SALMI BIBLICI: “NISI QUIA DOMINUS ERAT IN NOBIS” (CXXIII)

SALMO 123: “NISI QUIA DOMINUS erat in nobis”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 123

Canticum graduum.

[1]   Nisi quia Dominus erat in nobis,

dicat nunc Israel,

[2] nisi quia Dominus erat in nobis: cum exsurgerent homines in nos,

[3] forte vivos deglutissent nos; cum irasceretur furor eorum in nos,

[4] forsitan aqua absorbuisset nos;

[5] torrentem pertransivit anima nostra; forsitan pertransisset anima nostra aquam intolerabilem.

[6] Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eorum.

[7] Anima nostra sicut passer erepta est de laqueo venantium; laqueus contritus est, et nos liberati sumus.

[8] Adjutorium nostrum in nomine Domini, qui fecit cœlum et terram.

 [Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXIII.

Esultanza di quei che vennero liberati da gravi tribolazioni: degli Ebrei liberati dalla cattività di Babilonia alla volta di Gerusalemme; dei Cristi liberati dalle persecuzioni degli empii, di viaggio al cielo.

Cantico dei gradi.

1. Se il Signore non fosse stato con noi,  dica adesso Israele: Se il Signore non fosse stato con noi,

2. allorché gli uomini si levaron su contro di noi, ci avrebber forse ingoiati vivi;

3. Allorché il loro furore infuriava contro di noi, forse l’acqua ci avrebbe assorti;

4. L’anima nostra ha valicato il torrente; forse l’anima nostra avrebbe dovuto valicare un’acqua insuperabile.

5. Benedetto Dio, che non ci ha fatti preda loro denti.

6. L’anima nostra è stata sciolta qual passera dal lacciuolo dei cacciatori;

7. Il laccio è stato spezzato, e noi siamo stati liberati.

8. Il nostro aiuto è nel nome del Signore che fece il cielo e la terra.

Sommario analitico

Solo a Dio si deve la liberazione dalla cattività di Babilonia; è a Dio solo che l’anima, affrancata dai legami del peccato e dell’esilio di questa vita, riconosce dovere la sua liberazione.

I. Il Profeta ricorda la grandezza del pericolo che ha corso.

1° Senza il soccorso di Dio, la sua perdita sarebbe stata certa (1);

2° essa era tanto più inevitabile quanto più numerosi erano i suoi nemici, che si avventavano su di lui – a) come delle bestie feroci pronte a divorarlo, – b) come un torrente che minacciava di inghiottirlo (2-4).

II. Egli benedice Dio per la sua liberazione, che descrive in tre figure diverse:

1° Sotto la comparazione di un torrente che ha attraversato contro ogni speranza (5);

2° sotto la comparazione di bestie feroci, dai denti delle quali Dio lo ha strappato (6);

3° sotto la comparazione di una rete che Dio ha rotto per liberare il suo popolo (7);

4° egli termina con il riconoscere, in termini espressi, che solo Dio è l’autore della sua liberazione (8).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1-4. – Questo discorso, imperfetto ed interrotto dall’inizio di questo salmo, indica una sovrabbondanza di gioia sì viva e debordante che non permette al salmista di completare il suo pensiero.- « Che lo dica ora, Israele, » perché Israele può dirlo con certezza: « Se il Signore non fosse stato con noi ». E quando? « Quando uomini si sono levati contro di noi. » Non siamo stati sorpresi, essi sono stati vinti; perché essi erano degli uomini, mentre il Signore era con noi. Gli uomini si erano levati contro di noi, ma non era un uomo che era in noi, perché degli uomini avrebbero potuto opprimere degli uomini se, in coloro che essi non hanno potuto opprimere, non si fosse trovato non un uomo, ma il Signore. (S. Agost.) – Vedete sotto quali tratti egli dipinge la crudeltà dei suoi nemici? Che uomini, in effetti, tanto crudeli, più crudeli delle stesse bestie feroci nei riguardi dei loro simili! Quando la bestia selvaggia è caduta sulla sua preda, la sua furia si calma ed essa si ritira o, se è spossata, non torna più alla carica. Gli uomini al contrario, quando hanno realizzato i loro disegni, raddoppiano i loro attacchi, e giungono fino a desiderare di nutrirsi della carne dei propri simili (S. Chrys.). – Dio è con noi in un modo ben più eccellente che non lo fosse con i giusti stessi della Nazione santa L’Emmanuele o il Dio con noi, è venuto, ed è per Lui che noi siamo fortificati contro tutti gli attacchi dei demoni, del mondo e dei nostri nemici. Non è senza ragione che il Profeta dice: « Se il Signore non fosse stato con noi, o tra noi ». Egli vedeva in spirito questo momento prezioso in cui il Verbo di Dio si sarebbe rivestito della nostra natura ed avrebbe trionfato di tutti i nostri nemici. Noi siamo forti ed invincibili con Lui, come osserva S. Agostino, spiegandoci i caratteri del Cristiano. I tiranni – aggiunge il santo dottore – hanno divorato i martiri, ma erano degli uomini morti, e la persecuzione non ha loro procurato il possesso della eterna felicità, che è la vera vita. Coloro che hanno rinunciato alla fede, hanno divorato ogni vivente; essi non avevano in loro la morte spirituale, la morte alle passioni, che costituisce l’essenza del Cristiano (Berthier). –  « Quando il loro furore si è avventato contro di noi, » noi corriamo il pericolo di essere condotti alla nostra perdita, come con il furore dei flutti del mare o di un fiume che inghiottisce vive le infelici vittime che cadono nelle loro onde in un vortice rapido e profondo. – Le agitazioni e gli attacchi dei malvagi che cercano di inghiottire i Santi di Dio, sono comparate alle acque torrenziali; ma, grazie al Signore che abita nei suoi Santi, queste acque scorrono e passano con rapidità (S. Gerol.). – Sull’esempio del Profeta, diciamo a noi stessi: « Se il Signore non fosse stato con noi quando uomini si levarono contro di noi, essi avrebbero potuto divorarci vivi. » In effetti, quando soffriamo le persecuzioni degli uomini, le empie costituzioni delle potenze del secolo, le seducenti esortazioni dei perfidi consiglieri, e tuttavia restiamo fermi nella fede, noi perseveriamo nel timore di Dio, restiamo attaccati alla speranza dei beni eterni, riconosciamo che dobbiamo questa grazia alla misericordia di Dio, alla fedeltà con la quale ha compiuto questa promessa. « … ecco che io sono con voi fino alla fine dei secoli. » (Matth. XXVIII, 20). Riportiamo a questo Ospite divino che abita in mezzo a noi, tutta la gioia, tutta la gloria del successo; perché è a Lui che noi dobbiamo tutto ciò che è in noi: « … cos’è che non abbiate ricevuto? » dice l’Apostolo San Paolo (I Cor. IV, 7) (S. Hilar.).

II. – 5-8

ff. 5-8. – Il torrente, nelle Sacre Scritture, è il simbolo della persecuzione e delle afflizioni. L’acqua, in effetti, si precipita senza misura, con una forza ed un’impetuosità che trascina tutto ciò che incontra sul suo cammino. – Si salva dal torrente colui che, fermo nella sua fede, non cede alla violenza dei persecutori o della tribolazione; è invece ingoiato dal torrente, chi soccombe davanti alla loro collera ed alla loro violenza. Ma, se noi non confidiamo che in noi stessi, non possiamo sperare di lottare contro l’acqua del torrente. – Queste espressioni metaforiche non raffigurano solamente la violenta irruzione, ma la breve durata di queste prove. Badiamo dunque di non scoraggiarci quando si abatte su di noi la malasorte. Quale che sia, essa è un torrente che passa, una nube chi si dissipa. Sì, qualunque sia il vostro infortunio, non durerà per sempre; benché amaro sia il vostro calice, non durerà per sempre; se dovesse durare per sempre, la natura non potrebbe resistere. Ma gran numero sono trascinati in questo torrente e la causa non è nella violenza del male, ma dalla debolezza di coloro che si lasciano tanto facilmente abbattere. Vogliamo non essere coinvolti? Discendiamo nelle profondità di questo torrente, consideriamone tutte i luoghi, afferriamoci all’ancora divina per avere ad essere trascinati in alcun naufragio. (S. Chrys.). –  « Benedetto sia il Signore che ci ha liberato dai loro denti come una preda da caccia ». In effetti i cacciatori inseguono la preda, ed hanno posto un’esca nella loro trappola. Quale esca? La dolcezza della vita, affinché attirati dalla dolcezza di questa vita, ciascuno si getti, a testa in giù, nell’iniquità, e la trappola scatti su di lui. Ma coloro in cui era il Signore non sono stati presi in trappola, essi hanno detto: « Benedetto il Signore, etc. » – Quali sono i denti? Sono i denti forti e potenti per afferrare e sbranare la preda; è la collera, la cupidigia, l’impurità, l’odio, l’intemperanza, l’avarizia; è con questi denti, che non mollano facilmente ciò che hanno afferrato, che esercitano la loro dannazione su di noi, volendoci rendere ministri o complici dei loro crimini. (S. Hilar.). – Sì, è perché il Signore era in quest’anima, che essa è stata liberata, come un passero dalla trappola dei cacciatori. Perché questa è comparata ad un passero? Perché essa era caduta nella trappola sconsideratamente come un passero, e poteva dire in seguito: Dio non perdonerà. O passero vagabondo, faresti meglio a piantare i tuoi piedi sulla pietra; bada a non farti prendere in trappola! Tu sarai preso, sarai catturato, sarai ucciso! Che il Signore sia in voi, ed Egli vi libererà dai pericoli più grandi, e dalla trappola dei cacciatori (S. Agost.). – Il mondo intero è pieno di insidie e di reti che tende alle anime per perderle. Ciò che costituisce il pericolo di queste trappole, è l’esca che ricopre: sono i piaceri, gli onori, le ricchezze, che ci incantano fino al momento in cui dobbiamo lasciarle; allora il fascino sparisce, ma non è più tempo di rompere i legami, e noi cadiamo nell’abisso carichi delle catene dell’inferno. È una maledizione, il non riconoscere la nostra schiavitù se non per caderne in un’altra che non avrà mai fine. (Berthier). – Ma affinché non attribuiate la vostra liberazione alla vostre forze, considerate di chi sia l’opera (perché se vi convincete di orgoglio, cadete nella trappola), e dite: « il nostro soccorso è nel Nome del Signore » (S. Agost.). – Considerate non solo la debolezza del Vostro nemico ma la grandezza del soccorso che vi viene dato, e chi sia Colui che presta il suo aiuto. È Colui che ha tratto dal nulla tutto l’universo. Per mezzo di Lui, le ribellioni della carne, sono state contenute, siete stati scaricati dai pesi del peccato, avete ricevuto la grazia dello Spirito-Santo come un’unzione fortificante. Dio vi ha reso padroni della vostra cerne, vi ha dato come armi la corazza della giustizia, la cintura della verità, l’elmo della salvezza, lo scudo della fede, la spade dello Spirito; Egli vi ha dato le armi della vittoria, vi ha nutrito con la sua carne, dissetato con il suo sangue, vi ha messo tra le mani la sua croce come una lancia che non si spezza mai; infine ha incatenato il vostro nemico, lo ha atterrato. Voi non avrete scusanti se sarete vinto, se lasciate al demonio la gloria del trionfo. (S. Chrys.).

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (9)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (9)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

13 — Il Memento dei morti

237— Perchè si è separato il Memento dei morti dal Memento dei viventi?

I membri della Chiesa militante, i vivi possono e devono unirsi al Sacerdote per offrire il santo Sacrificio e allo stesso tempo offrire se stessi a Dio: questo viene fatto in modo più adeguato prima della consacrazione. I morti non possono più partecipare all’oblazione del Sacrificio, ma solo partecipare ai suoi frutti, che noi applichiamo loro; è meglio quindi menzionarli alla presenza dell’Agnello sacrificato sull’altare.

Preghiera:

Meménto étiam, Dómine, famulórum famularúmque tuárum N. et N., qui nos præcessérunt cum signo fídei, et dórmiunt in somno pacis. Ipsis, Dómine, et ómnibus in Christo quiescéntibus locum refrigérii, lucis pacis ut indúlgeas, deprecámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ricordati anche, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve N. e N. che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono il sonno di pace. Ad essi, o Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo, noi ti supplichiamo di concedere, benigno, il luogo del refrigerio, della luce e della pace. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

238 — Cosa bisogna intendere con questa espressione: “Il segno della fede”?

Con l’espressione “segno della fede” si intende prima di tutto il carattere indelebile del Battesimo, che distingue i fedeli dagli infedeli, e poi la professione della fede in parole ed in atti con una vita cristiana, con le opere di carità, l’attaccamento alla Chiesa, la ricezione dei Sacramenti.

239 — Perché la Chiesa dice che i defunti dormono il sonno della pace?

La morte nella grazia e nella carità, nella comunione vivente con Gesù Cristo e la sua Chiesa, può essere chiamata un sonno di pace, un sonno piacevole, perché si attende un lieto risveglio, la gloriosa risurrezione della carne.

Il cimitero cristiano è infatti, secondo il significato primario di questo termine, il dormitorio dove riposano coloro che sono morti nel Signore.

240 — Cosa domanda la Chiesa per le anime del Purgatorio?

La Chiesa chiede, per coloro che dormono il sonno della giustizia, un luogo di ristoro, di luce e di pace. Le anime sofferenti del Purgatorio possiedono la tranquillità e il riposo, essendo sfuggite alle turbe di questo mondo peccaminoso e seduttre, ma finché non godono della vista di Dio e sono trattenute nel luogo del dolore, la loro pace non è perfetta; sono divorate dalle fiamme del desiderio di vedere Dio e dal tormento del fuoco; gemono nell’oscurità di quella notte in cui nessuno può più lavorare.

241— Quale rubrica osserva il prete al termina del Memento?

Il sacerdote unisce le mani e china il capo alle parole: “Per lo stesso Gesù Cristo”, che concludono questa preghiera, poi, un po’ inchinato, guarda Gesù che è presente davanti a lui nell’ostia.

Mentre Cristo moriva sulla croce, chinò il capo e immediatamente scese nel Limbo per annunciare alle anime dei giusti la loro liberazione. Così il sacerdote china il capo e prega per coloro che dormono in Cristo, affinché la grazia dell’espiazione del Santo Sacrificio scenda in Purgatorio per alleviare e abbreviare le loro sofferenze.

242 — Per chi prega la Chiesa al Memento dei morti?

Nel Memento dei morti la Chiesa prega nominatamente, e soprattutto « per coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace », cioè per chi è morto in comunione con Essa. Prega in generale per tutti coloro che « riposano in Cristo ».

Riposano in Cristo coloro che morti nel Signore (Ap XIV, 13), cioè nella grazia di Dio.

Le due lettere N. e N. ricordano al Sacerdote che deve raccomandare a Dio soprattutto il o i defunti per cui offre il santo Sacrificio, i suoi parenti, i suoi amici, i suoi benefattori defunti che possono soffrire in Purgatorio.

243 — In qual misura la Messa è profittevole alle anime del Purgatorio?

Quando il Sacerdote celebra, dà riposo ai morti. Il Concilio di Trento ha formalmente condannato coloro che avrebbero negato questa verità. (Sess. XXII, can. 3). – Ma fino a che punto questo riposo è loro concesso? Non lo sappiamo. Certo, se Nostro Signore volesse, basterebbe una sola Messa per svuotare tutto il Purgatorio, ma la pratica della Chiesa, fin dai tempi apostolici, ci fa ripetere il santo Sacrificio per i nostri defunti il più spesso possibile, e ci avverte così che la Vittima divina in genere non distribuisce i meriti della sua immolazione alle anime tutte in una volta, ma li misura più o meno abbondantemente secondo le opinioni della sua saggezza. Il santo Curato d’Ars ha detto di un convertito: « Si è salvato, ma è molto basso… pregate molto per lui! »

244 — È meglio far celebrare Messe per noi nella nostra vita?

È certamente più vantaggioso e prudente far celebrare Messe per noi nella nostra vita.

QUI GIÙ:

– Collaboriamo all’offerta del Santo Sacrificio partecipando alla Messa e offrendo un onorario. Questa collaborazione è una fonte di merito.

– Noi soddisfiamo in pieno per la pena dovuta ai nostri peccati.

– Versando l’offerta della Messa, ci priviamo attualmente da noi stessi e compiamo un atto di rinuncia che spesso è molto meritorio.

– Siamo sicuri che le Messe che facciamo dire vengano celebrate.

IN PURGATORIO:

– La nostra collaborazione nell’offerta del Santo Sacrificio sarà limitata all’assistenza a distanza fornita dal pagamento di un onorario prima della nostra morte.

– Non possiamo più meritare.

– La Messa consegnerà i frutti della Passione a Dio che ce li distribuirà, tenendo conto delle esigenze dell’espiazione.

– Certamente è più vantaggioso e più prudente far celebrare delle messe per noi in vita.

– Priveremo i nostri eredi del denaro che avremo conservato fino alla fine. Saranno gli eredi a fare la mortificazione.

– Quando i nostri eredi eseguiranno le nostre ultime volontà e il nostro testamento?

14 — Il Nobis quoque peccatoribus

245—Perché il Sacerdote alza la voce nel dire: Nobis quoque peccatoribus

Il sacerdote alza la voce dicendo le prime parole del Nobis quoque peccatoribus per chiedere ai fedeli più attenzione e per invitarli a battere i loro pettS come fa lui stesso. Tutti, sacerdoti e assistenti, dopo aver chiesto a Dio il Paradiso per le anime del Purgatorio, chiederanno per loro lo stesso favore, pur riconoscendosi come poveri peccatori.

Preghiera:

Nobis quoque peccatóribus fámulis tuis, de multitúdine miseratiónum tuárum sperántibus, partem áliquam et societátem donáre dignéris, cum tuis sanctis Apóstolis et Martýribus: cum Ioánne, Stéphano, Matthía, Bárnaba, Ignátio, Alexándro, Marcellíno, Petro, Felicitáte, Perpétua, Agatha, Lúcia, Agnéte, Cæcília, Anastásia, et ómnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consórtium, non æstimátor mériti, sed véniæ, quaesumus, largítor admítte. Per Christum, Dóminum nostrum.

[E anche a noi peccatori servi tuoi, che speriamo nella moltitudine delle tue misericordie, dégnati di dare qualche parte e società coi tuoi santi Apostoli e Martiri: con Giovanni, Stefano, Mattia, Bárnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felícita, Perpetua, Ágata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia, e con tutti i tuoi Santi; nel cui consorzio ti preghiamo di accoglierci, non guardando al merito, ma elargendoci la tua grazia. Per Cristo nostro Signore.]

246 — Quali santi invoca il Nobis quoque peccatoribus?

I Santi Martiri i cui nomi sono menzionati in questa preghiera sono:

San Giovanni Battista.precursore di Nostro Signore.

S. Stefano, primo diacono e primo martire della Nuova Legge.

S. Mattia, l’Apostolo che rimpiazzò Giuda il traditore.

S. Barnaba, compagno d’apostolato di S. Paolo.

S. Ignazio di Antiochia, che fu esposto alle bestie nell’anfiteatro di Roma.

S. Alessandro, quinto Papa dopo S. Pietro.

S. Marcellino, prete e S. Pietro, esorcista, entrambi decapitati sotto Diocleziano.

Santa Félicita et santa Perpetua, martirizzata a Cartagine.

Santa Agata, invocata contri i danni del fuoco, martirizzata in Sicilia.

Santa Lucia, morta colpita da un colpo di spada alla gola.

Santa Agnese, il cui nome significa purezza, martire a 13 anni per conservare l’innocenza.

Santa Cecilia, vergine e martire romana.

« Essa è onorata come patrona della musica religiosa, perché, si dice, che ella stessa conoscesse quest’arte ed intendesse spesso melodie celesti. »

Santa Anastasia, vedova e martire, originaria di Roma.

15 — La conclusione del Canone

247Come termina il Canone?

Il Canone si conclude con una breve e precisa sintesi dell’efficacia della Santa Messa. Nella prima parte riconosciamo che l’Eucaristia ci viene preparata e donata da Dio per mezzo di Gesù Cristo; nella seconda parte riconosciamo che il Santo Sacrificio conferisce all’adorabile Trinità un onore e una gloria incomparabili.

Preghiera:

Per quem hæc ómnia, Dómine, semper bona creas, sancti ficas, viví ficas, bene dícis et præstas nobis. Per ip sum, et cum ip so, et in ip so, est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitáte Spíritus Sancti,  omnis honor, et glória. Per omnia saecula saecolorum.
R. Amen.

[Per mezzo del quale, o Signore, Tu crei sempre tutti questi beni li santi ✠ fichi, vivi ✠ fichi, bene ✠ dici e li procuri a noi.  – Per mezzo di ✠ Lui e con ✠ Lui e in ✠ Lui, viene a Te, Dio Padre ✠ onnipotente, nell’unità dello Spirito ✠ Santo ogni onore e gloria. Per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen].

248 — Si spieghi la prima parte di questa preghiera.

Il pane e il vino per la consacrazione eucaristica sono i primi frutti di tutta la creazione che essi rappresentano. Per mezzo di Cristo, il Padre li ha creati. In virtù delle parole consacratorie, queste oblazioni sono state santificate e trasformate in Corpo vivo e Sangue di Cristo. E questa Vittima eucaristica è anche un cibo divino che sarà fornito a coloro che, attraverso la Comunione, parteciperanno pienamente al sacrificio.

249 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo questa preghiera?

Alle parole “santificare, vivificare, benedire”, il Sacerdote fa ogni volta il segno della croce sul Calice e sull’Ostia. Questi tre segni sottolineano il significato delle parole: le parole hanno dato origine al gesto.

Ad ogni parola da Lui, con Lui, in Lui, il sacerdote fa con l’Ostia Santa sul Calice, da un bordo all’altro, il segno della croce. Nominando il Padre e lo Spirito Santo, fa il segno della croce con l’ostia tra il petto e il Calice. Alle parole “ogni onore e gloria”, tiene l’Ostia sopra il Calice e li solleva leggermente.

250 — Cosa indicano i tre segni di croce fatti con l’ostia al di sopra del calice?

Questi tre segni della croce e le parole che li accompagnano vogliono indicare che l’adorazione più alta che possiamo dare a Dio, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, viene dal Sacrificio cruento della croce rappresentato e rinnovato sui nostri altari in modo incruento. L’adorazione di tutte le creature può essere gradita al Padre solo attraverso Gesù Cristo, l’unico Mediatore.

La piccola elevazione dell’Ostia e del Calice in questo momento della Messa è il simbolo della gloria che sale ogni giorno dai nostri altari al cielo con la vittima salutare.

251— Perché i fedeli rispondono amen alla fine di questa cette preghiera?

I fedeli dicono amen alla fine di questa preghiera per sottolineare la loro adesione a tutto ciò che il Sacerdote ha fatto pregando in silenzio durante questa parte della Messa.

CAPITOLO VI

COMUNIONE

252 — Quale è la terza parte della Messa dei fedeli?

La Comunione è l’ultima delle tre parti principali della Messa dei fedeli ed è la conclusione della Messa.

L’Eucaristia è insieme Sacramento e Sacrificio, ed è soprattutto partecipando alla vittima che si partecipa ai frutti della sua immolazione. Questa parte della Messa inizia con il Pater; la Comunione ne è il punto centrale.

1 — Il Pater

253 — Cosa richiama l’introduzione al Pater?

L’introduzione al Padre Nostro ci ricorda che Nostro Signore stesso ci ha insegnato questa preghiera e ci ha ordinato di recitarla.

Preghiera:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutione formati audemus dicere:

[Preghiamo Esortati da salutari precetti e ammaestrati da un’istruzione divina, Osiamo dire: Padre nostro.– Pater noster: infatti, ci vuole tutta la sicurezza e l’audacia della nostra fede per chiamare Dio nostro Padre. Non è mai venuto in mente ad un pagano di chiamare Giove o Apollo “mio padre”. I nomi: Nostro Dio, Nostro Maestro, sembrerebbe più conforme alla nostra condizione di creature e a tutta la tradizione ebraica, ma « … il Verbo, è venuto sulla terra, a darci il potere di diventare figli di Dio; abbiamo ricevuto lo spirito dell’adozione dei bambini, per cui gridiamo: “Abba, Padre mio”, ed è questo spirito che testimonia al nostro spirito che siamo i figli di Dio ». (Rom. VIII, 15-16)]

254 — Perchè si dice Padre Nostro, e non Padre mio?

Noi diciamo Padre Nostro e non Padre mio, perché Dio è il Creatore o il Padre di tutti gli uomini e quindi noi [battezzati] siamo tutti figli della stessa famiglia.

255 — Perché nostro Signore ha aggiunto: che siete nei cieli?

Nostro Signore ha aggiunto « che è nei cieli » per elevare i nostri cuori al cielo dove Dio regna nella sua gloria e dove speriamo di possederlo un giorno.

256 — In quanti parti si divide il Pater noster?

Il Pater è diviso in due parti: nella prima chiediamo a Dio tutto ciò che possa contribuire alla sua gloria; nella seconda, ciò di cui abbiamo bisogno noi per la vita dell’anima e del corpo.

Perché la vera carità ci fa amare Dio più di noi stessi, prima di chiedergli il pane del nostro corpo e la salvezza delle nostre anime, dobbiamo preoccuparci, da buoni figli, degli interessi del Padre Nostro: « servi Dio per primo », ripeteva santa Giovanna d’Arco.

257 — I fedeli devono recitare il Pater con il Sacerdote?

Seguendo la rubrica, il sacerdote recita il Pater a voce abbastanza alta perché i fedeli lo ascoltino e si associno ad esso nel pensiero: la parola oremus, preghiamo, posta all’inizio dell’introduzione, invita i fedeli a pregare con il Sacerdote.

La settima richiesta del Padre Nostro è formulata dal servente a nome dei fedeli. Il sacerdote risponde: Amen. Questo Amen ha un significato particolare: è come la risposta di Dio, che fa sapere che i desideri del popolo sono accettati e esauditi.

258 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo il Pater?

Iniziando l’introduzione al Pater, il Sacerdote unisce le mani in umiltà e le alza in atteggiamento di preghiera. Dicendo il Pater egli stesso, tiene le braccia tese: questo è l’atteggiamento della preghiera,

2 — Il Libera nos

259 — Cosa fa il Sacerdote cominciando il Libera nos?

Iniziando il “Libera nos”, il Sacerdote toglie da sotto il corporale la patena sulla quale vi aveva posto l’Offertorio; la pulisce con il purificatoio, poi, prendendola tra il dito indice e il medio, per non separare il pollice e l’indice che hanno toccato l’Ostia sacra, fa con essa un segno della croce su di sé nel momento in cui dice: dateci la vostra pace, e, dopo averla baciata, la pone sul caporale.

Preghiera;

« Líbera nos, quæsumus, Dómine, ab ómnibus malis, prætéritis, præséntibus et futúris: et intercedénte beáta et gloriósa semper Vírgine Dei Genetríce María, cum beátis Apóstolis tuis Petro et Paulo, atque Andréa, et ómnibus Sanctis, da propítius pacem in diébus nostris: ut, ope misericórdiæ tuæ adiúti, et a peccáto simus semper líberi et ab omni perturbatióne secúri. Per eúndem Dóminum nostrum Iesum Christum, Fílium tuum. – Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus.
V. Per omnia sæcula sæculorum. R. Amen. »

[Liberaci, te ne preghiamo, o Signore, da tutti i mali passati, presenti e futuri: e per intercessione della beata e gloriosa sempre Vergine Maria, Madre di Dio, e dei tuoi beati Apostoli Pietro e Paolo, e Andrea, e di tutti i Santi concedi benigno la pace nei nostri giorni: affinché, sostenuti dalla tua misericordia, noi siamo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento. Per il medesimo Gesù Cristo nostro Signore, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo
V. Per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

260 — Si spieghi il segno della croce con la patena.

Il sacerdote fa il segno della croce con la patena nel momento in cui dice di darci la pace per ottolineare che attraverso la croce viene la pace.

Il sacerdote bacia la patena prima di posarla sul caporale per rispetto a questo sacro vaso dove riposerà Gesù Cristo. Questo bacio simboleggia l’unione con Cristo che è la nostra pace. Essa segna anche l’unione di tutti i fedeli in Cristo.

261 —Di quali mali domandiamo di esser liberati da questa preghiera?

Chiediamo di essere liberati da ogni male, dal peccato, che è il male più grande, e dalle sue conseguenze, dai mali presenti, passati e futuri: dai mali presenti (cioè dai peccati) che agitano le passioni; dai peccati passati a causa delle loro pene non espiate e delle funeste impressioni che hanno lasciato nella nostra immaginazione e nei nostri sensi; dai peccati futuri, cioè da tutto ciò che potrebbe compromettere la nostra salvezza.

3 — La frazione del pane

262 — Quale rubrica osserva il Sacerdote alla frazione del pane?

Mentre pronuncia le ultime parole della preghiera Libera nos, il Sacerdote fa scorrere la patena sotto l’Ostia, poi scopre il Calice e fa una genuflessione per adorare il Sangue divino. Egli rompe l’Ostia Sacra sopra il Calice, in modo che i frammenti che ne cadono possano mescolarsi al prezioso Sangue: Prima divide l’ostia santa in direzione dell’altezza in due parti uguali, di cui colloca quella destra sulla patena; poi stacca in fondo all’altra metà un piccolo pezzo triangolare che tiene nella mano di destra, mentre depone la parte principale sulla patena; dicendo CHE LA PACE + DEL SIGNORE + SIA SEMPRE + CON TE, fa con il pezzo di Ostia, che ha tenuto tra le dita, tre segni di croce da un bordo all’altro del Calice, e i fedeli, attraverso la bocca del servo, rispondono e CON IL TUO SPIRITO. Infine lascia cadere questo frammento nel Calice dicendo a bassa voce:

« Hæc commíxtio, et consecrátio Córporis et Sánguinis Dómini nostri Jesu Christi, fiat accipiéntibus nobis in vitam ætérnam. Amen. »

[Questa mescolanza e consacrazione del Corpo e del Sangue di nostro Signore Gesú Cristo giovi per la vita eterna a noi che la riceviamo. Amen.]

263 — Cosa ricorda la frazione del pane?

La frazione dell’ostia ci ricorda che Nostro Signore, nell’Ultima Cena, spezzò il pane prima di distribuirlo agli Apostoli. I discepoli di Emmaus riconobbero il Maestro allo spezzare il pane. Nei primi tempi della Chiesa, la celebrazione del Santo Sacrificio e della comunione era chiamata la frazione del pane.

La frazione dell’ostia in tre parti ci ricorda che in passato il pane consacrato era diviso in questo modo: Il Sacerdote di comunicava egli stesso con la prima; i diaconi rompevano la seconda e la distribuivano agli assistenti o la portavano ai malati; la terza, che il celebrante attualmente mette nel calice, veniva sia conservata per essere mescolata al prezioso Sangue alla Messa dell’indomani, sia inviata dal Vescovo ai sacerdoti che celebrano in altre chiese, per essere posto nel calice, affermando così l’unità e la continuità del Sacrificio Eucaristico.

264 — Cosa simbolizza la frazione dell’Ostia?

La frazione dell’Ostia simboleggia la morte violenta di Gesù Cristo sulla croce; essa ricorda le sue ferite e le lacerazioni prodotte dalla separazione dell’anima dal corpo (S. Th., q. 77, a. 7). Cristo vi si mostra come un agnello schiacciato a causa dei nostri crimini (Isaia, LIII, 5).

Le tre parti rappresentano sia le tre Persone della Santissima Trinità, sia la vita, la morte e la gloria del Salvatore, sia la Chiesa militante, la Chiesa sofferente e la Chiesa trionfante.

265 — Perché il Sacerdote mette una particella dell’ostia nel prezioso Sangue?

La consacrazione separata del pane e del vino e la frazione dell’Ostia in più parti rappresentano la passione e la morte di Nostro Signore. La commistione di un pezzo dell’Ostia nel calice rappresenta l’unione del Suo Corpo e del Suo Sangue al momento della risurrezione.

4 — L’Agnus Dei

266 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo l’Agnus Dei?

Dopo aver coperto il calice con la palla, il Sacerdote si genuflette, unisce le mani e, inchinandosi profondamente, si batte il petto per tre volte, dicendo:

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

[Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona noi la pace.]

Alla Messa dei defunti, le ultime parole delle tre invocazioni sono sostituite da: date loro riposo, e alla terza si aggiunge la parola eterna. E il prete non si batte il petto.

267 — Da dove viene a Gesù il Nome Agnello di Dio?

Isaia ci presenta il Messia come un agnello che soffre volontariamente e senza lamentarsi. Sotto questo nome fu promesso e raffigurato nell’Antica Alleanza, e sotto questo simbolo fu mostrato da San Giovanni Battista e lodato dagli Apostoli nel Nuovo Testamento.

La Chiesa ha sempre amato rappresentare il Salvatore nei tratti del Buon Pastore e nella figura dell’Agnello. Conclude quasi tutte le sue litanie con una solenne invocazione all’Agnello di Dio, chiedendogli di perdonarci, di ascoltarci, di avere pietà di noi.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/24/tutta-la-messa-la-vera-unica-cattolica-romana-momento-per-momento-10/

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (8)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (8)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

9 — La Consacrazione

214 — Qual è la formula della Consacrazione?

Le parole della Consacrazione si enunciano come segue:

« Qui prídie quam paterétur, accépit panem in sanctas ac venerábiles manus suas, elevátis óculis in coelum ad te Deum, Patrem suum omnipoténtem, tibi grátias agens, bene dixit, fregit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et manducáte ex hoc omnes. HOC EST ENIM CORPUS MEUM.

Símili modo postquam cœnátum est, accípiens et hunc præclárum Cálicem in sanctas ac venerábiles manus suas: item tibi grátias agens, bene dixit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et bíbite ex eo omnes.
HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI, NOVI ET AETERNI TESTAMENTI: MYSTERIUM FIDEI: QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM.

Hæc quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis»

[Il Il quale nella vigilia della Passione preso del pane nelle sue sante e venerabili mani, alzati gli occhi al cielo, a Te Dio Padre suo onnipotente rendendoti grazie, lo bene ✠ disse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete e mangiatene tutti: QUESTO È IL MIO CORPO.

Nello stesso modo, dopo aver cenato, preso nelle sue sante e venerabili mani anche questo glorioso calice: di nuovo rendendoti grazie, lo bene ✠ disse, e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete e bevetene tutti:

QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE, DELLA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA: MISTERO DI FEDE: IL QUALE PER VOI E PER MOLTI SARÀ SPARSO IN REMISSIONE DEI PECCATI.

Ogni qual volta farete questo, lo fate in memoria di me.]

215 — Quando Gesù-Cristo ha instituito la santa Eucarestia?

Gesù Cristo ha istituito la Santa Eucaristia nell’Ultima Cena, il Giovedì Santo, alla vigilia della sua morte.

Tre evangelisti, San Matteo, Santa Marco, San Luca e l’apostolo San Paolo ci hanno trasmesso la recita dell’istituzione della Santa Eucaristia. (S. Matteo, cap. XXVI; S. Marco, cap. XIV; S. Luca, cap. XXII; I Cor., cap. XI).

216 — Cosa fece Nostro Signore nell’istituire la santa Eucarestia?

Nell’istituire la Santa Eucaristia, Nostro Signore prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi Apostoli, dicendo: Questo è il mio corpo. Poi prese il calice di vino, lo benedisse e lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti. Questo è il mio sangue che sarà sparso per la remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.

Confrontando la formula liturgica per la consacrazione del pane e del vino con il testo degli Evangelisti e quello di San Paolo, è facile riconoscere, fuso in un testo che ha una fisionomia propria, i tratti che presi in prestito dalla Sacra Scrittura e i tratti che attingono dalla Tradizione. Le aggiunte al testo sacro – nelle sue mani sante e venerabili e … avendo alzato gli occhi verso di te, Dio, suo Padre Onnipotente; – l’eterna alleanza; – il mistero della fede – provengono dalla tradizione apostolica e sono indubbiamente autentiche e certe come le parole della Sacra Scrittura (S. Tommaso, III, Q. 78, a. 3, ad 9). Questa formula ci dice cosa abbia fatto Nostro Signore nell’Ultima Cena e cosa i sacerdoti debbano continuare nel suo Nome ed in sua memoria fino alla fine dei secoli.

217 — Si commenti lo sguardo di Nostro Signore verso il Padre.

Lo sguardo di Nostro-Signore verso il Padre è un gesto spontaneo di preghiera. Gli evangelisti ci dicono che al momento della risurrezione di Lazzaro « Gesù, alzando gli occhi, disse: Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato » (Giovanni, XI, 41) e che alla moltiplicazione dei pani nel deserto, « alzando gli occhi al cielo, Gesù disse la benedizione e spezzò i pani » (Marco, VI, 41). Chi potrebbe dubitare che Gesù abbia alzato gli occhi al Padre nel momento in cui si compì pienamente la moltiplicazione figurativa del pane materiale, nell’offerta del suo corpo e del suo sangue al Padre prima di presentarli ai suoi discepoli come cibo e bevanda?

218 — Si spieghi l’espressione “Nuova ed eterna alleanza

È nel quadro pasquale dell’Antica Alleanza che Nostro Signore nell’Ultima Cena dichiara la concludere la Nuova Alleanza, che è anche eterna. Ai piedi del Sinai,  l’antica alleanza fu conclusa con il sangue degli animali; ma allora le promesse erano puramente terrene e dovevano durare solo per un certo tempo. Con il sangue di Nostro Signore è stata stabilita una nuova alleanza tra Dio e gli uomini: è nuova perché la realtà che essa costituisce soppianta l’antica figura, ormai vecchia; è eterna perché i beni terreni e passeggeri dell’alleanza del Sinai lasciano il posto alle meraviglie celesti ed eterne della Nuova Alleanza, che durerà fino alla fine dei tempi.

219 — Donde viene l’espressione “Mistero di fede”?

In passato, quando il Vescovo pronunciava le parole di Nostro Signore sul calice, il diacono annunciava nel silenzio dell’assemblea, invitando i fedeli all’adorazione: Mysterium fidei, mistero della fede. I sacerdoti, cominciando a dire la Messa senza diacono, hanno pronunciato essi stessi queste parole, che sono entrate, tra parentesi, nel testo della Consacrazione.

Questa espressione è registrata nei più antichi sacramentari; sembra avere origine in Gallia ed è presa in prestito da San Paolo che insegna che « i diaconi conservano il mistero della fede in una coscienza pura » (1Tim., III, 9). Molti esegeti interpretano questa espressione della Santa Eucaristia, che è appunto il mistero della fede per eccellenza. San Tommaso, nel suo Adoro te, lo afferma con semplicità e profondità:

Visus, tactus, gustus in te fallitur, Sed auditu solo tuto creditur. Credo quidquid dixit Dei Filius: Nil hoc verbo Veritatis verius. In cruce latebat sola Deitas, At hic latet simul et humanitas …

[La vista, il tatto e il gusto si ingannano su di te.

È solo attraverso l’ascolto che si esercita la fede nella sicurezza.

Credo a tutto ciò che ha detto il Figlio di Dio.

Nulla è più vero della parola della Verità:

Sulla croce si nascondeva la sola divinità.

Ma qui anche l’umanità è nascosta.]

220 — Cosa successe quando Nostro Signore disse: Questi è il mio corpo; questo è il mio sangue?

Quando Nostro Signore ebbe detto: “Questo è il mio corpo”, la sostanza del pane è stata trasformata nella sostanza del suo corpo; e quando disse: “Questo è il mio sangue”, la sostanza del vino è stata trasformata nella sostanza del suo sangue.

Istituendo la santa Eucaristia, Gesù Cristo disse: Questo è il mio corpo, QUESTO, cioè ciò che vi presento, QUESTO è il mio corpo. Se, in virtù di queste divine parole, non si fosse verificato un cambiamento di sostanza, ma solo un’unione di due sostanze, Gesù Cristo si sarebbe espresso falsamente e avrebbe indotto in errore i Suoi Apostoli. In questo caso avrebbe dovuto dire, e certamente avrebbe detto: Questo è il mio corpo e il mio pane tutti insieme. Ma poiché Egli disse semplicemente ed espressamente: Questo è il mio corpo, dobbiamo credere che ciò che Egli presentava ai suoi Apostoli, che all’inizio era stato pane, fosse diventato il suo stesso corpo, con un cambiamento di sostanza.

221 — Gesù Cristo è tutto intero sotto le specie del pane e tutto intero sotto le specie del vino?

Sì, Gesù Cristo è tutto intero sotto la specie del pane e tutto intero sotto la specie del vino; è tutto intero anche sotto ogni parte dell’una o dell’altra specie.

In Gesù glorioso, il corpo, il sangue, l’anima e la divinità non possono essere separati. Perciò, quando la sostanza del pane si trasforma nella sostanza del corpo di Cristo, in virtù delle parole “QUESTO È IL MIO CORPO”, il sangue, l’anima e la divinità di Cristo diventano presenti contemporaneamente sotto la specie del pane. Allo stesso modo, quando la sostanza del vino si trasforma nella sostanza del sangue di Gesù Cristo, in virtù delle parole QUESTO È IL MIO Sangue, anche il corpo, l’anima e la divinità di Gesù Cristo si trovano sotto le specie del vino. Questo è l’insegnamento del Concilio di Trento.

Secondo il racconto degli Evangelisti, Nostro Signore ha dato il suo corpo e il suo sangue agli Apostoli, dicendo loro: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, prendete e bevete, questo è il mio sangue. » Ora nonc’è stata che una sola consacrazione del pane e una sola consacrazione del vino. Ma gli Apostoli, dividendo tra loro questo pane consacrato e questo vino consacrato, ricevettero ciascuno Gesù Cristo intero. È quindi necessario che la condivisione delle specie sacramentali non porti alla divisione di Gesù Cristo, altrimenti gli Apostoli avrebbero avuto ciascuno solo un frammento del loro divino Maestro.

222 — Il cambiamento del pane e del vino nel corpo e sangue di Gesù Cristo continua a farsi nella  Chiesa?

Sì, il cambiamento dal pane e dal vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo continua ad avvenire nella Chiesa, sui nostri altari, attraverso Gesù Cristo che usa il ministero dei suoi Sacerdoti. – Gesù Cristo ha dato ai suoi Sacerdoti il potere di cambiare il pane ed il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue quando disse ai suoi Apostoli: « Fate questo in memoria di me ». Fate questo, cioè tutto ciò che è stato fatto prima, tutto ciò che Cristo ha fatto e detto, riti e parole; … in ricordo di me, cioè in ricordo della mia morte, perché Nostro Signore sottolinea nell’Ultima Cena che il suo corpo sarà dato offerto, che il suo sangue sarà versato per molti per la remissione dei peccati. – Con queste parole Nostro Signore ha istituito il Sacerdozio e il santo Sacrificio della Messa. Ai Sacerdoti, e solo ai Sacerdoti, Nostro Signore ha conferito il potere di celebrare la Messa. È una verità di fede definita dai Concili. – In tempi di persecuzione, ai confessori della fede, ai semplici fedeli, era permesso di portare con sé l’Eucaristia, di conservarla, per fortificarsi con essa, prima di comparire davanti ai giudici e disporsi, con questo cibo divino, a sacrificare generosamente la propria vita a testimonianza della propria fede. Sarebbe stato loro affidato questo prezioso deposito se avessero avuto il potere di consacrare? Se è stata loro affidata, è perché, vedendo raramente i Sacerdoti, non avrebbero potuto altrimenti avere la felicità di ricevere la Santa Eucaristia.

223 — Come è reppresentata nella messa la morte di Gesù Cristo sulla croce?

La morte di Gesù Cristo sulla croce è rappresentata nella Messa dal corpo del Salvatore sotto la specie del pane e il suo sangue sotto la specie del vino.

La morte di Nostro Signore non può essere rinnovata nella Messa, perché Cristo risorto non muore più.

La separazione materiale del Corpo dal Sangue di Nostro Signore, attraverso lo spargimento materiale di questo sangue, esprime l’immolazione. E questa immolazione liberamente accettata e offerta a Dio diventa un’oblazione. Ora, all’altare, Nostro Signore, con la stesso potere del Calvario, offre il suo Sacrificio a Dio suo Padre, il suo Corpo e il suo Sangue, separati sacramentalmente e misticamente dalla consacrazione del pane e del vino. All’altare, come sul Calvario, si trovano i due elementi di tutta l’immolazione vera e propria: la vittima immolata e la sua oblazione.

224 — Si mostri come l’atto della Consacrazione sia la riproduzione dell’ultima Cena.

Nel Cenacolo, Gesù Cristo era l’unico Sacerdote. All’altare, Egli è il Sacerdote capo, ma Egli si immola attraverso il ministero del suo sacerdote. Per questo il Sacerdote riproduce, il più fedelmente possibile, le parole e le azioni di Gesù Cristo.

Nel Cenacolo, Gesù prese il pane (nelle sue mani) e, (avendo alzato gli occhi al cielo):  avendo reso grazie, lo benedisse, lo spezzò, e lo distribuì dicendo: Questo è il mio corpo”.

Allo stesso modo, dopo la Cena … prendendo questo prezioso calice… e ringraziando parimenti grazie, lo benedisse e lo diede ai suoi discepoli, dicendo:

Prendetene e bevetene tutti, perché questo è il calice del mio sangue…..

All’altare, il sacerdote prende l’ostia tra le mani e alza gli occhi alla croce dell’altare, fa un cenno con la testa e fa il segno della croce sull’ostia (farà la frazione e la distribuzione delle specie sante alla Comunione), e dice: « Questo è il mio corpo ».

Prende poi il calice e chinato il capo, benedice il vino contenuto nel calice (l’usanza di comunicare dei fedeli sotto le due specie si conserva solo nelle chiese di rito orientale), e dice le stesse parole.

225— Si spieghi il rito dell’elevazione.

Subito dopo aver pronunciato le parole della Consacrazione, il sacerdote solleva rispettosamente prima l’ostia, poi il calice, per offrire ai fedeli il Corpo e il Sangue di Nostro Signore in adorazione.

I fedeli inginocchiati devono:

a) chinare il capo profondamente ad ogni genuflessione del sacerdote;

b) alzare la testa per guardare e adorare l’Ostia e il Calice ad ogni elevazione.

Il 12 giugno 1907, Pio X concesse un’indulgenza di 7 anni a tutti coloro che, durante l’elevazione, avessero guardato all’Ostia Santa con fede, pietà e amore e avessero detto: Mio Signore e mio Dio.

226 — Cosa si sa dello scampanellio all’elevazione?

La campana della chiesa dovrebbe essere suonata all’elevazione durante le Messe alte per ricordare ai fedeli, trattenuti a casa dalla malattia o dalle loro occupazioni, che Cristo scende sull’altare, e per invitarli a unirsi all’intenzione con il Sacerdote, che offre al Padre la Vittima divina.

All’interno della chiesa, l’accolito suona la campanella tre volte all’elavazione dell’ostia e tre volte all’elevazione del Calice, anche se la Messa viene celebrata in un oratorio privato.

L’uso di una campanella all’interno della chiesa fu stabilito verso la fine del XII secolo. Il suono della campanellaa, al Sanctus, all’Elevazione e alla Comunione, annuncia i momenti principali della Messa ai presenti e li invita ad un maggiore raccoglimento e fervore.

10 — L’Unde et memores

227 — Qali misteri ricorda la preghiera: “Unde et memores”?

Nostro Signore non solo aveva detto “fate questo”, ma aveva specificato “in memoria di me”. Così la Chiesa, appena fatta la consacrazione, riprende: “Noi ricordiamo – da qui il nome di memoria applicato a questa preghiera – ed enuncia i misteri della Redenzione: la passione, la risurrezione e l’ascensione, che si devono ricordare per ordine di Nostro Signore.

Preghiera:

Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, eiusdem Christi Fílii tui, Dómini nostri, tam beátæ passiónis, nec non et ab ínferis resurrectiónis, sed et in cœlos gloriósæ ascensiónis: offérimus præcláræ maiestáti tuæ de tuis donis ac datis, hóstiam puram, hóstiam sanctam, hóstiam immaculátam, Panem sanctum vitæ ætérnæ, et Calicem salútis perpétuæ.

[Onde anche noi tuoi servi, o Signore, come pure il tuo santo popolo, ricordando la beata Passione del medesimo Cristo tuo Figlio, nostro Signore, e certo anche la sua Risurrezione dagli inferi e la sua gloriosa Ascensione in cielo: offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose che ci hai donate e date l’Ostia ✠ pura, l’Ostia ✠ santa, l’Ostia ✠ immacolata, il Pane ✠ santo della vita eterna e il Calice ✠ della perpetua salvezza.]

228—Si spieghi l’espressione “come pure il tuo popolo santo”

Il Battesimo imprime all’anima un carattere indelebile e la infonde una grazia santificante: ecco perché normalmente un Cristiano è un santo. Ecco perché San Paolo chiama i battezzati dei santi e Sant’Agostino si rivolge alla comunità cristiana chiamandola vostra santità. La Chiesa mette la stessa espressione sulle labbra del Sacerdote durante la Messa: noi tuoi servi, e con noi il tuo popolo santo, offriamo …

Non c’è dubbio che i fedeli non sono mediatori tra Dio e gli uomini; non sono deputati da Dio in modo speciale per offrire il santo Sacrificio; ma poiché sono battezzati, appartengono a Cristo e partecipano in modo misterioso ma reale al suo sacerdozio: sono un popolo santo, un Sacerdozio regale.

229—Si spieghi l’espressione “Noi offriamo a vostra Maestà delle cose donate e date”.

I Sacerdoti sono sia ministri di Gesù Cristo che ministri della Chiesa. Come ministri della Chiesa, essi procedono alla maniera dei Sacerdoti dell’Antica Legge: ricevono dai fedeli la materia da offrire alla divina Maestà, come Melchisedec e come Cristo stesso, il pane di grano e il vino della vite, che sono prodotti della terra. Li offrono prima di tutto come beni ricevuti dal Creatore a gloria del Padre, Autore di ogni dono perfetto. Ma offrono queste sostanze come destinate a far posto al Corpo e al Sangue di Cristo, che la consacrazione metterà nelle mani della Chiesa come un dono perfetto, un’Ostia santa, un’Ostia senza macchia, il Calice della salvezza eterna da offrire alla gloria del Padre.

230 — Perché il Sacerdote traccia cinque segni di croce alla fine di questa preghiera?

Secondo il Messale, il Sacerdote fa tre segni della croce sopra il Calice e l’Ostia, uno sopra l’Ostia da sola e uno sopra il Calice.

Questi cinque Segni della Croce dopo la Consacrazione corrispondono ai cinque Segni della Croce del Quam oblationem. Il Sacerdote – dice San Tommaso – dopo la consacrazione, non si serve più del segno della croce per benedire e consacrare, ma solo per ricordare la virtù della croce e il modo in cui si è compiuta la Passione di Cristo. (III, q. 83 a. 5 ad 4).

11 — Il Supra quæ

231 — Perché la Chiesa fa menzione dei sacrifici antichi alla Messa?

L’orazione Supra quæ parla dei sacrifici di Abele, di Abramo e di Melchisédech. La Chiesa ne fa menzione perché essi annunciano e rappresentano, meglio di tutti gli altri, il Sacrificio del Calvario ed il Sacrificio della Cena.

Preghiera:

Supra quæ propítio ac seréno vultu respícere dignéris: et accépta habére, sicúti accépta habére dignátus es múnera púeri tui iusti Abel, et sacrifícium Patriárchæ nostri Abrahæ: et quod tibi óbtulit summus sacérdos tuus Melchísedech, sanctum sacrifícium, immaculátam hóstiam.

[Su questi doni, con propizio e sereno volto, dégnati di guardare e di gradirli, come ti degnasti gradire i doni del tuo giusto servo Abele e il sacrificio del nostro Patriarca Abramo e quello che ti offrì il tuo sommo sacerdote Melchisedech, santo sacrificio, immacolata ostia.]

232 — Come i sacrifici antichi figurano il sacrificio di Gesù-Cristo?

Abele offrì agnelli a Dio, i primi frutti delle sue greggi e figura dell’Agnello di Dio, il primogenito del Padre. Come l’innocente, Abele fu messo a morte per mano di suo fratello, l’innocente Gesù veniva sacrificato dall’invidia degli ebrei, suoi fratelli.

Abramo che si prepara a sacrificare suo figlio Isacco è l’immagine di Dio Padre che consegna alla morte il suo unico Figlio. Melchisedek offrì pane e vino.

Un mosaico della metà del VI secolo perpetua il ricordo di queste tre oblazioni figurative: al centro, di fronte a un tavolo coperto da una tovaglia bianca, appare Melchisedek che tiene in mano il pane, e sul tavolo stesso un calice d’oro e due Pani eucaristici; a sinistra, Abele offre il suo agnello; a destra, Abramo conduce Isacco all’immolazione.

Il sacrificio di Abramo è molto spesso riprodotto nelle catacombe, insieme ad altri eventi biblici che rappresentano il sacerdozio e il sacrificio della nuova Alleanza, come emblema dell’Eucaristia.

12 — Il Supplices

233 — Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando il “Supplices”?

Non appena il sacerdote inizia questa preghiera, si inchina profondamente e appoggia le sue mani unite contro l’altare. Questi gesti segnano l’atteggiamento di un supplicante. Il Sacerdote si appoggia sull’altare, figura di Gesù Cristo, per sottolineare che tutto ciò che fa, lo fa con Gesù Cristo, al quale si appoggia.

Preghiera:

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: iube hæc perférri per manus sancti Angeli tui in sublíme altáre tuum, in conspéctu divínæ maiestátis tuæ: ut, quotquot ex hac altáris participatióne sacrosánctum Fílii tui Cor pus, et Sán guinem sumpsérimus, omni benedictióne coelésti et grátia repleámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Supplici ti preghiamo, o Dio onnipotente: comanda che questi doni, per le mani dell’Angelo tuo santo, vengano portati sul tuo sublime altare, al cospetto della tua divina maestà, affinché quanti, partecipando a questo altare, riceveremo il sacrosanto Cor ✠ po e San ✠ gue del Figlio tuo, veniamo ricolmi d’ogni celeste benedizione e grazia. Per lo stesso Cristo nostro Signore. Amen.]

234 — Qual è questo sublime altare ove sono portate le nostre preghiere?

Questo sublime altare ove sono portate le nostre preghiere, è Dio stesso, quando riceve e accetta il Sacrificio del Calvario e quello della Messa riprodotto nel ricordarlo.

235 — Quale offerta l’Angelo del Signore porta sull’altare sublime?

Poiché il sacrificio consiste non solo in un’ostia offerta, ma anche nell’oblazione di questa ostia (vittima), il rito consacratorio rende presente non solo il corpo e il sangue immolati sulla croce da Cristo, ma anche l’oblazione, l’atto oblatorio con cui Egli li offriva alla gloria di suo Padre per la salvezza del mondo. Poiché, d’altra parte, Cristo come uomo rimane permanentemente in cielo, non chiediamo nei Supplices che l’Angelo del Signore porti il suo corpo e il suo sangue sul sublime altare del cielo, ma piuttosto l’atto rituale (liturgico), l’oblazione che ne facciamo sul nostro altare terreno attraverso la nostra preghiera.

236 — Qual è questo Angelo che porta le nostre offerte sull’altare sublime?

L’angelo che porta le nostre offerte sul sublime altare del cielo è l’Angelo della preghiera, l’Angelo incaricato da Dio di presentare le nostre preghiere e i nostri sacrifici davanti al suo trono. È ragionevole credere che questa funzione sia assolta o dall’Angelo protettore della chiesa e dell’altare dove si celebra la Messa, o dall’angelo custode del sacerdote, o da San Michele, onorato come difensore dell’Eucaristia e della Chiesa militante.

Questa preghiera è ispirata da un passo dell’Apocalisse: « E venne un altro Angelo, e  stava vicino all’altare con un incensiere dorato nella sua mano, e gli fu dato molto incenso, affinché offrisse le preghiere di tutti i Santi sull’altare dorato che è davanti al trono » (Apoc., VIII, 3).

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TRADIZIONE DIVINA E SANTA SCRITTURA

Istruzione sulla Tradizione divina e sulla Santa Scrittura.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, Tip. Calas. da A. Ferroni – 1869).

La tradizione divina è la parola di Dio non scritta ma uscita dalla bocca stessa di Gesù Cristo, o rivelata agli Apostoli dallo Spirito Santo, e comunicata dagli stessi Apostoli ai primi Fedeli, che l’hanno trasmessa si loro successori, da cui noi successivamente e come di mano in mano l’abbiamo ricevuta. Quando si dice che la tradizione è la parola di Dio non scritta, s’intende dire che non è stata scritta subito dagli autori sacri, come i libri canonici dei due Testamenti, quantunque sia stata scritta in séguito o dai Concili, o nelle opere de’ santi Padri e degli altri autori ecclesiastici, o nei decreti dei Sommi Pontefici etc. La tradizione divina è assolutamente necessaria: la sua necessità e la sua autorità sono fondate sulla Scrittura e sui Padri. La santa Scrittura è la parola di Dio scritta sotto la ispirazione di Lui: non si dice santa precisamente perché mira a Dio, né perché è stata scritta col soccorso e con l’assistenza di Dio, ma perché ha Dio per autore, che 1’ha ispirata e dettata ai sacri scrittori. La Scrittura si divide in Antico e Nuovo Testamento : l’antico Testamento contiene i libri santi scritti avanti Gesù Cristo, che sono in numero di quarantacinque. Il nuovo Testamento contiene i libri che riguardano la legge evangelica, e sono stati scritti da Gesù Cristo in poi: sono ventisette. Si chiama la Scrittura Testamento, perché racchiude l’alleanza che Dio ha fatta con gli uomini, e la sua ultima volontà, con la quale lascia loro i suoi beni, come avviene nei testamenti che si fanno tra gli uomini. – Ecco l’ordine e il catalogo dei libri della Scrittura, secondo il decreto del Concilio di Trento, Sess. IV. cap. I. – I libri dell’antico Testamento sono la Genesi, l’Esodo, il Levitico, i Numeri, il Deuteronomio, Giosuè, i Giudici, Ruth, i quattro libri dei Re, i due libri dei Paralipomeni. i due libri d’Esdra, Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, i Salmi, i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia, Baruch, Ezechiele, Daniele, i dodici Profeti minori, cioè: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due libri dei Maccabei.

I libri del Nuovo Testamento sono: il Vangelo di s. Matteo, il Vangelo di s. Marco, il Vangelo di s. Luca, il Vangelo di s. Giovanni, gli Atti degli Apostoli, le quattordici Lettere di s. Paolo: una ai Romani, due ai Corinti, una ai Galati, una agli Efesini, una ai Filippesi, una ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, una a Tito, una a Filemone, una agli Ebrei; le due Lettere di s. Pietro, le tre di s. Giovanni, una di s. Giacomo, una di s. Giuda, e l’Apocalisse di s. Giovanni.

Alla sola Chiesa appartiene di determinare infallibilmente il senso e i libri della Scrittura.

Della lettura della Bibbia in volgare.

(Dell’Abate Glaire)

La lettura della Bibbia in volgare è stata il tema di vive discussioni. Così i Protestanti e i Giansenisti hanno accusato la Chiesa Cattolica:

1.° di non leggere la santa Scrittura in volgare nella celebrazione della sua liturgia;

2° di non permettere generalmente a tutti i Fedeli di leggerla;

3.° di abusare della sua autorità col proibirne la lettura.

Ma non ci sembra difficile il difender la Chiesa su questi differenti appunti.

1.° Quando la religione cristiana si stabiliva, la sinagoga celebrava i suoi uffizi pubblici in ebraico, lingua che non era più l’usuale; e Gesù Cristo e gli Apostoli, che rimproverarono ai Giudei tante loro costumanze, non condannaron mai, per quanto si sa, quest’uso. Ora abbiam noi più ragione di condannarlo? Aggiungiamo, che se vi fosse un obbligo rigoroso per la Chiesa di leggere la Scrittura in volgare, gli Apostoli non avrebbero mancato di farla tradurre nella lingua di tutti i popoli che essi convertirono alla fede. Qual monumento istorico vi è, che comprovi un simil fatto? e qual critico oserebbe sostenerlo?

Vi sono ben altri motivi ancora che possono giustificare la Chiesa Cattolica. In primo luogo vi è la grande difficoltà del tradurre i libri liturgici, senza alterarne il senso, e senza porre in pericolo la forma dei sacramenti: cosa che può dare motivo ad errori ed eresie. In secondo luogo la diversità delle lingue usate negli uffizi pubblici, non nocerebbe alla comunicazione delle varie chiese della cristianità? Un prete italiano, per esempio, non potrebbe offrire il santo sacrifizio della Messa che nel suo Paese; poiché, secondo i principj dei nostri avversari, i semplici Fedeli debbono intender la lingua usata nel pubblico esercizio del culto religioso, e principalmente per questa ragione essi vogliono imporre alla Chiesa l’obbligo di leggere la Scrittura in volgare. In terzo luogo finalmente la maestà e la dignità dei nostri divini Misteri sono tali, che non si potrebbero senza abbassarli ed avvilirli volgere in certe lingue rozze ed imperfette.

2.° Ma almeno, dicono gli avversari, perché la Chiesa non ne permette la lettura senza distinzione a tutti i suoi figli? Perché ella sa, come insegna l’Apostolo s. Pietro, che vi sono nella santa Scrittura dei passi che gli uomini ignoranti e di fede non salda potrebbero intender male a danno della loro salute. Pensano inoltre i Padri, e molti lo hanno notato, che vi siano nella Scrittura molte cose, le quali invece di edificare certi lettori gli scandalizzerebbero. In fatti quanti giovani non sarebbero posti al pericolo di guastarsi, se loro si mettesse in mano l’intera raccolta dei nostri santi libri? Quanti Cristiani d’ogni età, se leggessero un libro ove incontrassero ad ogni pagina cose di cui non intendessero il senso, correrebbero rischio di far naufragio nella fede! Bisogna prima aver fatto uno studio particolare del linguaggio familiare agli scrittori sacri, per non cadere a ogni momento in qualche sbaglio. Quante cose a prima giunta urtano, e quando sono spiegate appariscono naturali, buone e lodevoli! Aggiungi che permessa una volta a tutti indistintamente la lettura della Bibbia, un gran numero di persone la leggerebbero senza fede, senza umiltà, senza purità d’intenzione, come confessano che avviene gli stessi Protestanti più dotti, e come l’esperienza d’ogni giorno dimostra chiaro: e allora essa diverrà senza dubbio una cagione di scandalo e di caduta. Che se i nostri avversari ci dicano ancora, che i santi Padri esortano tutte quante le persone a legger la Scrittura, risponderemo: « Dateci dei cristiani così istruiti, così docili e così sottomessi come eran quelli a cui son dirette le loro esortazioni, e noi terremo loro il medesimo linguaggio. »

3.° Queste avvertenze sono più che sufficienti per giustificare la Chiesa dalla terza accusa lanciatale contro, di abusar cioè della sua autorità vietando la lettura della Bibbia ai Fedeli: poiché, se si è dimostrato che ci è pericolo per una certa classe di persone a leggere la santa Scrittura, non si vede come potrebbe contrastarsi alla Chiesa il diritto di proibire in certe circostanze questa lettura. Se la sinagoga ha esercitata questa autorità vietando la lettura dei primi capitoli della Genesi, di Ezechiello e del Cantico de’ Cantici, alle persone che non erano arrivate a una certa età, perché negare il medesimo diritto ai pastori della Chiesa cristiana; mentre sta ad essi il proibire ai Fedeli a loro affidati ciò che può nuocere? Così ne hanno usato in più Concilj, senza che mai alcun cattolico gli abbia accusati di usurpazione (Concilio di Tolosa, 1229; terzo di Milano sotto s. Carlo Borromeo; Concilio di’ Cambrai, 1586; concilio di Trento).

Dopo testimonianze sì autorevoli, non fa meraviglia :he i più gravi autori e i più rinomati teologi, come gli addetti alla facoltà teologica di Parigi, Gersone, Alfonso di Castro, il Soto, il Catarina, i Cardinali Du Pirron e Bellarmino, il Fromont e l’Ertius, abbiano riconosciuto il diritto che la Chiesa ha di una tal proibizione. Ma non sarà cosa inutile il dimostrare la falsità del principio, su cui i nostri avversari fondano le loro accuse. Il principio sta nel considerare come cosa necessaria, o almeno sempre vantaggiosa a tutti i Fedeli, il leggere la santa Scrittura. Or nulla vi è di più falso. Primieramente, non si verrà mai a provare la necessità di questa lettura per i semplici fedeli; non essendovi nessun testo della Scrittura ove questa verità sia asserita, e dall’altra parte la tradizione prova il contrario. (V. Iren., adv. hæres. 1. III, c. IV.; Tertull., de Præscript, c. XIV.; Clem. Alex., Pedagog., 1. III, c. II; s. August., de Doct. Christ.).

Dopo tutto ciò e perché la lettura della Bibbia sarà assolutamente necessaria ai semplici Fedeli? forse per conoscere le verità della fede? ma non possono apprenderle nei Catechismi e nelle predicazioni dei loro Pastori? Forse per credere? ma la fede è il frutto della sommissione alle verità insegnate dalla Chiesa, e non dell’esame. O finalmente per santificare il giorno del Signore? Ma dopo l’assistenza al santo Sacrifizio, e alle istruzioni cristiane, a quante altre opere di pietà non ci possiamo applicare? In secondo luogo, la lettura della santa Scrittura non è sempre utile ai Fedeli. Abbiamo provato di sopra che potrebbe anche esser loro dannosa. Il principio da cui si partono i nostri avversari è dunque falso, e per conseguenza i capi d’accusa che ne deducono sono senza fondamento. Per riassumere adunque ciò che avevamo da dire in quest’ultimo articolo concernente la Bibbia, diciamo:

1.° Che le versioni in volgare non sono proibite in modo assoluto dalla Chiesa Universale;

2.° Che le Chiese particolari, le quali le hanno proibite, non lo hanno fatto assolutamente e per tutti i Fedeli, ma solamente per quelli a cui questa lettura potrebbe recar danno;

3.° Che queste versioni non sono state proibite se non per certe circostanze, talché se tali circostanze cessassero, queste Chiese cesserebbero di proibir l’uso di quelle versioni;

4.° Che sebbene non sia generalmente proibito di leggere le versioni della Scrittura in volgare, quando sono state approvate dai Vescovi, nondimeno vi è del pericolo per i semplici Fedeli a farne uso senza averne chiesto consiglio al proprio parroco o al Confessore.

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (7)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (7)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

3 — Canone della Messa

192 — Cosa significa la parola Canone.

Canone è una parola greca che significa regola, una cosa fissa; in questo senso, le decisioni dei Concili si chiamano canoni e il diritto canonico si chiama legislazione della Chiesa. Il nostro Messale inscrive in capo alle preghiere che seguono il Sanctus le parole Canone missæ, Canone della Messa. Questa iscrizione indica la regola che si segue per consacrare il pane e il vino.

193 — Donde provengono le preghiere del Canone della Messa?

Il Canone della Messa è composto « dalle parole stesse di Nostro Signore, dalle tradizioni degli Apostoli e dalle pie istituzioni dei santi Pontefici » (Trid. sess. XXII, cap. IV).

Mancano alcune testimonianze storiche per determinare esattamente e dettagliatamente ciò che, nel Canone, provenga dagli Apostoli e ciò che sia stato poi aggiunto dai Papi. Tuttavia, sappiamo con certezza che San Gregorio Magno (+604) è l’ultimo che abbia fatto alcune aggiunte.

194 — Quali nomi si sono dati al Canon?

Al Canone sono stati dati vari nomi:

Preghiera per eccellenza, perché chiede il “dono” supremo, Gesù Cristo.

L’unzione, il mistero dell’Azione Santissima, da un’espressione latina agere causam, perorare una causa, o semplicemente agere nel senso di sacrificare, perché il Sacerdote che si sacrificherà perorerà, nella persona di Cristo e davanti al Padre suo, la causa della sua Chiesa universale.

Secretum Missæ, il segreto della Messa, per il mistero che nasconde, e soprattutto perché un tempo veniva recitato a bassa voce.

Anafora, dal greco “oblazione” che significa oblazione che si eleva a Dio.

195 — Quali sono i limiti del Canone?

Oggi il Canone della Messa inizia dopo il Sanctus e termina prima del Pater.

196 — Perché il sacerdote recita le preghiere del Canone a voce bassa?

È certo che nell’antichità il Canone veniva cantato in modo che potesse essere ascoltato da coloro che si trovavano attorno all’altare. Tuttavia, già nel IX secolo, la recita del Canone a bassa voce è un fatto compiuto e per molto tempo la rubrica ha prescritto la recita silenziosa del Canone: « il Sacerdote inizia il Canone a bassa voce dicendo… ».

Diverse sono le ragioni che spiegano la regola stabilita: l’immolazione del corpo e del sangue di Gesù Cristo è un privilegio sacerdotale e il popolo non può in alcun modo partecipare al suo esercizio; questo sacro silenzio è adatto a significare e a richiamare l’incomprensibile profondità dell’augusto mistero dell’altare; questo silenzio favorisce il raccoglimento ed esprime l’umiltà e il rispetto con cui la Chiesa compie il terribile Sacrificio.

Le preoccupazioni pratiche hanno indubbiamente favorito la scelta della preghiera silenziosa. È certo che il canto integrale del Ringraziamento ha richiesto uno sforzo da parte del celebrante che è stato tanto più laborioso quanto più sono state incorporate in esso diverse formule, estranee al testo primitivo, come i due Memento, le liste dei Santi nel Communicantes e Nobis quoque peccatoribus e le altre. In queste condizioni, la recita completa del Canone a bassa voce ha notevolmente sollevato il celebrante dal compito materiale.

197 — Spiegate la presenza dell’immagine di Gesù crocifisso davanti alle preghiere del Canone.

Gesù fu crocifisso su una croce che aveva la forma di una T maiuscola con cui inizia la prima parola latina del Canone. Fin dall’inizio, si è cominciato a decorare questa prima lettera nei messali e persino a metterci l’immagine di Nostro Signore. Questa immagine si è presto staccata dal testo e ha occupato una pagina speciale, come nei nostri moderni Messali.

4 — Te igitur

198 — Come si divide la preghiera Te igitur.

La preghiera Te igitur è divisa in due parti distinte.

a) Nella prima, il sacerdote raccomanda le oblazioni al Padre:

Te igitur, clementíssime Pater, per Jesum Christum, Fílium tuum, Dóminum nostrum, súpplices rogámus, ac pétimus, uti accepta habeas et benedícas, hæc dona, hæc múnera, hæc sancta sacrifícia illibáta, in primis, quæ tibi offérimus…

[Te dunque, o clementissimo Padre, per Gesù Cristo tuo Figlio nostro Signore, noi supplichiamo e preghiamo di aver grati e di benedire questi ✠ doni, questi ✠ regali, questi ✠ santi ed illibati sacrifici che noi ti offriamo …]

b) Nella seconda, il sacerdote ricorda la Chiesa militante universale, il Papa e il Vescovo:

«… pro Ecclésia tua sancta cathólica: quam pacificáre, custodíre, adunáre et régere dignéris toto orbe terrárum: una cum fámulo tuo Papa nostro et Antístite nostro et ómnibus orthodóxis, atque cathólicæ et apostólicæ fídei cultóribus

[… anzitutto per la tua santa Chiesa Cattolica, affinché ti degni pacificarla, custodirla, riunirla e governarla in tutto il mondo, insieme con il tuo servo e Papa nostro N., e col nostro Vescovo N., e con tutti i veri credenti e seguaci della cattolica ed apostolica fede.]

199 — Commentate la preghiera: noi ve le offriamo per la vostra Chiesa santa Cattolica.

« È necessario che io abbia nel mio pensiero la Chiesa Cattolica diffusa da Oriente ad Occidente », rispondeva il vescovo Fructuosus (+358) andando al rogo, a quel Cristiano che gli chiedeva di ricordarsi di lui nel suo martirio. Pregare per la Santa Chiesa è la grande devozione della liturgia, la devozione delle grandi anime, di coloro che, lasciando in secondo piano i loro piccoli interessi quotidiani, hanno come prima preoccupazione di vedere la Santa Chiesa bella con tutta la bellezza di Dio, potente nella sua azione e vittoriosa nelle sue lotte perpetue.

Tutti i sacerdoti pregano all’altare per la pace e l’unione di tutti i Cattolici sotto il governo dei loro legittimi pastori e per ciascuno dei membri che compongono la Chiesa. I fedeli in stato di grazia partecipano così all’influenza salutare delle migliaia di Messe celebrate ogni giorno nell’universo.

200 — Commentate l’intercessione a favore del Papa.

Pregare per il Papa è testimoniare che viviamo in comunione con il Capo della vera Chiesa. Il nome del Papa è formulato in tutte le Messe celebrate nell’universo.

L’omissione del nome del Papa nella Messa era considerata un errore enorme già nel V secolo; i Concili ne fecero un precetto rigoroso. Papa Pelagio X (+561) ha espresso ai Vescovi della Toscana il suo stupore per il fatto che il suo nome non fosse stato commemorato al Santo Sacrificio: « Come potete non considerarvi separati dalla comunione con l’universo – ha detto – se, durante i santi misteri e contro le consuetudini, passate sotto silenzio il ricordo del mio nome »?

201 — Commentate l’intercessione in favore del Vescovo.

La liturgia non solo coltiva l’attaccamento a Roma, ma rafforza anche l’unione con la Gerarchia episcopale. È attraverso i vescovi uniti a lui che il Papa diffonde in tutto il mondo il flusso di verità e di grazia di cui è fonte per mezzo di Gesù Cristo. Al Papa e al nostro Vescovo, la nostra venerazione e le nostre preghiere.

La menzione dei nomi dei Vescovi durante la Messa è una testimonianza della loro ortodossia. Al Concilio di Calcedonia (451) papa S. Leone M. (461) dichiarò che i nomi di Dioscoro di Alessandria e Giovenale di Gerusalemme e altri non potevano essere menzionati all’altare finché non avessero ritrattato i loro errori.

202 — Quali cerimonie accompagnano il Te igitur?

Il sacerdote alza gli occhi e le mani e subito le abbassa; si inchina profondamente e pone le mani unite sull’altare: è in questo atteggiamento che inizia il Canone. Bacia l’altare e con questi doni, regali e sacrifici fa tre segni di croce sul pane e sul vino.

Capo e interprete della comunità dei fedeli, il Sacerdote è consapevole della sua indegnità a mediare tra essa e il Padre (profonda inclinazione). Da Lui solo può venire tutto l’aiuto: per questo, implorando, alza gli occhi, le braccia e il cuore al cielo e lo prega con l’esortazione: “vi preghiamo e vi domandiamo”, affidandosi alla mediazione sacerdotale e ai meriti di Gesù Cristo (rappresentati dall’altare che sta baciando) per avere questi doni come graditi.

La parola “benedire” ha dato origine al triplice segno o benedizione dei doni offerti.

5 — Il Memento dei viventi

203 — Cosa significa la parola Memento?

La parola Memento significa “ricordatevi”. Qui il Sacerdote chiede a Dio di ricordarsi dei suoi servi e delle sue ancelle per metterli nello splendore del Sacrificio della Croce che la Messa prolunga, e di comunicare loro i suoi frutti.

Preghiera:

Meménto, Dómine, famulórum famularúmque tuarum N. et N. et ómnium circumstántium, quorum tibi fides cógnita est et nota devótio, pro quibus tibi offérimus: vel qui tibi ófferunt hoc sacrifícium laudis, pro se suísque ómnibus: pro redemptióne animárum suárum, pro spe salútis et incolumitátis suæ: tibíque reddunt vota sua ætérno Deo, vivo et vero.

[Ricordati, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve N. e N. e di tutti i circostanti, di cui conosci la fede e la devozione, pei quali ti offriamo questo sacrificio di lode, per sé e per tutti i loro cari, a redenzione delle loro ànime, per la sperata salute e incolumità; e rendono i loro voti a Te, o eterno Iddio vivo e vero]

204 — Cosa chiamate i frutti della Messa?

Il Sacrificio della Messa è sostanzialmente lo stesso del Sacrificio della croce. Non ha solo lo stesso valore del Sacrificio della Croce, ma anche la stessa efficacia del Sacrificio della Croce, con la differenza che ciò che è stato guadagnato per tutti gli uomini in modo globale dal Sacrificio della Croce, deve ora essere distribuito a ciascuno in particolare con la preghiera, i Sacramenti e, soprattutto, con il Santo Sacrificio della Messa. Questa efficace distribuzione attraverso ogni Messa celebrata, la chiamiamo il “frutto della Messa”.

Affinché l’oblazione dell’altare possa realizzare pienamente questa distribuzione dei meriti del Capo ai suoi membri, Dio doveva rendere la sua celebrazione alla portata di ciascuno dei fedeli. Quindi, era necessario non avere una sola Messa in un solo tempio, a Gerusalemme o a Roma, ma Messe ovunque e sempre.

205 — In quale misura si partecipa ai frutti della Messe?

Sull’altare, Cristo, Sommo Sacerdote, offre a Dio il suo vero corpo e il suo vero sangue. Non gli offre questi doni infiniti senza di noi, Sacerdoti e fedeli, membri del suo Corpo Mistico. Ovviamente i membri, che offrono tutti con Cristo, non hanno nell’oblazione lo stesso ruolo del Capo, che vi svolge la funzione principale, né dei Sacerdoti, che hanno il meraviglioso potere di essere sacrificatori. Noi collaboriamo all’offerta solo nella misura della nostra importanza nel Corpo Mistico. Ecco perché la partecipazione ai frutti della Messa è tanto più abbondante: a) quanto più sono perfette le disposizioni dell’Anima, b) quanto più è attiva la cooperazione nell’Atto del Sacrificio, c) quanto più intimo è il grado di unione con il ministro del Sacrificio, d) quanto il Sacerdote raccomanda un’anima più specialmente all’Attenzione Divina.

Con l’aiuto di questo principio è facile comprendere le seguenti verità: l’assistenza alla Messa che il Cristiano procura per la celebrazione, si aggiunge ai frutti che si è già assicurato con l’elemosina; i chierici o i laici, che assistono il Sacerdote, ricevono, secondo le loro disposizioni, la ricompensa della loro preziosa e così stretta collaborazione; Le persone pie che hanno ricamato gli ornamenti, fatto il lino dell’altare, gli impiegati della chiesa, i sacristani o altri, i Cristiani generosi che, con le loro elemosine alla colletta, le missioni o altro, contribuiscono a rendere i templi più belli e accoglienti, hanno diritto ai frutti delle Messe di cui contribuiscono a procurare la degna celebrazione.

206 — Per chi prega il Sacerdote al Memento dei viventi?

Le due lettere N. e N., all’inizio del Memento, avvertono il Sacerdote di menzionare qui per nome, secondo le prescrizioni della rubrica, alcune persone che desidera interessare più particolarmente al Santo Sacrificio.

Il Sacerdote raccomanda poi, a nome della Chiesa, gli assistenti e, con loro, tutti quelli a loro cari.

La scelta delle persone citate nel Memento è lasciata alla libertà del celebrante. Pregherà prima di tutto per colui per il quale sta celebrando la Messa. A questa intenzione ne aggiungerà altre secondarie e ricorderà i suoi parenti, gli amici, i benefattori spirituali e temporali, coloro che sono particolarmente affidati alle sue cure, le anime consacrate a Dio, i moribondi, ecc…

Sono piene di fede e di saggezza soprannaturale, le parole di un Cristiano generoso al seminarista di cui pagava la pensione: « Oh, non ringraziate me; sarò troppo ben ricompensato quando diventerete Sacerdote, se solo una volta pronunciato il mio nome al Santo Sacrificio ».

6 — Il Communicantes

207 — Quale dogma richiama il “Communicantes”?

Il Communicantes ricorda il dogma della Comunione dei Santi. Infatti, il Sacerdote e i fedeli hanno appena pregato in comunione con il Papa, con il Vescovo, con tutti i fedeli; ora egli prega in comunione con i Santi del cielo.

Preghiera:

Communicántes, et memóriam venerántes, in primis gloriósæ semper Vírginis Maríæ, Genetrícis Dei et Dómini nostri Jesu Christi: sed
et beatórum Apostolórum ac Mártyrum tuórum, Petri et Pauli, Andréæ, Jacóbi, Joánnis, Thomæ, Jacóbi, Philíppi, Bartholomæi, Matthæi, Simónis et Thaddæi: Lini, Cleti, Cleméntis, Xysti, Cornélii, Cypriáni, Lauréntii, Chrysógoni, Joánnis et Pauli, Cosmæ et Damiáni: et ómnium Sanctórum tuórum; quorum méritis precibúsque concédas, ut in ómnibus protectiónis tuæ muniámur auxílio. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Uniti in una stessa comunione veneriamo anzitutto la memoria della gloriosa sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo:
e di quella dei tuoi beati Apostoli e Martiri: Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Crisógono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, e di tutti i tuoi Santi; per i meriti e per le preghiere dei quali concedi che in ogni cosa siamo assistiti dall’aiuto della tua protezione. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

208 — Si fa memoria della festa del giorno al Communicantes?

Si fa menzione della festa del giorno al Communicantes solo nelle grandi feste di Natale, Epifania, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, con le loro ottave, e nel Giovedì Santo.

Per la comodità dell’uso quotidiano, queste preghiere, di eccezionale utilità, sono inserite nel messale non nel corpo del Canone, ma nei “prefatio” propri delle suddette feste.

209 — Quali sono i santi che il Sacerdote nomina al Communicantes?

Al Communicantes, il sacerdote nomina la Beata Vergine, i dodici Apostoli e i dodici martiri romani (cioè nati a Roma o popolari in quella città, o perché le loro reliquie riposano e sono venerate nelle basiliche di Roma).

a) L’elenco evoca prima di tutto il nome di Maria con il suo titolo glorioso di Madre di Dio, che il Concilio Ecumenico di Efeso (431) le ha conferito. Come in ogni altro luogo, la Beata Vergine, Regina degli Apostoli, dei Martiri e di tutti i Santi, viene nominata qui per prima.

b) La vocazione, la vita e la morte degli Apostoli spiegano facilmente la menzione dei loro nomi nella liturgia.

c) Ai dodici Apostoli rispondono simmetricamente i dodici Martiri. Prima di tutto, i tre Papi che sono succeduti a San Pietro, ovvero S. Lino, S. Cleto e S. Clemente; poi altri due Papi: S. Sisto II e S. Cornelio. A questi Sovrani Pontefici, di cui in passato è si leggeva tutta la lista, il Canone aggiunge i nomi di altri sette martiri, di cui ha scelto di citare solo i più importanti. Questi sono S. Cipriano, vescovo di Cartagine, che visse e lottò per l’unità della Chiesa, S, Lorenzo, il grande diacono di Roma, e cinque laici: S. Chrysogone, un illustre romano, i due SS. Giovanni e Paolo, messi a morte per ordine di Giuliano l’Apostata, e i due SS. Cosma e Damiano, medici, decapitati dopo lunghe torture.

7 —  L’Hanc igitur

210 — Cosa domanda la preghiera Hanc igitur?

Questa preghiera insiste affinché Dio accetti con compiacimento l’oblazione dei suoi Sacerdoti e dei suoi fedeli e conceda loro la pace, la preservazione dall’inferno e le gioie del cielo.

Preghiera:

Hanc igitur oblatiónem servitutis nostræ, sed et cunctae famíliæ tuæ,
quaesumus, Dómine, ut placátus accípias: diésque nostros in tua pace dispónas, atque ab ætérna damnatióne nos éripi, et in electórum tuórum júbeas grege numerári. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ti preghiamo, dunque, o Signore, di accettare placato questa offerta di noi tuoi servi e di tutta la tua famiglia; fa che i nostri giorni scorrano nella tua pace e che noi veniamo liberati dall’eterna dannazione e annoverati nel gregge dei tuoi eletti.
Per Cristo nostro Signore. Amen.]

211 — Perché l’imposizione delle mani sulle oblazioni?

Il sacerdote stende entrambe le mani sull’ostia e sul calice, mentre recita la preghiera Hanc igitur, per mostrare che Gesù, che sta per scendere all’altare, è stato la vittima incaricata di espiare le nostre colpe. Questo gesto ricorda il Sommo Sacerdote che carica il capro espiatorio di tutti i peccati di Israele.

L’imposizione delle mani nel rito eucaristico è già raffigurata in un affresco della catacomba di Callisto (III secolo) ed è espressamente menzionata nei Canoni di Ippolito (IV secolo).

8 — Il Quam Oblationem

212— Cosa domanda la preghiera Quam oblationem?

Questa preghiera chiede un’ultima volta di benedire il pane e il vino affinché diventino il Corpo e il Sangue di Gesù.

Preghiera:

Quam oblatiónem tu, Deus, in ómnibus, quaesumus, bene díctam, adscríp tam, ra tam, rationábilem, acceptabilémque fácere dignéris: ut nobis Cor pus, et San guis fiat dilectíssimi Fílii tui, Dómini nostri Jesu Christi.

[La quale offerta Tu, o Dio, dégnati, te ne supplichiamo, di rendere in tutto e per tutto bene ✠ detta, ascrit ✠ ta, ratifi ✠ cata, ragionevole e accettabile affinché diventi per noi il Cor ✠ po e il San ✠ gue del tuo dilettissimo Figlio nostro Signore Gesù Cristo.]

Gesù Cristo è un’oblazione, una vittima benedetta in ogni cosa, sotto ogni punto di vista. La benedizione in questione è la consacrazione. Chiediamo quindi a Dio di benedire l’oblazione del pane e del vino, cioè di farne, attraverso la consacrazione, una fonte inesauribile di grazie e di benedizioni.

Chiediamo che questa offerta sia legittima, cioè conforme alla prescrizione e all’istituzione di Gesù Cristo.

Se l’oblazione è conforme alla volontà di Gesù Cristo e al suo comando: “Fatelo in memoria di me”, allora sarà ratificata, cioè vera e valida.

Il Sacrificio eucaristico è un’oblazione ragionevole, perché sull’altare viene sacrificato l’Agnello vivente di Dio, Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, la ragione eterna, la Sapienza personale e increata.

Dotato di queste quattro qualità, questo Sacrificio è infallibilmente gradito a Dio, caro al suo cuore e degno di Lui.

La conclusion, che diventa per noi il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, esprime e sollecita il cambiamento essenziale della materia di Sacrificio. Ed è per noi, che il Salvatore si immola sull’altare.

213 — Perché cinque segni di croce sulle oblazioni?

Ogni volta che viene pronunciata nella Messa la parola “benedire”, è accompagnata da un segno della croce, per dimostrare che è in virtù dei meriti di Gesù sulla croce che Dio concede le sue benedizioni. Considerati in sé, i primi tre segni della croce sono una chiara immagine dell’adorabile Trinità, dalla quale scaturisce il potere di santificare gli elementi terreni e di trasformarli nel sacrificio eucaristico. Le parole Corpo e Sangue richiamano il segno della croce come un gesto, designando solennemente la materia da cambiare nel Corpo e nel Sangue del Signore, e come una preghiera, perché il cambiamento delle sostanze rappresenterà, nel modo più vivamente possibile, l’immolazione del Golgota.

TUTTA LE MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (6)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (6)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

CAPITOLO V

CONSACRAZIONE

171 — Quale è la seconda parte della Messe dei fedeli?

La seconda parte della Messa dei fedeli si estende dal Prefazio al Pater: comprende le preghiere e gli atti che accompagnano la consacrazione.

I riti dell’offerta sono terminati: la materia del sacrificio viene preparata, offerta, santificata e, insieme all’Ostia, ci presentiamo anche noi a Dio per essere immolati con il suo Figlio Divino.

1 — Il Prefazio.

172 — Qual è il senso della parola prefazio?

Il termine “prefazio” è composta da due parole latine, præ-fatio, prefazione. La prefazione è un’introduzione e una preparazione all’atto del Sacrificio.

San Cipriano ( + 258) usa già questo termine, ma con questo nome si riferisce solo al dialogo introduttivo. Egli chiama il testo che segue “oratio”, preghiera. Oggi la parola prefazione, insieme a questo dialogo, indica la preghiera che termina al Sanctus.

173 — Quanti prefazi si contano nel Messale?

Il nostro Messale ha quindici prefazi: quelle del Natale, dell’Epifania, della Quaresima, della Santa Croce, della Pasqua, dell’Ascensione, del Sacro Cuore, di Gesù Cristo Re, della Pentecoste, della Santissima Trinità, della Vergine, di San Giuseppe, degli Apostoli, dei defunti ed il comune prefazio.

Immolando l’Agnello Pasquale, gli Ebrei ringraziavano Dio per tutte le benedizioni che aveva concesso al suo popolo: la creazione, la salvezza concessa a Noè, l’elezione di Abramo, la rivelazione fatta a Mosè, la liberazione dall’Egitto, ecc. Nostro Signore nell’Ultima Cena ha fatto lo stesso sostituendo il pane e il vino all’agnello. Gli Apostoli e i loro successori hanno reso grazie celebrando di nuovo la Cena del Signore, come il Maestro ha comandato. « Chi presiede – dice san Giustino nel II secolo – dopo aver ricevuto i doni (pane, vino), rende gloria a Dio per mezzo del Figlio e dello Spirito Santo, e procede con lunghe preghiere all’Eucaristia o azione di grazia ». La Chiesa ha sostituito la lunga nomenclatura dei benefici concessi da Dio nella Vecchia Legge, con il ricordo dei benefici che Dio ci ha concesso sotto la Nuova Legge nella persona di Gesù Cristo. Il comune prefazio, essendo una formula schematica piuttosto che regolare, menziona che  è degno … il rendere grazie; ognuna degli altri prefazi indica il particolare beneficio di cui la Chiesa ringrazia: a Natale, per esempio, « perché, attraverso il mistero del Verbo incarnato, una nuova luce della vostra chiarezza ha brillato nella nostra mente, così che ora, conoscendo Dio in modo visibile, attraverso di Lui ci rallegriamo nell’amore delle cose invisibili… ».

174 — Come si divide il prefazio?

Il prefazio si compone di tre parti: l’introduzione o dialogo, il corpo e la conclusione o  transizione al Sanctus,

175 — Di quanti versetti si compone il dialogo introduttivo?

L’introduzione si compone di tre versetti e della loro riposta:

v. — Dominus vobiscum.

Il Signore sia con voi.

r. — Et cum spiritu tuo.

E con il tuo spirito.

v. — Sursum corda!

In alto i cuori!

r. —. Habemus ad Dominum.

Li abbiamo verso il Signore.

v. — Gratias agamus Domino Deo nostro.

Rendiamo grazie a Dio.

r. — Dignum et justum est.

Questo è degno giusto.

Con le sue pressanti esortazioni, il Sacerdote vuol fissare l’attenzione dei fedeli, prepararli al rito centrale dell’oblazione eucaristica, renderli partecipi attivi del suo sacrificio che è anche il loro sacrificio.

176 — Perché il Sacerdote non si volta a salutare il popolo?

Il sacerdote si è congedato dal popolo con Orate Fratres. D’ora in poi, come Mosè sul Sinai, egli conversa con il Signore, la sua attenzione è tutta sulla sacra fazione del sacrificio.

Inoltre, in alcune chiese, come tra gli armeni, i russi, i copti e altri orientali, sarebbe stato superfluo rivolgersi al popolo; perché subito prima del prefatio le porte del santuario erano chiuse e le tende tirate, in modo che il Sacerdote non sia più visto dai presenti.

177 — Si spieghi l’esclamazione Sursum corda.

Il Sacerdote – dice S. Cipriano ( + 258) – prima di iniziare la preghiera (canone), prepara lo spirito dei fratelli con questa prefazione, Sursam corda, affinché il popolo sia avvertito dalla sua risposta, habemus ad Dominum, lo teniamo elevato al Signore, dell’obbligo di prendersi cura di Dio solo. Chiudiamo dunque il nostro cuore a tutti tranne che al Signore, e non lasciamo che il suo nemico si avvicini a noi, mentre gli chiediamo grazie ». – A sua volta, sant’Agostino ( + 430) spiega questa preghiera: « Ricordatevi bene – dice – dell’ordine della liturgia ». Prima di tutto, dopo l’orazione (la preghiera dei fedeli), siete invitati a tenere in alto i vostri cuori, cosa che è adatto alle membra di Cristo (che voi siete) … perché il nostro Capo è in cielo. Ecco perché quando si dice; Sursum corda, si risponde: Habemus ad Dominum“.  La nostra conversazione è in cielo (Filipp., III, 20): pensare e tendere a ciò che è in alto, tale è la filosofia cristiana. Il sursum corda, durante il santo Sacrificio, ce lo ricorda e ci dispone ad esso.

178 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo: Sursum corda?

Il sacerdote alza le mani per testimoniare, con questo gesto, il suo ardente desiderio di unirsi e donarsi totalmente a Dio. – Ai Vespri dell’Ascensione cantiamo: Sii, o Gesù, la meta a cui sono diretti i nostri cuori! E l’inno dell’ufficio festivo del mercoledì, al Mattutino, indica con questo slancio dell’anima, il gesto che significa: Alziamo gli animi e le mani, facendo eco all’invito del profeta Geremia: Alziamo i nostri cuori e le nostre mani al Signore nei cieli (Lam., III, 41).

Si solleva il cuore oltre che le mani – dice San Gregorio Magno – quando si dà forza alla preghiera attraverso le opere buone. Pregare senza fare buone azioni è alzare il cuore senza le mani, e agire senza preghiera è alzare le mani senza il cuore.

179 — Quale rubrica osserva il Sacerdote nel dire il versetto: “Rendiamo grazie al Signore”?

Mentre il Sacerdote pronuncia queste parole, unisce le mani sul petto, alza gli occhi, e poi china rispettosamente il capo davanti alla Croce dell’altare.

Più l’anima si eleva al di sopra di se stessa e di tutte le creature, più vede che Dio è carità eterna e fonte di ogni bene. Questa considerazione porta al ringraziamento. Questo sentimento si manifesta nel Sacerdote quando dice Rendiamo grazie a Dio, e nei fedeli quando rispondono, attraverso la bocca del servente della Messa o dei cantori: “Questo è degno e giusto”.

180 — Da cosa è composto il corpo del prefatio?

Il corpo del prefatio è composto da due parti: l’inizio e il proprio.

L’inizio è sempre lo stesso: è veramente degno e giusto, equo e salutare rendervi grazie in ogni momento e in ogni luogo, o Signore santo, Padre onnipotente, Dio onnipotente, per Cristo nostro Signore.

Adattato ai Misteri o alle Feste, il proprio sviluppa il perché del Ringraziamento: a Natale, perché attraverso il mistero della Iincarnazione conosciamo Dio in forma visibile; all’Epifania, perché il suo Figlio unigenito, vedendosi rivestito della nostra carne mortale, ha riparato la nostra natura comunicandogli il nuovo splendore della sua immortalità; durante la Quaresima, perché attraverso il digiuno corporeo reprime i vizi ed eleva l’Anima; alla Passione, perché ha posto la salvezza del mondo sull’albero della Croce, dove Gesù ha sconfitto nel legno colui che una volta aveva trionfato nel legnoo dell’albero (del paradiso terrestre); a Pasqua, perché Cristo è il vero Agnello che è stato immolato per togliere i nostri peccati dal mondo e risorto per restituirci la nostra vita; e così via…

181 — Mostrate che è degno rendere grazie a Dio:

È degno in relazione a Dio e in relazione a noi stessi:

a) Nel ringraziare Dio, lo riconosciamo come l’Autore di tutti i nostri beni; esaltiamo la sua maestà, l’amore paterno, la grandezza e la bontà, e così diamo a Dio ciò che la sua dignità esige.

b) La gratitudine è il segno di un cuore sollevato. Il fervido ringraziamento appartiene alla perfezione cristiana: perciò i Santi non si stancano mai di ringraziare Dio in terra, e il loro infinito ringraziamento è la loro occupazione più dolce dell’eternità.

182 — Mostrate che è giusto rendere grazie a Dio.

Dio esige da noi il ringraziamento come tributo obbligatorio. San Paolo ricorda ai suoi Cristiani questo dovere: Rendiamo grazie a Dio in tutte le cose: questa è la volontà di Dio in Gesù Cristo (1 Tess. v, 18).

183 — Mostrate che è equo rendere grazie a Dio.

Se consideriamo l’immensità della bontà di Dio e l’abbondanza delle sue misericordie riversate su di noi ogni giorno, il nostro cuore traboccerà di amore e gratitudine, la nostra bocca proclamerà le meraviglie della sua bontà divina, daremo a Dio più di quanto siamo vincolati da una legge severa e rigorosa.

184 — Mostrate che è salutare rendere grazie a Dio.

Ascoltiamo l’autore dell’Imitazione di Gesù Cristo: « Se la grazia non scorre abbondantemente su di noi, è perché siamo ingrati verso il suo Autore e non risaliamo alla sua fonte originaria: perché la grazia non è mai negata a chi la riceve con gratitudine….. Siate grati, dunque, per le più piccole grazie, e meriterete di riceverne di più grandi. (De Imit. Ch., 1. II. c. X, n. 2, 5).

185 — Mostrate che bisogna rendere grazie a Dio in ogni tempo.

Benedirò Dio in ogni tempo – canta il Salmista – la sua lode sarà sempre sulla mia bocca (Sal XXXIII). E altrove: È bene lodare il Signore e cantare a gloria del tuo nome, o Altissimo, per proclamare la tua misericordia al mattino e la tua verità nella notte (Sal. XCI, 1 e 2).

Sant’Agostino commenta così questi ultimi versetti: « Noi non siamo Cristiani che per la vita futura; nessuno si prometta il bene di questa vita e la felicità del mondo perché è Cristiano; che usi la felicità di questo mondo come può, quando può e quanto può. Quando la possiede, ringrazi Dio che lo consola; quando ne è privato, renda grazie per la sua giustizia; sia sempre grato, mai ingrato; riceva con gratitudine i favori di un Padre che lo consola e riceva con la stessa gratitudine le punizioni di un Padre che lo sottomette al giogo della disciplina, perché è sempre per amore che Dio ci elargisce i suoi favori o le sue minacce, e il Cristiano ripeta queste parole del Salmista: « È bene benedire il Signore e cantare i suoi inni nel vostro nome, o Dio Altissimo. » (S. Aug., Dnar. in ps. XCI, n. 1).

186 — Come termina il Prefatio?

Il Prefatio termina con la menzione che in cielo tutti i cori degli Angeli rendono grazie a Dio per mezzo di Cristo e la domanda che sulla terra possiamo unire le nostre voci alle loro per annunciare la gloria dell’augusta Trinità e del nostro Salvatore, dicendo il Sanctus con profonda umiltà.

2 — Il Sanctus

187 — Di quante parti ci compone il Sanctus?

Il Sanctus è composto da due parti: la prima

Santo, santo, santo è il Signore, il Dio degli eserciti. I cieli e la terra sono pieni della vostra gloria.

– comprende la glorificazione dell’adorabile Trinità; la seconda – Osanna al più alto dei cieli. Benedetto sia Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei cieli – è il saluto al Salvatore dai fedeli della terra.

L’enumerazione di tutti i benefici per i quali dobbiamo rendere grazie a Dio, dalla creazione, attraverso tutto l’Antico Testamento, fino al passaggio di Isaia (Is., VL 3), dove è fatta menzione degli Angeli, riporta al Sanctus: “I Serafini si rallegravano l’un l’altro e dicevano Santo, Santo, Santo è il Signore, il Dio degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria….. La triplice ripetizione di questa parola santa non solo vuole insistere più fortemente sulla santità di Dio, ma indica la Trinità delle Persone in un unico Dio che è santo.

188 — Spiegate l’espressione: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

Questa espressione è mutuata dal canto del trionfo con cui il Salvatore, principe della pace e vincitore della morte, è stato accolto dalle folle al suo solenne ingresso a Gerusalemme. È una formula di omaggio e di lode al Salvatore, in questo momento in cui, come Agnello divino, si prepara ad apparire in mezzo a noi, come un tempo a Gerusalemme, per consumarvi il suo Sacrificio.

189 — Cosa significa la parola Osanna?

La parola Osanna è un’acclamazione ebraica; è presa a volte come un grido di angoscia, che significa aiuto o salvezza (Sal. CXVIII, 26), a volte come un grido di gioia e di trionfo, che significa: egli viva (Math. XXL 9). San Luca spiega questa parola già in questo senso (di gioia) con una circonlocuzione; invece di dire: “Osanna nell’alto, dice: “Pace nel cielo e gloria nell’alto”. (Luca, XIX, 38).

190 — Quali nomi si danno al Sanctus?

A causa della prima parte, questo canto è chiamato trisagio, inno serafico o angelico; per la seconda parte lo si chiama inno trionfale.

La parola “trisagion” – da due parole greche che significano tre e santo – indica un inno in cui la parola santo viene ripetuta tre volte.

191 — Quali regole osservano il Sacerdore ed il servente al Sanctus?

Al Sanctus, il Sacerdote si inchina e unisce le mani nel rispetto della santità dell’Altissimo e per le ultime parole del Prefatio: « vi diciamo umilmente »; si segna alle parole: « benedetto colui che viene…. » secondo l’antica usanza di segnarsi quando si recitano testi presi dal Vangelo. Il servente fa suonare la campanella all’inizio del Sanctus: questo suono « costituisce un segnale per attirare l’attenzione dei fedeli sulla prossima consacrazione, una manifestazione di gioia, una professione di fede nell’imminente presenza eucaristica del Cristo, un segno di unione con i cori angelici, nella lode e nell’adorazione comune », secondo l’espressione stessa di un decreto della Sacra Congregazione dei Riti (n. 4377) del 25 ottobre 1922.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/21/tutta-la-messa-lunica-vera-messa-romana-momento-per-momento-7/

SALMI BIBLICI: “AD TE LEVAVI OCULOS MEOS” (CXXII)

SALMO 122: “AD TE LEVAVI OCULOS MEOS

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 122:

[1] Canticum graduum.

 [1] Ad te levavi oculos meos,

qui habitas in cœlis.

[2] Ecce sicut oculi servorum in manibus dominorum suorum; sicut oculi ancillae in manibus dominæ suæ: ita oculi nostri ad Dominum Deum nostrum, donec misereatur nostri.

[3] Miserere nostri, Domine, miserere nostri, quia multum repleti sumus despectione;

[4] quia multum repleta est anima nostra opprobrium abundantibus, et despectio superbis.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXII.

Preghiera dell’uomo viatore, che nell’esilio soffre travaglio, principalmente per dispregio.

Cantico dei gradi.

1. Alzai gli occhi miei a te, che fai tuo soggiorno nei cieli. Ecco che, come gli occhi dei servi son fissamente rivolti alle mani dei padroni;

2. Come gli occhi dell’ancella son fissamente rivolti alle mani della padrona; così gli occhi nostri al Signore Dio nostro, in aspettando ch’egli abbia di noi pietà.

3. Abbi pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà; perocché siam satolli di disprezzo oltremodo;

4. Perché molto ne è satolla l’anima nostra: ella oggetto di obbrobrio ai facoltosi e di scherno ai superbi.

Sommario analitico

Il salmista, personificando in sé il popolo esiliato e prigioniero, gemente sotto il giogo dei loro nemici,

I. Indirizza a Dio la sua preghiera:

1° pia e sublime (1)

2° umile e perseverante (2).

II – Egli espone i motivi che devono portarlo ad aver pietà di loro:

1° essi sono nella estrema confusione (3);

2° non solo numerosi sono gli oltraggi dei quali sono oggetto, ma eccessivi e penetrano fino al fondo della loro anima;

3° sono un soggetto di obbrobrio per i ricchi e di disprezzo per i superbi (4).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1, 2. – C’è una gradazione in ciascuno di questi salmi, chiamati appunto graduali. Nel primo il salmista grida verso il Signore dal mezzo della tribolazione; nel secondo, alza gli occhi verso le alte montagne; nel terzo, di rallegra alla promessa che gli viene fatta di entrare ben presto nella casa del Signore. Qui, egli va più oltre, ed è verso Dio che eleva gli occhi (S. Girol.). – Non è più verso un oggetto creato, verso una delle creature intelligenti, chiunque sia, ma è verso Dio stesso che eleva, non solo gli occhi del corpo, ma soprattutto gli occhi interiori dell’anima, l’affezione e l’intenzione. (Hug. Card.). –  È durante il loro soggiorno presso i popoli barbari che i Giudei ricevettero le lezioni più sublimi e che furono, in questa privazione assoluta di tutte le risorse vitali. Essi imparano che Dio, in qualsiasi luogo invocato, esaudisce prontamente alle nostre preghiere. Le prime ragioni di una vita tutta nuova andranno ben presto ad illuminare i loro sguardi, e così il profeta prelude a questo grande cambiamento, e sotto il velo della comparazione, annunzia che l’osservanza dei luoghi prescritti per la legge, cesseranno di essere obbligatori (S. Cris.).- Tutta la scienza della salvezza è il saper alzare gli occhi verso Colui che abita nel cielo. Si esercita così una grandissima virtù della religione: la fede, la speranza e la carità … il Profeta non nomina Dio, lo caratterizza per la sua dimora che è il cielo; non più il cielo che noi vediamo – dice Sant’Agostino – non solo il cielo dove sono gli Angeli ed i Santi, ma il cielo che è in Dio stesso, il cielo che è l’essenza propria di Dio (Berthier). – « Come gli occhi dei servi sono attenti alle mani dei loro padroni. » Se fosse questione di servi e padroni terreni, il Profeta avrebbe dovuto dire che gli occhi dei servi erano fissi sugli occhi, sulle labbra dei loro padroni, perché è con la parola o con un segno degli occhi che i loro padroni intimano i loro ordini; ma nella Scrittura, le mani significano sovente le opere … il Profeta si esprime dunque in tal modo per farci conoscere che i desideri dei servi dei quali parla, sono interamente portati sulle opere. (S. Hilar.). –  Quanti Cristiani tengono sempre, per partito preso, gli occhi rivolti verso terra, (Ps. XVI, 11), e non hanno nulla da sperare da Dio! Colui che al contrario li alza verso il cielo, ha diritto di sperare tutto; nulla lo sorprende, nulla lo stupisce, perché egli ha sempre i suoi occhi fissati a Colui che sempre ha gli occhi aperti su di lui. Che significa questo paragone: « come i servi, etc. » Essi non sperano e non attendono altro soccorso e protezione; perché da chi, il servo e la serva attendono il nutrimento, il vestito e le altre cose necessarie alla vita? Dai loro padroni soltanto; essi anche non si ritirano, ma restano in loro presenza fino a quando non abbiano ricevuto ciò che sia loro necessario (S. Cris.). Orbene, il Profeta alza gli occhi verso il Signore, affinché fermando il suo sguardo su Dio, nel momento in cui esercita la sua giustizia, Dio, mosso a pietà sotto questo aspetto, ascolti la voce della sua misericordia e cessi di colpire. Supponete che un padrone abbia ordinato che si colpisca un servo; lo si batte, egli sente dolore del corpo, fissa uno sguardo doloroso sulla mano del suo padrone, fino a quando questi non faccia segno che si cessi. (S. Agost.). – « … Affinché abbia pietà di noi. » Egli non si stanca, non cessa di fissare i suoi occhi sul Signore, benché Dio, per provare la sua fede, differisca l’esercizio della sua misericordia, perché la fede fa attendere con piena fiducia ed una santa sicurezza l’effetto della sua preghiera. Egli non dubita della misericordia di Dio, perché i suoi occhi restano fissati su di Lui fino a che Dio abbia pietà di lui. A questa attesa perseverante, egli aggiunge la preghiera: «Abbiate pietà di noi, Signore, abbiate pietà di noi. » Egli parla fissando gli occhi su Dio, prega in questa attitudine con quella perseveranza che gli schiavi dei vizi mettono in opera nelle inclinazioni perverse che li dominano. Ma lui, pieno di una ferma speranza nei beni eterni, persevera nella fiducia che la misericordia di Dio avrà per lui il suo pieno effetto (S. Hil.). 

II. — 3, 4.

3, 4. – « Noi siamo saturi di disprezzo e di obbrobrio. » Ecco ciò che deve attendersi quaggiù quella ferma speranza dei fedeli: gli oltraggi degli empi e la persecuzione da parte dei malvagi. In effetti, se predichiamo la giustizia, incorriamo nell’odio dell’uomo iniquo; se lodiamo la castità, l’impudico si irrita; l’intemperante ha in orrore le nostre mortificazioni e i nostri digiuni; se esortiamo i fedeli alla liberalità, l’avaro ci accusa di follia; se predichiamo Gesù-Cristo, Dio crocifisso, il Giudei si aggiungono ai pagani per perseguitare la nostra Religione e la nostra fede. Quando facciamo professione di attendere il giudizio di Dio, i re della terra si offendono, perché essi vogliono ad ogni costo togliere a Dio il potere di esaminare e giudicare la nostra vita. Se insegniamo la resurrezione dai morti, subiremo le contraddizioni degli infedeli, i cui corpi sono come già sepolti sotto tutti i vizi. Infine, la nostra fede, appoggiata sulla Legge, sui Profeti, sui Vangeli e sugli Apostoli, è attaccata e sfigurata da tutte le menzogne degli eretici. Noi siamo battuti, maledetti, esiliati, proscritti, messi a morte con il ferro, con le fiamme, o precipitati in mare; si sevizia la nostra timidezza, nel nostro corpo risentiamo un vivo dolore di tutte queste ingiustizie (S. Hilar.). – Perché, in effetti, in questa valle di lacrime, l’uomo giusto e santo, non è oggetto di disprezzo? Ma il disprezzo di cui parla qui il Profeta è soprattutto quello che soffrono i buoni da parte dei malvagi, i giusti da parte degli empi. Tutti coloro che vogliono vivere piamente secondo il Cristo, soffriranno inevitabilmente degli obbrobri, e saranno inevitabilmente disprezzati da coloro che non vogliono vivere piamente e il cui benessere è solo terreno. (I Tim. III). Si scherniscono coloro che chiamano felicità ciò che gli occhi non possono vedere, e si dice loro: cosa credi tu, cose insensate? Vedi forse ciò che credi? Qualcuno è mai ritornato dagli inferi per riferire cosa gli accade? Io ciò che amo, lo vedo e ne gioisco! Vi si disdegna, vi si disprezza, perché voi sperate delle cose che non vedete; e colui che vi disdegna si vanta di possedere ciò che vede (S. Agost.). – « La nostra anima è stata tutta ripiena di confusione. » Qui, per maggior chiarezza, il Profeta nomina l’anima; perché l’idea del disprezzo affligge soprattutto l’anima intelligente, gli esseri che sono privi di questo dono prezioso, possono conoscere il dolore, ma non il disprezzo … L’obbrobrio ed il disprezzo dicono la stessa cosa, tanto da poter confondere qui gli orgogliosi e gli uomini nell’abbondanza. L’abbondanza è, d’ordinario, seguita dall’orgoglio, ed infatti tutti gli uomini orgogliosi sono come rigonfi e di conseguenza, nell’abbondanza; ma questa è una cattiva abbondanza, una pienezza fittizia e non un bene reale; essi sono saturi di amor proprio e di autostima, si considerano come legittimi proprietari delle ricchezze terrestri che possiedono, e non sognano affatto che essi dovranno rendere severo conto a Dio dell’impiego che ne hanno fatto. (Bellarm.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “QUOD PROVINCIALE”

« … se la Vostra giustizia non supererà quella degli Scismatici ed Eretici, nessuno dei quali osa prendere un nome Maomettano, non entrerete nel Regno dei Cieli…» Questa è la sentenza del Sommo Pontefice Benedetto XIV, nei riguardi di coloro che nella regione balcanica, a forte presenza musulmana, assumevano nomi non Cristiani per non incorrere in sanzioni economiche o nella perdita di benefici materiali. Erano in effetti dei marrani all’inverso, ugualmente odiosi anche da un punto di vista umano, esattamente come i marrani storici, o ipocriti, di ogni tempo, marrani che persistono attualmente soprattutto fingendo di appartenere alla “Chiesa Cattolica”, alimentando però vigorosamente la sinagoga di satana. Non a caso, ad esempio nella falsa chiesa dell’uomo, il c. d. “Novus ordo”, ma pure tra tanti scismatici pseudo-tradizionalisti, ci sono tanti marrani appositamente addestrati, fin da giovanissimi, a dissimulare fedi eretiche e pagane, pratiche abominevoli sataniche, gnostiche, esoteriche, sotto la compiacente gestione o favoritismi dei servi di lucifero collocati nei “seggi” ecclesiastici che contano. Ma se i marrani, finti maomettani, hanno ricevuto una condanna così pesante dal parte della massima Autorità della Chiesa, non possiamo nemmeno immaginare quale sia la posizione spirituale nei riguardi del sommo Giudice dei marrani infiltrati nella Chiesa Cattolica, e che tante anime trascinano negli inferi insieme a loro. Per ciò che riguarda poi i nomi dei Cristiani, o presunti tali, mentre gli abitanti dei Balcani potevano accampare qualche motivo, oggi si impongono a bella posta a bambini di aree un tempo cattoliche, nomi che nulla hanno a che vedere con gli usi cristiani, e si preferisce appioppar loro nomi di matrice pagana, di divinità (cioè di demoni) orientali o nordiche, di personaggi fittizi mutuati da fumettoni, cartoni animati e perfino da culti esoterici. Non andiamo oltre. preghiamo per questi sventurati perché non siano tra coloro che  “non entreranno nel regno dei cieli”, e leggiamo la lettera Enciclica del Santo Padre.

Benedetto XIV

Quod provinciale

Il Concilio Provinciale della vostra Provincia di Albania, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, celebrato l’anno 1703 sotto il Papa Clemente XI di felice memoria, nostro Predecessore, aveva santissimamente stabilito, fra le altre cose, al canone terzo, che nel Battesimo non fossero imposti né ai bambini né agli adulti nomi Turchi o Maomettani, e che i Cristiani non tollerassero di essere chiamati con nomi Turchi o Maomettani che mai erano stati loro imposti, per qualunque esenzione da tributi o immunità, o per facilitazioni nel commerciare liberamente, o per evitare pene. Raccomandando anche Noi le stesse cose, le confermammo, e comandammo di osservarle nella nostra Lettera Enciclica che inizia con le parole Inter omnigenas, edita per il Regno di Serbia e regioni vicine, su diversi punti di Religione e di disciplina, il giorno 11 febbraio 1744, anno quarto del Nostro Pontificato. – Quanto fu stabilito con sapienza e religione dai vostri Predecessori fu veramente provvidenziale e salutare, esempio luminoso della Fede Cattolica e della Vostra sincera pietà Cristiana, da essere indicato ad esempio agli altri e da Noi prescritto perché sia rigorosamente osservato, a maggior gloria e prestigio della Vostra Provincia e a maggiore utilità per conseguire l’eterna salvezza delle anime: tanto che se per caso capitasse che venisse trascurato, ridonderebbe a maggior disonore della vostra stessa Provincia e ad aperto danno delle anime.

1. Quindi Noi, che nella predetta nostra Lettera proclamammo quell’abuso una turpe occultazione della Fede cristiana, somigliante all’infedeltà, abbiamo appreso, col più grande dolore del nostro animo Pontificale, che moltissimi di codesta Provincia, trascurato il pensiero dell’eterna salvezza, continuano ad adoperare i medesimi nomi Turchi o Maomettani, non solo per essere considerati immuni e liberi da quei tributi e oneri che furono imposti ai Cristiani, ma anche con lo scopo che non si creda che essi stessi o i loro parenti abbiano apostatato dalla religione Maomettana, e non siano puniti con le pene inflitte in questi casi. Infatti tutte queste cose, anche se la Fede di Cristo viene conservata nel cuore, non si possono fare, senza la simulazione degli errori di Maometto, contraria alla sincerità Cristiana; questa simulazione comporta una menzogna in materia gravissima, e comprende una virtuale negazione della Fede con grandissima offesa a Dio e scandalo al prossimo: per cui si offre ai Turchi stessi l’occasione propizia di considerare tutti i Cristiani ipocriti e ingannatori, tali che vanno a buon diritto e giustamente perseguitati.

2. Si aggiunge inoltre ad aumentare sempre più il nostro dispiacere e dolore, che alcuni di Voi stessi, Venerabili Fratelli, e anche alcuni di Voi, diletti figli Parroci e Missionari, non badando affatto ad una simulazione tanto malvagia e detestabile, ma anzi conniventi, e spinti da motivazioni che non sono sufficienti a scusare i peccati, non hanno timore di ammettere alla partecipazione ai Sacramenti, senza nessun travaglio di coscienza e con pubblica offesa dei buoni Cristiani, quei fedeli affidati alle vostre cure che assumono i suddetti nomi Turchi o Maomettani e procurano di farsi chiamare così.

3. Ne consegue che Noi, che (per la sollecitudine di tutte le Chiese a Noi imposta, e per la soprintendenza suprema del Sacrosanto Apostolato), siamo obbligati a ricondurre tutti i Cristiani sulla via della salvezza e a presentarli a Dio puri, sinceri, procedenti in spirito e verità e senza macchia, dopo avere ascoltato su questo argomento i nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa Inquisitori generali contro la malvagità eretica, col loro consiglio, rinnovando dapprima il lodato Canone del Concilio Albanese della vostra Provincia, colla nostra Apostolica autorità, a tenore della presente Lettera lo confermiamo, e comandiamo che sia osservato rigorosamente. Colla stessa autorità e tenore estendiamo anche alla Vostra Provincia, e comandiamo che siano ugualmente osservati, i decreti della ricordata nostra Lettera. Quindi proibiamo rigorosamente che qualunque Cristiano, per qualunque motivo o pretesto o in qualsivoglia immaginabile circostanza, osi assumere i medesimi nomi Turchi o Maomettani per farsi credere Maomettano.

4. Inoltre, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, vi preghiamo ed esortiamo nel Signore affinché, considerando seriamente il vostro ministero e i conti severi che dovrete rendere al Supremo Principe dei Pastori ed Eterno Giudice Gesù Cristo sulle pecore affidate a ciascuno di Voi, Voi stessi curiate di assicurare la vostra elezione colle vostre buone opere, e non omettiate (la qual cosa non può avvenire senza gravissima Vostra colpa di incuria e negligenza) di rimproverare, scongiurare e sgridare con ogni pazienza e dottrina i medesimi Cristiani della vostra Provincia affinché, tenendo un buon comportamento fra i Pagani, in ogni cosa si mostrino esempio di buone opere, perché coloro che sono avversari, si vergognino, non avendo niente di male da dire su di loro, quasi fossero malfattori: essi, che per turpe guadagno parlano diversamente da come pensano. Se alcuni poi non ubbidiscono alle vostre esortazioni e ai nostri ordini, secondo la norma della disciplina Apostolica, devono essere obbligati con le maniere forti: su di loro devono essere applicate interamente le sanzioni e le pene del vostro Sinodo Albanese e della suddetta nostra Lettera, e sia loro dichiarato che non potranno ricevere, in vita, i Sacramenti, e dopo la morte, se saranno deceduti senza ravvedersi, i suffragi. Quelle pene Noi rinnoviamo e infliggiamo di nuovo, per quanto ce n’è bisogno, e vogliamo e ordiniamo che siano mandate a debita esecuzione da Voi. Questo poi non deve sembrare odioso a nessuno di voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, poiché se la Vostra giustizia non supererà quella degli Scismatici ed Eretici, nessuno dei quali osa prendere un nome Maomettano, non entrerete nel Regno dei Cieli.

5. Infine, coloro che si sono fatti Cristiani dal Maomettanesimo, o che sono figli di convertiti, nel caso in cui diffidino della propria costanza nella Fede e abbiano timore di incorrere nelle pene dei loro Governanti se lasciano i nomi Turchi, e abbiano paura di subirle, esortateli seriamente ad abbandonare di nascosto quelle regioni e a venire a rifugiarsi nelle terre dei Cristiani, nelle quali non mancheranno ad essi né Dio che dà il cibo ad ogni vivente, né la carità dei fedeli, specialmente se saranno muniti di lettere di raccomandazione dei Vescovi.

Frattanto a Voi, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, doniamo affettuosamente la Benedizione Apostolica, la quale vogliamo che sia data a Nostro nome ai Cristiani di retta fede da ogni Venerabile Fratello Vescovo nella sua Diocesi.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° agosto 1754, anno quattordicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA I DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA IN ALBIS (2020)

DOMENICA IN ALBIS o OTTAVA DI PASQUA.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pancrazio.

Privilegiata di 1 classe. – Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è detta Quasimodo (dalle prime parole dell’Introito) o in Albis (anticamente anche post Albas), perché i neofiti avevano appena la sera precedente deposte le vesti bianche, oppure anche Pasqua chiusa, poiché in questo giorno termina l’ottava di Pasqua (Or.). Per insegnare ai neofiti (Intr.) con quale generosità debbano rendere testimonianza a Gesù, la Chiesa li conduceva alla Basilica di S. Pancrazio, che all’età di quattordici anni rese a Gesù Cristo la testimonianza dei sangue. Cosi devono fare i  battezzati davanti alla persecuzione a colpi di spillo cui sono continuamente fatti segno; devono cioè resistere, appoggiandosi sulla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, risorto. In questa fede, dice S. Giovanni, vinciamo il mondo, poiché per essa resistiamo a tutti i tentativi  di farci cadere (Ep.). È quindi di somma importanza che questa fede abbia una solida base e la Chiesa ce la dà nella Messa di questo giorno. Base di questa fede è, secondo quanto dice S. Giovanni nell’Epistola, la testimonianza del Padre che, al Battesimo del Cristo (acqua), lo ha proclamato Suo Figliuolo, del Figlio che sulla croce (sangue) si è rivelato Figlio di Dio, dello Spirito Santo che, scendendo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, secondo la promessa di Gesù, ha confermato quello che il Redentore aveva detto della propria risurrezione e della propria divinità. Nel Vangelo vediamo infatti come Gesù Cristo, apparendo due volte nel Cenacolo, dissipa l’incredulità di San Tommaso e loda quelli che han creduto in Lui senza averlo veduto.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

1 Pet II, 2. Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]

Ps LXXX: 2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob. [Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]

– Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio

Orémus.

Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus.

[Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V: 4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  – Deo gratias.

Omelia I.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA FEDE

“Carissimi: Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che, Gesù Cristo è figlio di Dio? Questi è Colui che coll’acqua e col sangue, Gesù Cristo: non con l’acqua solamente, ma con l’acqua e col sangue. E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono una cosa sola. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. Ora, la testimonianza di Dio che è maggiore è questa, che egli ha reso al Figlio suo. Chi crede al Figlio di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio” (1 Giov. V, 4-10).

S. Giovanni, oltre il Vangelo e l’Apocalisse, scrisse tre lettere. La prima di queste è indirizzata ai fedeli dell’Asia minore, di cui Efeso, ove l’Apostolo dimorava, erane la capitale. Si potrebbe chiamare lettera accompagnatoria o introduzione del quarto Vangelo. Vi si fa risaltare la divinità di Gesù Cristo, e vi si danno prescrizioni per la pratica della vita cristiana, specialmente in relazione all’amor di Dio e all’amor del prossimo. L’epistola odierna è tolta da questa lettera. Per vincere il mondo con le sue concupiscenze, con i suoi errori, con le sue lusinghe, con le sue persecuzioni bisogna essere appoggiati a una fede viva nella divinità di Gesù Cristo. Fede che ha una base incrollabile, perché fondata sulla testimonianza del Padre, che proclama Gesù Cristo suo Figlio, quando è battezzato nelle acque del Giordano; dalla testimonianza del Figlio, che dimostra la sua divinità quando versa il sangue sulla croce; dalla testimonianza dello Spirito Santo, che, discendendo sopra gli Apostoli il giorno di Pentecoste, conferma la predizione di Gesù Cristo e quanto egli aveva insegnato sulla propria divinità. Accogliendo la testimonianza di Dio relativamente a Gesù Cristo, abbiam ben di più che la testimonianza degli uomini. Questo celebre passo di S. Giovanni ci suggerisce di parlar della Fede. Essa:

1. Ci fa trionfare delle passioni,

2. Ci preserva dall’errore,

3. Ci fa rendere il dovuto omaggio a Dio.

1.

Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede. Chi crede che Gesù Cristo è Dio, e vive in conformità di questa credenza, trova la forza necessaria per trionfare del mondo. Le lusinghe, l’esempio del male che dilaga, la concupiscenza esercitano sull’uomo una forza a cui ben difficilmente si resiste con considerazioni umane. Ci vuole una forza superiore, e questa forza è la fede. I due discepoli che il giorno di Pasqua ritornano scoraggiati al castello di Emaus, sono accompagnati, nel cammino, da uno sconosciuto, che spiega loro parecchi luoghi della Sacra Scrittura. Rimasti soli, si dichiarano a vicenda: «Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre per istrada ci parlava e ci interpretava le Scritture?» (Luc. XXIV, 32). Quella parola accendeva i loro cuori, perché chi parlava era Gesù. La parola di Dio avvince i cuori con le sublimi verità che rivela, e gli infiamma a compiere con entusiasmo i più grandi sacrifici, con l’assicurazione che non mancherà mai l’aiuto della grazia divina. La fede parla di Dio e dei suoi attributi. Credere che Dio è santo, e illudersi che non abbiano a dispiacergli i peccati, è cosa impossibile. Credere che è sapientissimo, e lusingarsi che gli sfuggano le azioni degli uomini, è inconciliabile. Credere che è giusto, e aspettarsi che non punisca le colpe e non premi la virtù è pretesa assurda. L’uomo che crede con fede viva nella parola di Dio, cerca di conformare a essa la propria vita, e con la grazia che viene da Dio, vi riesce. « I precetti di lui non sono gravosi, — dice l’Evangelista — perché tutto ciò che viene da Dio vince il mondo » (I Giov. V, 3-4). I beni che ci offre il mondo perdono ogni attrattiva quando consideriamo seriamente l’ammonimento di Gesù Cristo: « Che giova mai all’uomo guadagnar tutto il mondo se poi perde l’anima? » (Matt. XVI, 26). Nessuno potrà mai arrivare a contare il numero di coloro, che, meditando questa massima della nostra fede, si son guardati dal commettere ingiustizie a danno degli altri, hanno moderato il loro desiderio di possedere, hanno, magari, rinunciato alle ricchezze, ottenendo una vittoria completa sulla cupidigia dei beni di questa terra, « radice di tutti i mali » (I Tim. VI, 10). Contro chi possiede una fede viva perdono la loro forza anche le minacce del mondo. «Non temete — leggiamo nel Vangelo — coloro che uccidono il corpo e non possono uccider l’anima; temete piuttosto chi può mandare in perdizione all’inferno e l’anima e il corpo» (Matt. X, 28). Queste parole, ricordate nel tempo della prova, producono i forti, che disprezzano qualunque tormento, piuttosto che venir meno alla voce della coscienza. E fanno sorgere i martiri che accettano la morte più straziante, ma non si stancano di dare a Dio l’onore e l’omaggio che gli si deve. « L’operaio è degno della sua mercede » (I Tim. V, 18.). E la fede ci dice che chi lavora nel combattimento contro il mondo avrà la sua mercede. Una gloria, in confronto della quale « le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione » (Rom. VIII, 18). In vista di questa gloria, chi non è spinto a combattere costantemente il mondo fino alla vittoria, dicendo col Poverello d’Assisi: « Tanto è il bene che m’aspetto che ogni pena mi è diletto »?

2.

E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. La testimonianza dello Spirito Santo esclude ogni dubbio, perché è proprio di Lui il dire la verità. E quanto c’insegna la fede è appunto testimonianza dello Spirito Santo. Felice l’uomo che ha la fede, perché egli trova la luce vera fra le tenebre che coprono la faccia della terra. Ci sono delle verità che anche l’intelletto dell’uomo può scoprire: come, l’esistenza di Dio, la sua unità, la sua provvidenza, la spiritualità e immortalità dell’anima, la distinzione tra il bene e il male ecc. Abbandonato però l’uomo alla sola ragione, non può venire alla conoscenza di queste verità e alle conseguenze che ne derivano, senza molta riflessione e ragionamento. Ma la gran massa degli uomini non è portata al ragionamento. Basa le sue convinzioni non sul ragionamento, ma sulla fede. E anche coloro che, dotati di ingegno superiore agli altri, cercano di penetrare le verità naturali, non sempre arrivano a conoscerle come si deve; e, frequentemente, arrivano a conclusioni diverse. Che dire poi se c’entrano le passioni? Quanti errori intorno a Dio e ad altre verità fondamentali, anche tra i popoli più colti, come quelli della Grecia e di Roma! Se conobbero Dio, non ne conobbero bene né la natura né gli attribuiti. Si formarono molti dei, e si crearono degli idoli. Se conobbero Dio non gli prestarono il culto dovuto. Accecati dalla loro superbia, e seguendo le inclinazioni della corrotta natura, precipitarono in errori d’ogni sorta. « S’invanirono nei loro ragionamenti, e fu avvolto di tenebre il loro stolto cuore. Dicendo di essere sapienti divennero stolti, e scambiarono la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine, rappresentante l’uomo corruttibile e uccelli e quadrupedi e rettili » (Rom. I, 21-23). Questa constatazione che l’Apostolo fa parlando del mondo greco-romano, ci dice di quanta importanza può essere la rivelazione, anche rispetto a quelle verità, che l’intelletto umano può conoscere da sé. Io mi avvio lungo una strada maestra, al valico d’una catena di monti. Ma le ore passano e il valico è ancor lontano. Quel continuo serpeggiar della strada comincia ad annoiarmi; il continuo salire, per quanto lento, mi fa sudare e mi stanca. Sarei ben felice se una veloce vettura si fermasse al mio fianco, e io fossi invitato a salirvi. In brevissimo tempo, senza sudore e logorio di forze, arriverei alla meta. La fede, anche nel campo delle verità naturali, mi porta con prontezza, senza fatica, là dove con le sole forze della ragione non si potrebbe arrivare che tardi, a stento, e non sempre felicemente. Se poi veniamo a parlare delle verità soprannaturali, come sono i misteri della nostra Religione, sarebbe da insensati pretendere di conoscerle con le forze della nostra ragione. «Non può esserci alcun dubbio che nella cognizione delle cose divine dobbiamo usare dell’insegnamento divino » (S. Ilario: De Trinitate L. 4, 14.). Noi che non conosciamo bene questa terra sulla quale siamo nati, abitiamo, ci nutriamo; che non siamo capaci di contare le arene del mare, né le gocce dell’oceano, né i giorni del mondo, non possiamo pretendere di arrivare con la nostra ragione a penetrare la profondità di Dio, a comprender cose che sono tanto al di sopra di noi, senza esservi guidati dal lume della fede.

3.

Se ammettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. S. Giovanni intende parlare della testimonianza, che le tre Persone della SS. Trinità hanno fatto della divinità di Gesù Cristo; e si può applicare, in generale, a qualsiasi verità da Dio rivelata. Si dice: Chi crede facilmente, è facilmente ingannato. D’accordo; ma quando si crede con la testa nel sacco. Se io credo facilmente a un uomo che è degno di fede, non mi passa neppur per la mente il dubbio di essere ingannato. E questa mia sicurezza non è affatto irragionevole. « L’autorità — osserva S. Agostino — non è destituita di ragione quando si osserva a chi si presta fede » (De Vera Relig. c. 24, 45). È quello che possiamo constatare continuamente. In fatto di scienza, di arte, di cognizioni in genere, noi ci affidiamo alla autorità degli altri, e nessuno per questo ci accusa di essere irragionevoli. Gli ammalati credono alla parola del medico, perché sono persuasi che egli, che ha studio e pratica in proposito, conosce la malattia e i rimedi, e non vuole ingannarli. Gli scolari credono al maestro che ha l’ufficio e l’obbligo di insegnar loro la verità. Lo studioso di geografia conosce il nome dei continenti e dei vari Stati, in cui si dividono, e molto probabilmente in questi luoghi egli non è mai stato. Conosce l’altezza e l’estensione delle più importanti catene di monti, e forse non le ha mai valicate, né viste da lontano. Sa quali sono i fiumi principali, vi dice dove hanno la sorgente e dove la foce, vi annuncia esattamente la lunghezza del loro percorso; eppure non li ha mai visti né misurati. Egli crede a coloro che si occupano di questa materia. Si conoscono tanti fatti della storia antica e moderna; si precisa il tempo e il luogo dove avvennero, il nome delle persone che vi presero parte; eppure questa conoscenza non è diretta. Si crede alla parola di chi ne fu testimonio o agli scrittori che narrarono gli avvenimenti. Se è ragionevole che si creda alla testimonianza dei maestri e degli scrittori, perché li stimiamo seri e degni di fede, è molto più ragionevole che si creda alla testimonianza di Dio il quale, dopo aver parlato ai nostri padri per mezzo dei Profeti, « parlò a noi per mezzo del suo Figliuolo » (Ebr. 1, 2). Sarebbe inesplicabile credere agli uomini, che possono andar soggetti a errori, e non credere a Dio, che non può né errare, né ingannare. « Egli sa tutto lo scibile… annunzia le cose passate e quelle che accadranno, e segue la traccia di quelle occulte » (Eccl. XLII: 19). Se si considera l’indiscussa autorità di Dio, bisogna conchiudere con S. Gregorio Nazianzeno: « Per noi la fede è la perfezione del ragionare » (Or. theol. 3, 21). In fondo, noi rendiamo omaggio all’uomo, quando, sulla sua autorità, crediamo quanto egli dice. E credendo alla parola di Dio, gli rendiamo l’omaggio che ogni uomo è tenuto a rendergli. Per richiamare il popolo d’Israele, ritornato dalla schiavitù, a una vita più fervorosa, il Sacerdote Esdra legge il volume che contiene la parola di Dio. Egli legge in una piazza di Gerusalemme dall’alto di una tribuna. Appena apre il libro tutto il popolo si alza in piedi in segno di rispetto alla parola del Signore, e in piedi e in silenzio ascolta la lunga lettura (2 Esdrea VIII, 2-7). Piace certamente al Signore questo omaggio esterno reso alla sua parola, ma indubbiamente gli piace di più l’omaggio interno, l’omaggio della intelligenza, che gli si rende quando si crede fermamente alle verità da Lui rivelate.

Alleluja

Alleluia, alleluia – Matt XXVIII: 7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam. [Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]

Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja. [Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XX: 19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – 

OMELIA II

 “In quel tempo giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuso le porte, dove erano congregati i discepoli per paura de’ Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Ma Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi al venire di Gesù. Gli dissero però gli altri discepoli: Abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: se non veggo nello mani di lui la fessura de’ chiodi, e non metto il mio dito nel luogo de’ chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo, di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pose in mezzo, o disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso: Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Rispose Tommaso, e dissegli: Signor mio, o Dio mio. Gli disse Gesù: Perché  hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro che non hanno veduto, e hanno creduto. Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de’ suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù ò il Cristo Figliuolo di Dio, ed affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui” (Jov. XX, 19-31).

[Billot: “Discorsi parrocchiali” IIa Ed. S. Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la perseveranza.

Pax vobis. Jo. XX.

Quanto queste parole, fratelli miei, che Gesù Cristo indirizza ai suoi Apostoli dopo la sua Resurrezione, sono consolanti per essi e per noi! Esse ci annunziano il più gran bene che l’uomo possa desiderare sulla terra, la pace cioè del Signore, dono prezioso ed inestimabile che supera, dice l’Apostolo, tutto ciò che si può immaginare. Si è questa pace ineffabile che vengo in quest’oggi, fratelli miei, a desiderarvi con tanto più di ragione quanto che avete voi fatto ogni vostro potere per procurarvela in questo santo tempo della Pasqua, con la premura che vi siete presa di riconciliarvi con Dio, accostandovi ai sacramenti della penitenza e dell’Eucaristia. Come il figliuol prodigo, voi avevate abbandonata la casa del migliore di tutti i padri, ma con un sincero pentimento siete rientrati in grazia con lui, avete lasciato il vecchio uomo per rivestirvi del nuovo e diventare nuove creature in Gesù Cristo. Liberati dalla schiavitù del peccato, voi siete ristabiliti nei diritti che avevate perduti. La pace del Signore, ripeto, sia dunque con voi! Possiate voi gustarla lungo tempo questa beata pace che fa la felicità dell’uomo in questo mondo, e non perderla giammai! Questo tesoro è adesso nelle vostre mani, e da voi dipende il sempre conservarlo: non v’è che il peccato il qual possa rapirvelo: avvertite dunque a non ricadere nel peccato, mentre se voi fate di nuovo la guerra al vostro Dio, non avete a sperare pace alcuna con Lui. Non v’ha pace per gli empi, dice lo Spirito Santo: non est pax impiis (Isai. XXVIII). La pace del Signore non è che per le anime che sono a Lui unite per la santità della loro vita. Ah! se voi conosceste bene, fratelli miei, il dono di Dio, il prezzo inestimabile della pace di cui godono le anime sante, quali precauzioni non prendereste voi per conservarla? Con qual diligenza non evitereste tutto ciò che può farvela perdere? Per indurvi dunque a conservare questa beata pace del Signore voglio quest’oggi esortarvi alla perseveranza nelle buone risoluzioni che avete prese in questo santo tempo di evitare il peccato e di servire fedelmente il Signore Dio vostro. Io potrei persuadervela pei motivi di riconoscenza e di fedeltà che dovete a Dio; ma voglio prendervi per li vostri propri interessi e farvi riguardare i vantaggi della perseveranza, come altrettanti potenti motivi per animarvi ad attendervi seriamente; voglio istruirvi sopra i mezzi i più efficaci che dovete impiegare: il che mi fornisce le due seguenti riflessioni. Egli è importante per voi perseverare nella grazia: primo punto. Quali sono i mezzi di cui dovete servirvi per perseverare? secondo punto.

I. Punto. Quantunque il peccatore giustificato sia libero dai legami del peccato ed abbia ricevuto nella grazia della giustificazione un pegno della vita eterna, non è però ancora giunto al porto della salute; il gran numero dei nemici che ha a combattere, le occasioni di peccato da cui è attorniato, il mondo che cerca di sedurlo; i cattivi esempi che lo strascinano, le fragilità cui egli è soggetto, tutto cospira a dargli giusti timori sul pericolo in cui è di far naufragio perdendo la grazia di Dio.  – Il demonio, nostro nemico comune, ben lungi di essere indebolito e disanimato dalle sue prime sconfitte, ci assale con nuove forze, contro i giusti principalmente se la prende, perché riguarda il peccatore come una piazza di cui si tien sicuro. Gira continuamente intorno di noi, come un leone che rugge, che cerca divorarci; non avvi  né astuzia né artifizio che non impieghi per ritornare nella casa donde è uscito – revertar in domum meam [Matth. XII]. Ecco, ripeto, ciò che deve far tremare l’uomo, benché potesse esser assicurato in questa vita del perdono de’ suoi peccati. Or il mezzo di rassicurarsi in questo timore si è di perseverare, fino al fine: è la perseveranza dice s. Bernardo, che sostiene i nostri meriti: nutriæ ad meritum. Essa è che assicura la nostra corona: mediatrix ad præmium. Due qualità che ce ne fanno conoscere il prezzo. – Felice, mille volte felice l’anima che possiede la grazia del suo Dio! Essa è l’oggetto delle sue compiacenze; erede del regno, ha un diritto incontrastabile su questa celeste eredità, e le sue pretensioni sono sì certe che all’uscir da questa vita glien’è assicurato il possesso. Tutto, ciò ch’ella fa in questo avventuroso stato le serve pel cielo.  Un bicchier d’acqua dato nel nome di Gesù Cristo, una parola di compassione detta ad un afflitto, una breve orazione, tutto sarà ricompensato nel cielo; e perciò, fratelli miei, può dirsi con verità che ad ogni momento noi possiamo meritare un’eternità di gloria. E come questo? Eccolo: ella è una verità di fede, fondata sulla testimonianza dei libri santi, che Dio ricompenserà i giusti secondo i loro meriti; che la gloria di cui godranno nel cielo, sarà proporzionata alla grazia che avranno all’uscire da questa vita, secondo l’oracolo di Gesù Cristo, il quale ci assicura che nella, la casa di suo Padre vi sono molte dimore; In domo Patris mei mansiones multæ sunt (Jo. XIV); vale a dire che le ricompense saranno più o meno grandi nel cielo, secondo i gradi dei meriti dei santi. Or ad ogni momento che voi possedete la grazia di Dio durante questa vita, voi potete, fratelli miei, accrescere i vostri meriti con altrettante buone azioni. Oh se voi conosceste, giusti che mi ascoltate, il ricco fondo di meriti che possedete nella grazia di Dio, qual cura non avreste voi di conservare, di far fruttificare questo fondo con la vostra perseveranza nella pratica del bene? Voi rassomigliate, dice il profeta, a quegli alberi che piantati lungo le acque, portano sempre frutti nella stagione, e conservano la loro verzura e la loro bellezza; Erit tamquam lignum secus decursus aquarum, quod fructum suum dabit in tempore suo (Ps. 1) Tutto ciò che voi fate, tutto ciò che soffrite, ritorna a vostro vantaggio: Omnia quæcumque faciet prosperabuntur. E per servirmi del paragone di Gesù Cristo medesimo, voi siete come il tralcio, che, essendo unito alla vite, dà sempre del frutto; sintantoché voi sarete uniti a Gesù Cristo, che è la vera vite, sarete fertili in buone opere, andrete di virtù in virtù, e tutti i vostri giorni al fine saranno ritrovati pieni avanti a Dio: Dies pieni invenientur in eis ( Psal. LXVII.) Ma se per disgrazia venite a separarvi col peccato da questa divina vite, voi non sarete più che un tralcio secco ed arido; tutte le opere che farete dopo la vostra caduta, benché buone sieno d’altra parte per il loro motivo, saranno opere morte, che non saranno di alcun valore pel cielo; perché esse non saranno animate dal principio di vita, che è la grazia santificante, senza la quale, dice l’Apostolo, noi non siamo che una campana che risuona, ed un cembalo che fa strepito: velut aes sonans aut cymbalum tinniens (1 Cor. XIII). E se voi morite nel peccato, qual sarà la vostra sorte? La stessa che quella del tralcio separato dalla vite, che si getta nel fuoco senza aver riguardo all’abbondanza dei frutti che ha portati. Vale a dire, che le buone opere ancora che voi avete fatte in stato di grazia, sebbene praticate ne aveste altrettante che tutti i Santi, saranno contati per nulla né vi preserveranno dagli orrori della morte eterna. Mentre in quella guisa che il Signore, siccome lo dice per un dei suoi profeti, dimentica tutto le iniquità del peccatore che ritorna a Lui con la penitenza, così dimentica tutte le virtù del giusto che se ne separa col peccato: Si averterti se iustus a via sua, omnes iustitiae eius non recordabuntur (Ezech. XVIII). Qual perdita! Qual disgrazia! la comprendete voi? E se la comprendete, come il timore di provarla non v’impegnerà a mantenere a Dio una fedeltà inviolabile? – Ma l’avete compreso, o peccatori, voi che con la vostra incostanza avete di già perduto il dono prezioso dello Spirito Santo, di cui siete stati fatti partecipi alcuni giorni sono; che dopo essere stati illuminati dalla luce della grazia, siete già rientrati nelle tenebre del peccato? A che paragonare si può lo stato miserabile cui siete ridotti? Voi rassomigliate ad un albero che era carico di frutti, di cui altri ha scosso i rami per farli cadere a terra, e che non ha più che foglie. Allorché eravate in grazia di Dio, voi eravate fertili in buone opere; ma da poi che il peccato ha fatto cadere questi frutti, non vi resta più che foglie, cioè apparenza di meriti, che possono bensì far credere a coloro che giudicano sol dall’esteriore che voi siete del numero dei viventi, ma che non vi tolgono dal numero dei morti: nomen habes quod vivas, et mortuus es (Apoc. III). – Poveri agricoltori, voi avevate gettata molta semente nel terreno che avete innaffiato coi vostri sudori, coltivato a forza di fatica: ma è venuta una tempesta che ha rovinata tutta la vostra messe, voi non farete alcun raccolto. – Voi peccatori, avevate fatti molti passi per rientrare in grazia con Dio; un serio esame dei vostri peccati, il dolore che avete concepito, le lagrime che avete versate, la violenza a superare il rossore di dichiararli, ecco le fatiche che vi promettevano una messe abbondante; voi avete anche già prodotto frutti di buone opere durante il tempo che eravate in grazia di Dio: ma, come fragile canna, avete ceduto al vento della tentazione, non avete avuta la fermezza di resistere alla lusinga di un sozzo piacere, di un vile interesse: invano dunque voi avete tanto faticato, tanto sofferto, poiché avete perduti tutti i frutti di benedizione che avevate accumulati. Ed in vero chi è colui che sarà salvo? È quegli, dice Gesù Cristo, che persevererà sino al fine: qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit (Matth. XXIV) Non basta dunque, fratelli miei, cominciar bene; ma bisogna ben finire. Non basta passare qualche giorno, qualche anno, nè anche la più gran parte di nostra vita negli esercizi della vita cristiana; bisogna essere fedele sino alla morte per meritare la corona d’immortalità; bisogna che la morte ci trovi coll’arme alla mano, senza di che tutti i nostri combattimenti a nulla ci serviranno. Molti corrono alla lizza; ma non ve ne è che un solo, dice l’Apostolo, che riporti il premio: unas accipit bravium (1. Cor. IX); ed è colui che va diritto al segno: correte dunque in tal maniera, conchiude l’Apostolo, che voi lo vogliate ancora: sic currite ut comprehendatis. – Quand’anche aveste terminata con successo una parte di vostra carriera, ed aveste avuto bastante coraggio per superare tutti gli ostacoli che s’incontrano nella via della salute, se vi arrestate in questa via e non andate sino al termine, voi non ottenete la corona di giustizia. Invano avrete combattuto durante qualche tempo le vostre passioni; invano avrete trionfato della vostra superbia con l’umiltà, dell’avarizia con la liberalità, dell’ira con la mansuetudine e colla pazienza; invano avrete domata la vostra carne coi rigori della mortificazione cristiana. Tutte queste virtù sono per verità molto stimabili, ma non saranno giammai ricompensate senza la perseveranza; è la perseveranza che deve coronarle: qui perseveraverit etc. Qualunque progresso abbiate dunque fatto nella virtù, guardate ben dall’arrestarvi: se dopo aver messa la mano all’aratro voi riguardate all’indietro, non siete più degni del regno di Dio, dice Gesù Cristo. “se siete usciti da Sodoma, non rimirate più da quella parte, dice s. Girolamo, per tema di essere infetti dalla contagione, mentre se aveste tanta debolezza da riguardare indietro per ritornare su i vostri passi, voi vedreste non una, città abbruciata dal fuoco del cielo, non case ridotte in cenere: ma vedreste l’edificio spirituale di vostra salute, che avete innalzato con tanta diligenza e fatica, rovesciato e distrutto; vedreste tutti i vostri stenti senza profitto, tutte le vostre preghiere, le vostre limosine, le vostre mortificazioni, le vostre buone opere, le vostre virtù, i vostri meriti senza ricompensa. Da qual dolore sareste voi colpiti alla vista di un tale spettacolo! Giudicatene, fratelli miei, dice s. Basilio, da quella di un mercante che, dopo una lunga navigazione, dove ha evitati i rischi e gli scogli del mare, viene sgraziatamente a far naufragio nel porto con una nave carica di preziose merci. Tale e mille volte più trista sarebbe ancora la vostra sorte, se, dopo aver camminato per qualche tempo nei sentieri della salute, dopo essere scampato ai pericoli che s’incontrano sul mare procelloso del mondo, voi veniste miseramente a rompere il vostro vascello contro lo scoglio di una tentazione, cui soccombeste; ahi voi perdereste in quel momento, come già vi ho detto, tutti i tesori di meriti e di virtù che avreste acquistati; e se la morte vi sorprende in questo stato, eccovi privati della corona immortale che vi era preparata nel cielo. – Quanti reprobi son nell’inferno che sarebbero stati gran santi se avessero finito come avevano incominciato! Ce ne dà il Vangelo un esempio ben chiaro nella persona del perfido Giuda. Quest’uomo, eletto da Gesù Cristo medesimo, per essere del numero dei suoi Apostoli, aveva avuto felici principi; testimonio delle meraviglie che il Salvatore operava, ne aveva egli provato tutte le finezze; beato se, come gli altri Apostoli, avesse corrisposto alla grazia di sua vocazione! Ma perché fu ad essa infedele, e si lasciò accecare della passione del danaro, egli è riprovato: laddove Paolo, che aveva cominciato col perseguitare i Cristiani, è un gran santo, tanto è vero fratelli miei, la perseveranza esser quella che dà la corona. – Chi è in piedi, badi adunque di non cadere, dice l’Apostolo. Temete, chiunque voi siate, che non vi accada questa disgrazia; conservate con diligenza il tesoro che possedete, per tema che un altro non ve lo rapisca. Forse nel momento ch’io vi parlo voi vi sentite spinti, sollecitati a ritornare al mondo, alle vostre partite di piaceri, alle vostre ree passioni; forse credete aver fatto abbastanza per la vostra salute, e contenti di voi medesimi, rimirate di già la vostra ricompensa del tutto pronta nel cielo; forse vi perdete di coraggio per qualche violenza che convien farsi per arrivarvi; ma ricordatevi che non basta di avere bene incominciato, bisogna finir bene; qualunque progresso abbiate fatto nella virtù convien sempre avanzare senza giammai disanimarsi per gli ostacoli che si presentano; ricordatevi che la conversione più sincera, la penitenza più esatta, le virtù più eroiche a nulla vi serviranno senza la perseveranza: voi ne avete veduta la necessità, vediamone i mezzi.

II. Punto. Benché la perseveranza finale nel felice stato della grazia sia un favore speciale che dipende dalla pura misericordia di Dio, possiamo nulla di meno domandarla ed ottenerla; come dice S. Agostino; ma i giusti medesimi non possono meritarla in rigore di giustizia: accade sempre, egli è vero, per colpa nostra che ne siamo privi; la nostra riprovazione è nostra unica opera, e non vi sarà alcun reprobo il quale non abbia potuto essere un predestinato. Ed in vero, siccome è proprio della bontà di Dio il rendersi favorevole ai nostri desideri e secondare i nostri sforzi, noi possiamo non solamente non renderci indegni del dono della perseveranza, ma ancor meritarla, di un merito che i teologi chiamano merito di congruenza; cioè impegnar Dio con la nostra fedeltà alle sue grazie ad accordarci quella che deve coronare tutte le altre: così si può dire che la grazia finale sebbene dipendente dalla misericordia di Dio del tutto gratuita, è in qualche modo a nostra disposizione. Imperciocché se noi siamo tanto fortunati di possedere la grazia di Dio, non dipende che da noi il perseverarvi con gli aiuti che Dio ci dà, e che non ci mancano al bisogno; e se perseveriamo sino alla morte, noi avremo la grazia finale che deve coronare tutte le  nostre opere. – Ma come lusingarvi, fratelli miei, di ottenere questo dono della perseveranza, questa grazia finale, se voi perdete con i vostri peccati la grazia che possedete, in vece di servirvene per mettere in pratica i mezzi che assicurar possono la vostra perseveranza? Quali sono questi mezzi? Eccone alcuni principali, che vi prego di ben ritenere a memoria: la fuga delle occasioni, la fedeltà nell’adempiere i vostri più piccoli doveri, la diffidenza di voi medesimi, la confidenza in Dio, un uso frequente dell’orazione e dei sacramenti, sono mezzi molto idonei per perseverare, e nello stesso tempo i segni più certi che si possono avere in questa vita della perseveranza: rinnovate la nostra attenzione per metterli in pratica. Si, fratelli miei, se voi siete risuscitati alla vita della grazia con una sincera conversione, uno dei mezzi più efficaci per conservarla è di fuggire le occasioni che ve l’hanno fatta perdere altre volte; la vittoria è annessa alla vostra fuga: fuge et vicisti. Mentre indarno pretendereste salvarvi del naufragio esponendovi ai medesimi scogli ove avete già naufragato: indarno vorreste conservare la sanità della vostr’anima in un’aria corrotta, che sì spesso vi ha infetti della sua contagione. Non sapete voi che chi ama il pericolo vi perirà? Qui amat periculum, in illo peribit [Eccl. III). Voi accusereste di temerità un convalescente che, uscendo da una pericolosa malattia vivesse senza circospezione, volesse usar cose che gli sono nocevoli, seguisse in tutto il suo appetito, si esponesse ad un’aria fredda e contagiosa: ora se v’è della temerità nello esporsi ai rischi di perdere la sanità del corpo, non ve ne ha forse altrettanta, quando altri si espone a perdere la grazia, che è la vita dell’anima? Si biasima con ragione l’imprudenza di un convalescente che non toglie le cagioni del suo male; e si scuserà la facilità del peccatore ad esporsi nelle occasioni in cui è mille volte caduto? No, no, fratelli miei, non vi lasciate sedurre; la medesima causa produce i medesimi effetti; se non evitate con diligenza ciò che è stato per voi una pietra d’inciampo, voi ricadrete infallibilmente nel vostro peccato. Invano mi direte voi che quando sarete nell’occasione del peccato, in quelle compagnie, in quelle case ove avete perduta la vostra innocenza, voi sarete più circospetti che non lo siete stati per il passato, voi veglierete sui vostri sensi, sarete più guardinghi e prenderete tutte le precauzioni possibili per non lasciarvi strascinare al male; ah! quanto andate errati con questa pretesa risoluzione, in cui credete essere! Pretendere di stare nell’occasione e non soccombervi, egli è voler dimorare tra le fiamme e non bruciarsi, cacciarsi un pugnale nel petto e non darsi la morte. – Mentre per non offender Dio nell’occasione si ricercan due cose: una dalla parte di Dio, e l’altra dalla parte dell’uomo. Dalla parte di Dio bisognerebbe un aiuto straordinario della sua grazia per sostenere la fragilità dell’uomo in un passo pericoloso, in cui è sì difficile il non cadere. Ora come potrete voi, fratelli miei, promettervi questo aiuto straordinario dalla parte di Dio, poiché la vostra temerità ed il vostro nessun timore di dispiacergli ve ne rendono cotanto indegni? Ma quand’anche Iddio per un effetto della sua gran misericordia vi accordasse questa grazia, essa non vi salverebbe dal pericolo che per quanto voi gli sareste fedeli. Or io pretendo che voi manchereste di questa fedeltà. Datemi la persona più regolata e meglio rassodata; la sua virtù, benché soda quanto possa esserlo, non si sosterrà nell’occasione. Gli oggetti fanno molto più impressione quando sono presenti che quando sono lontani. La loro presenza infiamma le passioni e fa svanire i migliori proponimenti, i tizzoni che ancora fumano, si riaccendono subito che si avvicinano al fuoco. Lo stesso è delle passioni; è cosa facile contenerle in assenza degli oggetti che le irritano: ma quando questi oggetti sono presenti, producono nell’anima temeraria incendi che è quasi impossibile di ammorzare: così si cade nel precipizio e vi si perisce senza quasi accorgersene. – Quanti esempi non potrei io addurre per confermare questa verità? Non si sono forse veduti i più grandi uomini, i Sansoni, i Davidi; i Salomoni e tanti altri perdere la loro forza e la loro virtù per essersi temerariamente esposti al pericolo? Ma senza ricorrere ad esempi stranieri, non avete voi medesimi che mi ascoltate fatta la trista esperienza di quel che dico, e non ne vediamo noi ogni giorno delle prove convincenti? Si domandi a quella giovine perché sia ricaduta in quei disordini che aveva detestati nel tribunale di penitenza. Si è, dirà essa la conversazione che ha avuta con quel libertino, cui ha permesso certe libertà vietate; laddove se non l’avesse frequentato, avrebbe conservata le grazie della sua riconciliazione. S’interroghi quel dissoluto perché siasi di bel nuovo abbandonato alla crapula. Si è, dirà egli, per essere stato nelle osterie con altri intemperanti che l’hanno indotto nelle loro dissolutezze. Non finirei mai. fratelli miei, se volessi rapportarvi tutti gli esempi i quali provano che è l’occasione che perverte i costumi più innocenti, che distrugge le migliori risoluzioni, che impedisce la conversione dei peccatori e che cagiona la caduta dei giusti. Finalmente voglio supporre ancora per un momento ciò che non accade quasi giammai, che chi si espone nell’occasione di commettere un peccato, effettivamente non lo commetta; per questo appunto che si mette nell’occasione prossima di offender Dio egli si rende reo di peccato, perché Dio gli proibisce di mettersi in pericolo di offenderlo. Or io vi domando, fratelli miei come lusingarsi di perseverare nella grazia e nell’amicizia di Dio con sì grandi ostacoli a questa perseveranza? –  Ah! se voi avete un pò di zelo per la salute della vostr’anima, prendete almeno le medesime precauzioni di cui vi servite per la sanità del corpo e per il buon successo dei vostri affari temporali. Quale attenzione non avete voi di allontanare tutto ciò che può alterare la vostra sanità o impedire la riuscita dei vostri affari? Perché non farete voi lo stesso per la vostr’anima allontanandovi da tutto ciò che può perderla eternamente? Osereste voi a bella posta esporvi in mezzo d’un incendio? E se vi foste, non ne uscireste ben preso, per tema di essere involti nel fuoco? Uscite nello stesso modo dall’occasione del peccato, allontanatevene come da un incendio, per tema di perdere la grazia di Dio, che è la vita della vostr’anima. Uscite da quella Babilonia avvelenata, ove non potete respirare che un’aria infetta, abbandonate quella casa che vi perde, qualunque diletto possiate voi trovarvi; benché cara vi sia quella persona il cui commercio è si fatale alla vostr’innocenza, benché lusinghiere sieno quelle partite di piacere, benché lucroso sia quell’impiego, quel giuoco che vi rende colpevoli di tanti peccati, allontanatevi da tutti questi oggetti. Mentre se il vostr’occhio, il vostro piede, la vostra mano vi scandalizzano, dice Gesù Cristo, voi dovete disfarvene e gettarli lungi da voi; perché è meglio entrare nella vita eterna con un occhio, un piede, una mano, che essere precipitati nell’abisso con tutti i vostri membri. Vale a dire, fratelli miei, che quando ciò che è per voi occasione di peccato vi fosse tanto caro, quanto uno di quei membri, è meglio rinunziarvi che rinunziare alla felicità eterna. Poiché, per arrivare a questa felicità, bisogna perseverare nella grazia; e voi non vi persevererete giammai, se non fuggite l’occasione del peccato. Ma alla fuga delle occasioni aggiungete una somma diffidenza di voi medesimi ed una gran confidenza in Dio. – Infatti, qualunque protesta abbiate voi fatta a Dio di servirlo costantemente, benché avanzati già siate nel sentiero della virtù, voi non dovete contare sulle vostre proprie forze: voi portate la grazia di Dio, dice l’Apostolo, in vaso fragile che può rompersi ad ogni passo che fate: dovete sempre temere, sempre star in guardia contro di voi medesimi; dovete ancora risentirvi dei colpi dei vostri nemici, e la trista esperienza sì spesso da voi fatta della vostra debolezza deve sempre farvi temere. State dunque in guardia, gettate gli occhi da ogni lato per osservare i luoghi per cui possono assalirvi; voi camminate tra i precipizi, voi siete attorniati da lacci che vi sono tesi da ogni parte, ed è tanto più pericoloso per voi di cadervi, quanto che voi non li vedete. Vegliate dunque continuamente su voi medesimi, vegliate sopra i vostri sentimenti: questi sono le porte per cui la morte può entrare in voi: mors ascendit per fenestras (Jerem. IX). Tenete con diligenza queste porte chiuse per tema che non vi si rapisca la grazia preziosa che dentro di voi possedete. Se aveste trovato un tesoro, voi lo custodireste attentamente, voi lo riporreste nel luogo più nascosto di vostra casa, ne chiudereste tutti gli aditi, affinché i ladri non potessero penetrarvi, fate voi nello stesso modo per conservare la grazia di Dio? Custoditela come la pupilla del vostr’occhio, per metterla al coperto da tutti i colpi dei vostri nemici. Diffidate ancora vieppiù di quelli che sono dentro di voi medesimi; questi sono le vostre passioni, nemici tanto più a temere, quanto che vi lusingano davvantaggio; reprimete, mortificate queste passioni, sempre pronte a sollevarsi contro la legge di Dio. – Temete specialmente le astuzie dell’amor proprio, che vi farà prendere sbaglio in mille occasioni, ricoprendo il vizio del nome di virtù, persuadendovi, se voi volete ascoltarlo, che non vi è alcun male a tenere certi discorsi, a fare certe azioni, perché sono autorizzate dal costume e dall’esempio degli altri. Guardatevi bene dal seguire queste guide cieche che vi condurrebbero infallibilmente al precipizio. Abbandonate piuttosto questa cura di vostra condotta ad un saggio ed illuminato direttore, il quale come un altro Raffaele, vi condurrà nelle vie della salute. Questo è un mezzo sicuro di premunirvi contro la vostra debolezza: ma quanto dovete voi diffidare di voi medesimi, altrettanto dovete mettere la vostra confidenza in Dio; Egli è che con la sua grazia ha cominciato l’opera della vostra predestinazione, egli è che la condurrà a fine: qui cœpit bonum opus ipse perficiet (Philip. 1). Possiamo noi, o mio Dio, cercar altrove che presso di Voi 1’aiuto che ci è necessario per riuscire in un affare di tanta importanza? Giacché la perseveranza finale è un dono, che dipende, dalla vostra misericordia, come non ve la chiederemo noi ogni giorno con le preghiere le più ferventi, quali appunto ve le indirizzava il reale profeta? Illuminatemi, Signore, per tema ch’io non m’addormenti nella morte del peccato: Illumina oculos meos, ne unquam obdormiam in mortem (Psal. XII). Sostenetemi nei miei combattimenti, affinché il nemico di mia salute non possa prevalere contro di me: ne quando dicat inimicus meus, prævalui adversus eum (ibid.). Non è già di me stesso che io spero trionfare, ma sulla forza del vostro braccio onnipotente; io non sono capace da me stesso che di tradirvi; ma appoggiato sulla vostra grazia nulla avvi di cui non possa venire a capo: io vi chiedo adunque, o mio Dio, questa santa grazia e soprattutto quella della perseveranza, grazia finale che deve coronare tutte quelle che voi mi avete di già fatte. Tale è, Cristiani l’orazione che far dovete a Dio; a tutte le grazie che domanderete, aggiungete sempre quella della perseveranza e quella d’una santa morte: non potremmo troppo chiederle, non sapremmo troppo fare per ottenere un favore da cui dipende la nostra felicità eterna; ma bisogna che la vostra orazione sia accompagnata da una condotta regolata e da una perseveranza attuale dal canto vostro nella pratica del bene. – Voi avete bisogno per questo dell’aiuto della grazia, ma essa non vi mancherà se la chiedete a Dio, e se avete cura d’andare ad attingere quest’acqua salutevole nei fonti del Salvatore, cioè nei Sacramenti; le stesse cause che vi han data la sanità dell’anima, ve la conserveranno. Se il profeta Elia ricevette altre fiate forza bastante da un pane miracoloso recatogli da un Angelo per continuare il suo viaggio sino al monte Oreb, quante non ne riceverete voi dal pane di vita, dal pane dei forti, che vi presentano nella santa Eucaristia, per giungere al santo monte di Sion, l’abitazione degli eletti? Prendete dunque e mangiate questo pane, posso io dirvi, come disse l’Angelo al Profeta; poiché vi resta ancora molta strada a fare: Surge, comede, grandis enim tibi restat via (III Reg. XIX).

Pratiche. Senza esaminare ciò che avete fatto per la vostra salute, non pensate che alla strada che vi resta, come se nulla ancora aveste fatto. Faticate sempre come se non faceste che cominciare a servir Dio. Mentre lo stesso è, fratelli miei, della salute dell’anima come di una vigna, di una terra, che si deve sempre coltivare per cavarne frutto. Dopo aver fatto la raccolta in quel campo, in quella vigna, bisogna, per farne delle nuove, lavorarvi di bel nuovo. Cosi è della salute; qualunque fatica abbiate voi sopportato per il cielo, non conviene mai riposarsi, conviene sempre lavorare, come se nulla ancora fatto si fosse, sempre avanzare nella strada che conduce all’eternità; poiché non avanzare si è ritornare indietro , dice S. Bernardo: non progredi regredì est. Ritenete bene questa massima per metterla in pratica; ella è un eccellente mezzo di perseveranza: servitevi di quelli che vi ho insegnati: temete il peccato, come il più gran male che possa accadervi; pensate sovente a quanto vi ho già detto, che il primo che voi commetterete sarà forse l’ultimo e che non avrete forse più il tempo di farne penitenza. Fuggitene le occasioni, diffidate di voi medesimi, mettete la vostra confidenza in Dio, ricorrete a Lui con l’orazione, frequentate i sacramenti. Confessatevi per lo meno una volta al mese; meditate le grandi verità della salute, riempitene la vostra mente leggendo spesso buoni libri; siate fedeli a seguire un regolamento di vita, e costanti nelle pratiche di pietà che vi sarete prescritte; tenetevi sempre pronti come le Vergini prudenti, abbiate sempre dell’olio nelle vostre lampade, cioè, occupatevi continuamente in buone opere, affinché all’arrivo dello sposo voi siate introdotti nel convito eterno che Dio prepara ai suoi eletti.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6. Angelus Dómini descéndit de coelo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja. [Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ.

[Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

[Joannes XX: 27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja.

[Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

 Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[Ti preghiamo, Signore Dio nostro, che i sacrosanti misteri, che tu hai dato a presidio del nostro rinnovamento, ci siano rimedio nel presente e nell’avvenire]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (2)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (2)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa – 1891]

PRIMA PARTE

CONSIDERAZIONI GENERALI

Capitolo I.

DIO CHIEDE DI ESSER GLORIFICATO MEDIANTE LA DIVINIZZAZIONE DELL’UOMO

Dio vuol far felici gli uomini comunicandosi ad essi.

Dio ha fatto tutto per la sua gloria: è questala verità fondamentale che dobbiamo porre come base della dottrina che andremo ad esporre. Nessun’altra ragione avrebbe potuto far sì che Dio, infinitamente ricco e felice, lasciasse il suo riposo per creare il mondo. Chi esiste da solo deve avere in sé tutto ciò che è necessario per la sua perfezione e felicità. La sua infinita bontà, essenzialmente comunicativa, potrà creare dal nulla migliaia di creature, ma ciò che cercherà in esse e ciò che troverà in esse, sarà se stesso e sempre se stesso. La sua facoltà di amare è certamente infinita. Ma, per quanto infinita possa essere, è completamente soddisfatta della sua infinita amabilità. Egli aveva la libertà di creare o di non creare; ma, una volta determinatosi a produrre qualcosa di sé, non era in suo potere dargli un fine diverso da se stesso, poiché solo Lui può essere il fine delle sue azioni. Non poteva, senza distruggersi, che desiderare di condurre tutto a se stesso. È la legge del suo Essere; legge gloriosa imposta dalla sovrana perfezione della sua Essenza alla sua onnipotente volontà, per cui, essendo il primo inizio di tutte le cose, Egli ne è anche l’ultimo fine. Dal momento in cui ha creato il mondo, l’unico fine della sua saggezza poteva essere solo quello di compiacersi ed amarsi nelle sue opere. È impossibile respingere questa prima legge senza negare le prove e senza distruggere la nozione di Dio e la nozione di creatura. – Considerata questa verità, possiamo affermare che Dio vuole essere glorificato dalla divinizzazione dell’uomo. Le creature razionali, come gli Angeli e gli uomini, sono tra tutte, quelle che meglio rappresentano la perfezione divina. Sono i meglio disposti a ricevere la felicità di Dio. Pertanto, Dio si glorificherà specialmente in loro, realizzando i piani amorosi che lo hanno spinto a trarre le cose dal nulla. Dio realizzerà la gloria attraverso la creazione dell’anima, sostanza spirituale ed immortale, come Lui, la cui semplicità, immagine della sua ineffabile semplicità, racchiude in sé stessa una tanto meravigliosa fecondità di atti e di potenze. Ma questa gloria non è se non il principio che Egli intendeva darle ad essere, perché il suo fine è quello di essere glorificato principalmente attraverso la felicità della creatura razionale, attraverso lo sviluppo delle sue facoltà, attraverso l’amicizia che Egli desidera con essa.

La natura di questa felicità.

L’uomo non poteva che aspirare alla perfezione e alla felicità naturale. La pienezza della conoscenza, dell’amore, la gioia di Dio nelle creature, uniti all’assenza di dolore e alla certezza dell’immortalità, avrebbero formato lo sviluppo delle facoltà dell’uomo e la sua naturale beatitudine. Questa felicità gli sarebbe bastata. Dio non doveva più nulla alla sua creatura. Anche se non le avesse concesso nessun’altra perfezione, questo solo sarebbe stato sufficiente a costringerla a legarsi a Lui con i vincoli della riconoscenza. La sua giustizia sarebbe stata del tutto soddisfatta e nient’altro avrebbe preteso la sua saggezza. – Ma quello che sarebbe bastato alla sua saggezza e giustizia, non accontentava la sua bontà. La felicità naturale non poteva sembrare sufficiente al bisogno che Dio prova nel comunicarsi. Con un atto di grande comunicazione, Egli si è dato all’uomo. Lo ha reso partecipe della sua natura, della sua luce e del suo amore. Si è costituito oggetto della nostra felicità, ammettendoci alla visione della sua bellezza ed al godimento della sua infinita bontà. Guardate l’uomo, argilla viva, posto a perfezione della sua natura come capo della creazione, un tempo perso negli abissi del nulla, ora è elevato da Dio ad un’altezza incommensurabile, ad un mondo che è in cima della creazione. Per questo viene giustamente chiamato “ordine soprannaturale” il destino dato alla creatura razionale, quello di godere per tutta l’eternità della stessa felicità di Dio, dopo aver avuto a sua disposizione, sulla terra, i mezzi per raggiungere un fine tanto eccelso.

L’Ordine soprannaturale.

Questo ordine soprannaturale è al di sopra della natura malata e contaminata dell’uomo e della più pura natura angelica. Il minore degli atti che appartengono a quest’ordine è più eccellente dei più ammirevoli prodigi dell’ordine naturale! In verità, questi atti sono atti divini, Intendo atti divini per comunicazione, come gli atti di Dio. sono divini per natura. Preghiamo il Cuore di Gesù che ci dia la grazia di contemplare alcune delle sue magnifiche funzioni racchiuse nelle loro gloriose oscurità. Ma qual è il fine soprannaturale? Il fine naturale è la conoscenza, l’amore e il possesso di Dio, in quanto si manifesta a noi e dona Se stesso alle sue creature. Molto diverso e più alto è il fine il cui oggetto è la conoscenza di Dio contemplato in Se stesso e con la sua stessa luce; la gioia di Dio amato con il suo stesso amore; il possesso della sua stessa felicità. Il fine soprannaturale consiste nella comunicazione della propria felicità da parte di Dio. L’anima che ha raggiunto questo fine beato, non vede Dio nella creazione come in uno specchio, ma lo vede faccia a faccia; dirige i suoi sguardi al centro stesso della Luce eterna; annega nell’oceano che riempie di infinita pienezza l’infinita capacità di Dio stesso; entra nella gioia del suo Signore; si inebria nel torrente delle divine delizie. Come l’intelligenza riprodurrà in se stessa l’immagine degli oggetti a cui è applicata, l’anima, penetrata dai bagliori della chiarezza divina, e dagli ardori della carità divina, diventa interamente come Dio.  E si unisce a Lui con i legami di un amore così delizioso ed irresistibile, tanto che essa stessa diventa spirito. Il fine naturale dell’uomo è la sua divinizzazione. Il fine soprannaturale dell’uomo è la sua deificazione. Tuttavia, tra questa divinizzazione e il panteismo, c’è una distanza come quella che separa la divinità dal nulla. Il panteismo, cercando di assorbire l’anima nell’infinito, raggiunge invero solo il suo annientamento. Al contrario, nel fine soprannaturale, l’anima conserva il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà, sa, ama e gode. Ma essa conosce mediante il Verbo  di Dio, ama per mezzo dello Spirito di Dio e gode della felicità di Dio. Tutte le cose rimangono distinte, anche se in Dio tutte le cose sono fatte per questa felicità. Essa [l’anima] è tutta in Lui, ed Egli è tutto in essa. Essa non è Dio, ma è divinizzata. Essa è davvero ammessa a partecipare della natura divina; di modo che unendosi intimamente all’anima, Dio la trasforma in Se stesso. – Tale dignità concessa alla creatura è soprannaturale. È soprannaturale per l’uomo, ma lo è anche per il più perfetto degli spiriti puri, per il più elevato dei serafini. Era per Adamo innocente, come lo è anche per i suoi discendenti decaduti. Era soprannaturale in quanto le nostre forze naturali non potevano ottenerla, né il nostro spirito concepirla se non in maniera molto vaga, né i desideri naturali potevano orientarsi verso di essa: « Perché né l’occhio vide – dice San Paolo – né l’orecchio udì, né il cuore umano poteva immaginare ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano ».  Dio non ci doveva l’elevazione a questo fine, né il farci assaporare questa felicità. Se lo ha fatto, è stato per il libero esercizio della sua bontà. Egli ha agito liberamente sia quando ci ha dato l’essere limitato e sia anche quando ci ha destinato, per mezzo della elevazione, all’ordine soprannaturale, a possedere il suo Essere infinito. Il secondo di questi doni è, se possibile, ancor più gratuiti del primo.

La grazia, principio e mezzo della nostra divinizzazione.

Il nostro destino verso il fine soprannaturale è gratuito, ma non la sua retribuzione. Non avevamo alcun diritto a che Dio ce lo proponesse; ma dal momento che Egli lo ha voluto, noi abbiamo l’obbligo di ottenerlo. La creatura libera deve essere, insieme a Dio, l’Autore della propria felicità: essa non può essere glorificata dal suo Creatore nell’eternità se essa stessa non lo glorifica nel tempo. Ma, qual è il mezzi per meritare la partecipazione della felicità di Dio? Se il merito deve essere proporzionato alla ricompensa, non dovrebbe l’uomo disporre di mezzi divini per meritare un fine divino? Certo che si! Questo spiega perché la divinizzazione dell’uomo, che deve avere il suo coronamento in cielo, inizi quaggiù per mezzo della grazia. La grazia è il seme della gloria. L’unione con Dio implica la visione di Dio nella sua luce propria, l’unione con Dio attraverso il suo proprio amore, e il godimento della felicità propria di Dio. Anche nella grazia troveremo questi tre tipi di unione: la fede ci farà conoscere Dio con la sua luce; la carità ci farà amare Dio con il suo stesso amore, e la speranza ci farà tendere alla felicità di Dio. Ma la luce della gloria è il sentire Dio presente, che si scopre a noi completamente, quella della fede è il sentire Dio assente e solo manifesto nel suo Verbo. La gioia del cielo deriva dalla sete sempre viva di un piacere che sazia sempre. La speranza della terra sospira per questa felicità, senza essere ancora in grado di raggiungerla. La carità del cielo abbraccia la bellezza infinita che ama, e quella della terra l’ama senza poterla ancora abbracciare.

La gloria, coronamento della nostra divinizzazione.

Gli atti delle virtù teologali, che sono le principali forme della grazia, non differiscono dagli atti con cui l’anima beata gode della gloria, se non nella misura in cui i primi hanno assente l’Oggetto che i secondi hanno presente. Per quanto riguarda l’anima, il movimento è lo stesso. Nel cielo essa si immerge nell’oceano della beatitudine divina in virtù dell’impulso che ha ricevuto quaggiù con l’esercizio della virtù. Lo stesso amore che spinge il martire sul patibolo, lo rende capace di gustare le delizie ineffabili, una volta che la morte gli ha aperto le porte della patria. Dio si dona a tutti gli eletti secondo le loro capacità, che sono maggiori o minori a seconda dello sviluppo ottenuto sulla terra dall’esercizio delle virtù. Più sono cresciuti nella loro anima, sulla terra, la fame e la sete di Dio, più essi saranno saziati in cielo. – La grazia non è solo il seme della gloria, ma anche il suo principio e la sua misura. Sia per grazia che per gloria, l’anima è comunicata alla divinità. Infatti, ci sono due relazioni distinte nella vita intima di Dio: l’una è insieme l’intelligenza infinita e la bontà infinita, l’attività assoluta e il completo riposo. Questi due elementi sono ugualmente necessari alla sua felicità. Non sarebbe essa infinita, se non consistesse nella soddisfazione infinita di un tendenza infinita. – La vita divina, depositata in principio nell’anima come un seme, si va sviluppando durante tutto il periodo della crescita, fino a quando, giunta a piena maturazione, non produca il suo frutto, che non è altro che la beatitudine del Paradiso. Se la grazia non fosse una vera partecipazione alla natura divina, ci sarebbe una sproporzione tra il fine ed i mezzi. Il merito soprannaturale non sarebbe in alcun modo merito, e nell’ordine soprannaturale sarebbe solo un disordine. – Le Sacre Scritture attribuiscono questa qualità alla grazia. Il giusto della terra, come il beato del cielo, è un essere divinizzato. La sua divinizzazione è così reale che i santi Dottori si affidano ad essa per dimostrare la divinità dello Spirito Santo, che ne è l’Autore: « Non è forse necessario – chiede San Cirillo agli ariani – avere un potere maggiore di quello di una creatura semplice per divinizzare gli esseri che non hanno nulla di divino nella loro natura? Si può mai concepire una creatura divinizzante? Solo Dio ha questo potere, e lo esercita, attraverso il suo Spirito, comunicandolo alle anime sante, Egli che solo possiede questa proprietà »; in virtù di questa comunicazione, l’uomo, che fino ad allora ha vissuto solo una vita animale e razionale, inizia a vivere una vita superiore, la vita divina. – Si tratta certamente di una seconda nascita! La prima esistenza risale al giorno in cui un’anima spirituale venne ad animare il suo corpo. si nasce la seconda volta, quando lo Spirito di Dio viene a vivificare la sua anima! Da quel momento ci sono in lui due uomini che si combattono, così come Giacobbe ed Esaù già si combattevano nel seno di Rebecca. Quello, il figlio dell’uomo – Esaù – è più vecchio d’età. L’altro – Giacobbe -, figlio di Dio, erede della promessa, si sforza di soppiantare suo fratello. Come tutti i figli di Adamo, il Cristiano trova in sé gli istinti carnali che lo inclinano alla terra. Queste ispirazioni sono combattute dalle ineffabili aspirazioni che lo allontanano nel mondo e gli fanno disprezzare tutto quello che lo circonda. L’uomo raccoglie in se stesso, con meravigliosa armonia, come in un piccolo cosmo, tutte le forze che muovono l’universo: le fisiche, le chimiche, le vitali, le spirituali. Dio completa il suo capolavoro donandogli, con il suo Spirito, le forze divine. Questo Spirito, nell’abitare l’anima del Cristiano, comunica all’intelligenza la mente di Dio! Diffonde nel suo cuore, la carità di Dio, che diventa il principio di tutte le sue tendenze ed il filo conduttore di tutte le sue azioni. L’animale è guidato dall’istinto, l’uomo è guidato dallo Spirito di Dio!

Dottrina della nostra divinizzazione.

Non dubitiamo che la vita soprannaturale sia una vita veramente divina. Vita che non risulta dall’identificazione dell’Essere creato con l’increato; che non suppone che l’uomo sussista per una personalità divina, ma solo che operi divinamente. Egli conserva in tutta la sua integrità il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà. Ma a loro si aggiungono le virtù, che sono come delle facoltà soprannaturali. Con queste virtù Dio stesso si unisce sostanzialmente al Cristiano e lo rende parte della sua natura. – Nella grazia c’è qualcosa di creato e qualcosa di non creato. Come in cielo i più Beati, illuminati dalla luce della Parola di Dio, ricevono in se stessi una chiarezza che li rende simili a questo Sole divino e capaci di unirsi a Lui; così sulla terra, l’anima, unita dalla grazia allo Spirito Santo, riceve, sia con movimenti passeggeri, sia per mezzo di qualità permanenti, l’influenza dello Spirito Divino. Così come nel cielo il lumen gloriæ non impedisce che l’unione dell’anima con il Verbo di Dio sia immediato, così, sulla terra, la grazia creata non impedisce che l’anima sia unita allo Spirito Santo immediatamente.

La nostra divinizzazione consiste nel possesso della Persona stessa dello Spirito Santo.

La divinizzazione dell’uomo non è una metafora vana. È la più reale di tutte le realtà. I Santi Dottori che hanno ricevuto da Dio la missione speciale di combattere gli errori sullo Spirito Santo, sembrano non trovare un’espressione abbastanza energica per farci palpare l’intimità dell’unione, per mezzo della quale Esso viene a comunicarsi all’anima del giusto: una volta si esprimono con il paragonare l’unione del profumo con l’abito completamente penetrato del suo profumo (S. Cirillo di A. l. IX, in lo. MG: 74, 447); altra volta con l’unione dell’oro al metallo meno nobile, che assume per suo mezzo il medesimo splendore (S. Cirillo di A. Dial.. VIII, de Trinitate et l. V in lo. MG:75, 1075 e 73, 705) ; o ancora all’azione con cui il fuoco trasforma il ferro, comunicandogli tutte le sue proprietà ignificandolo in un certo modo, senza per questo sottrargli la propria natura o, in fine, alla comunicazione delle proprietà dal vino alla goccia d’acqua in esso introdotta (S. Bas. I. V.  adv. Eunomium Max. M.G.: 29, 700). Se questa unione non fosse sostanziale, non potrebbe produrre gli effetti che le vengono attribuiti: il liberarci dalla morte riempire di vita il nostro spirito; restaurare il nostro spirito; restaurare in noi l’immagine divina; cancellare il peccato, e fare di noi stessi dei figli adottivi di Dio. Questi santi Dottori, affermano che l’unione dello Spirito Santo con la nostra anima, produce in essa atti e abitudini inerenti all’anima, per il bene dell’anima stessa, e perché sia costituita in uno stato soprannaturale. Solo i luterani hanno osato dire che la giustificazione consistesse nella semplice applicazione della santità di Dio, e non in un dono insito nell’anima e creato come essa. I Dottori cattolici non hanno mai dubitato che ci sia nell’anima una luce soprannaturale creata, che è la fede, e un amore soprannaturale creato, che è la carità. Inoltre, ciò che insegnano i Santi Padri è che l’alta dignità e l’esaltazione della natura umana non consista tanto nella ricezione di questi doni creati, ma piuttosto nel possesso de della Persona dello stesso Spirito Santo, che si unisce ai suoi doni, e per mezzo di essi abita in noi, ci vivifica, ci adotta, ci divinizza e ci incita a compiere ogni sorta di buone azioni. (Corn. Alapide, in Oseam, l. 10). Abbiamo visto quindi il fine elevato a cui sono ordinati tutti i piani della Provvidenza: la divinizzazione dell’uomo e delle creature razionali. Per raggiungere l’anima, Dio per suo aiuto alla creazione malata, manda i suoi Angeli, il cui mistero più glorioso è quello di educare le anime per prepararle alla loro celeste eredità. Le creature materiali contribuiscono con tutta le loro forze a questa grande opera. « Gemono – dice San Paolo – e soffrono i dolori di un parto doloroso, e sono chiamate a collaborare alla produzione dei figli di Dio ». Qual giorno sì felice in cui culminerà di questa grande opera dell’Altissimo! Allora la creazione malata tornerà, attraverso l’uomo, all’inizio, donde proviene. L’Infinito, che in qualche modo è uscito da sé stesso per il desiderio della creazione, tornerà a se stesso per riposare, per l’eternità, con le anime che avranno collaborato ai suoi progetti. Il cerchio divino sarà così chiuso. Tutta la creazione spirituale vivrà della vita divina e la comunicherà alla creazione materiale, ad essa unita mediante l’uomo come un prezioso anello. Il Creatore, pienamente glorificato dalla sua creatura, rifletterà in essa la sua gloria: Dio sarà tutto in tutte le cose!

Capitolo II

DIO CHIEDE DI ESSERE GLORIFICATO PER MEZZO DI GESÙ CRISTO

Il Verbo incarnato, Mediatore tra Dio e gli uomini

Il principio fondamentale della Divina Provvidenza è che tutte le creature tendono alla gloria di Dio, riproducendo in misura finita le sue infinite perfezioni. Poiché Dio è una beltà assoluta, non può dare alle opere delle sue mani altro modello che non sia Se stesso. Il suo amore infinito non può creare delle volontà razionali, che non siano felici di possedere la sua infinita bontà. Corrisponde in Sé, come primo Principio di tutte le cose, per esserne l’ultimo fine. Un fine che l’uomo deve raggiungere non come egli vuole, ma che sia conforme al decreto di Dio, attraverso la sua divinizzazione. Dio potrebbe, senza alcun intermediario, comunicare all’uomo la sua grazia, elevarlo all’ordine soprannaturale e riportarne la gloria che ha il diritto di aspettarsi da lui. Ma Dio ha dato al suo lavoro una bellezza ed una perfezione che nessuna intelligenza creata avrebbe potuto immaginare. Per colmare la distanza che lo separava dall’uomo, Egli istituì un Mediatore, il Verbo incarnato, Gesù Cristo nostro Signore, nel quale sono raccolte, senza confusione, tutte le perfezioni della natura umana e della natura divina. Secondo un’opinione teologica, difesa da grandi teologi e i cui fondamenti si trovano in San Paolo, l’Incarnazione del Verbo fu decretata prima della caduta di Adamo (non parliamo della priorità temporis sed signi), come manifestazione suprema della gloria divina. Se è così, ci viene presentato Gesù Cristo come fine ultimo e Signore di tutta la creazione e come oggetto principale ed eterno nella mente del Creatore. Un’altra dottrina insegna che non solo la Redenzione, ma anche l’Incarnazione sia stata decretata come conseguenza in previsione del peccato originale. Questo la mette in evidenza molto meno è vero, perché forse fa pensare che la più grande opera di Dio sia un rimedio a cui, senza la colpa originale, non si sarebbe posto mano (Curci, La Nature et la Grâce). Anche i difensori di quest’ultima opinione sostengono però che il Verbo Incarnato sia davvero il fine di tutte le creature.

Il Verbo incarnato è il fine di tutta la creazione.

I teologi di entrambe le opinioni concordano nell’affermare che il Verbo incarnato è il fine di tutto ciò che esista, e questo è sufficiente per la presente questione: « Dio – dice l’erudito Ruperto, – si è comportato con il suo amatissimo Figlio, come un grande e potente monarca si comporta con l’erede alla sua corona. Costruì per lui un magnifico palazzo, riccamente arredato, e lo circondò di una corte che era in relazione alla sua dignità. Poi per lui creò la terra, per lui accese migliaia di fiaccole scintillanti, al suo servizio creò dal nulla una quantità innumerevole di angeli, e noi non siamo così schietti – dice il pio Dottore – da pensare che Egli non avesse alcuna intenzione di creare l’uomo prima della caduta degli Angeli. La verità è che non sono stati gli uomini ad essere creati per gli Angeli ma, sia gli Angeli che tutte le creature, abbiano ricevuto il loro essere in previsione di un uomo, che è Nostro Signore. Crediamo dunque e confessiamo con la bocca e con il cuore che tutto sia stato creato per formare come una corona di gloria al Verbo incarnato (lib. Lib. XIII in Math. Lib. III de Glorificatione Trinitatis). – Pure in questo senso, diversi Padri della Chiesa interpretano le parole del libro dei Proverbi: Il Signore mi ha posseduto, ha fatto di me l’inizio delle sue vie prima di ogni altra cosa. Le sue vie sono le creature che procedono verso Dio, come un sentiero conduce alla fine del cammino; ma, prima di tutte quelle creature, Dio mi ha visto e mi ha destinato già allora ad essere la fine di tutta la creazione. – Allo stesso modo, sono spiegate nell’Apocalisse, le parole di Nostro Signore: Ego sum alpha et omega, principium et finis. Io sono il principio, perché io do l’essere a tutte le cose della natura, della grazia e della gloria a titolo di causa prima, esemplare e meritoria. Io sono il fine, perché tutto è fatto per la mia gloria, affinché tutto venga da me come dal suo principio primo, e tutto ritorni a Me come all’ultimo fine. « L’intero universo – ci avverte San Bernardino da Siena – è come una sfera intellegibile, il cui centro è il Figlio di Dio ». Infatti, questo amabile Maestro è, per il mondo, ciò che il centro è per la circonferenza. Tutti i raggi, convien sapere, tutte le creature partono da quel punto e vi convergono contemporaneamente ».

Gesù Cristo è la causa dell’unità armonica della natura umana, della sua perfezione e felicità.

Al di fuori di Gesù Cristo, la natura non può trovare un’unità armoniosa che debba essere la sua perfezione e la sua felicità; fuori dal quale si trova solo divisione, lacerazione, lotta, debolezza, fiacchezza, irrequietezza, disperazione. In Gesù Cristo, le lotte si placano, le contraddizioni cessano, le parti opposte si riconciliano. Si ammira il volto del Divin Salvatore e si vedono i Santi che, come specchi viventi, hanno riflesso i suoi tratti benedetti. Nella serenità di quelle fronti, nel brillare di quegli occhi, nella dolcezza di quelle labbra, non si scoprono forse i sentimenti che costituiscono la grandezza dell’animo umano? Le potenze spirituali sono state trasformati in strumenti docili della ragione. Le passioni, dirette ai loro veri fini, collaborano affinché la virtù possa raggiungere una vera ricchezza, la vera grandezza, le vere gioie. L’intelligenza, trovando nella verità assoluta il sommo Bene, la sicurezza di possedere eternamente l’unico obiettivo di tutte le aspirazioni dell’anima e di godere di Esso, secondo i sacrifici fatti per lo stesso nel tempo, unisce indissolubilmente l’interesse e il dovere, e non permette di separare la felicità della vita presente da quella della futura. – Il Cuore di Gesù Cristo è l’unità divina del cuore umano che, al di fuori da Esso, rimane lacerato. In Lui e attraverso di Lui, l’umiltà, allontanandosi dalla ricerca della grandezza nel nulla, ce la fa trovare in Dio. In Lui la forza, appoggiata a Dio, e non avendo bisogno di sforzi violenti per sostenersi, si unisce alla dolcezza più ammaliante. In Lui il cuore affettuoso trova il nutrimento che gli evita di correre dietro a piaceri vergognosi e diventa tanto più capace di amare tutto ciò che è amabile, tanto più acquista padronanza dei suoi appetiti. In Lui, l’amore della verità incoraggia l’intelligenza a raggiungere il suo scopo, tanto più umile e docile è l’abbracciarla, quando più si lancia spontaneamente sulle ali della fede alla sua ricerca.

Cristo è il nostro fine perfezionante

Questo è l’uomo come lo ha fatto Gesù Cristo: uno, perfetto, sereno e immutabilmente pacifico. Prima di Gesù Cristo, l’uomo era un edificio crollato le cui pietre, violentemente separate l’una dall’altra, sembravano non riuscire mai a ricongiungersi. La pianta di quell’edificio era andata perduta e gli architetti che avevano cercato di ricostruirlo, l’avevano ancor più mutilato. Gesù Cristo è venuto e ci ha mostrato in sé l’edificio divino ricostruito con una grandezza che non aveva mai avuto. Sta a noi trovare in Lui l’unità che cercheremmo invano al di fuori di Lui. Gesù Cristo è l’uomo perfetto, l’uomo esemplare, l’uomo per eccellenza. Quando Dio Padre lo ha dato al mondo, ci ha detto: questo è l’ideale che ho concepito fin dall’eternità, e che invito tutti voi a realizzare al meglio delle vostre capacità. Lo scopo dei nostri sforzi deve essere quello di tendere verso Gesù Cristo. A proposito di ciò Sant’Agostino scrive: « Dovete mirare a Gesù Cristo, perché Egli è il vostro fine. Ma non un fine che consuma, ma un fine che conclude; perché consumare è distruggere; concludere è finire e perfezionare una cosa: Gesù Cristo è il nostro fine, perché siamo perfezionati in Lui e da Lui; la nostra perfezione è in Lui che giunge; e quando lo raggiungeremo, avremo trovato la felicità. »

Gesù Cristo è il nostro fine, perché glorifichiamo Dio Padre, glorificando suo Figlio.

Questa è la mirabile dottrina di San Paolo. Per l’Apostolo delle genti, Gesù: « è il primogenito di tutte le creature, perché tutte le cose del cielo e la terra sono state create in Lui: le cose visibili e invisibili, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze, tutto è stato creato da Lui. Egli esiste prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui. Egli è la testa e il capo del corpo della Chiesa; è il principio assoluto ed il primogenito tra i morti; affinché Egli possa avere il dominio su tutto. » Dio ha fatto di Gesù Cristo il fine a cui l’umanità deve tendere, e ci fa capire che vuole che l’umanità lo glorifichi, glorificando il suo amato Figlio in cui ha posto tutto le sue compiacenze, ed in cui abita corporalmente la divinità. Gesù Cristo, venendo sulla terra, non aveva altro scopo se non quello di glorificare Dio Padre, restituendogli l’onore che il peccato gli aveva tolto: « Tutti hanno peccato – dice San Paolo – tutti hanno bisogno della gloria di Dio ». Il Verbo incarnato, dice San Cirillo, è la gloria di Dio che si manifesta agli uomini. Così capiamo perché, nella culla del Bambino di Betlemme, gli Angeli annunciano che la gloria di Dio si manifesta anche in cielo: Gloria in excelsis Deo. – Gesù Cristo, per glorificare Dio Padre, trascorre i primi trent’anni della sua vita in una oscura bottega, impegnato in un umile lavoro. Non c’è nessun altro motivo principale nelle sue azioni durante la sua vita pubblica. Al fine della sua stessa gloria, non dà alcuna importanza: Honorifico Patrem. Non quæro gloriam meam. Non sono da considerare – sembra dire – se non come vittima di espiazione del peccato. La mia gloria non è nulla, come un nulla è la gloria degli uomini: Gloria mea nihil est.

L’umiliazione e la croce furono i prodromi del Regno di Cristo

Così come Dio Padre ha accettato che Cristo soffrisse per entrare nel regno dei cieli, è giusto che sia vestito con la veste della vergogna prima di essere circondato dall’alone della gloria. Le umiliazioni e la croce sono i preamboli obbligatori del regno glorioso che suo Padre invita a condividere con Lui. Mentre la passione si avvicina, Nostro Signore parla più volentieri della propria gloria ai discepoli. Predice poi loro che, quando sarà inchiodato al legno, il suo potere cambierà questo luogo di ignominia in un trono di gloria, al quale attirerà ogni cosa: Cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum. Nel suo ultimo discorso, che è come il canto del cigno, il testamento dell’amore, ricorda a suo Padre che è arrivata l’ora di glorificarlo: « Ho compiuto la missione che mi hai affidato; ora, Padre mio, è tempo di glorificarmi, di far risplendere la gloria che avevo in te, prima ancora della creazione del mondo. » Dio Padre ha ascoltato la voce del Figlio suo: al torrente di umiliazioni fa seguito un’esuberante manifestazione di gloria. – Dio fa uscire trionfalmente suo Figlio dal sepolcro. Lo fa sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di tutti i principati e di tutte le potenze. Pone tutto sotto i suoi piedi e fa di Lui il Capo della Chiesa. Egli ordina che nel suo Nome ogni ginocchio sia piegato in cielo, in terra e negli inferi. Gli Apostoli fanno risuonare il nome di Gesù in tutte le regioni e la potenza del suo Nome fa meraviglie ovunque. – Così Dio Padre ha glorificato e glorificherà il Figlio suo e, come predice l’Apostolo San Pietro, per la gloria di suo Figlio, sarà Egli stesso glorificato. Così il magnifico piano che l’Apostolo ci indica si realizzerà, quando ci annuncia che tutta la creazione è stata fatta per noi, noi per Cristo e Cristo per Dio! Ammirevole è questa Gerarchia, in cui l’Uomo-Dio, ricapitolando e riassumendo in sé le perfezioni degli spiriti e dei corpi, costituisce il Mediatore tra la creatura ed il Creatore! Non possiamo concludere meglio questo capitolo se non citando la magnifica conclusione dei decreti promulgati dal Consiglio provinciale di Le Puy nel 1873. – « Se cerchiamo l’origine comune degli errori che abbiamo appena condannato, sarà facile vedere che provengono tutti dalla stessa fonte, cioè l’ignoranza ed il disprezzo per l’ordine soprannaturale. Quanti di coloro che hanno indossato Cristo nel Battesimo non lo conoscono! Quanti dimenticano la nobiltà divina che Egli ha conferito loro! I ministri della Santa Chiesa devono quindi fare ogni sforzo affinché i fedeli abbiano una conoscenza esatta dell’ordine soprannaturale, in modo che possano ammirare la sua meravigliosa unità e assaporarne l’ineffabile soavità. Perché le testimonianze di Dio offrono alla nostra intelligenza le luci più vivide, e sono per il nostro cuore più dolci del miele e del nettare. – Infatti, la verità che dobbiamo credere di cuore e confessare con la bocca non è altro che Cristo, il Verbo del Padre, di quel Padre che, dopo aver posto tutti le sue compiacenze nel suo Figlio prediletto da tutta l’eternità, ce lo ha mostrato nella pienezza dei tempi, non solo per farcelo conoscere, ma anche per renderci partecipi della sua divinità. Il grande sacramento dell’amore, il piano della bontà divina, è infatti quello di restaurare in Cristo tutto ciò che è in cielo e sulla terra; di unire a Lui, come al suo comune Signore, il mondo materiale e quello spirituale; di fare degli Angeli e degli uomini un corpo unico che vive della vita di Cristo e gode eternamente della sua gloria. Cristo è tutto in tutte le cose, perché tutto è da Lui, per Lui ed in Lui. Egli è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine. Solo Lui insegna Dio agli uomini, e li unisce a Dio, perché solo Lui è il mediatore tra Dio e l’uomo. Da Lui, come al suo principio, e in Lui, come suo fine, tutti sono stati creati. Esisteva prima della creazione, e nulla sussiste se non in Lui. Cristo è tutto in ogni uomo, a cui comunica la sua perfezione divina. Innestati in Lui mediante il Battesimo, gli uomini vengono elevati all’ordine soprannaturale, animati dallo Spirito di Cristo, che li rende figli di Dio, non solo in parole, ma anche in verità. Gesù non si vergogna di chiamarli suoi fratelli, perché è veramente unito a loro con un doppio vincolo: si è fatto partecipe della loro carne e del loro sangue, quando nel seno della Vergine Immacolata, che è insieme la Madre di Cristo e degli uomini tutti, è stato formato il corpo che a sua volta ha dato loro attraverso la santa Eucaristia, e volendo che partecipassero del suo Spirito, lo ha mandato alle loro anime, per mezzo del quale essi gridano: Abba Padre! Tale, dunque, è il destino della loro vita mortale: per crescere in Cristo, basta che, raggiunta l’età della maturità e raggiunto l’apice del merito, entrino a parte della gloria del loro divino Capo, così come saranno entrati in quella delle loro sofferenze. Cristo è tutto nella Chiesa, di cui è il corpo ed il suo complemento; vivendo dello Spirito di Gesù Cristo, si fanno opere simili alle sue, in proporzione ancora maggiore. Egli ha insegnato a tutte le nazioni la stessa dottrina che predicava in un altro tempo agli Ebrei; esercita ora la stessa autorità per mezzo del Vicario di Cristo e dei Vescovi, successori degli Apostoli; Egli non cessa di instillare che la stessa virtù; amministra la stessa grazia; cura le stesse malattie, e chiunque segue l’esempio di Gesù Cristo, suo Maestro, passando e facendo del bene, sarà oggetto di odio e di persecuzione. Ma la virtù del suo Capo divino lo rafforza; e nonostante sia continuamente combattuto, è sempre vittorioso, cura le nazioni con il sangue che sgorga dalle sue ferite e non cessa di vivificare il mondo, anche quando è permesso di godersi per un momento la vita. Cristo è tutto nelle famiglie e nella società. Infatti: se le famiglie devono dare a Cristo nuovo membri e proteggere la loro formazione, i popoli sono destinati ad unirsi al corpo di Cristo, che è la Chiesa, per promuovere la sua azione, per difendere la sua libertà, per contribuire al suo sviluppo. Solo realizzando questo fine, che si ha con la subordinazione a Cristo e alla Chiesa, i popoli e le famiglie possono trovare la loro stabilità, riposo e vera felicità. In effetti nessun altro Nome è stato dato agli uomini sotto il cielo nel quale possano trovare la salvezza; e nessuno può dare alla società altro fondamento di quello già stabilito: Gesù Cristo. – Infatti, Gesù Cristo è tutto in terra, alla quale ha fatto l’insigne beneficio di prendere in prestito il corpo che lo doveva trasportare molto presto verso le altezze del cielo. È il mondo il sublime laboratorio in cui lo scalpello del Salvatore scolpisce le pietre vive che saranno poste successivamente sulle mura del tempio divino. Citando quest’opera, in cui la saggezza di Dio opera da tutta l’eternità, cioè citando la produzione dei Santi per la formazione del Corpo di Gesù Cristo, se questi cessano di esistere, cessa la propagazione del genere umano, la cui unica ragione di esistenza è Cristo; e la natura che ora partorisce nel dolore e attende la manifestazione del Figlio di Dio, entrerà nella sua gloria alla completa rivelazione. Allora verrà la fine, perché tutto sarà stato sottomesso a Cristo e il Figlio stesso, con le sue membra, sarà completamente sottomesso a Colui che ha sottomesso tutto alla sua obbedienza; poi, entrambi, sia i suoi nemici, con i giusti supplizi che puniranno la loro ribellione, sia i suoi amici con la loro beatitudine, glorificheranno eternamente il suo potere, perché questo è eterno e non gli sarà portato via, e il suo  regno non cadrà mai in preda alla rovina. – Piacesse al cielo che tutti i maestri della dottrina cristiana, attraverso l’assidua contemplazione della sua magnifica unità, fossero bruciati nel suo amore e riempissero tutti i cuori cristiani di questo stesso amore! Piacesse al Cielo che i fedeli, fissando costantemente lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede, e vedendo in Lui la loro grandezza divina, si abituino a disprezzare il nulla delle cose visibili e temporali, ed a desiderare solo i tesori della gloria, che un giorno saranno la loro eredità in mezzo ai Santi! Piacesse al Cielo che gli occhi della loro anima, illuminati dalla luce, possano cogliere in un solo sguardo la longitudine, la latitudine, la sublimità e la profondità di questa eredità; per comprendere la carità di Gesù Cristo che è al di sopra di ogni scienza, ed essere pienamente ricolmi di Dio! »

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