VI. Senonché i moti degli aspetti celesti ci danno chiaro a veder, che non ve lo scrisse. Perché tali moti sono uguali, uniformi, e regolatissimi, come moti ordinati dalla natura: laddove gli eventi umani, come dipendenti dalla libertà, sono irregolari, e tutti differenti fra loro, e tutti difformi. Come dunque è possibile, che questi eventi siano mai per quei moti significati, se quelli e questi sono quasi due linee che non han misura comune? Non l’hanno nella qualità pur ora accennata, non l’hanno nel numero; essendo i moti degli aspetti celesti, secondo sé, di numero certo, e gli eventi umani più e più sempre movibili in infinito: onde que’ moti potrebbero al più spiegare alcune universalità corrispondenti al numero che ebber essi dalla natura, ma non potrebbero discendere a mille individualità particolari e precise che non han fine.

II.

VII. Ed ecco tolto alle stelle l’essere segni degli eventi futuri, di cui si disse. Ma né  anche ne son cagioni, né possono essere, che è l’altra parte che rimane a provarsi. E prima è certo, che non sono esse cagioni necessitanti: altrimenti urteremmo di subito nello scoglio, da noi scorto di sopra per troppo infame, qual è, che l’arbitro riconosciuto nell’uomo da tutti i teologi, da tutti i filosofi, da tutti i fisici, da tutti i giureconsulti, anzi da tutti i popoli ad una voce, per padrone di sé, sia ristretto in ceppi. Eppure in ceppi egli saria più che mai, quando a lui si assegnasse una cagion necessaria, da cui dipenda. Ma appunto tali a lui sarebbon le stelle, che, a guisa di tutti gli altri agenti naturali, sono costantemente determinate agli stessi corsi: Omnis naturæ actio terminatur ad aliquid unum (S. Th. 1. p. q. 96. a. 1. in c). Così cesserebbe ogni considerazione, ogni consiglio, ogni elezione di mezzi, ogni politica, ogni prudenza; anzi cesserebbe ogni virtù fra gli uomini, ed ogni vizio; mentre non si dovrebbe ad un uomo più maggior lode, dì quella che si meriti il ferro, quando si lascia tirare dal polo amico della sua calamita; nè ad un uomo empio dovrebbesi maggior biasimo di quello che si meriti il ferro stesso, quando dal polo avverso della medesima calamita si lascia mandar lontano.

VIII. Che se, conforme abbiam già veduto, Dio è l’architetto di questo tutto, chiamato mondo, come può egli averne mai disposte le parti sì malamente, che la natura inferiore, qual è la materiale, regga la superiore, qual è l’intellettuale? quella che è cieca, guidi la veggente? quella che è insensata, governi la ragionevole? Ogni dominio naturale è fondato sulla eccellenza della natura, dice Aristotile; (L. 3. de anima tex. 57) che però l’uomo naturalmente comanda alla donna, perché dentro la medesima spezie egli è un individuo più perfetto di lei; e però molto più signoreggia anche gli animali, e gli sferza ritrosi, e li sottomette ribelli, perché è molto più perfetto di loro ancor nella spezie. Pertanto, come hanno i cieli a dominare le nostre menti, se quanto sono a noi superiori di sito, tanto sono inferiori di dignità? Se le loro combinazioni e i loro contrasti sono la cagiono del nostro operare, converrà che si disordini il tutto con ritornare nell’antico suo caos, mentre le sostanze perfette sono tiranneggiate dalle imperfette, le spirituali dalle corporali, le semplici dalle composte; e l’uomo, in una parola che è il fine dell’universo, vien sottoposto alla natura incapace di proprio bene (Arist. 1. 4 phys. test. 34).

IX. E notisi il dir che è fine: perché se l’uomo fosso soggetto alle stelle nell’operare, l’uomo dunque sarebbe fatto per le stelle, o non le stelle per l’uomo. Ma come ciò? Non è l’uomo quegli, in grazia di cui fu da Dio già creato tutto il visibile? Non ve ne ha dubbio: mercecchè l’uomo è l’ottimo che vi sia. Se però le stelle sono fatte anch’esse per l’uomo come dunque l’uomo ha da dipendere dalle stelle nelle opere che egli fa? Chi da un altro non è dipendente nell’essere, né anche n’è dipendente nell’operare, dice l’Angelico (Contra  gentes!.. 2. c. 8), perché l’operare seguita in tutti la condizione dell’essere.

X. Ma che stancarsi in tal cosa? Non prova ciascuno in sé, che la ragione domina il corpo e che il corpo non domina la ragione? Per quanto la fame mi stimoli, se io mi risolva di anteporre il diletto stabile della temperanza al diletto de’ cibi, che è sì fugace, la mano mia non si stende a prenderli da veruna mensa più lauta cui sia presente. Se mi sollecita l’appetito inferiore, non mi violenta: ed io ho la gloria di levarmi digiuno da quel convito, che darebbe alla gola si grato pascolo. Adunque la mente comanda al corpo, non il corpo alla mente. Onde, a conchiuderla, quantunque l’uomo non abbia podestà sopra i cieli, perché non li può volgere a suo talento; non però è loro soggetto in veruna azione, ma egli è padrone di sé, ed ha le redini in mano del suo volere, senza che tutti i moventi sì rapidi delle sfere possano violentarlo a dare neppure un passo se a lui non piace.

XI. Né sia chi dica, che non i corpi celesti ma le intelligenze motrici di tali corpi (Come ancora oggi ritengono i neo platonici cabalisti della massoneria mondiale, che adorano il sole e l’inventato assurdo sistema eliocentrico – ndr.-) son quelle, cui l’uom soggiace; perché le intelligenze, a muovere l’uomo, non possano valersi d’ogni istrumento, quantunque improporzionato. Come lo scultore non può mai col pennello far la sua statua, o come il dipintore non può mai fare il suo quadro con lo scalpello; così le intelligenze non possono muover mai l’arbitrio dell’uomo coi giri di verun corpo. Convien che il muovano con rappresentargli alla mente il bene che a lui ridondi dalla tal opera, che è quanto dire, convien che il muovano a modo di chi consiglia e di ehi conforta, non di chi trascina in catene. Ma ciò non ha che far punto col caso nostro: perché  i consigli e i conforti lasciano l’uomo indifferente ad ammettergli, o a ributtarli: e però da’ giri de’ cieli non sarà mai possibile antivedere di lui ciò che sia per farsi.

XII. Senonchè quanto si è divisato finora vale a provar, che le stelle non abbiano che far colle sorti umane, quali cagioni diretto (secondo che gli antichi le veneravano, fino ad adorarle però, come loro numi); ma non vale a provar, che non vi abbiano almeno a fare, quali cagioni indirette, che è il ricovero sotto il quale i moderni astrologi si fan forti, affermando, più cauti, se non più casti, che i cieli non influiscon nell’animo de’ mortali di primo lancio, ma di rimbalzo, in quanto alterando gli organi delle potenze sensitive, il temperamento, i fluidi, le flemme, e le qualità tanto a lui necessarie nell’operare, possono fare, che egli operi di un modo più che di un altro. E fin qui dicono bone: ma con ciò confessano insieme, che né sanno né possono saper nulla di quanto pronosticano intorno al tempo della vita e della morte dell’uomo, intorno alle ricchezze e alla povertà, intorno alla prosperità e alle disgrazie, che pur sono tutto quel fondo su cui lavorano i ricami delle loro fole. E che sia vero, osservate, che se nell’astrologia vi ha nulla di sodo, è questo discorso. Il temperamento dell’uomo dipende dalle stelle; l’indole, le inclinazioni, ed i costumi di lui dipendono dal temperamento; dunque altresì l’indole, le inclinazioni ed i costumi di lui dipendono dalle stelle, indirettamente, sì, ma pur quanto basti a formarne un giudizio retto. Ora un tale discorso è tutto fallace. Se però traballa sì forte la prima pietra, che sarà della mole, che su vi sorge?

XIII. Ma su, esca pure in luce il bambino sotto un oroscopo il più fortunato a dar buono il temperamento: se s’incontra in una balia mal atta a cooperarvi, io veggo le stelle in un labirinto grandissimo, senza filo da giungere a mantenere ciò che promisero. Conciossiachè tutti i filosofi e tutti i fisici son d’accordo, che il latte della nutrice, giovane o vecchia, gagliarda o vizza, porti al temperamento divario grande: e che il latte congenito della madre sia sempre migliore alla prole che quello di una straniera: la quale, ove pure ammettasi, vogliono che sia scelta anche di costumi, mentre le istorie romane tutt’ora piangono il loro Romolo, allattato da una lupa crudele, un Comodo ed un Caligola, abbeverati di sangue più che di latte; ed un Tiberio, allattato da una levatrice intemperantissima.

XIV. Spoppato quinci il bambino, ecco che egli incomincia a nutrirsi di cibo sodo, e con ciò cresce l’impegno alle stelle, e l’impossibilità di mantenersi veridiche, benché vogliano. Perciocché chi non sa quanto possa nel nostro corpo la qualità del nutrimento quotidiano? Basta leggere i trattati che ci hanno sopra ciò lasciati i medici più famosi, tanto benemeriti del genere umano, quanto ne sono traditori gli astrologi. Fino i poeti intesero questo vero: ond’è che Omero, formando nel suo Achille l’idea di un eroe magnanimo, lo finse nutrito colle midolle dei leoni, per figurarlo robusto di forze insieme e di cuore. Fate però, che il garzoncello, mirato sì benignamente da’ luminari celesti ne’ suoi natali, si dia tosto in preda ai banchetti, ai bagordi, all’intemperanza; con quale stame le stelle sue natalizie potranno allungargli la vita? Plures occidit gula, quam gladius. E il simile dite se egli nasca in luogo d’aria insalubre, o vada a soggiornare per accidente in valli palustri, umide, uliginose, e non dominate da venti, fuorché nocevoli. Vinceranno le stelle la qualità di quel suolo infausto? E finalmente, se egli, caduto infermo a cagione de’ suoi disordini, si abbatta in un di quei medici che si fanno pagare per ammazzarvi, con quale scudo il ripareranno da questo colpo i pianeti promettitori?

XV. Direte forse, che se egli nacque sotto buono ascendente, non ha da temere di quegli incontri sinistri da me accennati? Ma perché non ha da temerne? Perché le stelle che lo tolsero in cura gli abbiano per ventura a tenere indietro quali protettrici amorevoli? Ma ciò sarebbe altro che farle operare da cagioni particolari e parziali, influitrici nel solo temperamento. Sarebbe farle operare da cagioni universalissime, anzi vive, veggenti, e piene in sé di perfetta divinità, la qual disponesse dì tante varie creature a bacchetta per giungere al fine inteso. E poi, se le stelle potranno provvedere il lor caro allievo di medico ottimo, quando egli sarà in pericolo di morire: come potranno, quando egli ancora non nacque, provvederlo di ottimi genitori, se i genitori non poté veruno sortire fuorché nascendo? Non vedete voi, che coteste sono follie da contarsi per ridere in su le veglie? A voler però, che l’astrologo possa farci promessa di lunga vita a nome delle stelle, da lui considerate al nostro natale, converrà prima che egli conosca assai bene il temperamento di quei che ci generarono, e poi che da quelle stelle medesime egli risappia ad uno ad uno gl’innumerabili casi i quali, nel temperamento nostro influendo più da vicino, avranno sempre possanza somma a rifrangere e ripercuotere quegli influssi che sì da lungi mandino a noi le costellazioni celesti per nostro prò. Ma chi può ridir tali casi, se, come innumerabili, sono ignoti a qualsivoglia altra mente, che alla divina? Nè anche gli Angeli, motori dello stelle, potrian ridirli, se non fossero interrogati.

XVI. Certo è, che Sisto di Eminga, dopo di avere, in questa scuola de’ pianeti, consunti poco men che tutti i suoi giorni, confessa che gli astrologi, per quanto studio si facciano sopra l’oroscopo di un bambino nascente, non potranno mai risaper dalle pure stelle se egli sia nato vivo, o sia nato morto (In Genitura Caroli a Brimeu); giudicate poi se ne potran risapere (come si vantano), se egli sarà per vivere molto o per viver poco ? E forse che tal prova non è stata già fatta più d’una volta con gran piacere, chiedendo la natività di un bambino estinto, come s’egli fosse anche vivo, e ricevendola tuttavia dall’astrologo felicissima?

XVII. Mi giova riferire una beffa, anche più piacevole, che un principe italiano si fè di sì vana scienza, affine di schernire, come a lui parve giusto, frode con frode (Millet. prop. 19): Questi avvisato del nascimento di un mulo nelle sue stalle, ne fece dare all’astrologo il punto esatto, sotto un nome di un bastardo nato in palazzo. E l’astrologo di ciò ignaro, postosi lungamente a studiare su quell’oroscopo, per la speranza di ottener tanto più di vantaggio alla sua fortuna, quanto più egli ne presagisse all’altrui, trovò subito in cielo due luminari ne’ segni maschi, assistiti da cinque pianeti mattutini in riguardo al sole, e vespertini in riguardo alla luna; e conchiuse che il cielo non poteva essere mai più bello, e che però non potendo quel bambino essere re, come ad ogni patto volevate Tolomeo sotto quegli aspetti (L. 4. de iudic. c. 3), conveniva per necessità che fosse sollevato alle prime dignità, ancora sacre, di cui capaci si fossero i suoi natali. Questi furono i vaticini che, recati al principe e letti da lui pubblicamente a’ suoi cavalieri, empirono tanto il volto di rossore a quel valent’uomo, quanto credea che gli dovessero empire le mani d’oro. Pertanto converrà dire che se le stelle mandano su tutti i viventi gli stessi raggi, una bestia nata sotto i più favorevoli che vi sieno dovesse andar per lo meno libera da ogni soma per tutta la vita sua, o che se alcuna ne avesse pure a portar mai, come l’altre, dovesse puramente, qual mulo illustre, sottoporgli omeri a qualche lettiga reale.

XVIII. Non è di poi meno falsa, l’altra proposizione, su cui si appoggia l’astrologia giudiziaria per tenersi in piedi, ed è, che le volontà degli uomini seguano per lo più il temperamento de’ corpi subordinato alle stelle: ond’è, che per esso può verisimilmente congetturarsi ciò che quegli sian per volere. Sì, se null’altro ostasse a tal congettura.  Conciossiachè quanto importa primieramente a variar l’indole, l’inclinazione, i costumi, la buona e rea educazione che sortisca? Su ciò si fonda principalmente la stima in che tutte le genti han tenuta sempre la nobiltà de’ natali: su la presunzione, che reca seco di andar congiunta con educazione più onorevole, attesi gli stimoli che di più lo porgono al fianco le operazioni degli antenati, in virtù di cui, quasi a generoso corsiere, se le raddoppi la necessità  di portarsi più risoluta in cima alla gloria. Onde in ordine ad un allevamento tale (stimato da’ legislatori la base potissima dell’umana felicità), che parte hanno le stelle? Se non vogliam delirare, nessuna affatto: mentre ciò non dipende da alcuna qualità corporea, cui solo può stendersi l’efficienza de’ cieli. Tanto più, che questa medesima educazione riceve gran vantaggi e gran varietà dal governo de’ dominanti, dalle pene, da’ premi e dalle leggi da loro tenute in vigore. Vogliamo noi credere, che le stelle influissero diversamente in Atene, in Sibari, in Sparta, situate in distanza nulla considerabile quanto agli astri? Eppure gli ateniesi erano sì ingegnosi di spirito, i sibariti sì femminili, gli spartani sì forti. La diversità non veniva però dal cielo, ma dal governo. Quel bracco di buona razza, che, se da piccolo fosse stato avvezzato a latrare intorno alla morta pelle di un orso, avrebbe animo di sfidar le fieranche vive nella lor tana; perché all’incontro fu avvezzato in cucina da un guattero poltroncello a covar la cenere, appena da lontano lo mira, che fugge in salvo.

XIX. Medesimamente il vivere in compagnia de’ cattivi, chi non sa, forse anche a suo costo, quanto pregiudichi alla sincerità de’ costumi? Un cedro marcio è men abile ad ammorbare quel sano, cui sta vicino, che un reo compagno quel buono: Sumuntur a conversantibus mores, diceva Seneca (De ira 1. 3. c. 8), et ut quædam in contactos. corporis vitia transiliunt. ita animus mala sua proximistradit.

XX. Cosi anche il rimprovero interno della coscienza, quanto vale a ridurci sul buon sentiero? quanto l’avviso di un consigliere fedele? quanto l’ambizion di una carica fruttuosa? Il timore di non rovinare i figliuoli, non è bastante a rattenere da più vendette anche un animo pronto all’ira? Quanti disordini viene a distornar nelle case una moglie saggia, coll’autorità che le danno le sue maniere? quanti raffrena la dignità del suo grado? quanti ritiene il detto delle sue genti? E con ciò, che hanno a fare giammai le stello? Anzi tanto meno vagliono queste di tutto ciò, che non v’è tra’ saggi chi esse chiami più volentieri a consulta sui propri affari, con persuadersi, che esse li guidino meglio. Ne’ matrimoni, ne’ cambi, nelle compere, ne’ litigi da imprendersi che si fa? Si pesano le ragioni, non si va di notte, neppur dagli astrologi, a interrogare i pianeti apparsi.

XXI. Però, quando ben per via delle stelle potesse risapersi il temperamento di verun uomo (che neppur si può risapere), il volere tuttavia dal temperamento raccorre in altri le propensioni che egli abbia, e dalle propensioni indovinare le operazioni libere che abbia a fare, è molto più temerario, che se entrando nelle stanze di Apelle, volessero altri indovinar le figure ch’egli formerà sulla tela che ha quivi all’ordine. Perché in fino né Apelle, né Protogene, né Parrasio, né Raffaello, indettati insieme, sapranno mai rimenare sì variamente, e rimescolare le loro tinte, che non sia sempre più varia la combinazion che può fare l’arbitrio umano de’ suoi pensieri, nelle risoluzioni a cui vuole apprendersi.

XXII. Replicheranno gli astrologi che essi non pronosticano ciò che assolutamente sia per succedere dalle volontà de’ mortali, ma ciò che succederebbe, se le inclinazioni impresse dalle stelle nel temperamento de’ corpi non fossero disturbate. Bellissimo sotterfugio. Ma se è cosi, pronosticano dunque essi ciò che non sanno, né possono sapere, se sarà mai. Perciocché queste inclinazioni verranno sempre variate dalle cagioni mentovate di sopra, che sono inescogitabili; ed affinché non si varino, converrà ritrovare un uomo, che viva fuori del mondo o non v’entri mai. Che se, al detto dell’Angelico (1. p. q. 57. art. 5), quelle verità contingenti, che accadono rade volte, non possono mai sapersi da verun uomo prima che accadano, bisognerà pure confessar, che l’astrologia giudiziale non è scienza, ma ciurmeria.

XXIII. E che sia così, non ha dubbio, che ad arrivare le inclinazioni degli uomini molto più dovrebbon valere le regole della fisonomia, la quale si fonda sul temperamento già lavorato dalla natura nel corpo umano, di quelle che ci porga l’astrologia, la quale si fonda sul temperamento che ancora ha da lavorarsi (Arist. Prior, 1. 2. e ult. phys. c. 1. etc.). Il curatore de’ cani, all’aspetto sa riconoscere il cane ardito: il cozzon de’ cavalli, all’aspetto sa ravvisare il cavallo altero. Così il fisonomista, all’aspetto sa raffigurare se l’uomo sia forte o timido, verecondo o sfacciato, umile o superbo, ingegnoso o goffo; mercecché convenendo in quei segni tutti gli animali sottoposti a tali affezioni, e non vi convenendo alcuno degli altri non sottoposti, giustamente egli ne deduce, che siano segni da poterle indicare al pari negli uomini anch’essi, benché superiori agli altri per la ragione. Eppure da que’ segni di forte, di timido di verecondo, di sfacciato, di umile, di superbo d’ingegnoso, di goffo, anzi neppure dalle inclinazioni già comprovate per tali segni, può mai sapersi, come Aristotile afferma (Physon. c. 2. n. 11), se uno sia soldato, sia musico, sia medico, sia architetto, e per aggiungere ancora ciò, sia prelato di santa chiesa. E come dunque da’ segni di quelle inclinazioni, anzi da quelle inclinazioni medesime può dedursi che egli sarà? E la ragione fondamentale si è, perché ad essere, a cagion d’esempio, prelato di santa chiesa, non basta l’inclinazione della natura data allo studio, alla pietà, alla prudenza, alla rettitudine, ci vuole di più chi ti ammaestri a proposito, chi ti porti, chi ti promuova, e chi al confronto di mille competitori, non meno di te meritevoli, elegga te. E ciò si può inferir dalla inclinazione che in te prevalga?

XXIV. Divinamente insegnò Aristotile (L . 2. phys. c. 7. text. 53), esser la fortuna, sì prospera come avversa, ignota ad ogni uomo, perché gli effetti, separati e sconnessi, a cui ella può stendersi, non han fine: e l’infinito, come infinito, non abita nella mente di alcun mortale. Eppure la fortuna, sì prospera come avversa, è quella che si arrogan gli astrologi di mettere alla tortura tra le lor sèste, perché confessi loro tutto ciò che ella sia per fare.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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