SALMI BIBLICI: “BONITATEM FECISTI CUM SERVO TUO” (CXVIII – 4)

SALMO 118 (4) “Bonitatem fecisti cum servo tuo

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 118 (4)

TETH.

[65] Bonitatem fecisti cum servo tuo,

Domine, secundum verbum tuum.

[66] Bonitatem, et disciplinam, et scientiam doce me, quia mandatis tuis credidi.

[67] Priusquam humiliarer ego deliqui, propterea eloquium tuum custodivi.

[68] Bonus es tu, et in bonitate tua doce me justificationes tuas.

[69] Multiplicata est super me iniquitas superborum; ego autem in toto corde meo scrutabor mandata tua.

[70] Coagulatum est sicut lac cor eorum; ego vero legem tuam meditatus sum.

[71] Bonum mihi quia humiliasti me: ut discam justificationes tuas.

[72] Bonum mihi lex oris tui, super millia auri et argenti.

JOD.

[73] Manus tuae fecerunt me, et plasmaverunt me; da mihi intellectum, et discam mandata tua.

[74] Qui timent te videbunt me, et lætabuntur, quia in verba tua supersperavi.

[75] Cognovi, Domine, quia æquitas judicia tua, et in veritate tua humiliasti me.

[76] Fiat misericordia tua ut consoletur me, secundum eloquium tuum servo tuo.

[77] Veniant mihi miserationes tuæ, et vivam, quia lex tua meditatio mea est.

[78] Confundantur superbi, quia injuste iniquitatem fecerunt in me; ego autem exercebor in mandatis tuis.

[79] Convertantur mihi timentes te, et qui noverunt testimonia tua.

[80] Fiat cor meum immaculatum in justificationibus tuis, ut non confundar.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXVIII (4).

TETH.

65. Tu con bontà, o Signore, hai trattato il tuo servo: secondo la tua parola

66. Insegnami la bontà e la disciplina e la scienza, perché io ne’ comandamenti tuoi ebbi fede.

67. Prima ch’io fossi umiliato, io peccai; per questo ho custodita la tua parola.

68. Buono se’ tu, e secondo la tua bontà insegnami tu le tue giustificazioni.

69. È cresciuta l’iniquità de’ superbi contro di me; ma io con tutto il cuor mio studierò i tuoi precetti.

70. Il loro cuore come latte acquagliato; ma io meditai la tua legge.

71. Buona cosa per me l’avermi tu umiliato affinché io impari le tue giustificazioni.

72. Buona cosa per me la legge della tua bocca, più che l’oro e l’argento a migliai.

IOD

73. Le tue mani mi fecero e mi formarono; dammi intelletto, e imparerò i tuoi comandamenti.

74. Mi vedranno color che ti temono, e avranno allegrezza; perch’io nelle tue parole sperai grandemente.

75. Ho conosciuto, o Signore, che i giudizi tuoi sono equità, e che secondo la tua verità tu mi hai umiliato.

76. Venga la misericordia tua a consolarmi, secondo la parola data da te al tuo servo.

77. Vengano a me le tue misericordie, ed io avrò vita; perocché mia meditazione ell’è la tua legge.

78. Sieno confusi i superbi, perché ingiustamente hanno macchinato cose inique contro di me; ma io mi eserciterò ne’ tuoi comandamenti.

79. Si rivolgano a me quei che ti temono e quei che intendono i tuoi insegnamenti.

80. Sia immacolato nelle tue giustificazioni il cuor mio, affinché io non resti confuso.

Sommario analitico

IV SEZIONE

 65-80.

Davide domanda qui a Dio ciò che è necessario a sostegno della vita spirituale del viaggiatore: la bontà, la disciplina, la scienza, la fede.

I. – La bontà e la dolcezza verso il prossimo, la disciplina esatta e vigilante per combattere in se stesso e fuori da se stesso e che potrebbe portarlo al peccato, la scienza per ben comprendere la Legge di Dio ed i suoi misteri, tre doni che una fede ferma gli otterrà e di cui egli indica la necessità, dichiarando:

1° che per esserne stato privato, ha peccato ed è stato umiliato (67);

2° che grazie alla bontà tutta particolare di Dio, che ha voluto insegnargli Egli stesso, ha ottenuto questa scienza dei suoi ordini divini (68);

3° che con l’aiuto di questa disciplina vigilante, egli non ha ceduto agli sforzi dei superbi ed all’esempio degli uomini carnali, il cui cuore si è indurito e non può comprendere le verità più chiare; che egli ha cercato, nello studio e nella meditazione della legge di Dio, la forza di resistere agli insulti dei primi ed all’ignoranza grossolana degli altri (69, 70);

4° che ha riconosciuto l’utilità dell’umiliazione onde apprendere gli ordini pieni di giustizia del Signore, per lui preferibili a tutte le ricchezze della terra (71, 72).

II. – La fede che gli fa credere alla potenza benefica di Dio, che fortifica l’anima affaticata:

1° Nella prosperità, essa fa considerare:

a)La potenza del Creatore alla quale egli deve tutto il suo essere, il suo corpo, la sua anima, e questa intelligenza che gli fa comprendere le cose che tutte le viste umane non possono raggiungere (73);

b) La giustizia provvidenziale del legislatore negli effetti salutari che seguono il compimento o l’inosservanza della sua legge (74, 75);

c) la misericordia del Salvatore che gli dà la consolazione di cui ha bisogno (76), e la vita della grazia, frutto della meditazione della legge di Dio (77);

2° Nell’avversità:

a) egli prevede e desidera la confusione dei superbi che lo hanno perseguitato ingiustamente (78);

b) vede i giusti rivolgersi a lui ed unirsi a lui (79);

c) domanda che il suo cuore diventi più puro in mezzo alle sue prove (80).

Spiegazioni e Considerazioni

IV SEZIONE — 65-80.

I. – 65-72.

ff. 65-68. – La bontà di cui qui parla il Profeta sarebbe meglio tradotta dal greco e dall’ebraico con la parola “soavità”. Ma come ci può essere soavità nel male, quando gioie illeciti ed immorali ci dilettano; come può essercene nei piaceri della carne, anche quando sono legittimi; noi riteniamo di comprendere il termine di soavità secondo il senso di “crestoteta” che i greci non applicano se non ai beni dello spirito. « Voi avete dunque fatto “soavità” al vostro servo, » cioè Voi avete fatto che il bene fosse la mia delizia. In effetti, che il bene faccia le delizie di un uomo è una grande grazia di Dio (S. Agost.). – Ci sono tane cose di questo mondo che sembrano avere una certa soavità ma sono piene di amarezze. La voluttà sembra dolce, ma come diventa amara quando ha dissipato tutto un ricco patrimonio; la passione ci sembra dolce quando ci infiamma, ma diviene orribile ed abominevole quando viene disvelata; i cibi squisiti sembrano deliziosi quando si assaggiano, ed ispirano il disgusto quando sono digeriti. Quanti beni sembrano preziosi ai nostri occhi in questa vita, e che non ci servono più a niente al momento della morte, in cui bisogna abbandonarli. Non c’è dunque vera soavità se non quella che Dio ci fa gustare secondo la verità della sua parola (S. Ambr.). – Tutto ciò che Dio ha fatto nei riguardi del suo servo, è buono, perché lo fa secondo la sua parola. Ora, niente di ciò che è fatto secondo la sua parola può essere reputato cattivo, perché la volontà di Colui che solo è buono, è piena di bontà (S. Ilar.). – « Insegnatemi la bontà o la soavità, la disciplina e la scienza. » Tre doni necessari per ben osservare i comandamenti di Dio e restare fermo nella virtù: 1° La bontà e la dolcezza verso il prossimo; – 2° la disciplina esatta e vigilante per combattere in se stesso e fuor da se stesso tutto ciò che potrebbe portare al peccato; – 3° la scienza per ben comprendere la legge di Dio, per poterla ben osservare; ed i misteri della Religione, per poterli credere con fede chiara. – Il Profeta non domanda a Dio la scienza se non dopo aver chiesto la bontà e la disciplina. Io non dico che bisogni disprezzare la scienza che è un ornamento dell’anima, che la istruisce e la rende capace di istruire gli altri. Ma bisogna che sia preceduta nell’anima dalla bontà e dalla disciplina, che soprattutto sono necessarie alla salvezza. E vedete se il Profeta non avesse questo ordine in vista, e non ci insegnasse ad osservarla, quando diceva: « Seminate nella giustizia, e mietete nella misericordia e accendete dopo per voi la luce della scienza. » (Osea, X, 12). Egli pone la scienza all’ultimo posto come un dipinto che non può poggiare sul vuoto, e stabilisce innanzitutto la bontà e la disciplina come una base solida per ricevere questo dipinto.  (S. Bern. Serm. XXXVIII). –  La scienza è nominata in terzo luogo; perché se la scienza ha il sopravvento sulla carità, non edifica, ma gonfia; (I Cor. VIII, 1); ma quando la carità, unita alla dolcezza e alla bontà, avrà acquisito tanta forza perché le tribolazioni che impone la disciplina non possono spegnerla, allora la scienza sarà utile all’uomo per fargli conoscere ciò che ha meritato per se stesso ed i doni che Dio gli ha fatto (S. Agost.). – Una fede ferma ed un’umile fiducia ottengono da Dio questi tre doni. – « Prima di essere umiliato, io ho peccato. » La causa principale delle nostre umiliazioni, è il peccato. È perché il peccato ha preceduto che il Profeta dichiara che è stato umiliato, cioè distrutto dalle tentazioni e le afflizioni, ed esposto a tutte le angosce. .. Tuttavia benché queste umiliazioni siano spesso una punizione, pur cessano di essere un castigo del peccato per divenirne il rimedio ed un principio di virtù. Così voi attribuite ai vostri peccati le vostre umiliazioni, riconoscete che siete la causa di tutto ciò che vi accade di così sconveniente, e non appena giudicato colpevole, diventate giusto, per il solo fatto di condannarvi, « perché il giusto è il primo accusatore di se stesso. » (Prov. XVIII, 7), (S. Ambr.). – « Ecco perché ho conservato fedelmente la vostra parola ». Il Profeta ha trovato il vero ordine nel correggersi cominciando da ciò che era stato l’inizio della sua colpa. Egli si sottomette alla parola di Dio e cessa di peccare. (Idem). – Voi siete buono … diciamo talvolta ad un uomo, nel desiderio di conciliare le sue buone grazie: voi siete buono, per avvertirlo di essere ciò che non può essere, e questo richiamo indiretto alla bontà lo addolcisce, e gli fa deporre una durezza molto grande; quanto più noi dunque dobbiamo proclamare che Dio è buono, Egli al quale la sola bontà devono la conservazione della loro esistenza sulla terra. È proprio della natura di Dio l’essere buono … Ma benché Dio sia buono, il Profeta lo prega tuttavia di insegnargli, nella sua bontà, i suoi precetti pieni di giustizia, come noi preghiamo un medico che, perché buono non cerca che il maggior bene del malato, e trattarlo tuttavia con una certa dolcezza, per non impiegare dei rimedi troppo violenti, di non applicare il ferro sulla piaga, o almeno di farlo con moderazione ed addolcire con i suoi artifizi la vivacità del dolore. Così la dolcezza del Vangelo ci insegna molto meglio le giustificazioni di Dio, piuttosto che la sua Legge.    

ff. 69-72. – « L’iniquità dei superbi si è moltiplicata contro di me. » Più un Cristiano desidera servire Dio, più si eccita contro di lui l’animosità dei suoi nemici, e per questo, come un atleta coraggioso, egli desidera riportare la corona di giustizia, ed irrita il gran numero di coloro che sono invidiosi dei suoi progressi … È così che si moltiplicano i nostri nemici visibili ed invisibili. Ecco, per esempio, un uomo giusto che perde suo figlio, cosa che accade frequentemente, o è spogliato del suo patrimonio, o vede piombare su di lui ogni sorta di avversità: gli orgogliosi gli dicono allora: Dov’è la giustizia di Dio, dov’è la sua misericordia? Qual profitto ne viene dunque a quest’uomo così castigato nella sua virtù, nella sua innocenza? – « Il loro cuore si è indurito come il latte. » Il cuore dei santi è tenero, delicato; il cuore dei superbi è duro ed ispessito. Così come il latte è, per sua natura, di un biancore splendente e di una purezza senza mistura, ma si inacidisce facilmente per la dissoluzione delle sue parti, così lo spirito ed il cuore dell’uomo sono per loro natura puri e brillanti, ma si alterano facilmente con la mistura corruttrice dei vizi. Quando il latte si rapprende ed indurisce, forma una massa che gli fa perdere il gusto ed il sapore naturale. Ecco gli uomini in cui la grazia, la soavità delle loro parola, e pure con la dolcezza dell’amicizia, lasciano il posto all’amarezza della cattiveria ed al gusto sgradevole dell’invidia. Il cuore indurisce dunque per l’orgoglio, l’invidia, che alterano e corrompono la dolcezza della natura e la benevolenza, e sono fonte della mistura corruttrice della malvagità e della malizia. Mentre il cuore dei superbi, la cui iniquità si era moltiplicata su di lui, si indurisce, cosa fa il giusto? Egli si umilia meditando i precetti della legge, che è scuola di umiltà (S. Ambr.). –  Vedete poi ciò che aggiunge: « è bene che mi abbiate umiliato, affinché possa apprendere i vostri giusti precetti. » È ciò che dice l’Apostolo, sull’esempio del Profeta; « io mi sono compiaciuto nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle necessità, nelle angosce per Gesù-Cristo. » (II Cor. XII, 10). Per questo egli pure si compiace nelle sue debolezze, non si lascia abbattere dalle prove e dalle umiliazioni, e non si scoraggia davanti agli oltraggi: egli ha meritato di conoscere e compiere i comandamenti di Dio. (S. Ambr.) – Ogni sofferenza è buona, tutte le tribolazioni sono buone, poiché alla loro scuola apprendiamo a conoscere i giusti precetti di Dio, poiché esse correggono i peccatori con l’umiliazione, reprimono i prevaricatori con la severità ed insegnano la dottrina agli ignoranti. (S. Ilar.). – Il Re-Profeta fa chiaramente intendere che in questa circostanza, conoscere è praticare, praticare è conoscere … Ci sono molti che imparano le leggi giuste del Signore e che tuttavia non riescono ad apprenderle. Essi le conoscono in una certa maniera, e le ignorano dall’altre; perché non le praticano, non le conoscono (S. Agost.). – « La legge della vostra bocca è per me un bene più prezioso di milioni di pezzi d’oro e d’argento (S. Agost.). – Ma quanto sono rari coloro che possono esprimersi in tal modo, quanto cioè sono rari coloro che preferiscono la legge di Dio all’oro ed all’argento, e che sono pronti a lasciare tutto per compiere questa divina legge. Gesù-Cristo stesso non ha trovato questo distacco se non in coloro che aveva istruito. Così, Pietro ha fatto professione di questo distacco, egli che aveva lasciato tutto per Gesù-Cristo e che ha potuto dire: « Io non ho né oro, né argento » (Act. III, 6). Ma non è certo l’avaro che possa esprimersi così, egli che cova incessantemente con gli occhi l’oro che ha ammassato; non è l’uomo avido di ricchezze che considera ogni giorno con un ardore inquieto i guadagni che può realizzare, che ogni giorno incassa tesori su tesori, che tende le sue reti per farvi cadere le eredità che concupisce, e veglia incessantemente presso il letto dei malati per spiarne il loro ultimo sospiro. (S. Ambr.).

II. — 73-80.

ff. 73-76. – « Le vostre mani mi hanno fatto e mi hanno formato. » Il Profeta sembra dire a Dio: io sono l’opera vostra, non mi abbandonate. È a Voi, Autore dell’essere mio, che mi rivolgo, e a Voi, mio Creatore, che mi lego, non voglio cercare altri soccorsi. Preparatevi a venire in mio soccorso, Voi che siete preparato già prima di crearmi. Spiegatemi voi stesso, Davide, perché dite a Dio: « Le vostre mani mi hanno fatto ». Voi dite in un altro salmo: « Il Signore soddisferà per me, Signore, la vostra misericordia è eterna, non disprezzate l’opera delle vostre mani. » (Ps. CXXVII, 5).  Come se diceste: « Le vostre mani non hanno formato gli altri animali, ma Voi avete semplicemente detto: che le acque, che la terra producono gli animali, viventi ciascuno secondo la propria specie, e le acque e la terra producono i pesci, gli uccelli, gli animali domestici, i rettili e tutte le bestie secondo le loro differenti specie. » (Gen. I, 20, 24). Ma quanto a me, vi siete degnato di farmi con le vostre mani, formarmi a vostra immagine e somiglianza; « Datemi dunque l’intelligenza, affinché impari i vostri comandamenti. » (S. Ambr.). – Il Profeta che dice a Dio: « Datemi intelligenza, » non ne è affatto sprovvisto come gli animali, e non deve, come uomo essere contato … « tra coloro che camminano nella vanità del loro spirito, che hanno l’intelligenza offuscata e sono estranei alla voce di Dio, » (Ephes. IV, 17); perché se somigliasse loro, non parlerebbe come egli fa. Ora, non è far prova di poca intelligenza sapere a chi chiedere l’intelligenza. Ma pensiamo quale profondità di intelligenza sia necessaria per comprendere i comandamenti di Dio, vedendo che colui che li comprende già così bene, e che ha dichiarato di averli osservati, chiede ancora l’intelligenza per conoscerli (S. Agost.). – « Coloro che vi temono mi vedranno e saranno nella gioia. » Coloro che temono Dio provano una gioi vera nella conoscenza che hanno dei santi, perché colui che gioisce alla vista di un giusto, vuole egli stesso essere giusto. È conveniente che gioisca nel vedere negli altri ciò che vuole conservare in se stesso. È questa in effetti, una prerogativa dei buoni, che l’uomo saggio ama con santa affezione colui che è casto, riservato e prudente; e il misericordioso ama colui che è generoso; in una parola, noi amiamo negli altri le virtù che sono in noi … Ma al contrario, la vista del giusto che fa gioire il cuore degli innocenti, è un vero supplizio per i malvagi, perché la condotta dei santi è una condanna per la loro vita colpevole. La castità tormenta l’incontinenza, la liberalità è un tormento per l’avarizia, così come la fede per l’empietà; la presenza di un santo è come un peso insopportabile per la loro coscienza. Al contrario, la vista di un uomo fedele a Dio ha il privilegio di far gioire tutti coloro che temono Dio … La presenza stessa dei Santi è utile a coloro che temono Dio, perché porta con essa una grazia tutta particolare a coloro che considerano e studiano la condotta dei Santi (S. Ilar.). – Ora, colui che vede un giusto, deve sapere cosa vede: non è né il suo corpo, né il suo vestito, né il suo patrimonio, né il suo viso, ma il suo interno. No, egli non lo vede veramente che a condizione di veder la sua anima, di intendere i suoi discorsi, di comprenderne il senso e tirarne una lezione di saggezza … « Perché io ho messo tutta la mia speranza nelle vostre parole. » Ecco il vero motivo della loro gioia. Essi mi hanno visto interiormente, essi mi hanno toccato, mi hanno considerato nell’interno della mia anima, laddove io ho messo la mia speranza nelle vostre parole, ove le ho ricevute e comprese. Il contrario è per coloro che odiano i giusti, la cui occupazione è approfondire le parole di Dio; e quanti empi che quando sentono i Cristiani sapienti e dotti nella legge di Dio, li evitano a causa del loro stesso sapere e della loro dottrina. (S. Ambr.). « Io ho riconosciuto, Signore, che i vostri giudizi sono giusti. » Colui che può comprendere la condotta della divina Provvidenza adopera lo stesso linguaggio del santo re Davide, perché nulla si fa se non per giusto giudizio di Dio, sia che siate malato o in buona salute, ricco o povero, che moriate giovane o vecchio. Per poco che ci si sia applicato allo studio delle divine Scritture, si comprende che tutto si fa per la sovrana volontà di Dio, e che niente sfugga alla sua scienza infinita … Il Re-Profeta ha dunque ricevuto la grazia dell’intelligenza e della conoscenza, ha riconosciuto che i giudizi di Dio sono giusti, cosa che è propria di un’anima perfetta. C’è una gran differenza tra credere e comprendere. La fede è la parte di colui che teme, la conoscenza è riservata al saggio. Colui che teme, non cerca la ragione; il saggio cerca di avere la conoscenza di tutto ciò che desidera comprendere (S. Ambr.). – La conoscenza va più lontana dalla fede: la fede ha il merito dell’obbedienza, ma non ha la sicurezza della verità conosciuta. Così l’Apostolo mette una gran differenza tra la conoscenza e la fede. Egli pone al primo rango la saggezza, al secondo la conoscenza, al terzo la fede. In effetti, colui che ha fede, può non conoscere ciò che crede; ma colui che ha la conoscenza non può non credere a ciò che conosce… il Profeta vuol parlare qui non dei giudizi eterni, ma di quelli che si esercitano nella vita presente. (S. Ilar.). – E in cosa i giudizi di Dio sono giusti? In ciò che è per il lavoro, le tribolazioni e le afflizioni, che giungono alla eterne ricompense. Come con la corona vengono premiati con un giusto giudizio degli uomini, gli atleti che combattono e riportano la vittoria, così la palma del vincitore premia i Cristiani vincitori con un giusto giudizio di Dio. « A colui che sarà vincitore, darò di sedersi sul mio trono. » (Apoc. III, 21) – (S. Ambr.). – Non è dunque senza ragione se il profeta è stato sottomesso alla tribolazione, dato in mano alle persecuzioni e agli oltraggi, questo per un giusto e vero giudizio di Dio, è perché vuole per lui fare in modo da fargli espiare i suoi peccati, purificandolo come l’oro nella fornace (S. Ilar.). – « Consolatemi con il ritorno della vostra misericordia. Quanto grande è la misericordia di Dio. Perché non solo ci accorda la remissione dei peccati, ma ci prodiga ancora la consolazione durante il combattimento, per timore che lo spavento dei pericoli della lotta non ci faccia abbandonare il campo di battaglia. Egli implora dunque la misericordia, non come il vincitore che cede terreno, né come il peccatore che implora il suo perdono, ma affinché, rivestito dalla misericordia di Dio come arma invincibile, egli possa, con un sì potente soccorso, affrontare i più grandi pericoli. Considerate la virtù ammirabile e singolare del Profeta. Un altro, soccombendo sotto il peso dei suoi dolori, avrebbe domandato che Dio li faccia cessare e lenirne la violenza e la tempesta; Davide, come un atleta coraggioso e paziente che sa che le tribolazioni esercitano la sua anima e la formano alla perfezione, non domanda a Dio di allontanare da lui le afflizioni, gli attacchi, i lavori, le fatiche, ma di accordargli in mezzo alle sue prove una parola di consolazione, perché il suo coraggio non venga a mancare … ed aggiunge con ragione: « Secondo la vostra parola, » perché il Signore stesso ha promesso il suo soccorso a coloro che combattono per il suo Nome. « Quando vi faranno comparire, non vi inquietate per come parlate, né di ciò che direte; ciò che dovete dire vi sarà dato in quell’ora stessa; perché non sarete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. » (Matth. X, 19, 20), (S. Ambr.).   

ff. 77-80. – Ma questi doni della divina misericordia non sono ancora, in questa vita di miserie e di tempeste, che una consolazione e non le gioie della beatitudine; queste gioie della beatitudine non verranno se non dopo le miserie della vita, ed anche in mezzo a queste miserie; così il Profeta aggiunge: « Che le vostre misericordie si effondano su di me ed io vivrò. » In effetti io non vivrò realmente se non quando non potrò più ridurre a niente la morte. È di questa vita che si tratta quando la Scrittura nomina puramente e semplicemente la vita, e questa vita non può concepirsi eterna e felice, come se essa meritasse solo di essere chiamata vita in confronto alla vita presente, che bisogna piuttosto chiamare una morte … ma come meriterà questa vita? « Perché la vostra legge è l’oggetto della mia meditazione. » Se questa meditazione non fosse accompagnata dalla fede che agisce per l’amore (Galat. V, 6), mai essa avrebbe il potere di far giungere alcuno a questa vita. Nessuno dunque, per aver appreso a memoria tutta la legge ed averla spesso cantata richiamandola a suo ricordo, non tacendo ciò che essa prescrive, ma non vivendo come prescrive, s’immagini di aver praticato ciò che qui dice: « Perché la vostra legge è la mia meditazione, » ed aver meritato ciò che il Profeta domandava come ricompensa per una meditazione simile. Questa meditazione è la riflessione di colui che ama ed ama talmente che l’amore di questa meditazione non si raffredda mai in lui, benché possa essere oppresso dall’iniquità altrui (S. Agost.). – Apprendiamo dunque noi stessi a meditare la legge di Dio, non lasciamoci distogliere da questa meditazione dalla seduzione e dalle preoccupazioni del mondo, ma restiamo incessantemente applicati allo studio di questa legge divina. Ma è soprattutto ai preti che questa meditazione è necessaria, come scrive San Paolo a Tito, suo discepolo:  « Il Vescovo, egli dice, deve essere legato alle verità della fede così come gli sono state insegnate, affinché sia capace di esortare secondo la sana dottrina, e convincere coloro che la combattono, » (Tito, I, 9); ciò non può essere che il frutto di una meditazione attenta e non di una lettura superficiale. Scrivendo a Timoteo, egli dice egualmente: « Applicatevi alla lettura, all’esortazione, all’istruzione … meditate queste verità, siatene sempre occupato, perché tutti vedano il vostro progresso (I Tim. IV, 13-14). È con questa lettura frequente e con questa meditazione continua che si acquisisce il dono prezioso della dottrina e della scienza (S. Ambr.). – Le persecuzioni ingiuste sono le più difficili da soffrire rispetto alle altre; sono quelle di cui ci si lamenta maggiormente, e quelle che bisogna amare di più e di cui rallegrarsi, secondo la dottrina dell’Apostolo S, Pietro (I Piet. IV, 14-16). La confusione che il Profeta augura qui ai suoi ingiusti persecutori, è il maggior bene che possa giungerne loro: questa onta salutare può divenire per essi un principio, un inizio di penitenza e di conversione. È un indizio che essi comincino a riconoscere le loro colpe e siano disposti a rinunciarvi, quando sono già capaci di arrossirne. (S. Ambr. e S. Ilar.). – « Tutti coloro che vi temono e conoscono le vostre testimonianze, si volgono verso di me. » Noi possiamo desiderare come il Profeta che coloro che temono Dio abbiano affezione per noi, ma non è il nostro vantaggio personale che bisogna cercare, ma quello di Dio. Se desideriamo che ci si ami, è affinché si passi fino a Dio e che ci si rivolga versi di Lui con un amore più grande. Ci sono persone che temono Dio, ma che non hanno alcune scienza, e non si applicano alla lettura delle Scritture, perché non le comprendono; ce ne sono altre che conoscono Dio e che forse hanno una qualche intelligenza della Scrittura, ma non temono Dio e provano con la propria vita che essi ignorano completamente ciò che sembrano avere appreso nei libri: due stati ugualmente pericolosi che si possono evitare con l’unione del timore e della scienza di Dio. « Che il mio cuore si conservi nella pratica dei vostri precetti. » Più il Re-Profeta è elevato, sia con il dono di profezia, sia dalla dignità reale, più si applica a praticare l’umiltà, insegnandoci in ciò che dobbiamo imitarlo. Egli prega Dio di rendere il suo cuore senza macchia nella pratica dei suoi comandamenti, perché in effetti, benché il suo cuore sia puro, è facilmente macchiato dal flusso immondo dei pensieri impuri. Ora, se un solo pensiero impuro può sporcare un cuore, quanto più gli atti che seguono. Guardatevi dal profanare dunque con nessun pensiero colpevole l’interno della vostra anima, per non sporcare ciò che credete avere di puro in voi. Voi lavate le vostre mani come se poteste cancellare i vostri crimini, ma non potete così facilmente lavare la vostra anima disonorata da pensieri immondi. È il cuore per primo ad essere insudiciato dal peccato, è il cuore che innanzitutto bisogna purificare. Se esso è puro, tutto il resto è puro. Ecco un’acqua torbida nel suo corso: inutilmente la pulirete dove essa ristagna, se la sorgente continua ad essere torbida. Siete dunque voi che dovete innanzitutto purificare perché tutto ciò che esce da voi, sia puro.  Il vostro cuore è la sorgente dei vostri pensieri: da questa sorgente cola l’acqua torbida dell’impurità, o l’onda chiara e limpida della castità e della pietà (S. Ambr.). – Ora, questa purezza di cuore, il Profeta sa che la troverà nell’osservanza costante dei giusti comandamenti di Dio, ed il frutto di questa fedeltà sarà il non restare confuso. In effetti, la confusione viene da una coscienza colpevole, e dall’obbrobrio che segue il peccato. Là dove non c’è confusione, non c’è peccato; e là dove non c’è peccato, l’anima resta fedele alla pratica dei comandamenti, che ha come frutto la purezza del cuore (S. Ilar.). 

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/03/salmi-biblici-defecit-in-salutare-tuo-anima-mea-cxviii-5/

SALMI BIBLICI: “MEMOR ESTO VERBI TUI” (CXVIII – 3)

SALMO 118 (3): MEMOR ESTO VERBI TUI servo tuo

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 118 (3)

ZAIN.

[49] Memor esto verbi tui servo tuo,

in quo mihi spem dedisti.

[50] Haec me consolata est in humilitate mea, quia eloquium tuum vivificavit me.

[51] Superbi inique agebant usquequaque, a lege autem tua non declinavi.

[52] Memor fui judiciorum tuorum a sæculo, Domine, et consolatus sum.

[53] Defectio tenuit me, pro peccatoribus derelinquentibus legem tuam.

[54] Cantabiles mihi erant justificationes tuæ in loco peregrinationis meæ.

[55] Memor fui nocte nominis tui, Domine, et custodivi legem tuam.

[56] Hæc facta est mihi, quia justificationes tuas exquisivi.

HETH.

[57] Portio mea, Domine, dixi, custodire legem tuam.

[58] Deprecatus sum faciem tuam in toto corde meo; miserere mei secundum eloquium tuum.

[59] Cogitavi vias meas, et converti pedes meos in testimonia tua.

[60] Paratus sum, et non sum turbatus, ut custodiam mandata tua.

[61] Funes peccatorum circumplexi sunt me, et legem tuam non sum oblitus.

[62] Media nocte surgebam, ad confitendum tibi super judicia justificationis tuae.

[63] Particeps ego sum omnium timentium te, et custodientium mandata tua.

[64] Misericordia tua, Domine, plena est terra; justificationes tuas doce me.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXVIII (3).

ZAIN

49. Ricordati di tua parola in favor del tuo servo, nella quale mi desti speranza .

50. Questo nella mia umiliazione fu il mio conforto, che la tua parola mi diede vita.

51. I superbi agivano sempre iniquamente; ma io non ho declinato dalla tua legge.

52. Mi ricordai de’ giudizi tuoi, o Signore, che son eterni; e fui consolato.

53. Mancommi il cuore per cagione de’ peccatori, che abbandonano la tua legge.

54. Miei cantici erano le tue giusti Reazioni nel luogo del mio pellegrinaggio.

55. Del nome tuo mi ricordai nella notte, o Signore, e osservai la tua legge.

56. Questo avvenne a me, perché cercai ansiosamente tue giustificazioni.

HETH.

57. Signore, porzione mia: io ho detto di osservar la tua legge.

58. Ho domandato con tutto il cuor mio il tuo favore; abbi pietà di me secondo la tua parola.

59. Ho disaminati i miei andamenti, e ho indiritti i miei passi a seconda de’tuoi comandamenti.

60. Preparato son io (e nulla mi tratterà) ad osservare i tuoi comandamenti.

61. Mi cinsero d’ogni parte i lacci de’ peccatori, ed io non mi scordai della tua legge.

62. Di mezza notte mi alzava a lodarti per ragione de’ giudizi di tua giustizio.

63. Io ho società con tutti quei che ti temono e osservano i tuoi comandamenti.

64. Di tua misericordia, o Signore, è piena la terra; insegnami tu le tue giustificazioni.

Sommario analitico

III SEZIONE — 49-64.

Davide chiede a Dio, perché lo accompagni e lo consoli in mezzo alle difficoltà della strada, la speranza e la carità:

I. La speranza che:

1° Interiormente consola e riempie di gioia colui che si umilia:

a) secondo la promessa divina (49),

b) secondo l’efficacia della parola divina (50)

2° Esteriormente lo difende dalle ingiustizie dei superbi, che sono sovente una grande tentazione per i giusti, e gli danno la forza di non allontanarsi dalla legge, e di non perdere in un solo momento il frutto di una lunga pazienza (51):

a) Con il ricordo dei giudizi che Dio ha esercitato dall’inizio del mondo, e le consolazioni che questo ricordo effonde nell’anima dei giusti;

b) Con uno zelo ed un dolore che vanno fino allo scoramento alla vista non del male che fanno i malvagi, ma del male che si fanno essi stessi abbandonando la legge di Dio (53);

c) Con il canto, il ricordo perpetuo, l’osservanza e lo studio approfondito dei comandamenti di Dio in questa terra di esilio (54-56).

II. – La carità che:

I° l’unisce interamente a Dio con la ferma risoluzione di prendere Dio come sua parte e di osservare la sua legge (57), risoluzione che è accompagnata:

a) dalla richiesta di assistenza divina che implora con tutto il suo cuore (58);

b) dalla riflessione seria sulle sue vie, e della riforma della sua vita (59);

c) dalla disposizione presente e ferma in cui si trova, di essere fedele alla legge di Dio senza turbarsi, qualunque cosa accada (60);

2° egli brucia tutti i legami del peccato con il ricordo della legge di Dio, che oppone ai discorsi ed agli esempi dei peccatori (61):

a) con il manifestare le lodi di Dio, fin nella notte, per espiare con le sue sante preghiere i crimini che vi si commettono (62);

b) con l’entrare in società stretta con coloro che temono Dio, con questa unione di carità che ci fa entrare nella partecipazione di tutte le buone opere dei giusti e dei santi (63);

c) e celebrare la misericordia di Dio che riempie tutta la terra (64).

Spiegazioni e Considerazioni

   III SEZIONE — 49-64.

I. — 49-56.

ff. 49, 50. – Davide era spesso favorito da comunicazioni celesti, nelle quali Dio gli elargiva la ricompensa della sua fede e dei suoi meriti. Sembra dunque dire a Dio, come più tardi l’Apostolo San Paolo: « Ho sostenuto il buon combattimento, ho completato la corsa, aspetto la corona di giustizia che mi è riservata. » (II Tim. IV, 7). Non è questa una speranza presuntuosa e temeraria, ma una testimonianza di fede, con la quale confessa che il vero Dio non può ingannare. Sul suo esempio Davide dice a Dio: io chiedo il compimento della domanda che Voi avete fatto al vostro servo. La mia speranza non può essere accusata di presunzione, poiché Voi ne siete l’Autore. Io sono servo, attendo dal mio padrone il nutrimento; io sono soldato, ed ho il diritto di esigere la mia paga dal mio generale; io sono stato chiamato, io chiedo a Colui che mi ha chiamato ciò che mi ha promesso (S. Ambr.). – Lungi da noi il pensiero che Dio possa mai dimenticare le sue promesse: il Profeta che ha creduto alle sue promesse, che è pieno di desideri dei beni celesti, che non ha che disprezzo per le cose della terra, e mette tutta la sua speranza nei beni eterni, prega Dio non di ricordarsi della sua promessa, ma di renderla degna perché questa promessa possa compiersi in lui (S. Ilar.). – « Questa speranza mi ha consolato nel mio abbassamento, nella mia umiliazione. » Noi siamo dunque consolati dalla speranza che non confonde nei giorni della nostra umiliazione, cioè nei tempi della tentazione e della tribolazione. – Per questa umiliazione, bisogna intendere non soltanto l’umiltà dell’uomo che confessa i suoi peccati, e non attribuirsi la qualità del giusto, ma l’abbassamento nel quale cade sotto i colpi di qualche tribolazione o di qualche rovescio, castigo del suo orgoglio o testimonianza ed esercizio per la sua pazienza. (S. Agost.). – Questa parola ci consola nella nostra umiliazione, quando siamo oggetto di disprezzo, di insulti, di ingiurie, di oltraggi degli uomini, che ci ricordano allora che la vita presente è una battaglia, e che le tentazioni o le prove sono la legge del paese in cui abitiamo. (S. Ilar.). – In mezzo a queste umiliazioni, noi siamo vivificati dalla parola di Dio. È là in effetti che si trova la sostanza vivificante della nostra anima, che la nutre e la dirige. Nessun altro principio di vita c’è per l’anima ragionevole, che la parola di Dio … Applichiamoci dunque a fare di questa parola divina, ad esclusione di ogni altra cosa, come una pia collezione che noi depositeremo nella nostra anima per essere il principio direttivo dei nostri pensieri, delle nostre sollecitudini, delle nostre risoluzioni e di tutte le nostre azioni. (S. Ambr.). – Colui che poggia la sua vita nella parola di Dio non è scosso dalla vanagloria che avolge i superbi. Egli sa che la sua indigenza è mille volte più ricca di tutte le loro ricchezze. Egli sa che i suoi digiuni sono saziati da una benedizione celeste ed evangelica; egli sa che la sua umiltà riceverà come ricompensa un onore, una gloria incomparabile. Aggiunge anche: « I superbi non cessano di agire con ingiustizia, ma io non sono allontanato dalla vostra legge. » (S. Ilar.).  

f. 51, 52. – A questo orgoglio incessante dei nemici di Dio, il Re-Profeta oppone questo sovrano rimedio: « io non mi sono allontanato dalla vostra legge. » – Con quali mezzi si è mantenuto fermo nell’osservazione della legge? Con il ricordo dei giudizi di Dio. Se, in effetti, Colui che è stato istruito e formato dagli esempi della legge cessa di credere per un istante alla verità dei giudizi di Dio, egli si allontana ben presto della legge. Per chi, al contrario risale al ricordo dei secoli passati, si convince facilmente che mai il peccatore sia potuto sfuggire al castigo della sue empietà, e che il giusto mai sia stato frustrato nella ricompensa delle sue virtù … ma chi è colui tra noi che potrebbe trovare la sua consolazione nella considerazione dei giudizi di Dio?. I giudizi degli uomini sono pur terribili per i colpevoli, quanto più i giudizi divini? Per chiarire questa verità con un esempio, noi vediamo in questo mondo gli innocenti affrettarsi con i loro desideri al giorno del giudizio, temere i ritardi, chiedere istantaneamente di essere citati davanti ai loro giudici; mentre i colpevoli sono in agitazione e nel terrore, cercano tutti i mezzi per differire questo giorno fatale, e sono profondamente rattristati quando viene loro notificato che questo giorno è arrivato. Felice dunque colui che può attendere nella gioia, questo giudizio celeste. Egli sa che gli sono riservati il regno dei cieli, la società degli Angeli e la corona dei suoi meriti (S. Ambr.). – « Io sono caduto nello scoraggiamento alla vista dei peccatori che abbandonano la vostra legge. » Ecco un sentimento ben poco comune; la maggior parte in effetti si rattrista per essere oggetto di una ingiuria, di un oltraggio, di un qualunque danno dei propri beni e della propria reputazione … Ma Davide si affligge non perché sia disprezzato, o perseguitato, ma perché la legge di Dio è abbandonata, ed egli deplora la triste sorte di questi prevaricatori che periscono così davanti a Dio senza ritorno. (S. Ambr.). – Che i giusti del Signore siano il soggetto dei nostri inni, dei nostri cantici, dei nostri salmi. Cantiamo con spirito, cantiamo con il cuore, affinché nel giorno della necessità non veniamo puniti del nostro oblio con questo rimprovero: « Voi avete rigettato le mie parole lontano da voi. » (Ps. XLIX, 17). Ma questo non è molto: il cantare le giustizie di Dio; bisogna farlo con spirito distaccato da tutte le sollecitudini della terra; è per questo che il Profeta aggiunge: « nel luogo del mio pellegrinaggio. » L’ Apostolo non vuole che noi siamo degli estranei, dei pellegrini nella casa di Dio, ma i concittadini dei Santi e della casa stessa di Dio. Perché colui che fa parte della casa di Dio si considera come esiliato in questo mondo; colui che vive già nel cielo è un pellegrino sulla terra (S. Ambr.). – Apprendiamo qui dal Profeta a ritenere nei nostri cuori i canti dei salmi che abbiamo ascoltato, e a non cessare mai da questi canti divini. Non è con negligenza che egli li ascolta, e non legge la parola di Dio con gli occhi preoccupati e divisi tra mille oggetti diversi, come tante anime irreligiose, egli non l’ascolta con orecchie che le lasciano cadere in oblio, ma questa parola divina è l’oggetto di questi canti assidui, ovunque si trovi nel suo pellegrinaggio sulla terra (S. Ilar.). – « Io mi sono sovvenuto, Signore, del vostro Nome nella notte. » Il Profeta sa che bisogna applicarsi ad osservare la legge di Dio, soprattutto nel tempo in cui i pensieri colpevoli scivolano nello spirito. È allora che i pungiglioni dei vizi, eccitati dai calori degli alimenti, sollevano le cattive inclinazioni del nostro corpo, che bisogna ricordarci del Nome di Dio e restare fedeli a questa legge che ci comanda la purezza, la continenza, il timore di Dio (S. Ilar.).- Io mi sono ricordato del vostro Nome durante la notte. » La notte è anche l’abbassamento in cui si tiene la miseria della nostra mortalità; la notte è l’orgoglio dei superbi, che commettono l’iniquità oltre misura; la notte è il disgusto di vedere i peccatori abbandonare la legge di Dio; la notte, infine è questo soggiorno nel luogo dell’esilio, fino a che venga il Signore che illuminerà i segreti delle tenebre e svelerà i pensieri dei cuori, di modo che ciascuno riceva da Dio la lode che merita. « Io ho osservato la vostra legge. » Egli non l’avrebbe osservata se, confidando nelle proprie forze, non si fosse ricordato del Nome di Dio, e in effetti, « … il nostro soccorso è nel nome del Signore. » (S. Agost.). – Voi avete perso vostro figlio? In questo dolore, in questa notte, in questa immensa privazione, ricordatevi del Signore, vostro Dio, per non essere ingrato verso Dio, come se avesse disdegnato la vostra preghiera. Voi siete stato inviato in esilio? Ricordatevi del Signore vostro Dio, per non preferirgli l’amore della patria che vi ha interdetto. Vittima dell’oppressione di un ricco iniquo e potente, voi siete stato spogliato dei vostri beni, siete nell’indigenza? Ricordatevi del Signore vostro Dio, per paura che la notte della povertà vi allontani dai doveri della pietà. (S. Ambr.). – Ricordatevi dunque incessantemente degli ordini pieni di giustizia del Signore, affinché, mentre li cantiamo con la voce interiore della nostra anima, noi ci ricordiamo nel contempo nella notte del Nome del Signore, e possiamo aggiungere: « Questo mi è sopraggiunto perché ho cercato i vostri comandamenti; cioè questo ricordo si è presentato al mio spirito fin nella notte, perché io non ero né assopito per l’estasi, né appesantito dall’intemperanza, né preoccupato dalle sollecitudini del secolo, ma perché io castigavo il mio corpo con una meditazione costante, ed esercitavo così le forze interiori della mia anima (S. Ambr.).

II. — 57-64.

f. 57-60. – « Io ho detto al mio Dio: mia parte è compiere la vostra legge. » Che gli oratori siano appassionati dai loro studi letterari, che i filosofi si compiacciano nella loro pretesa saggezza, che i ricchi vantino le loro ricchezze, che i re siano fieri della loro potenza; per noi, la nostra gloria, il nostro possesso, il nostro regno, è Gesù-Cristo. Egli è la nostra saggezza nella follia della predicazione, la nostra forza nell’infermità della carne, la nostra gloria nello scandalo della croce, con la quale il mondo è morto per noi e noi per il mondo, affinché viviamo per Dio (S. Paolo, in Ep. ad Aprum.). – Ma sono pochi quelli che possono dire con tanta fiducia che Dio sia la loro parte! Bisogna essere estranei al vizio ed ad ogni sozzura; bisogna non aver nulla in comune con il secolo e non tenere niente nel mondo. L’avaro non lo saprebbe dire, perché l’avarizia accorre e gli dice: « è a me che tu appartieni; » io ti ho messo sotto il mio giogo, sono io che sono il tuo padrone; tu ti sei venduto a me per questo oro; tu ti sei consegnato a questa terra. Il sensuale non può dire; Gesù-Cristo è la mia parte, perché la sensualità accorre e gli dice: « Sei tu la mia parte; io ti ho asservito in tale festino; io ti ho preso in trappola in questo pasto; la tua intemperanza ha segnato la tua intemperanza ha siglato il contratto che ti tiene sotto le mia leggi; » dimentichi che la tavola è sempre stata per te più cara che la vita? Mi riferisco a te, negalo, se puoi; ma … come negarlo? L’adultero non può più dire: « Il Signore è la mia parte,» perché la voluttà accorre e gli dice: sono io la tua parte, ricordati questa notte in cui tu hai conosciuto la mia legge, dove sei passato sotto il mio impero. » Infine il traditore non può dire: Gesù-Cristo è mia parte, perché ben presto la nera perfidia piomba su lui ed esclama: « egli mente, Signore Gesù, egli è mio. » (S. Ambr.). – La carità vera, che ci fa prendere come nostra parte, ci porta anche al compimento fedele di tutto ciò che ci comanda: « L’amore è la pienezza della legge. » (Rom. XIII, 10), – Ma come osservare la legge, se questo non è per grazia e per soccorso dello Spirito vivificante, nel paura che la lettera non uccida (II Cor. III, 6), e che il peccato, prendendo occasione dal comandamento, non operi nell’uomo ogni concupiscenza? (Rom. VII, 8). Bisogna dunque invocare questo Spirito: è così che la fede ottiene da Lui ciò che la legge comanda, perché colui che avrà invocato il nome del Signore sarà salvato (Gioele, II, 32). –   Si possono intendere anche queste parole dal vivo desiderio che ha il Profeta di contemplare la faccia di Dio. Egli sa che gli è impossibile in questa vita, vedere ciò che l’occhio dell’uomo non ha mai visto, ciò che il suo orecchio non ha mai inteso, ciò che il suo cuore non ha mai compreso. Egli sa che la gloria di Dio è invisibile ai suoi occhi carnali, che sarebbero abbagliati dal fulgore e dallo splendore degli Angeli, e che non hanno ugualmente potuto sopportare la gloria che risplendeva dal viso di Mosè .. ma egli non lascia il desiderare, con tutto l’ardore del suo cuore, il momento felice in cui potrà gioire della chiara visione. Colui, in effetti che ha preso Dio come sua parte, domanda con fiducia di essere ammesso a contemplare la sua faccia; perché, benché nessun mortale possa vederla quaggiù, questa felicità, è tuttavia riservata a coloro che hanno il cuore puro. (S. Ilar.). – « Io ho ripensato alle mie vie, », io ho pensato alle mie vie che ho seguito nel passato, vie piene di cadute e di peccati, e questo per meritare la remissione delle mie colpe con una conversione sincera ed un’applicazione seria alla virtù. « Io ho riportato i miei passi nella via dei vostri Comandamenti, »  per non seguire più queste viecosì sovente testimoni delle mie cadute; ma per camminare in questa via dei vostri comandamenti, che mi impedirà di smarrirmi laddove io mi sono sì sovente perso lontano dalla vera via, che è Gesù-Cristo? … ebbene, io ho pensato, non alle vie che ho seguito altre volte, ma a quelle che devo ora percorrere; vale a dire, io ho fatto precedere tutte le mie azioni da una seria considerazione, per vedere chiaramente se dovessi agire, e come dovessi agire, se dovessi parlare pubblicamente o in segreto, davanti a qualche persona o senza testimoni. Non agiamo dunque se non dopo aver pensato a ciò che dobbiamo fare, se non vogliamo caricarci di pentimenti tardivi ed inutili (S. Ambr.). – Se le nostre azioni sono mal composte, se ci accade ogni giorno di ingannarci nei nostri giudizi, o di errare nella nostra condotta, l’esperienza ci ha fatto conoscere che la causa di questa svista, è che non deliberiamo posatamente su ciò che dobbiamo fare, e che ci lasciamo assoggettare dagli oggetti che si presentano. Un ardore sconsiderato ci induce all’azione, prima di considerare bene le sequele e le circostanze; sebbene che un consiglio poco sicuro, procedendo dalle risoluzioni precipitose, fa sì ordinariamente che noi erriamo di qua e di là, piuttosto che camminare nella retta strada. Davide è ben lontano da questi due errori. Egli ha, dice, studiato le sue vie, ha liberato il suo spirito da tutte le preoccupazioni estranee, ha meditato seriamente su dove portino le sue inclinazioni. Ecco una delibera ben posta; dopo ciò io non mi stupisco se ha preso la parte migliore, e se ci dice che il risultato di questa importante consultazione sia stato il tornare con i suoi passi dal lato della legge di Dio. (BOSSUET, sur la Loi de Dieu). – Così, vedete qual frutto raccolga il Profeta da questa attenzione nel pensare alle sue vie, nel riflettere innanzitutto su ciò che debba fare. « Io sono pronto e non sono turbato nell’osservanza dei precetti del mio Dio. » Colui che ha cominciato a riflettere seriamente su quel che si debba fare, è sempre pronto ad agire; egli è fermo ed irremovibile, e non può essere turbato da alcun accidente. Il soffio pericoloso dell’ambizione non può agitarlo; la cupidigia, la lussuria non possono eccitare alcuna tempesta nella sua anima; egli resta indifferente alle seduzioni ingannevoli della voluttà … Se si leva la persecuzione, essa lo trova pronto, ed il turbamento che causa ad un’anima l’incertezza della sua salvezza, fa posto in lui alla speranza certa della corona che lo attende dopo il combattimento. Se la sua reputazione è sovente minacciata dalla calunnia, non pensa che il discepolo sia al di sopra del Maestro. Obbrobri di ogni genere si sono abbattuti sul Figlio di Dio; come il servo ne potrebbe sfuggire? Prepari egli dunque il suo spirito alla meditazione e dica: io sono pronto e non sono turbato nell’osservare i vostri comandamenti. (S. Ambr.).

ff. 61-64. – Queste corde, questi legami dei peccatori sono gli ostacoli di ogni genere che ci oppongono i nemici, sia spirituali, come il demonio e i suoi angeli, sia carnali, come i figli dell’infedeltà, sui quali agisce il demonio (Efes. II, 2). Minacciando i giusti con ogni sorta di mali, al fine di distruggerli ed impedir loro di soffrire per la legge di Dio, essi li allacciano come con delle corde nelle loro forti e solide reti; perché essi li catturano in seguito ai loro peccati, come in una rete (Isai. V, 18), e si sforzano di avvolgere i santi, e talvolta questo è loro permesso; ma se essi allacciano il corpo, non potranno legare l’anima, ove il salmista non ha messo in oblio la legge di Dio, perché, dice l’Apostolo, San Paolo (II Tim. II, 7) « la parola di Dio non è incatenata. » (S. Agost.). – « Io mi alzavo nella notte a rendervi gloria. » Non è abbastanza il pregare di giorno, occorre alzarsi di notte e nel mezzo della notte. Nostro Signore ha passato la notte in preghiera, per invitarvi alla preghiera con il suo esempio; e cosa chiedeva a Dio? Il perdono dei vostri peccati, nel tempo stesso che ce lo accordava con la propria volontà. «Alzatevi nel mezzo della notte per rendere gloria a Dio; » cioè per piangere i vostri peccati, non solo per ottenere il perdono delle colpe passate, ma per evitare le occasioni presenti di peccato, e mettervi in guardia contro coloro che vi potrebbero far cadere in avvenire, perché la notte è il tempo più fecondo per le tentazioni: è allora che le seduzioni della carne sono più vive, che il tentatore raddoppia i suoi sforzi, che l’anima è come appesantita dal lavoro della digestione e che lo spirito ha perso una parte del suo vigore, è allora che gli spiriti di malizia gettano tenebre sulla nostra anima e la persuadono a darsi al crimine, allorché non ha alcun testimone, alcuno spettatore, alcun accusatore da temere; è allora che la eccitano al peccato con l’esempio anche dei Santi che son caduti, ma che si sono pentiti e che hanno coperto i loro peccati con la penitenza … Prevenite queste astuzie del tentatore con la frequentazione del banchetto divino e con il digiuno che la Chiesa vi prescrive … Ricevete Nostro-Signore Gesù-Cristo nell’abitazione della vostra anima: la dove è il suo Corpo, là è Cristo stesso. Quando il vostro nemico verrà nella vostra dimora interiore tutto raggiante di splendore celeste, gli spiriti delle tenebre comprenderanno che la vostra anima è inaccessibile ai loro attacchi; essi fuggiranno e voi passerete la notte senza alcun timore (S. Ambr.). –  I santi vegliano e lodano Dio anche durante il loro sonno. « Io dormo, dice lo Sposo dei cantici, ma il mio cuore veglia. » (Cant. V, 2). – Io non temo di dirlo, quando voi dormite, che la vostra anima benedica il Signore! Non lasciatevi né agitare da pensieri di alcun crimine, né eccitare dalla concupiscenza dei beni altrui, né turbare dal fermento di una corruzione interiore. La vostra innocenza anche durante il vostro sonno sarà come la voce ella vostra anima (S. Agost.). « Io sono in società con tutti coloro che vi temono. » È la comunione dei Santi, in virtù della quale i giusti partecipano alle buone opere gli uni gli altri. – Nostro Signore Gesù-Cristo vuole che entriamo in società con Lui; e come? Prendendo parte alla sua giustizia, alla sua verità, alla sua vita senza macchia, colui che cammina in una santa novità di vita, che segue i sentieri della giustizia, è in società con Gesù-Cristo. Se ho onore della menzogna, io sono in società con Gesù-Cristo, perché Egli è la verità; se io fuggo l’iniquità, sono in società con Gesù-Cristo, perché Egli è la giustizia. Felice colui che può rendere questa testimonianza! Come un membro è unito intimamente con tutte le altre membra del corpo, così è del Cristiano che è unito con tutti coloro che temono Dio; egli non dice al suo fratello: voi non siete del mio corpo; cioè il ricco non dice al povero, il nobile a colui che è di oscura condizione, il forte al debole, il sapiente all’ignorante: voi non mi siete necessari, perché egli è in società con il corpo dI Gesù-Cristo, che è la Chiesa. Ma poiché c’è un timore che non è santo e che resta molto spesso infruttuoso, il Profeta aggiunge: « e chi osserva i vostri comandamenti, per ben distinguere il timore filiale e santo, dal timore ozioso e sterile, » (S. Ambr.). – « La terra, Signore, è piena della vostra misericordia. » Si, essa è piena della misericordia di Dio, questa terra, insudiciata e corrotta dai crimini degli uomini, questa terra ove abbondano l’empietà, l’infedeltà, la perfidia. E se qualcuno osi qui qua accusare di menzogna il Profeta, e dirgli che la misericordia di Dio non sia diffusa su tutta la terra, che ricordi queste parole di Nostro Signore: « Siate buoni come il Padre vostro che è nei cieli, che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sui peccatori. » (Matth. V, 45). – È soprattutto con la Passione del Salvatore che la terra è stata ripiena della misericordia di Dio. – Perché non ha detto: « Il cielo è pieno della misericordia di Dio? » Perché ci sono nelle sfere superiori degli spiriti che hanno perso ogni diritto all’indulgenza di Dio ed alla remissione di peccati, e che le potenze celesti che sono rimaste fedeli, benché sostenute dal soccorso di Dio, non hanno bisogno della misericordia di Dio come coloro che abitano la terra, liberi come sono da questo involucro di carne che è per noi un focolaio di tentazioni continue? … « Insegnatemi i vostri comandamenti. » In effetti è difficile trovare sulla terra un maestro che possa insegnare convenientemente ciò che non abbia visto. Il Profeta ci indirizza dunque con fervore a Colui che è il solo vero maestro. Come l’uomo potrebbe insegnare la verità che egli ignora, egli che non è che menzogna’ … Così Davide si rivolge al Signore, per dirgli: insegnatemi le vostre giustificazioni, perché Voi siete la vera giustizia; insegnatemi le parole della saggezza, perché Voi siete la saggezza stessa. Aprite il mio cuore, perché siete Voi che avete aperto il libro. Aprite questa porta che è nel cielo, perché Voi stesso siete la porta. Colui che vi entra per mezzo di Voi, non sarà ingannato, perché entra nel soggiorno stesso della verità (S. Ambr.).  

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/02/salmi-biblici-bonitatem-fecisti-cum-servo-tuo-cxviii-4/

PREDICHE QUARESIMALI (V-2020)

[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]

XXXI.

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA DOMENICA DI PASSIONE

Ego vitam æternam do eis

Jo. X, 28.

I. E quando mai cesserete di travagliarmi, O miei funesti pensieri, con tante angustie, e con tante ambiguità, che voi mi sollevate nel cuore intorno al successo della mia predestinazione? È il mio cuore ornai divenuto qual fragile palischermo, che soprappreso a notte buja da un impeto di borrasca imperversata, e implacabile, non sa più qual onda debba secondar come amica, qual temere come avversaria; mentre or viene una che, sollevandolo in alto, par che promettagli di portarlo alle stelle; ed or un’altra che, al basso precipitandolo, par che gli minacci d’asconderlo negli abissi. Così talora un de’ pensieri, innalzandomi a sublimi speranze, mi dice ch’io sono del numero degli eletti, e un altro, deprimendomi a gran terrori, mi dice eh’ io sono nel ruolo de’ condannati. – Ma pace, pace, o combattuto mio spirito, ch’oggi io rimiro alcun porto, dove gettarmi: e per quanto si giri, o quanto si cerchi, non credo già che più sicuro di questo trovar si possa in una notte di tenebre sì profonde, in uno stretto di gorghi sì tortuosi. Andate dunque, o teologi, andate via, e non mi tornate a confondere più la mente con tanto vostre importune difficoltà. Che mi opporrete? Che io non sappia se la elezione de’ mortali alla Gloria sia susseguente alla vision de’ lor meriti, o antecedente? Verissimo, io non lo so. Ch’io non intenda come i decreti celesti, essendo immutabili, non impongali necessità? Verissimo, io non l’intendo. Ch’io non capisca come la scienza divina, essendo infallibile, non tolga la contingenza? Verissimo, io nol capisco. Ma ciò che prova? É questo colpa della mia debole vista, la qual né anche sa penetrare altri arcani men astrusi, men ardui, quali sono gli arcani medesimi di natura: Et quæ in prospectu sunt, invenit cura labore  (Sap. IX. 16). Nel resto nessun uomo nel mondo si troverà, il quale mi persuada ch’io mai possa esser dannato, s’io non voglio essere. – Che cercar dunque terra più ferma di questa, in cui porre il piede? Qui qui v’invito a riposare, o voi tutti, i quali andate in un mar sì vasto aggirandovi senza timone, senza remi, senz’albero, senza vela. Se non gittate qui l’ancora, siate certi di perdervi quanto prima, ed o di rompere in qualche scoglio nascosto con gl’infedeli, o d’incagliarvi in qualche sirti arenosa con gl’ignoranti. Ma perché vediate che non senza ragione vi prometto qui qualche quiete, prestate voi questa mane più solenne audienza, e più sollecita applicazione al mio dire, mentre io vi dimostrerò che  Dio, quanto a sé, è dispostissimo a salvar tutti: ego vitam æternam do eis; e che però troppo sfacciata è la temerità di coloro, i quali, non contenti d’offendere un Dio sì buono, vogliono ancora rifondere in lui la colpa della loro perdizione, amando meglio di accusar Lui come ingiusto, che sè com’empj.

II. E prima basterebbero a provare una sì riguardevole verità le tante dichiarazioni che Dio n’ha fatte nelle sue stesse Scritture, nelle quali nessuna cosa forse Egli inculca con maggior chiarezza di questa, che se ci danniamo, da noi nasce la perdizione: perditio tua, Israel (Os. XIII. 9). Onde, se ciò fosse falso, Dio verrebbe ad essere il maggior menzognere che fosse al mondo; imperciocché non solo ci gabberebbe in materia rilevantissima, ma con moltiplicate bugie. – E qual interesse avrebbe Egli mai di voler mentire, quando ancora potesse? Pensò Platone, che chiunque mentisce, mentisca per timor di una forza maggior di sé; come mentisce il reo per timer del giudice, lo scolare per timor del maestro, il bambino per timor della madre, il servidore per timor del padrone: laddove chi non ha timore di un altro, non si rimane di dirgli libera in faccia la verità. E però inferì quel gran Savio, che Dio non poteva mai dir menzogna, perché nessuno mai può recargli timore. Or posto c’è, qual timore avrebbe Dio di protestarsi liberamente ch’Egli, senz’alcun riguardo di meriti, salva a suo capriccio chi vuole, è chi vuol condanna, quando ciò fosse vero? Gli darebbon forse noja i nostri latrati? gli turberebbero forse la pace le nostre bestemmie? gli contenderebbero forse lo scettro le nostre sollevazioni ? Nulla meno. Quis tibi imputabit, si perierint nationes, quas tu fecisti, Domine? (diceva a lui lo Scrittore della Sapienza) Non est alius Deus quam tu: neque rex, neque tyrannus in conspectu tuo inquirent de his quos perdidisti[… Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto, né un re né un tiranno potrebbe affrontarti in difesa di quelli che hai punito] (Sap. XII, 12 ad 14). Potremmo a Dio ribellarci quanto volessimo, ch’Egli farebbe de’ tumulti nostri men caso, che non fa il sole di que’ popoli sciocchi meridionali, i quali, mentr’egli spunta su l’orizzonte, o gli dicon degl’improperj, o gli avventano degli strali. Mentre dunque Egli nelle sue sacre Scritture con tanta asseveranza ci attesta ch’Egli, quanto a sé, è desioso di salvar tutti: Deus vult omnes homines salvos fieri (1 ad Tim. II. 4); ch’egli vorrebbe che non perisse veruno: non est volutilas ante Patrem vestrum, qui in cœlis est, ut pereat unus (Math. XVIII, 14); non vult aliquos perire (2 Petr. III. 9); non venit animus perdere (Luc. IX. 56); e che non ama la morte del peccatore: nolo mortem impii; ma che ne vuole la conversione: sed ut convertatur; ma che bramane la salvezza: sed ut vivat (Ezech. XXXIII. 11); conviene infallibilmente che così sia. – Ma perché non debbonsi ancora in materie tali disprezzar le ragioni, quando non come padrone precedan l’autorità, ma come ancelle la seguano, contentatevi che parimente di queste noi ci vagliamo.

III. Già voi sapete, uditori, ch’essendo Dio la cagion superiore d’ogni cagione, e, come dicon le Scuole, la cagion prima, conviene per conseguente ch’egli concorrano gli effetti di tutte l’altre cagioni, le quali si chiamano o subordinate, o seconde: anzi, come san Tommaso dimostra, molto più vi concorre di qualunque altra. E però più ha Dio parte nella produzione dell’erbe, di quel che ve n’abbia la terra; più nella generazion de’ metalli, che non ve n’hanno i pianeti; più nella respirazione degli animali, che non ve n’ha l’aria; più nella formazion del frutto, che non ve n’ha l’albero; e così andate voi discorrendo. –  Ma se ciò si avvera in ordine ad altri effetti molto più avverasi in riguardo dell’ uomo nella cui formazione ha Dio sempre la maggior parte, non solamente perch’Egli viene a concorrervi, come cagione suprema potissima e principale, ma ancor perché noi da’ nostri genitori terreni non riceviamo se non che il semplice corpo, ch’è la peggior parte di noi, ma la migliore, ch’è 1’anima, tutta immediatamente ci vien da Dio; e però più propriamente noi siam figliuoli di Dio, che non siamo o di nostro padre o  di nostra madre, perché da Dio solamente noi riceviam tutto quello ch’è proprio di noi; al che pare appunto che Cristo volesse alludere quando disse: patrem nolite vacare vobis super terram; unus est enim  Pater vester, qui in cœlis est (Matth. XXIII, 9). – Or che ne segue di ciò. Ne segue che Dio, quanto a sé, non vuol mai dannarci: non laetatur (come dice il Savio), non lætatur in perditione vivorum ( Sap. I, 13). Ditemi un poco, voi padri, voi madri, ditemi: amereste voi di vedere un vostro figliuolo bruciar per vostra elezione giù nell’inferno? Uh padre, e che cosa dite? E volete che tanto male a voi voglia Dio, il quale è più padre vostro, che non siete voi de’ vostri figliuoli? Miglior dunque sarebbe alla propria prole un padre terreno, il quale le ha dato il meno, che il Padre celeste, il quale le ha dato il più. Mirate un poco quella madre, e osservate quanto ella spasima per quel figliuol da lei nato. S’ella cuce, cuce per lui; s’ella parla, parla di lui; s’ella dorme, sogna di lui; non gli sa mai levare gli occhi d’attorno. S’ella sente soffiare un’ orrida tramontana, ahimè che il mio figliuolo non patisca freddo; s’ella sente diffondersi un pericoloso contagio, ahimè che al figliuol mio non si appicchi il male; ed è tanto da lungi ch’ella mai goda della perdizion del figliuolo, ch’anzi non cura di recare a sé pregiudizio, per accrescere a lui venture. – Ma che dich’io! Non  vediam noi le bestie medesime quant’amano le lor proli, con quanta cura le allevano, con quanta pazienza le allattano, conquanta sollecitudine le provveggono? Mira la cicogna quando in qualche aperta campagna non può trovar ombra a’ suoi teneri pargoletti: distend’ella sopra di lor le sue ali, perché se il sole vuole sfogar le sue vampe, le sfoghi sopra di lei. Mira l’aquila quando per qualche urgente occasione dee trasportare altrove i suoi piccoli figliuolini: portagli ella sulla sua schiena, perché  se di terra venga scoccato alcun dardo, debba ferir prima lei. Anzi gl’istessi parti insensati usciti da noi, quali sono le pitture, i libri, le statue, quanto ci sono anche cari! Osservate quella signora, quant’ama quel bel ricamo, perché è parto delle sue dita! quanto si adira, se vi vede sopra cadere un filo di polvere! Miseri loro, se que’ bambini lo toccano, se quella cameriera lo macchia! Lo ravvolge dentro a lini bianchissimi, lo ripon nella cassa, il rinserra a chiave, ed hanne tal gelosia, qual ella avrebbe di un prezioso tesoro. E perché ciò? Perché è troppo innato ad ogni cagione amare i suoi proprj parti, o sien ragionevoli, o sien brutali, o sien vivi o siano insensati. – E volete voi sospettare che Dio, il quale è cagione tanto più nobile, ed è Padre tanto più proprio di tutti noi, ami, quanto a sé, di vedere verun di noi per tutta una eternità ardere in fornaci di fuoco, stridere in lacune di ghiaccio, spasimare in carceri orribili di tormenti? Non può essere, signori miei, non può essere: non laetatur in perditione vivorum (Sap. 1. 13). Questo sarebbe fare un Dio molto peggiore che non sono gli uomini stessi; anzi peggior che non sono gli stessi bruti. Se noi con le nostre colpe il costringeremo a pigliar le parti di giudice, dopo avere invano tentate quelle di padre, Egli s’indurrà a condannarci (come fecero ancora con tanta lode gli Epaminondi e i Torquati, gl’Ippomani, e gl’Ippodamanti, divenati implacabili verso i loro figliuoli degni di morte), perchè, eum sit justus, juste omnia disponiti ma, quanto a sé, siamo pur tutti sicuri, ripiglia il Savio, che non ci vorrìa tanto male. Jpsum autem (belle parole!), ipsum autem, qui puniti non debet, condemnare, exterum judicat a virtute sua (Ibid. XII, 15). Non è questo il suo genio, non è questo il suo godimento; e senza dubbio piuttosto vorrebbe esercitare verso di noi le parti di padre, che non quelle di giudice. E non vedete l’affezion tenerissima, con cui egli distendit membra, dilatat viscera, pectus porrigit, offert sinum;, gremium pandit, ut Patrem se tantæ obsecrationis demonstret affectu? Adunque che segno è questo, seguirò a dire con san Pietro Grisologo, se non che Deus non tam_ Dominus esse vult, quam pater, e che rogat per misericordiam, ne vindicet per rigorem? (Serm. 108)

IV. E certamente come può mai giudicarsi ch’Egli voglia la nostra perdizione, mentre tanto si adopera a fine di conseguir la nostra salvezza? Qual prudenza sarebbe mai di colui il quale spendesse mezzi grandissimi, atti a conseguire alcun fine, ed insieme avesse efficacissima volontà di sortire il fine contrario? Chi è mai che semini il campo, ma a fine ch’egli non frutti? Che inaffi il vaso, ma a fine ch’ei non fiorisca? che attizzi il fuoco, ma a fine ch’egli non arda? che ammaestri il discepolo, ma a fine ch’ei non impari? che sproni il destriere, ma a fine ch’egli non corra? Questi sono meri delirj; perché chiunque adopera un mezzo, ha desiderio di conseguire quel fine, a cui val quel mezzo. Adunque se Dio è prudentissimo, com’Egli è, non può insieme adoperar tanti mezzi per salvar tutti, ed insieme volere che qualcun non si salvi con tali mezzi. Rappresentatevi un cacciatore, il quale correa anelante dietro una fiera, or la trace per balze, or la segua per piani, or la cerchi per le caverne; che le abbia da una parte tese le reti, che dall’altra le abbia lasciati i cani; ch’ora gridi per atterrirla, ora faccia per assicurarla, ora mirala per colpirla; e che però si disciolga tutto in sudori, e nol curi; s’insanguini tra pruni, e non si rimanga. Potrà mai cadervi in sospetto ch’egli non sia vago di prendere una tal fiera? Nessuno dirà ch’egli usi tante fatiche, non a fine di averla nelle sue mani, ma a fine di non averla. Perché, se non volev’altro che questo, non accadeva ch’egli si movesse di casa: poteva rimanersi tra le sue piume, poteva dormire i suoi sonni, senza uscir su l’alba più cruda a gelar tra ghiacci, ed a perdersi tra i dirupi. Or bene. Iddio, per aversi nel paradiso, fa come que’ cacciatori, i quali, quando non possono raggiungere la fiera per una strada, la tracciano per cent’altre. Id facit Deus, quod venatores soletti facere (sono parole di san Giovanni Crisostomo), qui quando fugacissima, captuque difficillima insectantur animalia, non una via, sed diversis, et per contraria plerumque aggrediuntur, ut si alterum effugerint, in alterum incidant (in Matth. Hom. 38). Anzi egli si è consumato, si è insanguinato, si è impiagato, si è lacero per averci. Che segno è dunque? Non è manifestissimo segno ch’Egli ci vuole? Se non ci avesse curati, poteva restarsene in cielo; non accadeva scendere in terra. A che fine tollerare tanti disagi di fame, di sete, di freddo, di arsure, di nudità, di viaggi, di spine, di flagelli, di chiodi? Non poteva risparmiarsi tanti dolori? Nè mi dite aver esso patito tanto solamente per quei che dovevan salvarsi, ma non per quei che si dovevano dannare; perché affermar ciò sarebbe ora bestemmia orribile, condannata appunto in questi ultimi tempi dal Vaticano, com’empia, come sacrilega, come eretica, e come troppo ingiuriosa alla divina bontà. Mediator Dei, et hominum, homo Ciristus Jesus (sono parole chiarissime dell’Apostolo) dedit redemptionem semetipsum prò ómnibus (1 ad Tim. 2. 5 et 6). È Cristo morto verissimamente per tutti gli uomini, o giusti o peccatori, o eletti o presciti, ch’eglino siano; che però tante volte nelle divine Scritture è chiamato Sole, e Sol di giustizia, cioè Sol comune di tutti. Sol justitiæ (così tra gli altri il testificò sant’Ambrogio – in Ps. 118. Serm. 8), Sol justitiæ omnibus ortus est, omnibus venit, omnibus passus est, omnibus resurrexit. – E così, quanto a sé, per tutti, che lo vorranno, Egli ha aperto il cielo; per tutti, che nol vorranno, ha chiuso l’inferno; e per tutti egli ha meritati dal Padre ajuti bastevoli da potersi efficacemente salvare; conforme a ciò che mostrò assai bene di intendere san Giovanni quando egli disse: de plenitudine ejus nos omnes accepimus (Jo. I. 16).

V . – Né può essere che tali ajuti non si somministrino a tutti con grandissima fedeltà: non solamente perché il Padre Eterno non può negarci quel che il suo Figliuolo  umanato ci ha meritato col prezzo vantaggiosissimo del suo sangue, ma ancor perché, se ognun di noi non avesse ajuti bastevolissimi da salvarsi, ne seguirebbe (come notò san Tommaso), che tutte le creature ancorché insensate, fossero state ordinate meglio al lor fine, che l’uomo al suo. Girate gli occhi d’intorno a tutto il creato:voi non vedrete cosa veruna che non sia stata sovvenuta da Dio di mezzi opportuni ad ottenere il fine propostole. Il fine, che per ora hanno i cieli, è di stare in perpetuo moto, per compartire i loro influssi alla terra: però giacché non hanno in sé stessi. un’anima informatrice, com’ è la nostra,che possa muovergli, è stata loro assegnata un’intelligenza assistente. Le stelle debbono mitigare gli orrori della notte più tenebrosa;ma non han da sé tanto lume, che a questo basti: però il Sole ha ordini  espressi di provvedere le della sua perenne lumiera. La terra dee saziare le voglie degli agricoltori più avidi, ma non ha asé tanto umore, che a questo vaglia; però le acque hanno commissiono perpetua a fecondarla co’ loro sotterranei pellegrinaggi.Agli animali bruti manca artificio, con guernirsi o di vesti che li difendan dal.freddo, o d’armi che gli assicurino dai nemici: però guardate, come la Provvidenza somministra lor tutto questo insieme col nascere. Contro al freddo ella ricopre altri di cuojo, altri di piume, ed altri di squame; contro i nemici  ella fornisce altri di unghie altri di rostri, ed altri di aculei. Le ostriche, le conchiglie, le cappe, le quali vivono attaccate agli scogli, non hanno piedi onde muoversi a fine di procacciarsi il sostentamento: però che avviene? lo scoglio stesso d’intorno a loro germoglia il pascolo loro amico. Se la balena,  qual animato navilio, da sé girasse pel mare, correrebbe spesso pericolo di arenar nelle secche: però un piccolo pesciolino ha l’istinto d’indirizzarla. Se le coturnici che sono popolo imbelle, tragit’assero sole per l’aria, rimarrebbero spesso preda d’avvoltoi rapaci: però altri uccelli considerati han costume di convojarle. E così andate voi discorrendo per l’universo, ritroverete non v’esser cosa sì vile, la quale, se con la sola propria virtù non può conseguire il suo fine, non sia munita di qualche altro ajuto imprestatole. – Ora ditemi: volete voi che Dio usi meglio co’ bruti, servi dell’uomo, di quel ch’egli usi coll’uomo, signor de’ bruti? Ma cert’è ch’Egli userebbe così, se non avvenisse quel che dico io. Conciossiachè il fine dell’uomo è la felicità soprannaturale, a cui egli con le sue semplici forze mai non può giungere. Adunque conviene affermare che Dio infallibilmente provveggalo d’altri mezzi, e questi veraci, e questi valevoli, onde giungere a sì gran fine. Aggiungete, che ad arrivare a un tal fine Egli ancora ci obbliga con precetti strettissimi, e sotto severissime pene. Apprehende, ci fe’ dir per san Paolo, apprehende vitam æternam (1 ad Tim. VI. 12); che fu quasi un dire: benché paja a te ch’ella fuggati, valle dietro, arrivala, arrivala, falla tua, apprehende. Conviene adunque che somministrici parimente le forzo, con cui soddisfare a un tal obbligo. – Altrimenti non sarebb’Egli il più fier tiranno che si possa mai immaginare? Qual concetto voi formereste di Dio, s’Egli comandasse a noi di volare, ma non ci volesse dar però ali? se di favellare, ma non ci volesse dar però lingua? se di vedere, ma non ci volesse dar però lumi? Or sappiate che molto più impossibile è a noi il conseguire con le nostre sole forze l’eterna felicità, di quel che sarebbeci veder senza lumi, favellar senza lingua, volar senz’ale. E volete che Dio non ci suggerisca ajuti bastevoli ad avvalorar tali forze? Che se inter homines a recti discordat affectu, quia subjectis exigit, quod in potestate nontribuit, hoc de Deo qua conscientia sentiatur? esclamerò con Ennodio (ap. Turrian. I. 4). Se un tal genere di tirannia non potrebbe condonarsi ad un uomo, come dovrà supporsi in un Dio? Quando Saule volle che Davide si cimentasse contro del Filisteo, non gli offerse le sue armature? Quando Eliseo volle che Giezi risuscitasse il figliuolino della vedova, non diede gli il suo bastone? Quando Mosè volle che Aronne popolasse di zanzare l’Egitto non gli prestò la sua verga? E come dunque non farà il simile Dio, quando non solamente vuol, ma comanda che l’uomo giunga ad impadronirsi del paradiso: apprehende vitam æternam? Quegli ajuti dunque che necessariamente richieggonsi a sì gran fine, chiamateli come a voi piace, che a me non rilieva nulla, definiteli come a voi pare; non sono mai negati a veruno, per empio ch’egli si sia; perchè o gli ha, o, se non gli ha, li può subito avere, come c’insegna il Concilio (Sess. VI. c. 10), sol che li chiegga, conforme a quell’assioma celebratissimo del padre santo Agostino: Deus impossibilia non jubet, sed jubendo monet, aut facere quod possis, aut petere quod non possis. Però, ogni giusto può mantener la grazia, se vuole; ogni malvagio so vuole, può racquistarla; e così tutti posson salvarsi egualmente ancora, se vogliono. -Si conchiuda pur dunque, per ritornare al nostro primo proposito, che in Dio non si può rifondere la perdizione di alcuno; vere Deus non condemnàbìt frustra (Job. XXXIV. 12): ma ch’Egli con volontà vera, leale, limpida, sincerissima, e, quanto è dalla sua parte, ancora operante, vuole la salvazione di tutti: Deus vult omnes homines salvos fieri [Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi](1 ad Tim. II. 4).

VI. Ma piano, voi mi replicherete, che or tocca a parlare a noi. Se tutti gli nomini hanno ajuti bastevoli da salvarsi, non è però vero che alcuni n’hanno più, ed altri n’han meno. Orbene: ecco la cagione, per la qual noi sì malamente c’incamminiamo alla Gloria. Non accade sfuggir la difficoltà: bisogna un poco rispondere a questo punto. Se Dio porgesse ancora a noi tanti ajuti, quanti ne porge a questo ed a quello, di noi migliori, ancora noi diverremmo perfetti, saremmo santi. Ma egli a nostro prò restringe la mano, e slargala a favor d’altri; onde non sarà maraviglia se ci danniamo (che Dio ne guardi), mentre a noi solamente dà quanto basti, e ad altri tanto che avanza. – Oh qui si che voi mi farete avvampar di sdegno. O homo, tu qui es, qui respondeas Deo? – ad Rom. IX. 20. – (se non tacete, io vi sgriderò con san Paolo ) O homo, O homo, quis es? Chi siete voi, che presumete di far il censor di Dio? S’Egli vi dà con pienezza puntualissima tutto quello a ch’Egli è tenuto, di che vi dolete voi? che bisbigliate? che brontolate? che dite? per questo intenderete di ascrivere a Lui la colpa della vostra perdizione? Falso, falso. Non potrà Egli usar cortesia con uno, senza far torto all’altro? Oh questa è bella, che Dio solo nel mondo non possa fare un maggior servizio a un amico. Mentre a ciascun si dia quello che gli è dovuto, nulla iniquitate agitur, dice san Prospero (de Vocat. gent. c. 31), siquidem in ipsis quoque fidelium populis, non omnibus eadem, neque parìa conferantur. Non vi ho io provato che Dio vi porge quanto evvi suffìcientissimo? Adunque ite in pace. Benché, fermatevi. Con qual faccia ardite voi di chiamare Dio scarso delle sue grazie verso la vostra persona, come se non parlaste in questa città, in questa chiesa, di questi tempi? E che avrebbero dunque a dire quo’ barbari sfortunati, a’ quali è toccata così rea sorte di nascere o su spiagge deserte, o dentr’isole abbandonate, dove la Fede, tenuta indietro ora da’ marosi, or da’ mostri, non è potuta ancor giungere a inalberare le sue vittoriose bandiere? Eppur è certo che nemmen quelli, dannandosi, potranno punto fiatare in loro discolpa. Rerum autem nec his debet ignosci (Sap. XIII. 8). E per qual ragione? Non per altro, siccom’è noto, se non perchè a magnitudine speciei et creaturæ cognoscebilìter poterat Creator horum videri(Ibid.: XIII. 5); perché dalla cognizion delle creature poteano quasi per una scala levarsi di grado in grado alla notizia del Creatore, e così servirlo conforme allo scarso lume che loro ne folgorò nella mente. Adunque che potrete dir voi? Vi dolete dunque di avere penuria grande di ajuti, voi che siete nati nel cuore del Cristianesimo, in una città sì eletta, in un secolo sì erudito, e molti ancor di famiglia così cospicua? E quanta notizia vi ha Iddio donata di sè con tanti oracoli di Scritture? quanta con tante dichiarazioni di Concilj? Non passaste la maggior parte di voi l’età più pericolosa sotto la tutela di parenti singolarmente gelosi del vostro bene, di maestri tutti applicati al vostro profitto? Cresciuti poi ad età più matura, quanta comodità vi si è offerta di ben operare in tanta abbondanza di padri spirituali, atta ad indirizzar vostra coscienza! in tanta copia di predicatori devoti, acconcia ad infervorar la vostra freddezza! in tanta dovizia di libri pii, opportuna ad allattare la vostra pietà! In tanta moltitudine di uomini religiosi, avida d’impiegarsi in vostro servizio! Vi manca forse o tribunali d’assoluzione, se volete scaricar la vostr’anima dal peso delle colpe: o chiostri di solitudine, se volete rimuovere il vostro cuore da’ tumulti del mondo? E che fan del continuo quegli angeli tutelari che avete a lato, se non incitarvi or a schivare quel vizio, or ad esercitare quella virtù, or a superar quella tentazione, or ad imitar quell’esempio? Iddio medesimo con le sue illustrazioni interiori quanto si adopera affine di agevolarvi la salvazione. Lascia Egli, per così dire, mezzo intentato? Ora vi alletta con gl’inviti; ora vi sgomenta con le minacce, ora vi sollecita coi rimproveri, ora vi lusinga con le prosperità, ora vi stimola co’ flagelli. Vocat undique ad correptionem, così disse santo Agostino (in Ps. 102) vocat undique ad pœnitentiam: vocat benefeiis creaturæ, vocat per lectorem, vocat per tractatorem, vocat per intimam cogitationem, vocat per flagellum correptionis; vocat per misericordiam consolationis. E voi vi lamenterete di Dio? Siasi pur vero che Egli ad alcuni dia più ajuti di quelli che a voi non dà, sicché li voglia, per così dire, anche salvi a dispetto loro, come con quel Saulo, a cui dinunziò che lo stimolo era calcato, durum est contra stimulum calcitrare(Act. IX. 7): potete voi però querelarvi, se a voi ne dà un numero cosi grande, che non solo è bastevole per ma traboccante?

VII. Ma lasciate, che io mi voglio  avanzare ancora più oltre, ed ardimentarmi di turare a ognuno la bocca con una risposta sodissima fra’ teologi, e universale. Ditemi dunque: che sapete voi di aver minor copia di ajuti per ben operare, di quella ch’abbiane ogn’altro miglior di voi; e non piuttosto d’averne o eguale, o maggiore? Che ne sapete? Forse perché vi scorgete peggior di altrui, però credete di essere ancora men provveduti di grazia, men forniti di ajuti? Ma io nego assolutamente esser vero ch’ogni volta che uno opera minor bene, ne segua per infallibile conseguenza ch’egli abbiasi minor grazia; o che ogni volta ch’uno ha maggior grazia, ne segua parimente ch’egli operi maggior bene. Signori no. Possono duo, provveduti di un’egual grazia, fare azioni tanto diverse, che altre sien di merito grande, ed altre di niuno: il che colpa non è delia grazia, ch’è la medesima; ma della cooperazione ch’è differente. Se voi non credete a me una tal verità, uditela dall’angelico san Tommaso (3 p. q. 69, art. 8 ad 2), da cui pur alcuni si studiano di dedurre a tutto loro potere dottrine opposte: licet baptizati aliqui interdunm æqualem gratiam percipiant, non asqualiter ea utuntur, sed unus studiosius in ea profìcit, alias per negligentiam gratiæ Deideest. Ch’è quanto dire, che benché alcuni Cristiani ricevano talora un’egual provvisione di grazia, non però sempre egualmente se ne approfittano, ma talor uno caveranne grand’utile, un altro niuno. E non vedete voi come ad un medesimo sole liquefassi la cera, s’indura il loto? Cosi dice S. Girolamo, ad una medesima grazia un cuore s’intenerisce, un altro resiste. Leggesi ciò in quella dottissima epistola da lui dirizzata ad Edibia (ep. 105). Non vedete come ad una medesima pioggia un campo germoglia fiori, ed un altro lappole? Così, dice Origene, ad una medesima grazia un cuore fruttifica, un altro insalvatichisce. Trovasi ciò in quel notissimo libro, da lui intitolato Periarcon (L. 3. c. 1). E santo Agostino quanto chiaramente insegna ancor egli questa dottrina, adonta dei suoi moderni depravatori! Afferma egli nel dodicesimo libro della divina Città (cap. 6), poter esser due uomini, egualissimamente disposti per qualità di temperamento e per ajuti di grazia, i quali guardino un volto stesso donnesco, e che nondimeno uno di essi s’infiammi di compiacimenti impudici, ed un altro mantenga l’animo casto, non per altra cagione, se non perché diversamente prevalgonsi a piacer loro della lor libertà. L’istessa dottrina parimente conferma san Gregorio Niceno nell’orazione de’ Catecumeni (cap. 30); l’istessa san Giovanni Crisostomo sopra l’epistola a’ Romani (Hom. I. 16); l’istessa san Cirillo sul Vangelo di san Giovanni (1. 11); l’istessa san Prospero in quel suo famoso volume sopra la vocazion delle genti (Lib. 2. e. 16); e per finire, l’istessa san Bonaventura nel quarto delle sentenze (Dist. 16, p. 2 , art. 4, q. 1), dov’egli dice queste precise parole: ex æquali gratia aliquando magis fervens elicitur motus, aliquando minus, secundum cooperationetn liberi arbitrii. – Or come dunque ardite voi di affermare di non ricever da Dio tanta gran copia di ajuti per bene operare, quanta da Lui ne ricevano questi o quelli? Chi ve l’ha detto? qual indizio n’avete? qual fondamento? Dite bensì che la vostra grazia non riesce efficace, ma vana, ma infruttuosa, ma nulla; e direte il vero. Ma chi ha la colpa di ciò? Non l’avete voi, che in cambio di profittarvi della grazia celeste con quell’ardore che richiedeva dal suo Timoteo l’Apostolo quando gli disse, noli negligere gratiam quæ data est libi (1 ad Tim. IV, 14), la trascurate, e fate a guisa di quei nocchieri, o poco abili, o poco attenti, che restano dietro gli altri con la lor nave, non perché non godano anch’essi un istesso vento, ma perché non san prenderlo quando spira? Lasciate dunque di querelarvi di Dio, e non vogliate attribuire a difetto della sua liberale beneficenza, ciò che è mancanza del vostro libero arbitrio: mentre con solo è certo, ch’ei vi vuol salvi, e che però vi somministra ajuti abbondevolissimi, non che sufficienti a tal fine, ma può fors’essere ch’Egli altresì ve li porga in copia maggiore di quel che faccia con altri di voi più spirituali, di voi più santi. Ese pur quegli ajuti vi porge, a cui Egli, come savissimo, ben prevede che voi non corrisponderete; questo medesimo si deve ascrivere a voi, i quali lor lascerete di corrispondere. Ipsi fuerunt rebelles lumini, disse Giobbe (XXIV. 13) de’ peccatori. Non fu che Dio non desse loro un vivacissimo lume a conoscer la verità; fu ch’essi chiusero gli occhi per non conoscerla. Ed altrove: Dicebant Deo, recede a nobis (Ibid.XXVIII, 12); ed altrove: Dixerunt Deo, recede a nohis (lb. 21. 14); ed altrove: Quasi de industria recesserunt ab eo, et omnes vias ejus intelligere noluerunt (Ib. 34. 27). – E però avvezzatevi a dar di tutto il mal vostro la colpa a voi. Perditia tua, Israel.. Dite fra voi medesimi, ma di cuore: Ego sum qui peccavi, ego qui impìe egi, ego qui inique gessi (2 Reg. XXIV. 17). Dite con Geremìa, che voi da voi stessi vi andate a vendere schiavi dell’inimico per un vile acquisto di niente: Ægypto dedimus manum, et Assyriis, ut saturemur pane (Thr. 5. 6). Dite che cedete, dite che cadete, verissimo; ma perché? Perché così piace a voi: volete cadere, volete cedere. Non si può dar altra ragione, lpsi nos seducimus: così ne dice l’apostolo san Giovanni (Epist. I, 1. 8). Vedete quanta sia la forza di tutti i demonj insieme? Eppure nemmen essi mai possono ottener nulla da voi, se loro spontaneamente non lo doniate. Vi possono istigare, vi possono importunare, ma non possono violentarvi. Dixerunt animæ tuæ (notate luogo sceltissimo d’Isaia su questo proposito (LI. 23), Dixerunt animae tuae: incurvare, ut transeamus. Avete sentito? Non ardiscon di mettervi i piedi addosso: incurvare, incurvare. Si raccomandano, perché vi gettiate per terra. E però se bene spesso prevalgono sopra voi, se vi conculcano, se vi calpestano, donde accade? Perché voi vilmente vi contentate di mettervi da voi stessi sotto le lor fetide piante. Dixerunt animæ tuæ: incurvare, ut transeamus: et posuisti ut terram corpus tuum, et quasi viam transeuntibus (Ibid.). Eh Cristiani, tenete forte il vostro libero arbitrio, e non dubitate di niente: sarete salvi; sarete salvi. L’Oloferne infernale non potrà mai toccare la bella Giuditta, voglio dire l’anima vostra, se starà salda: solo potrà procurare ut sponte consentiat (Judith X. 10), che consenta spontaneamente. Ma lasciatelo fare, ciò non importa: fuggite quanto si può l’occasioni cattive, valetevi de’ mezzi donativi alla salute, confessatevi spesso, comunicatevi spesso, raccomandatevi continuamente al Signore, perché vi assista; e io vi prometto che ancora voi, quanto ogni altro, vi salverete.

VIII. Ma sapete quel ch’è? Ve lo dirò chiaro. Tutto il punto è, che vorreste poter insieme goder la terra più di ciò conviensi allo stato vostro, e truffarvi in cielo. Vorreste vivere a seconda de’ vostri sensuali appetiti, compiacere ogni voglia, soddisfare ad ogni passione; e poi finalmente trovarvi su in paradiso, senza di avervi posto nulla del vostro, se non fori ancora vorreste che il paradiso calasse a ritrovar voi, perché non vi scomodiate. Ma questo non può avvenire. Una volta sola si legge nelle Scritture, che il paradiso per gran favore calasse a trovar veruno, e quest’uno fu S. Giovanni. Vidi sanctam civitatem Jerusalem novam descendentem de cœlo (Apoc. XXI. 2). Ma quella volta medesima dove calò? dove venne? il notaste mai? Super montem magnum et altum (lb. XXI, 10). Sopra la cima di un monte e d’un monte sublime, e d’un monte alpestre. E perché ciò? Giacché quella città santa volea discendere, perché non poteva discendere alla pianura, e risparmiare all’Apostolo, già estenuato, già vecchio, anzi già decrepito, la fatica di salir sopra una montagna? No, no, uditori: il paradiso non donasi agl’infingardi (questo è il mistero), il paradiso non donasi agl’infingardi. Bisogna che si tragga di mente sì sciocco inganno, se alcun ve l’ha. Iddio ci vuol dar la sua gloria; ma come premio, intendete? come mercede, sicché ancor noi rimettiamo qualche passo del nostro per arrivarvi. Non posuit nos Deus in iram, questo è verissimo; ma conseguentemente in che posuit? In salutem? in salutem? No,  sed in acquisitionem salutis, dice l’Apostolo (1 ad Thessal. V. 9): vuol che noi ce la guadagniamo. Vuol Egli che in questo mondo noi non abbiamo occasione né di viver troppo oziosi, né di diventare troppo superbi. Però che ha fatto? ha disposte le cose in modo, che l’esecuzione della nostra salute eterna non fosse né tutt’opera nostra, né tutta sua. Non tutta nostra, perché ci mantenessimo umili; non tutta sua, perchè non divenissimo scioperati. Neque nos supinos esse vult Deus, proptem non ipse totum operatur (così avvertillo san Giovanni Crisostomo);. neque vult esse superbos, et ideo totum nobis non cessit (Hom. 60 ad pop.). Ma noiameremmo che facesse tutt’Egli, e non vorremmo far nulla noi. No Signori miei, no: a Lui spelta chiamarci, ed a noi corrispondere; a lui tocca invitarci, e noi di andare. Vocabis me, et respondebo tibi(Job XIV. 15). Egli ci ecciterà ancora, ci spingerà, ci sostenterà: Operi manuum suarum porrige dexteram(Ibid.), perché arriviamo fino alla cima del monte, quantunque altissimo, a trovar la bella città di Gerusalemme; ma non bisogna che a primi passi noi gli facciam resistenza; altrimenti, se nonotterrem la salute da noi bramata, tengasi pur per costante, che sarà nostra la colpa, non sarà sua? Perditio tua, Israel.

SECONDA PARTE.

IX. Un’altra scusa potrebbe ancora restare a favor degli empi; e sarebbe, quando Dio per salvarli richiedesse da loro fatiche molto ardue, o strazj molto penosi; perché in tal caso par che potrebbero rigettare in lui qualche colpa del loro male, s’essiin cambio di giungere a salvamento n’andasseroin perdizione. Ma quando mai chied’Egli tanto da’ perfidi per salvarli, quanto vede ch’essisopportano per dannarsi? Sentite ciò che Geremìa già diceva ai peccatori: Ut inique agerent, laboraverunt [lavorarono per agire iniquamente] angheria sopra angheria, inganno su inganno; (Jer. IX. 5). Credete voi che ai più di essinon costasse molto il farmale ? Laboraverunt, laboraverunt. Non si può dire quanto imiseri fecero per perire, quanto stentarono, quanto soffersero: ut inique agerent laboraverunt. E certamente ditemi un poco, uditori; è difficile la legge cristiana; è così? Oh padre, s’ella è difficile! Ma dite, in che? Forse nel maltrattare il corpo talmente, che non si ribelli allo spirito. Ma quanti sono gli strapazzi che voi gli usate, quando si tratti di un traffico ancora ingiusto! Non laboratis, con esporvi subito a brine, a venti, ad arsure? Forse nel soggiogare talmente la volontà, che non oppongasi alla ragione? Ma quante sono le schiavitù, con le quali voi l’avvilite, quando si tratti di un avanzamento anche improprio? Non laboratis, con umiliarvi pur a cortigiani, a uffiziali, a ministri? Et si tanta suffert anima, ut possideat unde pereat, quanta debet sufferre ne perent? Vi dirò con santo Agostino (De Pat. t. 4). Ma forse la legge divina riesce difficoltosa nel comandare, che a fine di salvar l’anima null’altra cosa si prezzi di questa terra, non ricchezze, non patria, non parentele, non sanità; e quel ch’è più, non la medesima vita, quando bisogni? Ma questa vita medesima quante volte vien da voi posta a sbaraglio per un puntiglio vano di mondo! Un titolo, un disparere, una precedenza non si decide continuamente col ferro? Vadane la roba, vadane la famiglia, vadane il sangue, vadane il corpo, vadane l’anima, la vendetta s’ha da pigliare. Voi stessi, benché talora vi conosciate disuguali di forze, inferiori d’appoggio, voi siete i primi a provocare il nemico, voi ad affrontarlo, voi ad assalirlo, e con disfide sciocchissime laboratis, per andare a dare di petto nell’altrui spada. E quando mai vi viene occasione di arrivare a tanto per Dio? Vi ricerca mai Egli più per donarvi il Cielo, di quel che fate per comperarvi l’inferno? O cæcitas! O insania! esclamerò con l’eloquente Salviano (Lib. 3 ad Eccl.). Quanto studio infelicissimi hominum id efficiiis, ut miserrimi in æternitate sitis! Quanto minore cura, minore ambitu id vobis præstare potuistis ut semper beati esse possetis! Rispondete quanto sapete: di qui non potete uscire. Se voi non aveste forze bastevole a tollerare tutti que’ patimenti, co’ quali voi comperate l’inferno, facilmente potreste darea d intendere di non averle a soffrire quelle fatiche con cui vi dovreste acquistare il Cielo. Ma se l’avete per fare il male, come vi scuserete di non averle per fare il bene? – Eppure quanto mi rimarrebbe anche a dire, mentre è cosa certa che i reprobi non solamente laborant per ire a perdersi, ma lassantur, com’essi medesimi confessarono dall’inferno a dispetto loro, quando già dissero lassati sumus in via iniquitatis, lassati sumus in via perditionis, ambulavimus vias difficiles  [… Ci siamo saziati nelle vie del male e della perdizione; abbiamo percorso deserti impraticabili] (Sap. V. 7). Non ho detto i patimenti della milizia, non gli orrori delle battaglie, non le inquietudini delle liti, non le angosce delle ambizioni, non le sollecitudini delle avarizie, non le infermità delle crapule, non le pene, non le perversità, non le turbazioni di una passione sola amorosa, non le lagrime che per essa si spargono, non i servizj che si usano, non le gelosie che si soffrono, non le villanie che s’inghiottino, non i pericoli che s’incontrano, non i sonni che si perdono, non le ricchezze che si scialacquano, non l’onore che non si cura, non i morbi anche strani che si contraggono. E non si ritrovano ogni dì nuovi Ammoni, che del continuo attenuantur macie [… tu diventi sempre più magro]  (2 Reg. XIII, 4) per una Tamar? che si svengono? che si struggono? Se però faceste per Dio una minima particella di quel che voi talora, o giovani, fate per una druda vilissima (lasciatemi ragionare con libertà), se lo faceste per Dio, non diverreste non solo salvi, ma santi?

X . O padre, mi risponderete, voi forse non siete pratico. Questi, che avete voi raccontati, sono patimenti sì, ma gradevoli, ma gustosi, che però, se voi nol sapete, i poeti nostri li chiamano dolci-amari: sono confacevoli all’istinto, son conformi all’inclinazione. Non sono come quelli che sopportiamo per osservar le leggi evangeliche: questi sono tutti spiacevoli, tutti acerbi. Sì? Veramente io confesso che non ci credeva esser tanta diversità: ma vi ringrazio che me l’abbiate voi suggerito opportunamente, perché della vostra risposta mi varrò dunque a stringere tanto più l’argomento mio. E qual può essere la ragione di tanta diversità? Perché i patimenti, considerati materialmente per sè medesimi, sien differenti? Questo non si può dire, poiché sarebbe direttamente contrario alla supposizione che noi facciamo: trattandosi di patire l’istessa fame per Dio, l’istessa sete, l’istesso sonno, l’istesse contrarietà che si patiscon per altri. Tutta la diversità dee consistere dunque in questo, che in un caso voi ciò patite per altri, nell’altro voi lo patireste per Dio: e perché lo patite per altri, per questo è gradevole, per questo è gustoso, per questo riesce un amaro-dolce; laddove, se il patiste per Dio, non saria punto dolce, ma tutto amaro. Non è così? Orsù dunque, che i peccatori hanno finalmente vinta la causa. Se non »i salvano, hanno pronta la scusa, hanno facili le discolpe. A che noi faticare con tante prove, sfiaterò con tante ragioni, struggerci con tanti argomenti? Possiam finire. Hanno essi una risposta da sciorli tutti. – Che dunque aspettasi? Vengano gli angeli, vengano i santi,  vengano i demonj, venga il cielo, venga la terra, e mi apprestino tutti udienza. Audite hæc, omnes gentes; auribus percipite omnes, qui habitatis orbem ( Ps. XLVIII, 2) omnes, omnes. Sono finalmente scusabili i Cristiani peccatori, se non si salvano, sono scusabili. E perché? Perché Dio non voglia ammetterli in cielo? No, perché Egli, come lor padre, e padre senza dubbio miglior d’ogni altro, a questo è disposto con verissima volontà. Perché essi non abbiano ajuti sufficienti da giungervi? No, perché a niuno s’impone peso, o s’ingiunge precetto su le sue forze. Perché non abbiamo almeno ajuti abbondanti? No, perché a loro è toccato in sorte di nascere dove n’è dovizia maggiore. Perché non gli abbiano almeno eguali a quei di coloro, i quali si salvano? No, perché non è sempre legge infallibile, che maggiori ajuti sortisse chi maggior bene operò. Perché almeno non sieno usi per altro a sopportare tante gravi molestie, quante richieggono a volersi salvare? Nemmeno per questo, perché ne sopportano anche maggiori per un interesse, per un’ambizione, per un puntiglio, un capriccio, e fin talora per una femmina vile; giungendo a segno, che, come deplorò Geremia (XVI. 13), volentierissimo  serviunt Diis alienis, qui non dant eis quiem die ac nocte, [… servirete divinità straniere giorno e notte]. E perché dunque, se non si salvano, essi sono scusabili? Ecco perché: perché queste molestie si avrebbero a tollerar da essi per Dio; torno a ripeterlo, perché si avrebbero a tollerare per Dio (qui si riduce tutta la loro discolpa), perché si avrebbono a tollerare per Dio. Cristiani peccatori, che dite? Siete contenti di una simile scusa? Volete che ella vi suffraghi, ch’ella vi vaglia? Su, sia così. Portatela in faccia a Cristo. Dite animosamente, sicché ognun senta: se per altri si dovesse sopportare quel che conviene sopportare per voi, non riuscirebbe tanto difficile; anzi riuscirebbe spesso giocondo, confacevole all’istinto, conforme all’inclinazione, sicché chiamare potrebbesi un dolce-amaro. Ma per voi non si può; il patire altrettanto per voi, tutto amaro sarebbeci, niente dolce. Oh vergogna. E avete cuor di parlar sul volto di Cristo in questa maniera, come s’Egli, perché sta qui coperto, sta qui celato, non vi sentisse? Questa è la riverenza a quel sangue sparso, questa è la gratitudine a quelle membra scarnificate per voi? dire che non sia dolce il patir per Dio? Ah! ben si scorge che voi non lo avete provato. Però, se voi vi fidate di tale scusa, seguite a vivere pure come a voi piace, eh’ io per me mi arrossisco di confutarvela. Ma se conoscete questa essere la peggiore di quante n’avete addotte, a quale dunque vi appiglierete? dove vi volgerete? come risponderete? Non rimarrete convinti che altra risoluzione più opportuna non si può prendere da tutti noi peccatori, se non che cominciamo da questo punto ad emendar seriamente la nostra vita, a fine di potere schivare in tal modo quella gran dannazione, in cui traboccando, non potrem da altri dolerci, se non di noi? Perditio tua, Israel (Os. XIII. 9).