DOMENICA III DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA III DOPO PASQUA (2020)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. « uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.

[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929 – imprim.]

SOGGEZIONE ALLE AUTORITÀ

“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro” (1 Piet. II, 11-19).

La lezione è tolta dalla prima lettera di S. Pietro. Precede immediatamente quella che abbiamo considerato la domenica scorsa. Vi si parla dei doveri sociali e in modo particolare dei doveri verso l’autorità civile. Dobbiamo essere soggetti all’autorità e a quelli che dall’autorità suprema sono incaricati di amministrare la giustizia, punendo i cattivi e premiando i buoni. Così, piaceremo a Dio e faremo tacere l’ignoranza dei cattivi. La nostra ubbidienza, poi, all’autorità dev’essere fatta da veri servi di Dio; cioè, per dovere di coscienza. Vediamo appunto, come la nostra soggezione all’autorità:

1. È  voluta da Dio,

2. fa chiudere la bocca ai nemici del nome Cristiano,

3. deve procedere da semplicità di cuore.

1.

 Per amor di Dio siate, dunque, soggetti a ogni autorità umana. S. Pietro chiama autorità umana l’autorità civile, perché la designazione degli individui, che rivestono questa autorità, generalmente, viene dagli uomini. Che un governo sia repubblicano, monarchico, federalista; che la suprema autorità sia designata per elezione o per successione, è cosa che dipende dalla volontà degli uomini. Ma non dipende dalla volontà degli uomini l’istituzione della autorità. È tanto naturale alla società il concetto di moltitudine e di autorità, di chi dirige e di chi è diretto, che non è neppur possibile immaginabile una società, senza chi la governi. Vuol dire dunque, che la natura stessa esige che nella società ci sia chi comandi, chi presieda, chi diriga. Vuol dire, infine, che l’autorità è voluta da Dio stesso, autore della natura. Perciò S. Paolo ci ammonisce:« Ogni persona sia soggetta alle autorità costituite, perché non vi ha potestà se non da Dio» (Rom. XIII, 1). Basterebbero considerazioni umane per indurci all’obbedienza verso le autorità. Senza l’ubbidienza dei sudditi sarebbe impossibile qualunque governo. Si avrebbe una piena anarchia con la conseguente perdita di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni idea di giustizia. Ma i Cristiani devono ubbidire per un motivo più nobile. Devono ubbidire per piacere a Dio. Se ogni potestà viene da Dio, non è cosa indifferente che ad essa si ubbidisca o non si ubbidisca. Quando l’autorità costituita emana delle leggi e impone degli obblighi che non sono contrari alla legge naturale e alla legge di Dio e della Chiesa, rifiutando la nostra ubbidienza, offendiamo Dio, del quale le legittime autorità sono rappresentanti. Gesù Cristo stesso ricorda i doveri del cittadino quando dice : «Date a Cesare ciò che è di Cesare» (Matt. XXII, 21). La soggezione che dobbiamo all’autorità suprema dello Stato, la dobbiamo anche a coloro che ne fanno le veci, la rappresentano o, in qualunque modo, sono investiti di poteri in suo nome. Anche in questo, l’insegnamento è molto chiaro. Siate dunque sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Ma se il principe, se i suoi incaricati sono cattivi, siamo noi obbligati ugualmente a star loro soggetti? Quando non esigono cose ingiuste e non escono dai limiti della propria autorità, noi siamo obbligati a stare loro soggetti, anche se sono cattivi. Anche qui la soggezione ci riuscirà facile, se opereremo per amor di Dio. I Cristiani ai quali S. Pietro scriveva, si assoggettavano nientemeno che a Nerone.

2.

S. Pietro adduce un altro motivo che deve indurre i Cristiani a essere ossequenti alle autorità. Poiché questa è la volontà di Dio, che operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Col nome di stolti sono qui designati i pagani, i quali accusavano i Cristiani con la più grande leggerezza, e li condannavano con la più grande facilità. La dottrina dei seguaci di Gesù Cristo, tanto sublime e differente da quella dei gentili; la loro condotta, che doveva esser l’opposto da quella tenuta nel gentilesimo, attiravano su di loro lo sguardo diffidente e malevolo dei pagani. «Vi basti — dice San Pietro — di aver fatto la volontà dei gentili nel tempo passato, camminando nelle libidini, nelle concupiscenze, nelle vinolenze, nelle gozzoviglie nelle ubriachezze e nelle abbominevoli idolatrie» (1 Pietr. IV, 3). Questo mutamento di condotta doveva spingere i pagani a trovare a ogni costo un pretesto per accusare i Cristiani. Non senza motivo, dopo aver inculcato il buon esempio in generale, S. Pietro insiste in modo speciale sulla soggezione alle autorità. Una delle accuse che si facevano ai Cristiani, tanto per aver pretesto di perseguitarli, era appunto l’accusa di ribellione contro lo stato. L’accusa era gratuita, ma non era inutile insistere sulla necessità di non dar nessun pretesto ai pagani di mettere in discredito la Religione cristiana. – Il contegno dei Cristiani di fronte all’autorità fu sempre pretesto a biasimi e a persecuzioni da parte di persone di sentimenti opposti. Per coloro che all’autorità non vogliono assegnato alcun limite, i buoni Cristiani sono dei ribelli, dei nemici dello Stato, dei cospiratori, se hanno la fortezza di anteporre la legge di Dio alla legge degli uomini. Per i nemici dell’autorità essi sono degli schiavi dei fautori del dispotismo e della tirannia. Giudizi sbagliati gli uni e gli altri. I Cristiani nell’autorità vedono il rappresentante di Dio, e nella soggezione a essa il volere di Dio. Perciò, ubbidiscono ai suoi comandi, e vogliono essere esempio agli altri nell’adempimento di questo dovere. «I Cristiani ubbidiscono alle leggi stabilite e nella loro condotta avanzano le leggi » (Lett. a Diogneto 5, 10) leggiamo in uno dei primi apologisti. I Cristiani che seguono l’insegnamento di Gesù Cristo quando dice: «Date a Cesare ciò che è di Cesare», lo seguono anche quando dice: «E date a Dio ciò che è di Dio » (Matt. XXII, 21). E la cosa è tanto giusta che non dovrebbe far meraviglia a nessuno. S. Cipriano è processato davanti al proconsole Galerio Massimo. Questi dice al santo Vescovo: « I sacratissimi imperatori hanno ordinato di render culto agli dei ». Cipriano risponde: « Non lo faccio ». Invitato dal Proconsole a rifletter bene, dichiara: « In cosa tanto giusta non c’è di riflettere » (Acta proc. S. Cipriani. Ep. et Mart.). Quando si tratta di obbedire a Dio i buoni Cristiani non hanno un momento di titubanza. E nella soggezione a Lui, come nella soggezione alle autorità da Lui costituite, sono sempre i primi.

3.

L’ubbidienza poi all’autorità dev’essere fatta non tanto per timore delle sanzioni quanto per obbligo di coscienza. Comportatevi— dice S. Pietro da vimini liberi che non fate della libertà un manto per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Quindi, non l’ubbidienza forzata dello schiavo, ma l’ubbidienza spontanea dell’uomo libero, che è stato liberato bensì dalla schiavitù del peccato e dalla servitù della legge mosaica; ma non dall’obbligo di ubbidire a Dio, e quindi anche ai suoi rappresentanti. Nella soggezione all’autorità il Cristiano non deve essere guidato dallo spirito di parte. Prestare ossequio all’autorità perché chi ne è rivestito viene dal mio partito; rifiutarle il dovuto ossequio perché chi ne è rivestito viene da un partito che non è il mio; ubbidire quando chi comanda ci è persona simpatica, disubbidire quando chi comanda ci è persona antipatica, non è un diportarsi secondo coscienza. Così, non è un diportarsi secondo coscienza, quando ci si assoggetta in ciò che piace, e ci si ribella in ciò che non piace. Il nostro ossequio non è sincero quando si hanno secondi fini. Profondersi in inchini davanti all’autorità, proclamarne altamente i meriti, innalzarle inni di lode, son cose che si fanno ben frequentemente anche da chi nutre nel proprio interno una forte avversione. Non si sa mai: potrebbe venirne qualche onorificenza, qualche aiuto, qualche protezione, qualche posto. Giù, dunque, lodi smaccate e a buon mercato. Costoro si devono chiamare, non ossequenti; ma striscianti e servili. Sono i seguaci di coloro, che un giorno si presentarono a Gesù dichiarandogli:« Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non badi a nessuno, e che non guardi in faccia agli uomini ». E Gesù che leggeva nell’interno diede loro una risposta, che nessuno vorrebbe rivolta a sé: « Ipocriti, perché mi tentate? » (Matt. XXII, 16 18). Infatti, noi dobbiamo essere soggetti ai nostri superiori «in semplicità di cuore per timor di Dio» (Col. III, 22). « Ma il fare una cosa e averne nell’animo un’altra, non è semplicità, sebbene ipocrisia e simulazione» (S. Giov. Grisost. In Epist. ad Col. Hom. 10, 2). – L’autorità ha i propri pesi da portare, e noi abbiamo da portare i nostri, e tutti concorriamo a far della società una famiglia felice, quanto è possibile tra coloro che su questa terra sono stranieri e pellegrini. Se da una parte non si deve fare abuso dell’autorità propria, o farla sentire più del necessario; dall’altra non si deve disconoscerla o contrariarla; si deve anzi renderle facile il proprio compito con l’ubbidienza. L’ubbidienza dei sudditi rende felice il governare. I Cristiani devono fare ancor di più, pregare Dio che assista l’autorità. Gli Ebrei, schiavi in Babilonia, per mezzo del profeta Baruch, mandano a dire agli Ebrei di Gerusalemme: « Pregate per la conservazione di Nabucodonosor, re di Babilonia e per la conservazione di Baldassarre, suo figliuolo » (Baruch 1, 11). I Cristiani non devono essere da meno degli Ebrei, che pregano e fanno pregare per un tiranno, al quale la Provvidenza li aveva assoggettati. Essi devono accettare, ciascuno per sé, le parole di S. Paolo a Timoteo: «Raccomando che si facciano preghiere, suppliche, domande, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti quelli che stanno in dignità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta con tutta pietà e onestà» (1 Tim. II, 1-2).

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja.

[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.

[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabíminbi, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo lopoco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]

Omelia II

 “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”. (Jo. XVI, 16-22).

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sulle tribolazioni.

“Plorabitis et flebitis vos, mundus autem gaudebit, vos autem contristabimini, sed tristitia vestra vertetur in gaudium.” (Jo. XVI).

Chi avrebbe mai pensato, fratelli miei, che i pianti, le croci, le afflizioni esser dovessero la sorte degli eletti, mentre l’allegrezza, le prosperità, toccar dovrebbero ai seguaci del mondo? – Eppure è questa una verità da Gesù Cristo medesimo pronunziata, che gli Apostoli e i servi di Dio aspettare debbonsi di dover passare la lor vita nella tristezza e nelle tribolazioni: verità che, siccome agli Apostoli, a tutti i Cristiani ancora porge motivo grandissimo di consolazione, giacché i lor pianti e la lor tristezza debbono cangiarsi in allegrezza, che non avrà fine giammai: “tristitia vestra vertetur in gaudium”. – Consolatevi dunque, anzi rallegratevi, o voi che passate i vostri giorni nei pianti e nell’afflizione; lasciate pure l’allegrezze agli amatori del secolo, non invidiate punto la lor funesta prosperità, che cangerassi in eterna tristezza; lasciate che si lamenti e mormori chi non ha speranza: ma voi che non cercate la vostra felicità sulla terra, e che aspirate ad una beatitudine più verace, più perfetta che questa non è, stimatevi fortunati nelle afflizioni, tesoro molto più pregevole di tutte le ricchezze della terra; preferitele a tutti i piaceri che può presentarvi il mondo, in vista dei grandi vantaggi ch’esse vi apportano. – E di fatti, fratelli miei, o siete peccatori, o siete giusti: se peccatori, le tribolazioni vi ritrarranno dal peccato; se giusti, perfetta renderanno la vostra virtù. la due parole: vantaggi delle tribolazioni per li peccatori, primo punto. Vantaggi delle tribolazioni per il giusto … secondo punto.

I. Punto. Incominciare la vita nelle lagrime, passarla nelle afflizioni, terminarla nei dolori ecco, fratelli miei, la sorte dell’uomo sulla terra; per qualunque verso si miri, la vita, benché lievissima, è ripiena di molte miserie, dice il santo Giobbe, repletur multis miseriis. Alcuno non va esente dalle croci, neppure coloro che più beati ci sembrano; soffre sul trono il re, come il povero nella sua capanna; hanno le ricchezze le loro spine, come la povertà le sue amarezze; non consiste dunque la felicità dell’uomo sulla terra nell’essere esente dalle tribolazioni, ma bensì nel farne buon uso. Ora esse sono di grande vantaggio ai peccatori perché vivono meravigliosamente a ritirarli dal peccato e ad espiare la pena al peccato dovuta: due circostanze che muovere debbono i peccatori a profittarne. Voi vi credete, o peccatori, oggetto dell’odio e dell’ira di Dio, quando il braccio della sua giustizia vi fa sentire il peso delle tribolazioni; se si ha riguardo ai peccati da voi commessi, avete ragione, ma se noi miriamo il fine che Dio si prefigge, dovete riguardarle, non come effetti del suo sdegno, ma come segni del suo amore verso di voi. Egli vi tratta come un buon padre che castiga i suoi figliuoli, non per odio che lor porti, ma per desiderio ch’egli ha di correggerli: Quem Deus diligit, castigat (Hebr. XII). E veramente che cosa può trovarsi di più efficace delle afflizioni per far ravvedere il peccatore? Tanto che egli gusta la dolcezza delle prosperità e sta in mezzo alle delizie ed ai piaceri, dimentica il suo Dio, dimentica se stesso; il suo cuore ripieno dell’amore delle creature, è vuoto dell’amor di Dio; non pensa nemmeno al culto e all’omaggio ch’egli deve al suo Creatore: dimentica se stesso, incantato dalle lusinghe dei piaceri, ed è insensibile sul misero stato in cui è stata ridotta dal peccato l’anima sua. Gode egli di una sanità perfetta? Se ne serve per abbandonarsi ad ogni sorta di eccessi. È egli fornito di beni doviziosamente? Egli è prodigo o avaro. Prodigo,  se ne serve per appagare le sue sregolate passioni, a cui per lo più serve di alimento la prosperità. Avaro, altra cura non ha che di accumular beni ed aumentarli. Si vede egli circondato di gloria e di onori o sopra degli altri in condizione elevata? Gonfio d’orgoglio, non ha che sentimenti di disprezzo per gl’inferiori. Tutto occupato da mire ambiziose che l’amor proprio gl’inspira, ad altro non pensa fuorché ai mezzi di trarle ad effetto: segue il torrente delle sue passioni, perde di vista l’eternità e vive, in una parola, come se morir non dovesse giammai, e corre in questa maniera al precipizio con la benda sugli occhi, senza sapere dove finalmente deve terminar il suo corso. – Che farà Iddio allora per arrestare il peccatore e trarlo da sì misero stato? Farà Egli splendere agli occhi di lui un raggio della sua grazia, per dargli a conoscere il nulla delle cose create? Ah! non ha egli già ricevute infinite grazie, alle quali fu sempre ritroso? Infinite ispirazioni alle quali fu sempre sordo e insensibile? Invierà forse Iddio a questo peccatore qualche zelante ministro della sua divina parola, per annunziargli le verità di salute? Ovvero gli susciterà qualche amico fedele, il quale si sforzi con salutevoli avvisi di farlo rientrare sulla buona strada? Ma e quante volte ha udite queste verità senza che l’abbian punto commosso? Quante volte ha avuti amorevoli avvertimenti senza che ne abbia fatta stima veruna? Se Dio gli facesse intendere ancor la voce d’un morto, se operasse miracoli per convertirlo, sordo si rimarrebbe a tal voce ed insensibile a qualunque prodigio. Che farà dunque per guarirlo il Signore? Egli farà, fratelli miei, ciò che già fece per render la vista a Tobia; si servì del fiele d’un pesce applicato sugli occhi. Il Signore si servirà dell’amarezza delle tribolazioni per aprire gli occhi a questo peccatore e trar la sua anima dal fatale attaccamento in cui si trova. Egli lo priverà di quella robustezza di cui s’abusava e lo ridurrà in un letto. Toglierà a quel ricco i beni di cui male si serviva e lo renderà bisognoso; getterà a terra quel superbo elevato qual cedro del Libano, e di confusione lo coprirà e d’obbrobrio. Farà perdere a quella donna la sua funesta bellezza, cagione fatale della sua rovina, e dell’altrui cuore peste e veleno. Toglierà a questo quel parente, quell’amico, quel grande del mondo in cui si affidava: a quell’altro torrà quella creatura che era l’oggetto della sua passione, a quel padre, a quella madre, il figliuolo, oggetto d’un disordinato ed eccessivo amore. – Che farà il peccatore in tal guisa umiliato ed oppresso sotto il peso della croce? Ricorrerà alle creature per trovar sollievo alle sue pene? Ma l’avversità gli ha fatto conoscere il nulla d’ogni cosa creata: come potrebbe ancora appoggiarsi su deboli canne che si sono spezzate tra le sue mani? Abbandonato dalle sue creature, sulle quali non può aver fidanza, sarà, per cosi dire, sforzato a ricorrere al Creatore. Allora questo peccatore, aprendo gli occhi sull’infelice suo stato rientrerà in se stesso. Questo figliuol prodigo a cui la prosperità aveva fatto abbandonare un ottimo padre tornerà a soggettarsi al gioco che aveva scosso. Quel peccatore privato della sanità, e ridotto in uno stato di languidezza, s’avvedrà d’essere mortale, e vedendosi al fine della sua vita, sul punto di dover presentarsi avanti a Dio, provvederà alla sua coscienza con una pronta conversione sincera: spogliato dei beni, oppresso dalla povertà, non avendo più onde appagar le sue passioni, nella virtù sola cercherà la sua felicità. Quella donna, quella giovine, perdute le grazie di cui la natura l’aveva fornita, prenderà il partito del ritiro, non oserà più comparire nelle adunanze di cui era il più bell’ornamento, ed eviterà così tanti peccati che commetteva e faceva commettere altrui. Quell’uomo a cui la morte ha tolto l’idolo della sua passione, rivolgerà il suo cuore ad oggetto più degno del suo affetto. Questi, abbandonato dal parente, dall’amico, rigettato da quel grande del mondo a cui s’appoggiava, riconoscerà che in Dio solo, e non già in un braccio di carne, ripor deve la sua speranza. In una parola, istruito dall’avversità, il peccatore benedirà il Signore mille volte di averlo messo nella felice necessità di dover ritornare a Lui e fedelmente servirlo. Dirà col profeta reale: Oh quanto mi giova, o Signore, l’avermi umiliato, perché ho quindi imparato ad osservare la vostra santa legge: Bonum mihi quia humiliasti me, ut discam iustificationes tuas (Ps. CXVIII). – Mi allontanai da voi con le mie dissolutezze, e voi col flagello in mano per castigarmi mi avete fatto ravvedere. Castigasti me et eruditus sum (Jerem. XXXII). Mi avete indotto a ritornare a voi con una penitenza sincera. Postquam convertisti me, egi pœnitentiam (Ibid.). O preziose afflizioni, quanto vantaggio apportate a chi vi riceve dalle mani di Dio con rassegnazione! Potrei addurvi, fratelli miei, molti esempi per provarvi quel che asserisco: ma non voglio altri testimoni che voi medesimi. – Quando fu che voi vi disgustaste del mondo e delle creature? Quando siete stati da questi abbandonati, o dal mondo traditi. Quando fu che pensaste seriamente all’affare di vostra salute? Quando l’avversità vi distaccò dai beni terreni. Nell’abbondanza ad altro non pensavate fuorché a tesoreggiar sulla terra: ma ridotti a povertà pensaste soltanto ad arricchirvi pel cielo. Finalmente quando fu che risolveste efficacemente di convertirvi? Quando privi della sanità e inchiodati su d’un letto di dolore sentiste avvicinarsi la morte. Allora, colti del timore dei severi giudizi di Dio, prendeste le vostre misure per riacquistar la sua grazia; e i sacramenti ricercaste, cui se foste stati sani, non avreste ricevuto giammai. E infatti, quante volte il Signore con l’affliggervi vi sforzò a pensare a Lui, per trovare nel paterno suo cuore un alleggerimento ai vostri mali? Allorché la siccità rendé sterili le vostre campagne o le tempeste le desolarono, o tanti altri sinistri accidenti vi colpirono, la divina provvidenza, che regolava questi vari avvenimenti, vi ha messi nella felice necessità di ricorrere al Signore, il che non avreste fatto, se ogni cosa vi fosse andata a seconda. Quanti peccati avreste commessi se Dio non vi toglieva, per così dire le armi di mano, privandovi di quelle ricchezze, che a giudizio del mondo rendono felici chi le possiede, ma sono avanti a Dio di mille peccati cagione? Ah! fratelli miei, noi vediamo che, non ostante le calamità dei tempi, non ostante i castighi con cui Dio affligge i popoli, regna tuttora tra di loro il vizio: che ne sarebbe se Iddio, propizio ai loro desideri, li colmasse di prosperità? Sarebbero per la maggior parte altrettanti orgogliosi, come addivenire vediamo bene spesso che assai diversi sono gli uomini tra le prosperità da quel che nella miseria sarebbero. Non vogliate dunque attribuire le vostre disgrazie, fratelli miei, né ai capricci della fortuna né alla malignità dei vostri nemici, ma adorate la mano di Dio che vi sforza, e che si serve delle afflizioni per farvi ritornare a Lui. Egli fa, dice s. Gregorio, come un medico, che non perdona a ferro né a fuoco per una piaga che vuol guarire; che recide un membro corrotto e cancrenato, per timore che il male non prenda tutta la vita. Così Dio con l’amarezza delle tribolazioni vi preserva dal veleno della prosperità, capace a darvi facilmente la morte, essendo accompagnato da un’apparente dolcezza che ne copre la malignità. Egli fa con voi eziandio, dice s. Giovanni Crisostomo, come l’artefice, che mette l’oro nel crogiuolo per farne vasi preziosi: o come colui che taglia con lo scalpello le pietre per collocarle al luogo destinato: nella stessa maniera il Signore vi mette nel crogiuolo dell’afflizione, perché di vasi d’ignominia che eravate vuol farne vasi d’onore e di gloria, come dice l’Apostolo; vi percuote col martello delle tribolazioni per darvi la figura di pietre preziose per alzar l’edificio della celeste Gerusalemme, cioè riempire le sedie che lor sono destinate nel cielo: Scalpri salubris ictibus et tunsione plurima fabri polita malleo hanc saxa molem construunt etc. (Santa Chiesa nell’inno della Ded.). – Felici voi, fratelli miei, se riceverete le tribolazioni secondo le mire della provvidenza: se, invece d’indurirvi sotto il martello, riceverete le impressioni che Dio vuol darvi per operare in voi un sincero cambiamento di costumi e di condotta, che è il frutto che dovete cavarne, e voi troverete ancora nelle afflizioni onde soddisfar possiate a Dio per le pene ai vostri peccati dovuta. – E di fatti non v’è alcuno tra di voi che, per peccati da sé commessi, non sia debitore alla divina giustizia. Non v’ha alcuno cui non possa dirsi come a quei debitori del Vangelo: Quantum debes? Quanto dovete? Di quanta soddisfazione siete debitore, per tante empietà, per tanta irreligione, per tante profanazioni, vendette, mormorazioni, disonestà, intemperanze, per tanto sdegno e odio che nutriste? Quantum debes? Ah! che sarebbe di voi, se Dio vi avesse castigato come avete meritato? Voglio accordarvi che abbiate già fatti gli sforzi necessari per rientrare nella sua grazia, e ottenere alle vostre colpe il perdono: ma, oltre che voi non sapete se questo tal perdono vi è stato veramente dato, non vi resta egli ancora dopo il peccato perdonato una pena che in questo mondo oppure nell’altro dovete espiare; in questa coi patimenti, nell’altra con le fiamme del purgatorio? Iddio vi dà la scelta di queste due pene, o per meglio dire, queste pene del purgatorio rigorosissime e spesso di lunga durata e che sorpassano di gran lunga qualunque più atroce pena che possa in questa vita soffrirsi, vi sono da lui cangiate in patimenti leggieri e che durano sol pochi momenti; non si potrebbe egli dire con ragione che voi siete nemici di voi medesimi, se non profittaste di così facile mezzo per soddisfare alla divina giustizia? Chi è tra di voi che, carico di grossi debiti, ricusasse di liberarsene con qualche piccola somma che gli fosse domandata? Qual reo dannato a morte non si stimerebbe fortunato di poter riscattare la vita con alcune ore di prigionia? Ora Iddio vuol rimettervi debiti molto maggiori per pochi momenti di pene: come potreste voi dubitare di secondare le sue mire? Alcune gocciole di questo fiele possono estinguere tutta la forza delle fiamme divoratrici che avete meritato: ah! Potrete voi ricusare di bere nel calice della misericordia per non dover poi bere tutto il calice amaro che la sua giustizia vi prepara a luogo dei tormenti? Voi ci chiedete talvolta qual soddisfazione possiate offrir a Dio per i peccati da voi commessi. I ministri del Signore sono talora in dubbio su di quella che sia d’uopo d’imporvi; voi non potete far limosine, poiché la povertà ve lo vieta; non potete digiunare, mortificarvi, a cagione, come ci dite, delle vostre infermità, dei vostri lavori: la bontà del Signore con le tribolazioni vi provvede di un mezzo facile per soddisfare alla sua giustizia purché le riceviate con rassegnazione: è questa una penitenza sommamente salutevole, appunto perché viene da Dio prescelta: Egli vi conosce troppo delicati nel punirvi da voi medesimi, e perciò non lascia a voi la cura di soddisfare alla sua giustizia; prende Egli medesimo il flagello in mano per fare a se stesso riparazione delle ingiurie che gli avete fatto. Ma, come la sua mano che vi percuote è guidata dall’amore, nel punirvi ha riguardo alla vostra debolezza e non vi manda se non quelle croci che potete portare, egli è dunque necessario accettarle, se volete pagare i vostri debiti, e tanto più perché vi convien fare della necessità virtù, imperciocché voi avete bel fare, per amore o per forza convien soffrire; le croci sono inevitabili; quantunque facciate tutto il possibile per fuggirle, vi seguiranno dappertutto; il miglior partito egli è di pazientemente portarle; e non solamente non diverranno più gravi, ma la pazienza per lo contrario ne alleggerirà il peso e ne raddolcirà l’amarezza. Ma la maggior parte degli uomini profittano forse in questa guisa delle afflizioni? Ah! Essi le hanno in orrore: e mentre gli Apostoli erano ripieni d’allegrezza in mezzo ai patimenti, si sforzano i cattivi Cristiani, per quanto possono, di scuoterne il giogo: benché sappiano che per essere discepoli di Gesù Cristo fa d’uopo di portare la croce, si danno all’impazienza, e van mormorando contro la provvidenza qualora alcuna cosa sono astretti a soffrire. Quindi che ne avviene? la loro croce diventa più grave, si affannano inutilmente per sgravarsene: e se per avventura da qualcheduna riescono di liberarsi, un’altra maggiore ne trovavano che non vogliono in alcun conto portare. E invece di sgravarsi dei lor debiti, altri maggiori ne fanno, cangiano il rimedio in veleno: irritano vieppiù la giustizia di Dio invece di placarla; e a guisa del malvagio ladrone, piombano dalla croce all’inferno mentre per lo contrario al buon ladrone servì la croce di scala per salire al cielo. – Sta nelle vostre mani, fratelli miei, il servirvi della croce santamente, come il buon ladrone: Iddio vi dà questo tesoro per pagare i debiti vostri e comperarvi il suo regno: non è necessario che voi abbandoniate il vostro stato e la casa per trovare questo tesoro: ad ogni passo che facciate potete rinvenirlo. Nascono le croci in ogni luogo, in ogni stagione le incontrate in quella povertà a cui vi siete ridotti; nelle malattie, nelle disgrazie che vi accadono, nel rovesciamento di fortuna, che vi affligge, nella persecuzione di quei nemici; nell’abbandono di quell’amico; nel rifiuto di quel grande del secolo, nel disprezzo, che si ha di voi; in quella umiliazione, in quei colpi che macchiano la riputazione; nella perdita di un figliuolo, d’un parente, a voi così caro; nel cattivo umore di quel marito, di quella moglie, di quelle persone, con cui siete costretto a convivere; nel carattere malvagio di quei figli; nella rusticità di quei servi; nella severità di quei padroni; in una parola, voi troverete croci in tutte le afflizioni annesse al vostro stato; altro non si ricerca di accettarle con rassegnazione, e offrirle a Dio in soddisfazione delle colpe vostre. Se la vostra sommissione in queste occasioni è sincera, i vostri debiti sono pagati, il cielo è vostro. Tutto deve cedere a queste riflessione: se per altro aveste ancora qualche ripugnanza a portare la croce, ah! Fratelli miei, per , scendete in spirito nell’inferno, e mirate ciò che vi soffrireste, se Iddio vi avesse trattati come meritavate; allora, lungi dal lamentarvi, benedirete mille volte il Signore, lo ringrazierete della sua benignità nell’avere cangiati in leggiere tribolazioni brevissime gli eterni supplizi che vi erano destinati. Questo sol pensiero, io ho meritato l’inferno. è capace di far cessare i lamenti di natura troppo sensibile, e avversa ai patimenti, anzi è bastante a farceli amare. Ora, giacché conoscete, o peccatori, quanto vantaggioso vi sia il soffrire per Gesù Cristo, sopportate pazientemente le pene di questa vita servitevene per convertirvi a Dio e per soddisfare alla sua giustizia per i vostri peccati, e siate certi che dopo essere stati purificati col fuoco della tribolazione, meriterete di entrare nel regno delle eterne delizie dove più non avrete cosa alcuna a soffrire. Vediamo ora il vantaggio delle tribolazioni per li giusti. Secondo punto.

SECONDO PUNTO

Expedit vobis, ut ego vadam. Joan. XVI.

Egli era espediente per gli Apostoli che il Salvator del mondo da loro si separasse, perché il loro attaccamento alla sua presenza era un ostacolo alle grazie che loro doveva con la sua veduta infondere lo Spirito Santo: nella stessa guisa Egli è espediente per i giusti che Dio li privi delle sue consolazioni, e li provi con l’afflizione.

II. Punto. I beni, i mali di questa vita, e tutte le cose contribuiscono al vantaggio di coloro che amano Dio, dice l’Apostolo. I beni per il buon uso ch’essi ne fanno, e i mali, per la pazienza con cui li sopportano: ma nelle afflizioni principalmente trovano i giusti sicuri mezzi e insieme contrassegni certissimi della loro predestinazione. Le afflizioni nutriscono la fede dei giusti, fortificano la speranza, e la loro carità rendono perfetta. Ecco i vaneggi che apportano all’uomo giusto. La fede c’insegna che noi dobbiamo mirare il cielo come nostra patria e riguardarci in questo mondo, dice s. Pietro, come in una terra straniera. Ora nulla può trovarsi, che sia più valevole a conservarci in questi buoni sentimenti che le tribolazioni. Infatti, fratelli miei, per poco che si rifletta a ciòche accade in questo mondo, noi vediamo che i giusti non sempre dei beni di fortuna si trovano forniti mentre all’empio circondato di gloria e di onore va tutto a seconda, il giusto nell’oscurità geme nell’umiliazione: Dum superbit impius, incenditur pauper (Ps. IX). Spesso ancora è la sua probità disprezzata dai peccatori, e schernita. Ora egli è afflitto da perdite, ora da malattie, oggi perseguitato dai nemici; domani dagli amici tradito, e pochi son quei giorni che da qualche tribolazione non siano segnati, e si può accertare che nelle vicende di beni e di mali che riempiono la vita degli uomini, i mali che si soffrono, sorpassano di gran lunga per la loro gravezza e durata i beni e i piaceri che si posson godere. Or ecco ciò che insegna al giusto a riguardarsi sulla terra come in un luogo d’esilio, impercioché in questa maniera deve portarlo a ragionare la fede. Io sono certo che v’ha un Dio rimuneratore delle opere buone, che non le ricompensa su questa terra tutta ripiena di triboli e di spine; non è dunque in questo mondo il mio regno; un’altra più verace felicità mi è riserbata nel cielo, dove Iddio dà il premio dovuto alla virtù. – Quindi ne proviene quel distacco dal mondo che sente nascersi nel cuore il giusto tra le afflizioni: quindi quegli ardenti suoi desideri e sospiri verso il cielo, sua patria diletta. E invero come potrebbe egli porre affetto ad un mondo, il quale altro che miseria non germoglia ed afflizione di spirito: ad un mondo., in cui un bene verace, un puro piacere, un durevole riposo non si può rinvenire? Come non sospirerà verso un soggiorno in cui nulla di più dovrà soffrire, in cui senza male di sorta alcuna, la pienezza godrà d’ogni bene? Questo deve , fratelli miei, farci conoscere la sapienza e la bontà di Dio nelle tribolazioni ch’Egli ci invia. Egli conosce l’inclinazione nostra per gli oggetti creati e sensibili; vede che il grande attacco che abbiamo ad essi allorché li possediamo, ci fa perdere di mira i beni eterni; e ci espone eziandio a perdere la fede che dobbiamo avere, imperciocché colui che gode di una prosperità non interrotta, ebbro ed incantato dai piaceri dei sensi, più non trova alcun gusto nelle cose di Dio. Animalis homo non percepii ea quæ sunt Spiritus Dei (1 Cor.2). E perciò Egli allontana da noi quegli incantevoli oggetti, ci priva dei beni; permette quella disgrazia d’un grande del secolo, quell’abbandono d’un amico, la persecuzione d’un malevole; amareggia i nostri piaceri con salutevoli afflizioni, onde siamo astretti a rivolgerci verso i veri beni. E non avete voi fatto di ciò l’esperienza più volte? Quando ogni cosa andò a seconda dei vostri desideri, voi perdeste di vista le verità della fede: ma quando il Signore fece sentirvi il peso del suo braccio, allora comprendeste che fuori dei piaceri che in cielo si godono, niun altro è degno del nostro affetto: si ravvivò allora la vostra fede, talché maggiore non era stata giammai. E non vediamo noi di questo giorno l’esperienza ancora in tutti gli stati? Non troviamo noi maggior fede, maggior divozione in coloro che sono nell’avversità, che in coloro i quali gustano della prosperità le dolcezze? Vedete voi forse i ricchi del secolo segnalarsi colla pratica delle virtù, con l’assiduità negli esercizi della religione? Non li udite voi per lo contrario combatterla spesso con frivoli discorsi, con empi ragionamenti? Siccome questa religione li incomoda e li molesta nei loro piaceri, vorrebbero che non ve ne fosse alcuna: e perciò si sforzano di estinguere la luce, per camminare nelle tenebre dell’iniquità: ma facciano quanto potranno, questa fede non può nella loro mente in tale maniera oscurarsi, che non faccia splendervi qualche luminosa verità che li conturbi in mezzo ancora ai loro piaceri. Per lo contrario il giusto nelle afflizioni, libero dalla caligine che le mal frenate passioni producono, seguita la luce della fede, osserva le sue massime, ed altra felicità non cerca fuorché quella che dalla fede gli vien proposta. Cosi le afflizioni nutriscono la fede del giusto, e fortificano inoltre la sua speranza. E infatti, fratelli miei, ella è indubitata verità nelle sante Scritture in più luoghi manifestata, che solo per la strada delle tribolazioni giunger possiamo al regno di Dio: Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Act. XIV). Altri predestinati non saranno, dice l’apostolo, fuorché loro che dal Padre celeste saran trovati conformi all’immagine del suo Figliuolo. Alcuno non salirà con Gesù Cristo nella gloria, se non sarà prima con Lui salito al Calvario: Egli stesso ci assicura che chi non porta la sua croce non può essere suo discepolo: felice dunque colui che è partecipe dei patimenti dell’Uomo-Dio, imperciocché deve quindi sperare di regnare nel Cielo con Lui: Si sustinebimus, et conregnabimus (2Tim. 2). Questa è la strada che tennero i santi tutti per arrivare al regno di Dio: e testimoni ne siano quei martiri illustri, che la innaffiarono col sangue loro, dando per Gesù Cristo la vita: e quei santi Anacoreti, che dandosi ai rigori della penitenza, con le lagrime la bagnarono; essi erano tutti persuasi di ciò che dice il grande Apostolo, che le tribolazioni di questa vita produr dovevano in essi un peso immenso di gloria: Momentaneum tribulationis nostræ æternum gloriæ pondus operatur in nobis (2 Cor. IV). Ecco dunque ciò che sostiene, ciò che fortifica la speranza del giusto nelle afflizioni: egli sa che il suo Dio è fedele nelle promesse, magnifico nelle ricompense, che gli promette in premio dei suoi patimenti un regno eterno: egli sa che le croci lo rendono somigliante a un Dio paziente, che è il modello dei predestinati, sa che gli eletti, gli amici di Dio sono stati provati col fuoco della tribolazione e che solo dopo queste prove sono stati trovati da Dio degni di Lui: egli può dunque essere sicuro di aver con i santi una medesima sorte: s’egli soffre come essi, le sofferenze gli danno un incontrastabile dritto a quella corona che Dio promette a coloro che li amano. Ah! Fratelli miei, quanto sono consolanti pel giusto che è nelle afflizioni, questi pensieri: quanto mai ne raddolciscono l’amarezza! Ecco ciò che riempiva già d’allegrezza il grande Apostolo in tutte le sue tribolazioni: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (2 Cor. VII). – Il giusto afflitto vede in mezzo a suoi dolori il cielo aperto per lui, vede la stanza a lui preparata: poco tempo ancora, dice allora seco stesso, e presto vedrò finire i miei mali, la mia afflizione si cangerà in eterna allegrezza. Ecco, o giusti che siete tribolati, il degno oggetto a cui dovete rivolgervi nelle vostre pene. Mirate, vi dirò come la madre dei Maccabei ad uno dei suoi figliuoli per incoraggiarlo nei tormenti, mirate quel bel cielo, per cui siete stati creati, gettate lo sguardo al trono di gloria che vi è preparato. Peto, nate, aspicias ad cœlum (2 Mach. VII). Ecco il termine dei vostri affanni, il fine delle vostre pene. Alla vista di questa immensità di gloria confesserete, che, come dice l’Apostolo, tutte le tribolazioni di questa vita non meritano di di essere messe in confronto della ricompensa che vi è promessa. Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam quæ revelabitur in nobis (Rom.VIII). Confesserete che beati sono gli afflitti, perchè sono sulla via che al cielo conduce, e infelici al contrario stimerete coloro che nulla patiscono, e d’ogni piacer godono in questo mondo, perché sono nella strada di perdizione. Lungi dunque dal lamentarvi nelle vostre afflizioni, le stimerete come una caparra che Dio vi dà dell’eterna felicità; e tanto più perché le afflizioni, rendendo perfetta la vostra carità, sono eziandio per voi feconda sorgente di meriti e di virtù. – E invero, fratelli miei, egli è nelle tribolazioni, che la virtù si fa conoscere, si fortifica, e si perfeziona, come dice l’Apostolo. Virtus in infirmitate perficitur (2 Cor. II).Nelle tribolazioni l’amore di Dio, la pazienza, l’umiltà, tutte le virtù cristiane si fanno vedere in tutto il loro splendore. Si trovano per verità alcuni, che nella prosperità non lasciano di servir Dio, e che gli protestano, come il reale profeta, di voler essergli nell’abbondanza dei beni inviolabilmente fedeli: Ego autem dixi in abundantia mea non movebor in æternum (Ps. XXIX). Ma quanto poco si puòfar conto sopra quella virtù, che dall’avversità non è stata provata. Imperciocché se si ama Dio soltanto quando non è favorevole ai nostri desideri, ciò non sarebbe più amarlo per Lui medesimo, ma per lo contrario essere fedeli a Dio quando ancora ci affligge, perseverare costanti nel suo servizio quando parche ci abbandoni, questo sì, che può chiamarsi vero amore, amor puro e sincero: imperciocché tanto è più perfetto l’amore, quanto è più disinteressato. Ora un Cristiano che ama Dio nelle tribolazioni, dimentica i propri interessi; e si serba fedele a Dio, non per i beni che ne riceve, ma perché è infinitamente amabile; il che è effetto d’una carità perfetta. Il Cristiano tribolato può dire a Dio come il reale Profeta, Voi avete voluto, o Signore, provare il mio cuore, e conoscere il mio amore. Probasti cor meum (Ps. XVI). Voi mi faceste passare pel fuoco della tribolazione. Igne me examinasti. E non ostante ogni prova in cui mi avete posto, io non mi sono allontanato da Voi: le disgrazie, i sinistri accidenti non mi han fatto abbandonare la vostra santa legge: et non est intenta in me iniquitas. Le acque della tribolazione non han potuto estinguere il fuoco dell’amore divino di cui era infiammato il mio cuore: Aquæ multæ non potuerunt extinguere charitatem (Cant. VIII).Oh beato colui che può tenere a Dio siffatto discorso! Benché non possa alcuno in questa vita essere certo di avere per Dio un amore perfetto, si può dire nondimeno, che la pazienza nelle tribolazioni n’è una delle più sicure prove. Ed ecco, o giusti, la felice testimonianza per cui potete conoscere che amate il Signore. A questo contrassegno si sono sempre conosciuti i suoi veri amici. Testimonio ne sia il santo Giobbe, la cui virtù non comparì mai tanto bella come nella tribolazione. Non è meraviglia, diceva a Dio lo spirito tentatore, che Giobbe fedelmente vi serva, mentre il colmate di beni; ma aggravate su di lui la vostra mano, e vedrete se sarà saldo alla prova dei vostri flagelli. Iddio percosse di fatti il suo servo, ma questo santo uomo dimorando fedele a Dio nei dolori, confuse il demonio. Non vi rechi dunque meraviglia, o giusti che mi ascoltate, che di tanto in tanto Iddio vi affligga per rendere più perfetto il vostro amore: imperciocché Egli lo mette alla prova delle tribolazioni, come si mette l’oro nel crogiuolo per dargli tutta la sua bellezza. Nei vostri giorni felici, in sanità perfetta, nell’abbondanza di beni, vi pare che voi amavate di cuore il Signore, perché facevate delle buone opere: ma in una prosperità continua si sarebbe ella serbata incorrotta la vostra virtù? Una sanità sempre robusta, una fortuna sempre ridente non vi avrebbero esposti a qualche caduta in cui avreste perduti i meriti delle vostre buone opere? Inoltre non avevate nulla a temere degli inganni dell’amor proprio che le virtuose azioni suole spesso accompagnare? La vostra propria volontà non era ella la regola di vostra condotta? E per lo contrario ridotti ad uno stato di debolezza e di povertà, siete sicuri di ubbidire al voler di Dio, tanto più che essendo le afflizioni spiacevoli e contrarie alla natura, la propria volontà non v’ha parte. Allorché eravate onorati e applauditi dagli uomini, vi compiacevate delle lodi che vi eran date: ma non si doveva egli temere che ciò fosse l’unica ricompensa del vostro buon operare? Invece che ora essendo divenuti l’oggetto del loro disprezzo e dei loro scherni, avete imparato a far le vostre buone opere unicamente per piacere a Dio. Mentre gli amici andavano tutti a gara per prestarvi servigi, e dimostravansi grati ai vostri benefizi, voi forse vi contentavate, alla guisa dei farisei, di amare chi vi amava, e beneficare chi si dimostrava benefico verso di voi: ma allorché avete veduti gli uni indifferenti per voi, gli altri diventarvi nemici, e che siete stati da tutto il mondo abbandonati, voi avete innalzate le vostre virtù all’eroismo, se, come comanda il Vangelo, avete amato i nemici e renduto bene per male. Prima che l’ingiustizia vi spogliasse dei beni, che nere calunnie vi togliessero la riputazione, che foste con atroci ingiurie insultati, voi possedevate la vostr’anima in pace, attendevate alla vostra salute tranquillamente: ma che merito avevate? È forse difficile di praticar la pazienza quando non v’ è cosa alcuna a soffrire! Al contrario non è atto di perfetta ed eroica virtù esser padrone di sé stesso in mezzo agli affronti e alle ingiurie? Questo si è veramente camminar sugli esempi che Gesù-Cristo ci ha dati. Quando non provavate nel servizio di Dio che sensibili consolazioni, dicevate come s. Pietro sul Tabor: Signore, noi qui stiam pur bene. Bonum est nos hic esse. Ma quando Iddio ha ritirate le sue consolazioni, voi avete imparato a cercar piuttosto il Dio delle dolcezze che le dolcezze di Dio. Oh! quanto vantaggiose son dunque le afflizioni ai giusti per provare, purificare e perfezionare le loro virtù. Ecco, o giusti, ciò che vi deve efficacemente muovere non solo a riceverle, ma a ricercarle eziandio con ardore! Se avete ancora qualche ripugnanza, salite in spirito sul Calvario, e gettate lo sguardo sull’Autore e competitore della vostra salute, che ha portato con gaudio tutto il peso della croce, che è stato caricato d’obbrobri, che ha tutto bevuto il calice amaro della sua passione, che è stato coperto di piaghe. Ora sotto un capo coronato di spine, osereste voi portar membra delicate, e coronarvi di fiori? Paragonate i vostri con i suoi patimenti: avete voi al par di Lui resistito sino a spargere il vostro sangue? Nondum enim usque ad sanguinem restitistis (Hebr.XII). Ah! confessate piuttosto, che a paragone dei suoi sono un nulla i vostri patimenti.

Pratiche. Non abbiate dunque timore di patire, dice s. Agostino, temete piuttosto di non patire: temete di non patire abbastanza; giacché i patimenti sono vantaggiosi tanto ai peccatori che ai giusti. Se ogni cosa va a genio vostro, temete che Iddio non vi abbandoni, e che questo non sia un effetto della sua collera: temete che lasciandovi Egli tranquilli nella prosperità non vi dia la ricompensa in questa vita, e non ve ne riserbi alcuna nell’altra, in cui siccome al malvagio ricco, vi dirà voi avete ricevuto in vita i vostri beni: Recepisti bona in vita tua (Luc. XVI). – La vostra felicità è stata sulla terra, onde non potete goderla con i Santi in cielo. Questo timore vi faccia pregare instantemente il Signore, come faceva s. Agostino, che non vi risparmi, che vi flagelli in questo mondo, affinché vi perdoni nell’altro. Eie ure, hic seta, modo in æternum parcas. Se non avete coraggio bastante per andare incontro ai patimenti e ricercarli, abbiate almeno rassegnazione bastevole per ricevere quelli che Dio invia. Soffrite ciò che a Dio piacerà, e fintanto che a Lui piacerà. Le croci che il signore vi manda sono più salutevoli di quelle che sono di vostra elezione. Fa d’uopo ad imitazione di Gesù-Cristo, bere il calice che Dio vi porge, a preferenza di qualunque altro, il quale forse sarebbe ancora più amaro per voi. Calicem, quem dedit mihi pater, bibam (Jo. XVIII). Finalmente, se il Signore non ci affligge come meriteremmo, facciamo noi medesimi le parti della sua giustizia, e prendiamo le armi in mano per punirci con i rigori della penitenza. Sforziamoci, come dice l’Apostolo di compiere con la mortificazione del nostro corpo e delle nostre passioni ciò che manca ancora alla passione di Gesù-Cristo. Sopportiamo con uno spirito di penitenza tutte le pene annesse al nostro stato. Ella è un’ottima usanza di offrirle a Dio non solamente alla mattina, ma eziandio più volte al giorno. – Se ci accade qualche disgrazia, abbracciamo la croce in ispirito, e mettiamo ai piedi di questa croce i disprezzi, gli affronti, le pene che abbiamo a tollerare. Cerchiamo in Dio e non negli uomini la consolazione nelle nostre tribolazioni; e ripetiamo spesso quelle parole dell’orazione domenicale fiat voluntas tua, o quelle del santo Giobbe: Si faccia, o mio Dio, la vostra santa volontà, sia benedetto il vostro santo Nome. Rappresentiamoci Gesù-Cristo, che con la croce sulle spalle c’invita a seguirlo e a portarla con Lui; chi non si sarebbe stimato felice di poter alleggerirgli questo gravissimo peso? Noi possiamo farlo, fratelli miei, e lo facciamo ogni volta che noi accettiamo con perfetta rassegnazione le croci che la sua bontà c’invia per aprirci la strada all’eterna felicità, che vi desidero. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.

[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.

[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.

[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.

[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/13/tutta-la-messa-cattolica-momento-per-momento-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (110)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XX.

Si risponde a quegli argomenti, per cui gli ateisti s’inducono a negare la provvidenza.

I. Legger fatica è piantare un forte, in paragone di quello che si ricerca a difenderlo bravamente. Non è però malagevole stabilire la provvidenza, posto spezialmente quel solido fondamento che la natura con mano non errante vi apparecchiò nel petto di ognuno, quando vi gettò questa massima generale, che non solamente deve riconoscersi una divinità fabbricatrice dell’universo, ma che debbesi anche invocar con preghiere assidue, pacificare con sacrifizi, placare con sommissioni, guadagnare con voti di cuor sincero, come quella che è sola a tenere in suo dominio la ruota delle nostre vicende, ed è sola a volgerla. Ciò che richiede più di vigore, è difendere una tal verità dagli assalti degli avversari. E chi sono questi? Sono quegli empi, i quali come delinquenti, troppo amerebbero, che non vi fosse un invisibile giudice, condannatore ognora, e punitore a suo tempo delle loro ancor più segrete scelleratezze. Ma lasciateli pure venire, e venire guarniti delle armi loro più forti. Che potran fare?  Troppo è gagliarda la rocca da lor tentata. Gli argomenti al tutto puerili, di cui gli audaci si vagliono in assaltarla, si sono da noi già ribattuti abbastanza nel capitolo antecedente: onde il dimorare intorno ad essi più lungamente sarebbe non appagarsi di far cadere dalla mano di un indiano la canna, con cui combatte, se non si perde il tempo a fargliela ancora in pezzi su gli occhi suoi. Miglior consiglio sarà però lo spogliarli di armi più valide, almeno nell’apparenza, cioè di quelle che talora, se non hanno voltato in fuga, han fatto almeno vacillar qualche poco il cuore in petto anche ai saggi: e sono quelle due opposizioni che vengono tosto addotte nel sindacato di ogni governo, cioè la licenza data ai costumi, e la distribuzione non giusta, sì dei premi, sì delle pene, che quivi tennesi. – Facciamoci dalla prima, con trapassare dal governante da noi difeso, alla forma di governare.

II. Senonchè innanzi di venire all’inchiesta, mi si conceda sfogare un giusto dolore, che ho finora represso a forza nell’animo, contra questi censori alteri, i quali si arrogano dar giudizio, di chi? del Giudice universale. E da quando in qua hanno gli uomini senno da raggiustare fin le bilance pubbliche in mano a Dio; da misurare que’ pesi con cui ragguaglia i meriti ed i demeriti di ciascuno; e da far pruova se l’una e l’altra coppa stia bene in perno? uomini sì meschini, che non capiscono ancora come si faccia una zanzara minuta a trombar sì forte; e poi sentenziano sulla sapienza divina, nel ripartimento che fa della fortuna prospera e dell’avversa! Formicuzze volanti, ma a loro costo, mentre, benché provvedute di ali posticce, pur si argomentano di volar tanto in su che sputino in faccia al sole, per ismorzarlo. Capi sventati, che se dovessero (come si ha per favola di Aristotile) gettarsi in qualunque fondo, ove nulla han saputo pescar di vero, troverebbon l’Euripo in ogni pozzanghera; eppur presumono di scandagliare quell’oceano profondo di sapienza e di santità, che è chiamato l’investigabile, e trovar da correggere, da alterare, da aggiungere a quelle massime che la provvidenza ha fermate sino ab eterno nel governarci. – Su, andate prima a fabbricarvi un altro mondo anche voi: chiamatelo dal nulla con voce tale, che fin di là vi risponda: formatelo senza aiuti. fermatelo senza appoggi, movetelo sempre in giro senza fatica, e poi venite a disputare con quel Signore di cui vi tenete più dotti. Avendo con gran facondia Gorgia oratore proposti i modi da racquetare il popolo d’Atene tumultuante, fu deriso da tutti per questo solo, perché vi fu chi, dopo lui, sorto in piedi: Guardate, disse, se è buono a mettere pace in sì gran città chi non avendo in casa più che due donne, la massaia e la moglie non sa far sì, che non facciano sempre a’ capelli insieme. Ma forse che l’istesso non si può dir di questi arroganti? Non sanno in casa loro ciò che sia legge, e poi vogliono darla sull’universo, e darla ad un Dio che ha per diritto, esser tenuto giustissimo ancora quando viene a far ciò che agli uomini par più ingiusto. Non dubitandum est, esse iustum, etiam quando facit quod hominibus videtur iniustum (S. Aug. 1. sent. sent. 300). Non confondiamo però tanto lungamente questi frenetici, che ci dimentichiam di curarli: seppure il confonderli non è già buona parte della lor cura.

III. Adunque la prima cosa che si opponeva alla provvidenza divina, era la permissione di tanti eccessi, quanti sono quei che si veggono alla giornata, quasi che, inchinandosi il sommo Bene a regolare gli affari dell’universo, non debbavi lasciare alcun luogo al male: non altrimenti, che se il sole scendesse in terra, non verrebbe a lasciarvi alcun luogo al gelo. Ragione di qualche apparenza a chi, come con gli occhi, così colla mente, non vede nelle cose altro più che la superficie; né trapassa ad intendere, che se il sole disceso in terra non vi lasciasse alcun gelo, farebbele un tristo prò , mentre così la manderebbe di subito a fuoco e a fiamma.

IV. Dovete però avvertire, che diversamente ha da procedere il provveditore particolare in ogni ordine d’individui, diversamente l’universale. Il provveditore particolare ha da escludere più che può qualunque difetto da ciascun di quei che gli furono dati in cura. L’universale ha da permettere qualche difetto nelle parti, per non impedire la perfezione del tutto (S. T h . 1. p. q. 22. art. 2. ad 2 ) . Ond’è che i difetti che accadono nelle cose naturali, quali sono le sterilità, le storpiature , gli abortivi, i morbi, le morti, si dicono avvenire contra la intenzione della natura particolare di quelle cose ove accadono, non contra l’intenzion della universale. Anzi questa effettivamente li vuol possibili, in quanto il danno di uno è giovamento dell’altro, e la distruzione di uno è generazione dell’altro. La morte de’ cervi è refezion de’ leoni, e la magrezza de’ campi è ricchezza de’ lavoratori. Ditemi adunque, che pretendete da Dio? che impedisca tutte le colpe? Se così è, volete dunque che Egli operi solamente qual provveditore particolare degli uomini, ma non già quale universale. E non vi accorgete, che se Dio dalla sua bontà fosse astretto non solo a proibire le colpe tutte, com’Egli fa, non solo a punirle, ma ancora ad impedirle efficacemente, non sarebbe possibile colpa alcuna (E se non fosse possibile colpa alcuna , come a noi sarebbe possibile conseguire (Se non fosse possibile la colpa, io aggiungo, sarebbe impossibile la libertà morale dell’uomo, la quale pur mentre conformasi alla legge de1 giusto e dell’onesto, ha la coscienza che potrebbe fare il contrario. Chi adunque impugna per ragion della colpa la divina Provvidenza impugna per ciò stesso la libertà umana) la felicità, almeno qual merito, qual mercede, qual corona di generoso trionfo: che è ciò che la renderà quanto più gloriosa a ciascuno, tanto più accetta? Poteva Dio nel crearci donare a tutti di subito il paradiso, chi non lo sa? ma non ha voluto. Ha voluto, che noi ce lo guadagniamo colla vittoria degli appetiti scorretti: perché avendo la beatitudine eterna, rispetto a noi, ragion di ultimo fine, dovea convenientemente esser premio della virtù (S. Th. 1. p. q. 62. art. 2. in 2).

V. E vero che Dio ha sempre ad operare da quello che Egli è, cioè da ottimo agente. Ma l’ottimo agente ha da fare ottimo il tutto, non ha da fare ottima ciascuna parte del tutto almeno semplicemente, ma solo quanto porta la proporzione che ella ha da avere col rimanente dell’opera. Onde è, che quel dipintore, il quale, sdegnate l’ombre, volesse usar soli chiari, soli cinabri, non farebbe ottima la sua tela, ma pessima. Basta che egli dell’ombre valer si sappia in prò de’ colori, il cui lume da nulla divien più commendabile, che dal fosco. In pictura lumen, non alia res magis, quam umbra commendat(Plin. 1. 1. ep. 13).E così appunto si vale Dio delle colpe. Se, nevale con accorgimento d’infinita saviezza, alzando fabbriche più sicure sulle rovine più alte da lui permesse, e formando antidoti più salutevoli dal veleno più reo. E per discendere in ciò più al particolare: due ragioni di bene riporta sempre Dio da quel male di cui parliamo: l’una riguarda Lui, ed è la sua maggior gloria; l’altra riguarda noi, ed è il nostro maggior guadagno.

VI. Ed in prima, col permettere che fa Dio gli eccessi degli empi, ne cava questa gloria meravigliosa di sopportarli. Non fu lode a Filippo re delle Spagne quel sopportar ch’egli fece senza disturbo la trascuratezza di un paggio, che invece di spander il polverino, come era chiesto, sopra una lunga lettera, dal re scritta di proprio pugno al Sommo Pontefice, vi riversò il calamaio? Parve allora, che siccome la gloria più singolare di quelle acque che stanno sopra de’ cieli è il non inquietarsi a simiglianza di quelle acque che scorrono sulla terra: così non lieve gloria fosse anche per quel monarca lo stare tanto superiore agli avvenimenti sinistri, che non se ne Turbasse, come fan le menti volgari. Eppure un tale avvenimento sinistro fu casuale. Or quale sarà dunque l’onor dovuto a quella mente divina, che mentre sugli occhi suoi tanti perversi di qualunque ora trascorrono i suoi divieti, ella li soffrirà senza alterare un punto la sua profonda tranquillità, per l’audacia da lor mostrata; e sappia accoppiare un odio sommo in proibire le malvagità dei ribaldi, e una somma placidità in tollerarle? Che dissi in tollerarle? dovevo dire anzi in vincerle fino a forza di cortesie: mentre egli a guisa del sole, in luogo di rimandar sulla terra tutti i vapori cambiati in fulmini, li rimanda cambiati in piogge, quale di refrigerio qual di ristoro: Liberalitatem iucundiorem debitor gratus, clariorem ingratus fact (Plin. In paneg.). Così ottien egli, che gli empi non di rado confusi a sì gran bontà tanto più poi si commuovano a farne stima. Che se pure ostinati al fine il costringono a rattenere la pioggia mandata indarno, e a scagliare i fulmini, vi par poca gloria del nostro Dio, che rimangano dal suo braccio atterrati questi giganti, che follemente credettero di poter dalla terra far guerra al cielo? Questi e mille altri splendori delle divine perfezioni, spettanti quali alla misericordia, quali alla giustizia, fa campeggiare Iddio nel fondo oscurissimo delle colpe ch’Egli permette, come rassettatore di esse, non come autore: Vitiorum nostrorum non auctor, sed ordinator(S. Augus. serra. 100. de divers.). E proporzionati sono altresì quei vantaggi che dalle colpe medesime a noi ministra, quasi insegnandoci a saper suggere il miele fin dall’assenzio.

VII. Dalle cadute impara l’uomo a non si fidare di se medesimo, a ricorrere con suppliche più ferventi per aiuto al Signore, a deprimersi, a dispregiarsi, a non insultare chi si scorge compagno nelle rovine, a stimar di vaneggio la forza di quel Dio, che gli dà di poter risorgere: in una parola, a vivere si guardingo per l’avvenire, che come non vi ha cavallo più veloce al corso, di quel che una volta restò morsicato dal lupo; così non vi sia talora chiponisi più velocemente all’acquisto della virtù che chi una volta fu raggirato dal vizio, e pur gli sfuggì per gran ventura dai denti già mezzo lacero (S. Aug. de Civ. Dei 1. 14. c. 13).

VIII. Né vale opporre, che il governo tra gli uomini tanto più si stima laudabile, quanto il governatore permette meno di licenza ai soggetti, e più li raffrena. Conciossiachè due notabili differenza, intervengono tra il reggimento degli uomini e quel di Dio. La prima è quell’istessa fin or notata, cioè, che Dio sa far di qualunque male una tal distillazione, che spremene un maggior bene: là dove gli uomini, perché non hanno tanta attività, né tant’arte, conviene che per reggere saviamente impediscano ad ogni lor potere quei mali, da cui la loro alchimia non sa estrarre alcun sublimato inutile dell’umana felicità. Che per ciò la podestà umana differisce ancora ne’ mezzi i quali ella adopera ad impedire le colpe. Per impedire a cagion d’esempio una rissa, comanda il principe, che i due rivali rimangano sequestrati nelle lor case. Laddove Iddio, per togliere l’omicidio, non toglie sempre la comodità di commetterlo attualmente, e sempre lascia la libertà di volerlo. Ma che? con gli avvisi della coscienza che tiene frattanto pronti e con gli aiuti della grazia, Egli stimola la medesima libertà a camminare per la via retta (sì però che ella cammini di suo buon grado), e procura di allettare a se la volontà nostra più dolcemente di quello che sappia l’ambra allettar la paglia, cioè a dire, non con aperta  forza, ma con segrete attrattive, sollecitandola ad uscire dal fango dove ella giace, ma non violentandola affinché n’esca.

IX. L’altra disparità tra il governo divino della provvidenza, e l’umano della politica, è, che il fine principale della politica è la felicità temporale della repubblica; laddove il fine principale della provvidenza è l’eterna, cioè la felicità riserbataci in paradiso. Pertanto fa bene la politica a trattenere i malvagi dalle empietà con mezzi ancora violenti, mentre tali mezzi son di necessità al conseguimento della pace pretesa da chi governa su questa terra: dove del continuo si scorge, che, come alle campagne più nuoce un eccessivo sereno, di quel che nuoce ogni turbine e ogni tempesta; così più nuoce al pubblico la soverchia condiscendenza dei comandanti, di quel che nuocegli il soverchio rigore. Ma Dio, che ha un fine senza paragone più eccelso nel governo degli uomini, deve lasciar loro la piena facoltà dell’arbitrio: non solamente perché avendola concessa loro una volta non è dovere che di poi la ritolga; ma molto più perché possano appigliarsi alla virtù di proprio talento, e così meritare per mezzo di atti liberi e laudevoli quella felicità sempiterna, che, come io dissi, egli non voleva dare in dono, ma dare in premio.

X. Pertanto questa medesima permissione di sì numerosi disordini nel mondo nostro morale, non è un cieco abbandonamento degli affari umani alla sorte, ma è un’arte di saper sopraffino, simile a quello di un esperto nocchiero, che sa navigare al porto fra venti ancora contrari, secondandoli sì, ma di tal maniera, che tuttavia gli servano al suo viaggio, con gloria tanto maggiore, che non verrebbegli dall’averli conformi.

XI. Finalmente, se Dio, come da principio notammo, ha sopra di ogni cosa da riguardare con la sua provvidenza generalissima alla perfezione del tutto, tanto più degna che la perfezion delle parti, che cercar più? Conviene dunque ch’Egli ammetta egualmente e giusti e peccatori sopra la terra, come vi ammette ragionevoli e bruti, spirituali e materiali, semplici e misti, sensitivi e insensati. Questa è la somma perfezione dell’ordine: Ad prudentem gubernatorern pertinet negligere aliquem defedimi bonitatis in parte, ut faciat augmentum bonitatis in toto(S. Th. contra gentes 1. 5. c. 70). Se non vi fosse la crudeltà de’ persecutori, non vi sarebbe la fortezza de’ martiri. – Se non vi fossero colpe, non vi sarebbe penitenza che le piangesse. Se non vi fossero colpevoli, non vi sarebbe giustizia che li punisse: e così discorrete di altre virtù segnalate, le quali, a guisa delle api, hanno per loro origine la putredine, e pure sono le artefici di un lavoro sì nobile, qual è il miele.

XII. Chi però non vede altresì la stolidità di quell’improvvido zelo, il quale amerebbe, che la pena rispondesse subito al delitto, conforme l’eco risponde subito al suono? E qual fretta v’è? Non sappiam noi quante volte padri cattivi abbiano dato al mondo figliuoli buoni, né solo buoni, ma ottimi, che poi recarono un incredibil profitto al genere umano? Tal figliuolo fu un Abramo, tale un Giobbe, tale un Giosia, tale un Ezechia, e tali più senza numero, dentro e fuori delle scritture divine. Qual meraviglia è pertanto, se in grazia loro Dio tollerasse per alcun tempo i lor padri, quantunque pessimi. Ciascuno loda quel prudente ortolano, che non vuol troncare le spine innanzi che ìndi sia spuntato lo sparago. E poi chi di noi non si troverebbe fallito già da gran tempo, se egli avesse dovuto pagar senza dilazione ciascun suo debito alla divina giustizia montata in ira? Appena vi sarebbe uomo vivo sopra la terra. Che se per la tolleranza a noi dimostrata ci teniam di ragion obbligati a Dio; perché vorremo fino accusarlo di ciò di cui lo dobbiam ringraziare ? Porse vorremmo, che fosse pietoso a noi, rigoroso ad altri? Tale appunto è la perversità de’ superbi: amare che la giustizia ponga tutte in conquasso le case altrui, e che alle loro neppur si accosti alla soglia.

XIII. E lasciamo l’impiego sì malamente usurpato di censori della divinità, e di censori che vogliono infino far da legislatori: censores divinitatts, dicentes: sic non debuit Deus, et sic magis debuit (Tertull. c. Marc. 1. 3. c. 2); e rimessi in senno, concludiamo piuttosto, che Dio con arte di provvidenza infinita tollera pazientemente finché gli piace, i rei costumi degli empi, prima per dare più di gloria al suo nome (qual eminente giocatore di scacchi, che si lascia avvedutamente prendere i pezzi, per vincere tuttavia con maggior confusion dell’avversario, mal intendente dell’arte), e poi per bene degli empi stessi, che brama cangiare in giusti tanto più splendidi sicché divenga prezioso cristallo, quel che era già vile ghiaccio. Senonchè, se tollera i tristi, li tollera per bene altresì de’ buoni, la cui virtù viene lavorata dall’aspro di quelle lime che lascia al mondo e viene illustrata al paragon di quell’ombre.

XIV. Frattanto, se Dio non castiga la malvagità di presente, non fa però, ch’ella mai vada impunita al suo tempo debito. Anzi di presente ancor la castiga senza eccezione, mentre non v’è peccatore che Egli non privi subito de’ beni interni, della sua grazia santificante, delle virtù infuse, de’ doni, e di quegli aiuti maggiori che avrebb’Egli concessi, se noi vedesse convertito in ribelle. È vero, che queste perdite, perché sono insensibili, poco cagliono agl’infelici avvezzi a non deplorare quelle rovine, che cadendo non fanno strepito. Ma oh quanto i miseri le deploreranno a suo tempo, se, abusando la divina longanimità, continueranno fino all’ultimo spirito ad irritarla! Quella piena che più lungamente fu rattenuta dall’inondare sulle loro indocili teste, sopravverrà tutta insieme con più furore.