PREDICHE QUARESIMALI (IV 2020)

[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]

XXV. NEL MERCOLEDÌ DOPO LA QUARTA DOMENICA

“Responderunt parentes ejus, et dixerunt: scìmus quìa ille est filius noster, et quia cæcus natus est; quomodo autem nunc videat, nescimus; aut quis ejus aperuit oculos, nos nescimus.”

 Jo. IX, 20 et 21.

I. Scusi pur di voi chiunque vuole i due genitori di questo cieco evangelico, io non gli scuso. Dichiararsi di non sapere come un loro figliuolo abbia aperti gli occhi? Scimus quia cæcus natus est; quomodo autem nunc videat, nos nescimus. Tale dunque è la cura che di lui tengono? Tale la provvidenza? tale il pensiero? Ma finalmente questo cieco evangelico fu felice, perché chi aperse gli occhi a lui fu Gesù, che non poté però aprirglieli fuorché al bene. Il mal è, che a molti quel che apre gli occhi è il diavolo. Eppur chi è che vi pensi egualmente, che vi provveda? I padri lasciano che i figliuoli loro divengano spesso accorti più del dovere, iniqui, ingannevoli; e poi non temono di scusarsi con dire, che non san come abbiano mai fatto ad apprendere la malizia. Quis ejus aperuit oculos, nos nescimus. Ah che questa è scusa frivola, scusa folle; perché qual è il loro debito, se non questo, procurar che i loro figliuoli piuttosto se ne rimangano sempre ciechi, com’essi nacquero, ch’è quanto dire, in santa semplicità, in santa stoltezza; che non che aprano gli occhi per altra mano, che per quella onde apersegli il cieco d’oggi? – Ma quanto pochi sono coloro che apprendano questo debito, o che l’adempiano! I più non pongono in altro Io studio loro, che in aver prole. Qui impiegano i loro prieghi, qui indirizzano i loro pellegrinaggi; e poi, conseguita che l’hanno, non se ne pigliano sollecitudine alcuna, quasi che non averla non fosse male di gran lunga minore, che averla reproba. Sappiamo che alberi sterilissimi ancora hanno tanta gloria; ch’essi oggidì sono le delizie de’ gran giardini reali. Anzi nella scelta di varie piante, che fecero anticamente gli Dei profani, furono a bello studio anteposte le men fruttifere allo più fruttuose; e così Giove elesse la quercia. Apollo l’alloro, Nettuno il pino, Osiri l’ellera, Giunone il ginepro, Venere il mirto. Ma un albero che produca frutti cattivi, oh questo sì che da nessuno è voluto nel terren suo; né solamente non v’è  Dio che lo prezzi, ma né anche v’è rustico che lo curi. – Intendano dunque tutti questa mattina quanto grand’obbligo sia l’avere un figliuolo. Io certamente non terrò male impiegata questa mia qualunque fatica, se giungerò a dimostrare un tal obbligo a chi nol crede, ovvero non lo considera, e però cade in quegli abusi ch’io poi vi soggiungerò, non perché tra voi li supponga, ma perché non allignino ancor tra voi. Dunque uditemi attentamente.

II. E per cominciare dalla grandezza dell’obbligo, il quale più vivamente fa campeggiare la deformità degli abusi, io so benissimo che molti altri saranno ancora tenuti rendere stretto conto per l’anima di qualunque vostro figliuolo: e sono appunto i maestri, i quali gli esercitano nelle lettere; gli aii, i quali gl’indirizzano nei costumi; i confessori, i quali li regolano nella coscienza; i predicatori, i quali gli esortano alla pietà; ed i principi anch’essi, tanto secolari quanto ecclesiastici, i quali con le pubbliche leggi devon provvedere, forse più che ad ogn’altro, alla piccola gioventù, non altrimenti che i giardinieri alle piante più tenerelle. Ma se considererete intimamente, vedrete che molto più siete tenuti a procurare il loro bene voi soli, che gli altri tutti. E la ragione fondamentale si è, perché tutti gli altri sono tenuti a ciò per obbligazione introdotta dalla politica; ma voi per obbligazione inserita dalla natura. – E chi di voi non sa che è quella cagione, la quale ha generato un effetto, a quella parimente appartiensi il perfezionarlo, quanto ella può? Perocché ascoltate, giacché qui cade in acconcio una leggiadra dottrina di san Tommaso nel suo prodigioso volume contra i Gentili (1. 3. c. 122, etc.). Due sorte di effetti noi possiamo considerare: alcuni, i quali, tosto che nascono, portan seco tutta quella perfezione, della quale sono capaci; altri, che non la portano seco tutta, ma debbono andarla acquistando in progresso di tempo, ed a poco a poco. Della prima schiatta son tutti gl’inanimati; e però la loro cagione, ch’è come la loro madre, dopo averli già partoriti, non li ritiene con amore materno presso di sé, non gli alleva, non gli accarezza, ma incontanente lasciali in abbandono. Diamone gli esempj in due cose a tutti notissime, quali son l’acqua e il fuoco. Vedete voi la sorgente quando ha partorita l’acqua? vedete la selce quando ha partorito il fuoco? Nessuna di loro due ritiene punto il suo parto presso di sé; ma l’una lascia che l’acqua subito scorra, e ne vada al rivo, e l’altra lascia che il fuoco subito voli, e si appicchi all’esca: mercecchè né la selce, né la sorgente, con ritenere presso di sé le lor proli, potrebbero maggiormente perfezionarle. Ma negli effetti di qualunque modo animati avviene il contrario. Nascono questi tutti imperfetti, e però lunga stagione rimangono sotto la cura, e, per dir così, tra le braccia della lor madre, per venir da essa nutriti amorosamente e perfezionati. Vedesi prima ciò chiarissimamente ne’ pomi, ne’ fiori, nelle spighe nell’uve, ed in qualsivoglia altro frutto. Nascono questi piccoli, rozzi, scoloriti, agrestini, e così bisognosi di grandissima nutritura. Però mirate quanto tempo rimangono e i pomi attaccati al suo ramo, e i fiori alla sua cipolla, e le spighe al suo cesto, e l’uve al suo tralcio, ed ogni altro frutto in grembo della sua madre. Onde se mai vi ci sarete provati, avrete scorto ricercarsi molto più di violenza a strappar con la mano dalla sua pianta il pomo acerbo, che non il pomo maturo; quasi che malvolentieri il figliuolo partasi dalla madre, e malvolentieri la madre lasci il figliuolo, prima che abbisi finito questo di ricevere tutta la sua perfezione, e quella di dargliene. Ma meglio ciò si scorge ne’ bruti, i quali nascono imperfettissimi anch’essi. Tra questi del solo struzzolo si racconta, che abbandona dispettosamente i suoi parti dopo averli condotti a luce. Derelinquit, come abbiamo in Giobbe (39. 14), derelinquit ova sua in terra: che però quivi egli vien proposto da Dio per esempio e di stolidezza e di spietatezza, dicendosi orribilmente di questo uccello che duratur ad filios suos, quasi non sui; privavit enim eam Deus sapientia, nec dedit illi intelligentiam(Ibid. 16 et 17). Ma tutti gli altri bruti vedrete che mai non mancasi di una pietosissima educazione; questa unica differenza, avvertita tuttavia dal medesimo san Tommaso, ed è che alcuni animali vengono educati dalla madre sola, altri e dalla madre insieme e dal padre. Dalla madre sovvengono educati i cani, i cavalli, gli agnellini, i vitelli, ed altri animali lattonzoli. A provvedere questi di allevamento basta la madre con le sue poppe; e però il padre, come 1oro non necessario, per lo più non li cura e non li conosce. Il contrario avvien tra gli uccelli. Non è stato verun di loro dalla natura provveduto di latte, né di’ mammelle; e la ragione si fu, perché dovend’eglino esser agili al volo, sarebbe loro stato un tal peso di notabile impedimento. Devon però vivere, per dir così, di rapina; ed in questa parte ed in quella procacciare il sostentamento non sol per sé, ma ancora per le loro tenere famigliuole, le quali non sogliono essere meno ingorde che numerose. Ma come potrebbe supplire a tanto una debole femminella? Però al nutricamento delle colombe, delle tortorelle, delle pernici, e di altri simili uccelli, specialmente meno feroci, assiste anche il padre. Né solamente tutti i bruti provveggono i loro pargoletti di cibo, finché questi non possono procacciarselo da sé stessi; ma li sovvengono anche di ajuto, d’indirizzo e di documento, conforme i varj mestieri ch’hanno ad imprendere. Così lo sparviere ammaestra i suoi figlioletti alla caccia, così il delfino al nuoto, così la leonessa alla preda, così la gallina alla ruspa, e così l’aquila ai voli anche più sublimi: provocans ad volandum pullos suos (Deut. XXXII, 11). Eppure gli animali bruti non isperano comunemente dai loro parti veruna ricognizione né di opera, né di affetto; anzi terminati i dì necessarj all’educazione, né il generante riconosce più il generato, né il generato riconosce più il generante, ma si disgiungono, e ciascuno va dove più gli torna in profitto. Or se, non ostante ciò, allorché questi di fresco hanno partorito, assistono a’ loro parti con tanta sollecitudine, gli allattano, li provveggono, li difendono, e prestano loro tutti gli uffìzj di servitù più pietosa, chi non vede che questa legge di perfezionare, quanto maggiormente si possa, la propria prole, non è legge inventata solamente da instituzione politica o da reggimento civile, ma è legge entro a tutti i petti stampata dalla natura, e però dee dirsi che la natura parimente sia quella che no riecheggia l’osservanza dagli uomini? Anzi assai più la richied’ella dagli uomini, che da’ bruti. Perocché gli uomini da una parte nascono nel loro genere men perfetti (come Plinio considerò); nascendo i bruti vestiti, e gli uomini ignudi; i bruti calzali, e gli uomini scalzi; i bruti armati e gli uomini inermi. E d’altra parte nascon capaci di assai maggiori perfezioni; le quali perfezioni perché non si possono conseguir se non assai lentamente, però l’educazione degli uomini non si termina in pochi giorni, come quella de’ bruti, ma stendesi a molti lustri; anzi, secondo il dire di san Tommaso, a tutta la vita, per lunga ch’ella si sia; e così rende di sua natura insolubile il matrimonio. – Or deduciamo dalla dottrina bellissima di questo santo Dottore, angelico veramente più che mortale, deduciam, dico, come da premesse infallibili, la nostra principal conseguenza, e diciam così: se l’obbligo, che hanno i padri, di educare i loro figliuoli, è obbligo non positivo, ma naturale; non iscritto, ma innato; non umano, ma divino; chi non vede dunque che molto più strettamente siete tenuti a procurare il profitto loro voi stessi, di quel che a ciò sien tenuti i principi ed i prelati, i maestri ed i confessori, e gli aii e i predicatori, e qualunque altro direttor, che si trovi, de’ lor costumi, o sia egli ecclesiastico o secolare; perciocché questi sono tenuti a ciò per legge civile, la quale è meno strigliente; ma voi per istituzion naturale, la quale è di gran lunga più rigorosa?

III. Ma s’è così (oh Dio!), che timore non dovreste aver dunque voi quando trascuriate una simile educazione? Perocché se tanto conto dovrà rendere il principe, se tanto il prelato, e se tanto qualsivoglia altri, per cui colpa succeda l’eterna perdizion del vostro figliuolo; qual ne dovrete render dunque voi, padri, quale voi, madri, se succeda per colpa vostra? Potrete voi punto sperar di discolpa, se quelli tanto riceveran di rimproveri? potrete voi punto impetrar di pietà, se con quei tanto si userà di rigore? E però san Giovanni Crisostomo (1. 3 contra vitup. vilse mon.), il quale intendea benissimo questo punto, si protestava a tutti i padri così: patres, educate fìlios vestros in disciplina, et in correptione Domini, come vi dice l’Apostolo (ad Eph. VI, 4). Si enim nos ipsi quoque vigilare jubemur, tamquam prò animabus illorum rationem reddituri, quanto magis ergo pater, qui genuit? Intendete, padri cristiani? quanto magis, ergo pater, qui genuit? – Voi avete dato lor l’essere; adunque voi molto più parimente siete tenuti a dar loro la perfezione, educandoli in disciplina, ch’è indurli al bene; et in correptione, ch’è ritirarli dal male; ovvero, giustar interpretazion più spedita di san Tommaso, in disciplina verberum, et in correptione verborum. Senza che, dare lor questa perfezione è a voi molto anche più facile, che ad ogni altro: conciossiachè essendo natural di tutti i figliuoli portare, più che ad ogni altro, a’ lor padri una gran riverenza ed un grande amore, venite per conseguente ad avere sopra di essi maggiore l’autorità. E chi non sa che con un consiglio opportuno, con una riprensione aggiustata, anzi con una parola mozza talvolta, con un cenno, con un gesto, con un’occhiata potete ottener da loro quei ch’altri non otterrebbe con lunghe prediche, e con iterati clamori? Non udiste mai di quel celebre Andrea Corsini? Era egli ne’ suoi primi bollori della gioventù libero, sregolato, disciolto; e però in vano si erano adoperati religiosi zelanti ed uomini pii affine di raffrenarlo. Ma che? quello che nemmeno poterono le parole sacerdotali, potò la voce materna. Pellegrina la madre, con un solo acconcio rimprovero, il rendé santo, e convertillo di un lupo di sfrenatezza in un agnellino di sommissione. Come dunque voi non dovrete rendere a Dio ragione assai rigorosa, se non verrete a valervi di autorità così rilevante? Aggiungete, che da voi dipendono essi nel vitto, da voi nel vestito, da voi nello spendere, da voi nell’ereditaro; onde con quanta facilità potete voi governarli a vostro talento, animandoli o rimunerandoli buoni, minacciandoli e gastigandoli scostumati! – Se dunque voi, non facendolo, mancherete al debito vostro, che scusa avrete? Eppur vi è di più: perché dovete considerare che voi avete i figliuoli vostri in custodia, quasi uccellini di nido, fin da’ primi anni, quando i loro animi sono appunto a guisa d’una creta pastosa, capace d’ogni figura; o di una cera molle, disposta a qualunque impronta. Se però essi, educati prima male da voi, non saranno in età maggiore più abili a ricevere i salutevoli insegnamenti de’ loro direttori più alti (dì chi sarà la colpa più principale, non sarà vostra? Vostra sarà, signori sì, sarà vostra. Pater enim, cum teverum acceperit filium, primque ac solus omnem ejusce instruendi facultatem nactus sìt, et bellissime illum, et facillime imbuere poterit, et moderavi; coi san Giovanni Crisóstomo favellò (l. 3 tra vitup. vitæ mon.). Adunque, se voi farete, a voi verrà attribuita la ma: colpa delle loro non correggibili inclinazioni. Anzi in vano tutti gli altri faticheranno per loro profitto, se voi punto manchiate al vostro dovere. Perciocché, a che vale che il principe tenga per allevamento de’ vostri giovani provveduto il suo stato di accademie insigni, di Convitti nobili, di collegj famosi, se voi li tenete quindi lontani? Ed i maestri come potranno affezionarli allo studio, se voi non ne mostrate premura? E gli aii come gli potranno addirizzar ne’ costumi, se voi non date lor braccio? Ed i confessori e predicatori ancor essi come potranno ottenere il loro profitto spirituale, questi con esortazioni pubblici quegli con ammonizioni private, se voi non ricercate giammai da’ vostri figliuoli consieno assidui alle prediche o come sieno frequenti alla confessione? – Vedesi adunque, per così dire, che tutte le obbligazioni, le quali in altri sono diramate e disperse, vengono ad unire in voi tutta la loro piena. E pertanto a voi si appartiene di tener su’ vostri figliuoli aperti più occhi, che non se ne finsero in Argo, quel provvidissimo re del Peloponneso; a voi tocca di avvertire ogni loro parola, a voi di moderare ogni loro gesto, a voi di certificarvi d’ogni lor moto: diligenze che, almeno tutte, non toccano a verun altra. Né basta che diate lor solamente la direzione, ma bisogna che ne ricerchiate ancora la pratica; e ciò non in un luogo solo, ma in tutti: in città, di fuori, in pubblico, in segreto, in comune, in particolare. Dovete osservar dove vadano, con chi trattino, diche gustino, a che inclinino; e giacché come disse il Savio, ex studiis suis intelligitur puer (Prov. 20. 11), dovete, se sia possibile, dovete, dico, procurare ancor di spiare quello a che pensino. Né crediate dirsi ciò per soverchia amplificazione; – anzi sappiate che questo appunto era quello ond’era sempre sollecito il santo Giobbe nel governo de’ suoi figliuoli: non sapere quali affetti pullulassero ne’ loro cuori, o qual pensieri covasse la loro mente. Quindi si racconta ch’egli bene spesso rizzavasi di buon’ora, diluculo, per offerire a Dio suppliche e sacrifizj a purgamento de’ loro interni difetti. Dicebat cnim: ne forte peccaverint filli mei, et maledixerint Deo in cordibus suis (Job 1. 5). Guardate sollecitudine! non dice labiis suis, non dice lingua sua, no; in cordibus suis; tanto tremava di qualunque lor colpa, non sol palese, ma occulta; non sol pubblica, ma segreta; non sol sicura, ma dubbia.

IV. Òr che dite voi dunque? Fate così? Adempite ancora voi con premura così gran parti? Siete egualmente solleciti ancora voi dell’integrità de’ vostri figliuoli, della loro innocenza, del loro profitto? Ahimè che voi ad ogni altra cosa pensate forse, che a questa, dice il Crisostomo. E perciò che fate? Attendete solo a rendere i vostri figliuoli più ricchi, più temuti, più nobili, più potenti; ma a rendergli parimente più virtuosi non attendete. Àlii militiam filiis suis provident, alti honores, alii dignitates, alii divitias; et nemo(oh deplorabilissima cecità!), et nemo filiis suis providet Deum (Hom. 55 in Matth.). Eppure di questo solo vi sarà chiesta ragione, o signori miei. Non vi sarà domandato quanto voi gli avrete lasciati più grassi di rendite, o quanto più illustri di cariche, o quanto più rispettati di parentele; ma quanto più riguardevoli di virtù. Di questo vorrà Dio venir soddisfatto in quel suo formidabilissimo tribunale. E voi che saprete rispondergli, mentre pure talora giungete a segno che, – per avanzar loro un vil danaruzzo, non vi curate di avventurare la loro eterna salute? E quante volte, se voi voleste spendere un poco più, potreste lor provvedere di custode più virtuoso, di disciplina più scelta, di direzione più profittevole; e voi nondimeno, per risparmiar quell’entrata, fate loro quel pregiudizio! Oh vergogna! Esclama san Giovanni Grisostomo (pigliato da me volentieri questa mattina per maestro in questa materia, da lui trattata, fra tutte le altre, a stupore), oh vergogna! Non si perdona a danaro per rendere il campo più fertile, l’abitazione più comoda, la cucina più lauta, la stalla più popolata, il cocchio più splendido; e per rendere un figliuolo più costumato si conta tanto a minuto! Anzi poco saria questo, cred’io, se non si giungesse anco a peggio; perocché per questa avarizia medesima spesso accade che se voi di due servitori ne avrete uno accorto e fedele, ed un altro scimunito e vizioso, darete al migliore la cura de’ vostri poderi, ed al peggior la custodia de’ vostri parti. E potrete voi scusarvi di tanta trascuratezza? Come scusarvi? Voi dunque non ardireste di consegnare il vostro cavallo ad un mozzo inetto, o la vostra greggia ad un pastorello infedele, o i vostri buoi a un bifolco disapplicato; e non temerete di porre un figliuol vostro medesimo nelle mani di un servitore vizioso, o di un pedagogo ignorante? Non ha scusa, o Cristiani miei, questo eccesso; no, non ha scusa: perché se l’interesse è quel che vi spinge ad antepor la roba alla prole, che si può dir di più empio, di più stolido, di più insano?  – Io per me certo, se mi credessi questa essere la principale cagione del mal governo usato verso dei giovani, tosto avrei desiderio con quell’antico filosofo di montare su la torre più alta della città, ed indi vorrei tonare, tempestare, e ripetere più d’una volta a gran voce: Quo tenditis, homines, quo tenditis, qui rei faciundae omne impenditis studium, filiis instituendis, quibus opes vestras relinquetis, exiguum, ac piane nullum? (Plut.de educai liberor.) Dove andate, olà, cittadini, olà, dove andate? vorrei dir io.Chi a procuratori per liti, chi a banchieri per cambj, chi a principi per favori, chia mercati per compere, chi ad uffìzj per interessi. E dove son rimasti frattanto i vostri figliuoli? se in mano di custodi veramente fedeli, benissimo; andate pure. Ma s’essi frattanto ritrovansi o in un ridotto di gioventù ad apprendere i vizj, odin una bisca di giuoco a trattare i dadi, o in un teatro d’oscenità a provare la parte, o in una contrada d’infamia a disfarsi in vagheggiamenti, o, se non altro in una villa di ozio a perdere inutilmente gran parte danno; se si trovano in tali luoghi, tornate indietro, vorrei dire, tornate, padri inumani; provvedete prima a’ figliuoli, e poi penserete alla roba. E non procurate cotesta roba per loro? Adunque qual insania maggiore, pensare alla roba, che dee servire a’ figliuoli, e non pensare a’ figliuoli, cui dee servire la roba? Così vorrei, credo, gridare, ad imitazion di quel filosofo di cui ragiona Plutarco (lbid); – Né mancherebbemi anche a questo proposito l’autorità del Boccadoro medesimo, il quale mi attesta che ciò sarebbe far come un folle ortolano, il quale solamente mirasse a raccor grand’acqua, onde alimentare le piante; ma non mirasse se quelle piante, che si hanno ad alimentare, sien belle o disformate, sien buoni o degeneranti. Questa ragione dunque degli altri vostri interessi, quantunque onesti, ai quali attendete, non potrà discolparvi presso di Dio, perché niun interesse dovreste avere più rilevante, che la perfetta educazion della prole da lui donatavi. E s’è così, qual altra discolpa dunque voi gli addurrete? Non sarete inescusabìlmente convinti di fellonia, di perfidia, di tradimento? – Che sarebbe di voi, se rimaneste convinti di non aver voi voluto dare a’ giovani vostri o poppa che gli allattasse bambini, o cibo che sostentasse gli adulti, o veste che coprisse gli ignudi, o letto che ricettasseli sonnacchiosi? Non rimarreste senza dubbio in tal caso mutolissimi alle difese? Eppure in tal caso avreste solo lasciato di provvedere alla parte più ignobile, qual è il corpo. Or che sarà lasciando di provvedere alla più signorile, qual è lo spirito? Che sarà se non li provvediate, potendo, di maestro buono, di servitore fedele, di confessore accreditato, di libri utili, d’indirizzi opportuni, di amicizie innocenti, di esempj, di consigli, di stimoli, di freni, di guide, e di tutti gli altri ajuti più necessarj al vivere cristiano? Filii tibi sunt? grida l’Ecclesiastico (VII. 25), erudi illos. Non dice, dita illos, evehe illos, extolle illos, no, erudi illos: perché questo è ciò che soprattutto ha da premervi, farli buoni.

V. Eppure piacesse a Dio che questo fosse l’unico vostro peccato, non procurar loro la salute de’ vostri giovani. Ve n’è un maggiore. E qual è? Procurar la loro rovina! Procurar la loro rovina! Signori sì, signore sì, procurar la loro rovina. Oh questo sì che sarebbe un eccesso sì abbominevole, che voi non potreste fiatare a giustificarvene; ed io, per detestarlo questa mattina come dovrei, vorrei avere un petto di bronzo ed una voce di tuono. Ma che? Non è forse frequente una simile iniquità? Ahimè! sarebbe desiderabile ch’oggi giorno alcuni padri non solamente lasciassero di educare i proprj figliuoli, ma che, appena nati, assettandoli in un cestello, simile a quello in cui fu riposto il bambinello Mosè, gli abbandonassero alla ventura in un lito, in una balza, in un bosco, tanto perverse son le dottrine che loro infondono, tanto scellerati i dettami. Utinam hoc tantum culpa csset (seguo a ragionar tuttavia eoa le autorevoli formule del mio eloquente maestro – Chrysost. 1. 3 centra vitup. vitæ monast.), utinam hoc tantum culpa esset, nihil utile parentes liberis consulere: possit id, quamquam gravissimum sit, aliquatenus tolerari. Nunc vero illos ad ea, quæ saluti suæ sunt adversissima, impellitis, et ac ti dedita opera liberos vestros perdere omni studio curetis, ita universa illos jubetis facere, quæ qui faciunt, salvi esse non possunt. – Volete chiaramente conoscerlo? State a udire. La legge evangelica, che voi dovreste istillar insieme col latte ne’ vostri pargoletti figliuoli, intuona a tutti i ricchi minacce orribili di eterna condannazione. Væ divitibus! (Luc. VI. 24) E voi all’incontro cominciate ad insinuare ne’ lor cuori infin da’ primi anni, che bisogna serbare la roba tenacemente, e che tutta la felicità dell’uomo consiste in aver piene le casse, colmi i granai, ridondanti le grotte. E talora  parlando da solo a solo col figliuol vostro, ancor tenerello: mira (gli dite), a tal mercatante, mira il tal canonico, mira il tal cavaliere: perché seppero accumular di molto danaro, vedi tu com’or sono giunti, quegli a fabbricar la tal villa, quegli a conseguire il tal beneficio, quegli a stabilir il tal parentado? Vogliamo credere che tu saprai mai giungere a tanto? E così voi fate formargli un’opinion del danaro tanto sublime, che non cred’esservi altro Dio su la terra maggior dell’oro. Più. – L’Evangelio dice, che bisogna seder nell’ultimo lato: recumbe in novissimo loco (Ib. XIV, 10). E voi a’ vostri giovani persuadete continuamente il contrario, suggerendo loro che non bisogna contentarsi mai dello stato in cui l’uomo nasce; ma che, a guisa de’ fiumi, bisogna sempre nel mondo acquistar paese, avvantaggiarsi, allargarsi. Più. L’Evangelio afferma, che convien condonare le offese fatteci: diligite inimicos vestros (Ib. 6. 27). E voi a’ vostri giovani insinuate perpetuamente l’opposto, dicendo loro che non bisogna dimenticarsi mai di un affronto che l’uom riceva; ma che, ad imitazion de’ molossi, bisogna sempre ad ognuno mostrare i denti, rispondere, ricattarsi. Ed oh quanti sono, che dicono a’ lor figliuoli: la nostra casa è sempre stata riverita e temuta al pari di ogn’altra. Ella ha avuti tanti senatori, tanti cavalieri, tanti capitani, tanti uomini famosi in pace ed in arme. Non sarai degno del casato che porti, se non saprai sempre farti usar tua ragione. Quindi godete che di buon’ora comincino a trattar l’armi, perché i gloriosetti si avvezzino tanti Marti; ed assai più voi fate loro di applauso quando li vedete caricar con man tenera una pistola, che quando li mirate aguzzar la penna. – E quelle buone madri ancor esse con quai dettami sogliono specialmente allevare le loro figliuole? Con quei dettami evangelici, i quali c’insegnano di schivare i lussi superflui e le pompe vane? Nolite solliciti esse corpori vestro quid induamini (Ib. XII. 22). Anzi tutto il contrario. Va, figliuola mia, dicon esse, va, di’ a tuo padre che tu vuoi vestir da tua pari. Digli che tu così ti vergogni di comparire; che cavi fuori del suo scrigno que’ nastri, que’ pendenti, que’ vezzi, quelle smaniglie; a1trimenti non isperare ch’io ti voglia più condur meco neppure a Messa. Quindi abbigliandole or con una sorte di gala, ed or con un’altra, le avvezzano di buon’ora ad indurir contra il freddo ostinatamente le spalle ignude, o fintamente coperte; insinuando che nella foggia del vestire bisogna sempre attenersi all’uso del secolo, e poi lasciare, che i predicatori si sfiatino a lor piacere e che si scatenino. Ecco, o signori miei, quali sono i bei documenti che molti padri, che molte madri oggi danno a’ loro figliuoli. – E così che ne segue? Ne segue che quegli animi ancora molli, ricevuta una tal sementa, comincino a poco a poco a gittare così profonde radici di fasto, di vanità, di ambizione, di audacia, d’interesse, e di ogni altra più sregolata affezione, che quando poi con gli anni acquistano forza, non v’ha più mano mortale che possa svellerne i velenosi rampolli: Adolescens juxta viam suam, ch’è quella via che lo porta più al mal che al bene, etiam cum senuerit non recedet ab ea (Prov. XXII. 6). E vi par che il vostro delitto sia delitto pertanto di leggier peso? Io credo pure che avrete udito ragionar mille volte di quell’Eli, gran sacerdote, il quale un dì divenne a Dio sì discaro, che fu in perpetuo privato e del sacerdozio e del tempio e delle facoltà e della vita e della prosapia, e giudicato con tanta severità, che quantunque sia opinione probabile ch’ei sia salvo per gli altri suoi singolarissimi meriti verso la religione, nondimeno Filone ebreo, san Gregorio Nazianzeno, santo Isidoro pelusiota, san Cirillo alessandrino, san Giovanni Grisostomo, san Pier Damiano, e più altri, inclinano a riputare ch’ei sia dannato; e san Cesario arelatense, e santo Efrem siro lo sentono chiaramente. Or perché incorse egli un giudizio così tremendo? Mi giova che l’udiate di bocca di. Dio medesimo. Eo quod noverat indigne agere filios suos, et non corripuerit eos, idcirco juravi domui Heli, quod non expietur iniquitas domus ejus victimis et muneribus usque in æternum (1 Reg. III. 13 et 14). La soverchia indulgenza ch’Eli mostrò verso i figliuoli viziosi,fu quella che trassegli addosso sì gran gastighi; e solamente per questo Iddio dichiarossegli sì sdegnato, che non sarebbono mai bastati a placarlo né sacrifizj, né vittime, né preghiere, se non quanto alla pena eterna, almeno quanto alla soddisfazione temporale. Sì? Ora udite e tremate, signori miei. Se questo infelice fu giudicato con tanta severità sol per non avere o ripresi con efficacia, o gastigati con rigidezza i figliuoli mentre peccavano, eo quod non corripuerit eos: ahimè!;che non dovranno temer dunque quei padri, i quali non solo non li ritraggon da’ vizj, ma ve gl’incitano con sì perniciosi dettami? Se non punire il peccato dispiacque tanto, che sarà il lodarlo?che sarà il promuoverlo? che sarà il persuaderlo? che sarà il farsene perversissimo autore? Potrà restare a questi infelici speranza di salvazione? Io non lo so; ma domandovi solamente: – se voi deste questi medesimi documenti viziosi, che abbiamo detti, ad un altro giovine, il qual non vi appartenesse per verun capo, ad un Giudeo, ad un Gentile, ad un Turco, quanto severo giudizio verreste nondimeno ad incorrere nel tribunale divino? Depravatori di giovani! depravatori di giovani! Non può mai dirsi quanto a Dio sieno odiosi. Che però dove leggiamo: capite nobis vulpes parvulas, quæ demoliuntur vineas (Cant. II. 15), san Girolamo insegna potersi egualmente leggere in questa forma (in Cant. hom. 4 in fine): Capite nobis vulpes, parvulas quæ demoliuntur vineas; sicché quella voce parvulas non tanto si riferisca alle volpi, quanto alle vigne: non tam et vulpes, quam ad vineas referatur. Perché queste sono le volpi più odiose a Dio, le volpi veterane, le volpi vecchie, le quali tanto più arditamente assaliscono parvulas vineas , la tenera gioventù, la sfiorano, la sterpano, l’assassinano. Queste sono le volpi che il Signore desidera, queste, queste, per farne alfin un macello. Capite nobis vulpes, parvulas quæ demoliuntur vineas. E però conchiudo così. Se tanto conto dovreste rendere a Dio, dando cattivi consigli a qualunque giovane, il qual or cominci a fiorire; che sarà dandoli ad un giovane vostro, ad uno, a cui siete per natura tenuti d’istituzione sì santa, d’istruzione sì salutare? Voi pensateci, ed io mi riposerò.

SECONDA PARTE

VI. Tornava il profeta Eliseo dal veder Elia, suo maestro, rapito in cielo sopra cocchio di fuoco: quando, cominciando a salire una collinetta per ire a Betel, ecco una gran turma di piccioli figlioletti, i quali in vederlo cospirarono tutti ad alzar la voce, e a gridare per beffa: su, vecchio calvo; su, vecchio calvo; cammina: ascende, calve: ascende, calve (4 Reg. II. 23). Eliseo, stupito di arroganza sì audace in età sì tenera, non poté contenere lo sdegno in petto rivoltandosi con occhio bieco a mirar quegl’insolentelli: siate (disse lor) maledetti in nome di Dio: maledixit eis in nomire Domini (lb. II. 24). Credereste? Appena egli ebbe parlato, che tosto uscirono dalla vicina boscaglia due terribilissimi orsi, e cacciandosi in mezzo di que’ fanciulli, quasi in un branco di sbigottiti agnellini, cominciarono in essi a lordar le zanne, a spiccar capi, a smembrar cosce, a sbranar busti a spolpar ossa, a squarciar ventri, a disseminare interiora; nè molto andò, che con orribil macello ne lacerarono insino a quarantadue. Egressique sunt duo Ursi de saltu, et laceraverunt ex eis quadraginta duos pueros (Ibid.). Se voi ne interrogate gl’interpreti, o miei signori, vi diranno che questi figliuoli non erano ancor capaci di gran malizia; perciocché afferma la Scrittura di loro, ch’essi eran pargoletti: pueri parvi. Che vuol dir dunque, che furon eglino non pertanto puniti sì atrocemente? Sapete perché? Per castigare in questa forma i lor padri che mal allevamento che andavano lor dando: ut parentes eorum in ipsis punientur, siccome attesta il Lirano, ed altri in gran numero. Cristiani miei, voi allevate ben spesso i figliuoli con poco timor divin: non è così? con libertà, con licenza, per timore che alfin non si scorga in essi più di bacchettonismo, per usare i termini vostri, che di bravura. Qual sarà pertanto il castigo che voi ne riceverete anche in questo mondo? Che un giorno ve li vediate giacere a’ piedi, finiti innanzi al lor tempo di morte anche ignominiosa. De patre impio, queruntur filii, quoniam propter illum sunt in opprobrio (Eccli. XLI. 10). Ma quando ancor vi campassero lungamente, non vi  potrebboero recar essi materie non meno gravi di tristezza, di ansietà, di amarezze, di crepacuori? Lacta filium, et paventem te faciet, dice l’Ecclesiastico (XXX, 9); lude cum eo, et contristabit te. Che disgusto fu quello di Agarre, quando per cagion d’Ismaele da lei nutrito con educazion troppo altiera, fu necessitata di andar raminga pe’ boschi! – Che disgusto fu quello di Davide, quando per cagion di Assalonne, da lui governato con verga troppo indulgente, fu costretto a vedersi crollare il trono! Ed il patriarca Giacobbe che disgusti anch’egli non ebbe per la sua Dina? Uditelo, che potrete impararne assai. Era il buon vecchio, pellegrinando, arrivato con tutti i suoi nel paese di Cana; e quivi in una campagna, ch’egli perciò comperossi da’ Sichimiti, piantati avea i padiglioni, ripartita la gente, accomodati gli armenti, per riposare (Gen. XXXIV). Quando ecco Dina, fanciulla di quindici anni, udendo, come afferma Gioseffo, che poco lungi tutte le donne di Salem concorrevano ad una festa, chiede al padre licenza di andare un poco opportunamente a vederle; giacche per altro le rincrescea di marcirsi lungamente prigione fra quelle tende. Quanto poco a Giacob sarebbe costato il raffrenare severo nella figliuola questa donnesca curiosità giovanile! Ma egli, troppo rimesso, non vuole affliggerla; e per non vederla più piangere e più pregare, le dice: va. Dina vada? Ahi povera figliuola! ahi povero padre! In quanto cieco laberinto vi andate ad intrigar da voi stessi, non lo sapendo! Proseguiamo il fatto, che in vero è terribilissimo. Uscì la vergine per vedere altre donne; ma per quanto ella andasse o raccolta o cauta, fu veduta da un uomo, il quale fieramente invaghitosene, la rapì, la disonorò; e siccome egli era per altro signore di gran portata, cioè il principe stesso de’ Sichimiti, chiamato Sichem, così di poi con lusinghe ancora piegolla a restargli in casa, ed a consentire alle sue legittime nozze. Vassi pertanto a Giacobbe (per la nuova del caso oltre modo afflitto), e si esibiscono le soddisfazioni maggiori che dar si possano ad uomini forestieri. Propone il Principe di voler dar egli alla sposa una ricca dote, offerisce regali, promette rendite, s’obbliga ad avere col popolo d’Israele, allora non grande, perpetua corrispondenza; e si contenta di dar loro a goder le sue terre stesse, le sue campagne, i suoi pascoli, i suoi poderi. Mentre si sta sul calor di questi trattati, ecco i figliuoli di Giacobbe ritornano dalla greggia; i quali, udito lo scorno della sorella, tengon prima fra loro un consiglio breve; conchiudono, stabiliscono: e di poi, covando nel cuore un’aspra vendetta, dicono a Sichem di approvare i partiti da lui proposti; ma che a ciò solo si frapponeva un ostacolo, ed era non poter essi tener commercio con uomini incirconcisi. Però accettassero, i Sichimiti d’accordo la loro legge, si circoncidessero tutti; e poi legherebbesi la bramata amistà, e si stringerebbero scambievoli parentadi. Che non può la smania di un animo innamorato? Accetta il Principe la condizione, la stipola, la rafferma; e tornato lieto in città, con varj pretesti la persuade concordemente anche a’ suoi. Ma che? giunto il terzo dì dopo il taglio (ch’è quando appunto il dolor d’ogni ferita suol essere più crudele), ecco due fratelli di Dina, Simone e Levi, se ne vengono armati nella città; e mentre gli uomini addolorati si giacciono tutti a letto, nulla sospettosi d’inganno, nulla abili alla difesa, ne cominciano a fare un orrendo scempio: uccidono fanciulli, uccidono attempati, uccidon decrepiti; siasi chi si vuole, s’è maschio, convien ch’ei muoja: ed indi a volo passati tosto in palazzo, assaltano furibondi l’odiato Principe, lo scannano, lo sfragellano; e tolta Dina, se la riportano a’ padiglioni paterni, prima vedovella che sposa. Né qui terminò tanta rabbia; perciocché di poi ritornati con tutto il grosso di lor famiglia, recarono alla città l’estremo sterminio; saccheggiarono case, spiantaron orti, desolarono torri; fecer tutte schiave le femmine, e le rapirono. Quinci usciti fuori in campagna, miser tutto il paese furiosamente a ferro ed a fuoco: non perdonarono a beltà di giardini, non a ricchezza di armenti, non a splendidezza di possessioni; a segno tale, che divulgatasi ne’ convicini la fama del caso atroce, tutti a rumore si sollevarono i popoli: arma, arma, perseguita i forestieri, ammazzali, ammazzali; ed eccoti Giacobbe in evidente pericolo di perire con tutti i suoi. Conviene precipitare, conviene partirsi; e se Iddio spezialmente nol proteggesse, qual dubbio c’è ch’ei già sarebbe perduto anche tra le grotte? Or avete sentito, o signori miei? Oh che imbarazzi, oh che confusioni, oh che risichi, oh che garbugli! E perché? Per la soverchia indulgenza di un padre tenero verso una figliuola vogliosa. E quante notti credete voi che Giacobbe vegliare ansioso dovesse su questo affare? Non sarebbe stato assai meglio dare a quell’amata fanciulla un disgusto breve, e lasciarla pregare, e lasciarla piagnere, che dover poi per cagion di essa riceverne un sì tremendo?

VII. Signori miei, questi successi sono registrati nelle divine Scritture, perché si sappiano; ed io però ve li narro, desiderando che voi vogliate, come si conviene, e apprezzarli, ed approfittarvene. Sì, sì, chiaritevi esser verissimo il detto di Salomone: puer, qui dimittitur voluntati suæ, confundit matrem suam (Prov. XXIX, l5). Ipadri sono i primi a provare i cattivi effetti della libertà conceduta a’ lor figliuoli (ch’è quello ch’io nella seconda parte ho preteso di dimostrarvi); e però accorti incominciate a raffrenarli a buon’ora, da’ primi passi, dalla prima puerizia, ed avvezzatevi presto a dir loro, no; non vi lasciando sì facilmente snervare da’ loro vezzi, quando essi bramano che diate loro sul collo la briglia lunga, fìlius enim remissus, come parlò l’Ecclesiastico (XXX. 8), evadet præceps. E non è certamente una gran vergogna chequesti tosto divengano sì assoluti padroni de’ vostri affetti, che solamente per non veder su’ lor volti una lusinghevole lagrimuzza, condiscendiate che vadano a commedie quantunque oscene, a festini quantunque liberi, a ricreazioni quantunque non costumate? – Voglio ben io che li amiate, signori sì; ma d’amor utile, non di amore dannoso. Quanto cordiale amore portava quella famosa regina Bianca al suo piccolo re Luigi! Eppure: ah Sire (gli ripeteva ogni giorno), prima io vorrei vedervi morire su queste braccia, che vedervi commettere un sol peccato. Or perché dunque non gli amate voi pure di amor sì maschio, giacché non mancano signore ancora private che l’hanno fatto, con albergare però nel cuore ancor elleno un tale all’etto, che non par degno di petto men che reale? Certo almen è che tali erano le parole che pur avea del continuo su la sua bocca una beata Umiliana, detta de’ Cerchi, chiara in Firenze unitamente e per sangue e per santità, qualor vedeva i suoi nobili fanciullini non solamente lontani ancor dal morire, come un Luigi, ma già già prossimi. Io non so piagnere, solea dire, o figliuoli, la vostra sorte; perciocché troppo più volentieri io rimiro ciascun di voi portar la sua stola candida al Paradiso, che restar quaggiù con pericolo di lordarla. Tanto la grazia può giungere a trionfare della natura in un cuore ancora di donna, e donna madre! Ma io m’immagino di avervi ormai tediati bastantemente, e però fìnisco. Solo vorrei che vi partiste di qui con questa persuasione vivissima nella mente intorno a’ giovani vostri, che quasi tutta dalle vostre mani dipende ordinariamente la loro salute, più che la salute de’ piccoli navicelli tra le tempeste non dipende da quella de’ lor nocchieri. – E perciò tolleratemi s’io vi dico, che quali li vorrete, tali saranno; se scorretti, scorretti; se santi, santi; perch’io sono certo di non dirvelo a caso. Sofìa, la madre del gran Clemente ancirano, desiderò che il figliuol suo fosse martire del Signore; e così da fanciulletto invogliandolo di un tal pregio con raccontargli frequentemente i trionfi degli altri famosi martiri, finalmente lo consegui. Moabilia, la madre del grand’Edmondo cantuariense, desiderò che il suo figliuolo mantenesse perpetua verginità; e cosi da fanciulletto animandolo a tal virtù, con avvezzarlo incessantemente a tormentare suo tenero corpjcciuolo, facilmente l’ottenne. Bramò Aleta, la madre di san Bernardo, che tutti e sei quei figliuoli maschi, ch’ell’ebbe, si consagrassero al divino servizio; e però gli andava nutrendo fin principio con cibi non da cavalieri, qual erano, ma da romiti, qual li desiderava; e riportò felicemente l’intento. Così la reina Valfrida desiderò di far santa la sua figliuola Editta, e la fece; così parimente fece il buon padre di sant’Ugone monaco, così la madre di santo Svibberto vescovo, così la madre di san Aicardo abbate, così la madre di santa Luggarda vergine; e finalmente, per quella poca osservazione ch’ho fatta nell’assiduo  rivolger de’ fasti sacri, io vi posso affermare con verità, che quasi tutti quei genitori, i quali desideraron di rendere la lor prole non solo salva, ma santa, e con una tale intenzione l’andaron sempre sollevando fin da’ primi anni, quasi tutti lo conseguirono. Adunque perché voi pure non procurate lo stesso, signori e signore mie? che vi ritiene? che vi sturba? che v’impedisce? Erudi fìliuìn tuum, ne desperes, dirò col Savio (Prov. XIX. 18). Deh per Dio che sarebbe provarsi un poco, se ancora a voi riuscisse sì buona sorte? – Oh qual felicità sarebbe la vostra, esser padre, esser madre di un figliuolo santo! Non invidiate alla gran madre de’ Maccabei quei suoi parti di tanta fama? non invidiate ad un’Elcana il suo Samuele? non invidiate ad un’Elcia la sua Susanna? Ma tutti questi se li formarono tali. Così fate voi parimente, né mancherà chi. però porti tra qualch’anno a voi pure una santa invidia.

FESTA DELL’ANNUNZIAZIONE – Messa (2020)

Santa Messa del 25 MARZO.

Annunciazione della Beata Vergine Maria.

Doppio di I classe. • Paramenti bianchi.

Oggi commemoriamo il più grande avvenimento della storia: l’incarnazione di nostro Signore (Vang.) nel seno di una Vergine. (Ep.) In questo giorno il Verbo si è fatto carne. Il mistero dell’incarnazione fa sì che a Maria competa il titolo più bello: quello di « Madre di Dio » (Or.) in greco « Theotocos »; nome, che la Chiesa d’Oriente scriveva sempre in lettere d’oro, come un diadema, sulle immagini e sulle statue. « Avendo toccato i confini della Divinità »  (Card. Cajetano, 2a 2æ p. 103, art. 4) col fornire al Verbo di Dio la carne, alla quale si unì ipostaticamente, la Vergine fu sempre onorata di un culto di sepravenerazione o di iperdulia: « II Figlio del Padre e il Figlio della Vergine sono un solo ed unico Figlio », dice San Anselmo. Maria è da quel momento la Regina del genere umano e tutti la devono venerare (Intr.). Al 25 marzo, corrisponderà, nove mesi più tardi, il 25 dicembre, giorno nel quale si manifesterà al mondo il miracolo che non è conosciuto oggi che dal cielo e dall’umile Vergine. La data del 25 marzo, secondo gli antichi martirologi, sarebbe anche quella della morte del Salvatore. Essa ci ricorda, dunque, in questa Santa Quarantena, come canta il Credo che « per noi uomini e per la nostra salute, il figlio di Dio discese dal cielo, si incarnò per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria, si fece uomo, fu anche crocefisso per noi, patì sotto Ponzio Pilato, e fu seppellito e resuscitò il terzo giorno ». Poiché il titolo di Madre di Dio rende Maria onnipotente presso suo Figlio, ricorriamo alla sua intercessione presso di Lui (Or.), affinché possiamo arrivare per i meriti della Passione e della Croce alla gloria della Risurrezione (Postc).

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIV: 13, 15 et 16.
Vultum  tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducántur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducántur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.

Ps 44:2.
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.
[Dal mio cuore erompe una fausta parola: canto le mie opere al Re.

Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducántur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducántur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.

Oratio

Orémus.

Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genetrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che, all’annuncio dell’Angelo, il tuo Verbo prendesse carne nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi tuoi sùpplici che, come crediamo lei vera Madre di Dio, così siamo aiutati presso di Te dalla sua intercessione.]

Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ.
Is VII: 10-15.
In diébus illis: Locútus est Dóminus ad Achaz, dicens: Pete tibi signum a Dómino, Deo tuo, in profúndum inférni, sive in excélsum supra. Et dixit Achaz: Non petam ei non tentábo Dóminum. Et dixit: Audíte ergo, domus David: Numquid parum vobis est, moléstos esse homínibus, quia molésti estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dóminus ipse vobis signum. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel. Butýrum ei mel cómedet, ut sciat reprobáre malum et elígere bonum.

[In quei giorni: Così parlò il Signore ad Achaz: Domanda per te un segno al Signore Dio tuo, o negli abissi degli inferi, o nelle altezze del cielo. E Achaz rispose: Non lo chiederò e non tenterò il Signore, E disse: Udite dunque, o discendenti di Davide. È forse poco per voi far torto agli uomini, che fate torto anche al mio Dio ? Per questo il Signore vi darà Egli stesso un segno. Ecco che la vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuel. Egli mangerà burro e miele, affinché sappia rigettare il male ed eleggere il bene.]

Graduale

Ps XLIV: 3 et 5.
Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum.
V. Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam: et dedúcet te mirabíliter déxtera
tua.
Ps XLIV: 11 et 12.
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex speciem tuam.
Ps XLIV: 13 et 10.
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: fíliæ regum in honóre tuo.
Ps XLIV: 15-16.
Adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus afferéntur tibi.
V. Adducéntur in lætítia et exsultatióne: adducántur in templum Regis.

[La grazia è riversata sopra le tue labbra, perciò il Signore ti ha benedetta per sempre,
V. per la tua fedeltà e mitezza e giustizia: e la tua destra compirà prodigi.
Ps 44: 11 et 12.
Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.
Ps 44: 13 et 10.
Tutti i ricchi del popolo imploreranno il tuo volto, stanno al tuo seguito figlie di re.
Ps 44: 15-16.
Le vergini dietro a Lei sono condotte al Re, le sue compagne sono condotte a Te.
V. Sono condotte con gioia ed esultanza, sono introdotte nel palazzo del Re.]

Evangelium

Luc 1: 26-38.
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elísabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, ad una Vergine sposata con un uomo della stirpe di Davide che si chiamava Giuseppe, e il nome della Vergine era Maria. Ed entrato da lei, l’Angelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: benedetta tu tra le donne. Udendo ciò ella si turbò e pensava che specie di saluto fosse quello. E l’Angelo soggiunse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti a Dio, ecco che concepirai e partorirai un figlio, cui porrai nome Gesù. Esso sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Disse allora Maria all’Angelo: Come avverrà questo, che non conosco uomo ? E l’Angelo le rispose. Lo Spirito Santo scenderà in te e ti adombrerà la potenza dell’Altissimo. Perciò quel santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio, in vecchiaia: ed è già al sesto mese, lei che era chiamata sterile: poiché niente è impossibile a Dio. E Maria disse: si faccia di me secondo la tua parola.]

Il Figliuolo di Dio, seconda Persona della santissima Trinità, il quale si fa uomo e prende nel seno della Vergine Maria un’anima e un corpo formati per opera dello Spirito Santo, è il mistero che adoriamo in questo giorno. Noi non comprendiamo questo mistero, ma lo crediamo. Si tratta ancora d’imitarlo in quello che possiamo, di lodarne Dio, e di approfittarne. – Vi sono principalmente due cose da imitarsi in questo mistero. Bisogna che noi cerchiamo di entrare, con una sincera e profonda umiltà, nel sentimento di Colui che essendo eguale al Padre suo, ed un medesimo Dio con lui, si annichilò prendendo la forma di servo col farsi uomo. Egli ha cominciato oggi l’umiliazione di quella obbedienza che spingerà fino alla morte di croce. Bisogna che ci sottoponiamo ed interamente ci consacriamo di buon’ora a Dio, per obbedire alla sua legge, e seguire in tutto la sua volontà, sull’esempio di Colui sull’esempio di Colui che entrando in questo mondo disse: Ecco che io vengo, voi mi avete formato un corpo; sta scritto in capo al libro che io farò la vostra volontà, o mio Dio! Io porterò la vostra legge in mezzo al cuore. – All’esempio di un Dio che si è fatto uomo per poter essere da noi imitato, torna bene qui l’unire in questo giorno l’esempio di quella che egli si scelse per Madre, e che trae da lui tutta la sua virtù e la sua gloria. – Proponiamoci, e meditiamo nel Vangelo di questo giorno la semplicità, la modestia, la fede, l’umiltà, la sottomissione agli ordini di Dio, e il perfetto abbandono alla santa provvidenza di lui, virtù che risplendono in Maria nella sua Annunziazione.

PREGHIERA

O Dio, che annientandovi nella vostra Incarnazione avete innalzata Maria alla dignità di vostra Madre, fatemi onorare degnamente la sua divina maternità, e meritare per l’imitazione delle sue virtù quella suprema felicità, che voi avete promessa a quelli, i quali come Ella porteranno in opera la vostra parola, quando diceste: Chiunque fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, è mio fratello e mia sorella e mia madre. Datemi parte, Signore, di quella singolare purità che chiamò i vostri sguardi sopra questa Vergine senza macchia, di quella profonda umiltà con la quale Ella vi concepì, di quella perfetta sommissione :he le fece sopportare i tormenti della vostra passione, di quell’amore sì forte e sì ardente che consumando la sua vita, la mise in possesso del premio eterno da Lei meritato. – Madre del Salvatore del mondo, che godete da lungo tempo il premio delle vostre virtù, rammentatevi che siete la Madre delle membra siccome del Capo, e che dopo di Lui, i figli dell’infelice Eva, divenuti vostri, aspettano dalla vostra potente intercessione gli aiuti dei quali abbisognano nel loro esilio; degnatevi adunque di domandare per me al vostro divin Figlio le grazie che mi sono necessarie, per imitarvi quanto può una creatura così imperfetta come io sono, affinché dopo aver partecipato in qualche modo ai vostri meriti, io possa sperar di partecipare anche alla vostra gloria ed alla vostra felicità.

OMELIA: https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/25/festa-dellannunciazione-2020/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/03/25/festa-dellannunciazione-2019/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/04/09/festa-dellannunciazione-2018/

https://www.exsurgatdeus.org/2017/03/25/25-marzo-annunciazione-della-vergine-santissima/

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Luc 1:28 et 42.
Ave, Maria, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta

In méntibus nostris, quǽsumus, Dómine, veræ fídei sacraménta confírma: ut, qui concéptum de Vírgine Deum verum et hóminem confitémur; per ejus salutíferæ resurrectiónis poténtiam, ad ætérnam mereámur perveníre lætítiam.

[Conferma nelle nostre menti, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri della vera fede: affinché noi, che professiamo vero Dio e uomo quegli che fu concepito dalla Vergine, mediante la sua salvifica resurrezione, possiamo pervenire all’eterna felicità.]

Comunione spirituale

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Is VII: 14.
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio: al quale si darà il nome di Emmanuel.]

Postcommunio

Orémus.
Grátiam tuam, quǽsumus, Dómine, méntibus nostris infúnde: ut, qui. Angelo nuntiánte, Christi Fílii tui incarnatiónem cognóvimus; per passiónem ejus et crucem, ad resurrectiónis glóriam perducámur.

[La tua grazia, Te ne preghiamo, o Signore, infondi nelle nostre anime: affinché, conoscendo per l’annuncio dell’Angelo, l’incarnazione del Cristo Tuo Figlio, per mezzo della sua passione e Croce giungiamo alla gloria della resurrezione.]

Ultimo Evangelio e preghiere leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ringraziamento dopo la Comunione:

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

Ordinario: https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2020)

 [Sac. Dott. Emilio Campana,

Pro-delegato vescovile della diocesi e Professore di Teologia dogmatica del seminario di Lugano

MARIA NEL DOGMA CATTOLICO –

Torino, P. MARIETTI ed., 1909]

Libro I, parte III, Maria nel Vangelo:

CAPO III.

L’annunciazione dell’Angelo.

Sommario.

I . Si racconta colle parole stesse dell’Evangelo il fatto della annunciazione, che teologicamente è la base di tutta la grandezza di Maria, ma che noi dobbiamo esaminare con criteri storici. II. Maria ricevette la visita dell’Angelo, prima del suo matrimonio, quando era solo fidanzata con Giuseppe. — III. Il celeste messaggero è Gabriele; suoi rapporti coll’Incarnazione; forma e luogo in cui apparve. — IV. Perché l’annunciazione. — V. Perché il messaggio di un Angelo. VI. — Autenticità del colloquio passato tra Maria e l’Angelo. — Conazione della critica razionalista. — Logico concatenamento delle cose dette dall’Angelo. — VII. La psicologia di Maria nel grande dramma dell’Annunciazione: sua prudenza, sua umiltà, suo amore alla verginità, tua fede, sua obbedienza, sua ardente carità.

I. — L’Evangelo che ha taciuto della nascita e dell’adolescenza di Maria, d’un tratto ci parla di lei per dirci che un Angelo, l’arcangelo Gabriele, le apparve ad annunziarle che sarebbe diventata Madre di Dio. È il primo avvenimento che della vita di Maria conosciamo dai libri ispirati. Ce lo narra Luca nei termini seguenti: Il sesto mese (dacché Elisabetta aveva concepito Giovanni Battista) fu mandato l’Angelo Gabriele da Dio in una città di Galilea chiamata Nazareth, ad una vergine sposata ad un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe, e la vergine si chiamava Maria. Ed entrato da lei l’Angelo disse: Salute, o piena di grazia: il Signore è con te. Benedetta  tu fra le donne. — Ciò udendo ella sbigottì alle sue parole e pensava che specie di saluto fosse quello. E l’Angelo aggiunse: Non temere, Maria: che hai trovato grazia avanti a Dio; ecco, concepirai nel seno e partorirai un figlio, cui porrainome Gesù. Questo sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore gli darà il trono di David, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. — Allora Maria disse all’Angelo: Come avverrà questo mentre io non conosco uomo? — E l’Angelo le rispose: Lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo t’adombrerà. Per ciò, quel che n’è generato santo, sarà chiamato figlio di Dio. Ed ecco Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia; ed è questo per lei il sesto mese, detta sterile: che niente è impossibile avanti a Dio. — E Maria disse: Ecco l’ancella del Signore: si faccia di me secondo la tua parola. — E l’Angelo si partì da lei „ (S. Luca I, 26 seg.). Questo breve tratto dell’Evangelo contiene in germe tutta la teologia mariana. Tutto quello che di sublime si può e si deve dire di Maria, va attinto, come alla sua fonte inesauribile, al racconto dell’annunciazione che ci fa S. Luca. Perché fu subito dopo il colloquio con l’Angelo che Maria divenne Madre di Dio: fu per il modo con cui accettò di diventar Madre del Salvatore, che si trovò associata a Lui nell’opera della redenzione, e meritò il titolo di nostra Madre e Corredentrice. La chiave che dogmaticamente ci introduce nell’imponente edificio della dignità di Maria, sta nei suoi rapporti cristologici. Ebbene, questi rapporti si rannodano tutti al fatto dell’annunciazione. Ma quel che si può teologicamente cavare da questo fatto, già lo vedemmo altrove. Ora. noi dobbiamo esaminarlo con criteri storici.

II. — Dal punto di vista storico, importa anzitutto far rilevare che l’Angelo apparve a Maria prima che ella fosse definitivamente congiunta in matrimonio con Giuseppe, quando cioè era semplice fidanzata di lui. Questo risulta anzitutto dal significato ovvio, naturale e spontaneo della parola latina dessposatae della greca “imnesteumenen” ,a cui quella fedelmente corrisponde. Ma soprattutto ci risulta evidente confrontando quel che di Maria dice S. Luca, con quel che ce ne fa sapere S. Matteo! Dalla narrazione dell’annunciazione, e soprattutto della visita a S. Elisabetta che si legge in S. Luca, è fuor di dubbio che Maria divenne Madre di Dio subito dopo ch’ella disse all’Angelo: “Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola.„ Ora S. Matteo ci dice a proposito: “La nascita di Gesù Cristo poi avvenne così: Maria, sua madre, sposata a Giuseppe, prima che fossero insieme, si trovò incinta di Spirito Santo. — Christi autem generatio sic erat; cum esset desponsata mater ejus Maria Joseph, antequam convenirent, inventa est in utero habens de Spirita Sancto „ Matth. I, 18. Quel antequam convenirent, getta troppa luce sul significato del desponsata, perché ci possa essere ancor dubbio. Maria dunque portava già in sé il Salvatore prima che coabitasse con S. Giuseppe; poiché tale è il significato della frase antequam convenirent. La parola convenire qui non può significare l’uso del coniugio, per il quale l’Evangelista usa il verbo cognoscere, ma indica semplicemente la coabitazione. Tale è pure il significato della frase originale greca  (“pris e suneltein aghios”). Essa dice letteralmente prima di unirsi a coabitare, prima di venire nella stessa casa. E che qui si debba ritenere il significato letterale, è confermato dall’avviso che l’Angelo, secondo S. Matteo, diede a Giuseppe, angustiato per lo stato in cui si trovava Maria, e che egli non sapeva spiegare. L’Angelo disse a lui: “Giuseppe, non esitare a prendere Maria in tua consorte. — Joseph, noli timere accipere Mariam conjugem tuam. „ Nel greco per accipere ci sta “paraladein”, che vuol dire letteralmente condurre a casa tua, cioè prendere in moglie, per consorte. – È dunque evidente che quando Maria concepì il Figlio di Dio, e quando fu visitata da Gabriele, che le dava un tanto annuncio, ella non stava ancora nella di Giuseppe. Abitava con lui nello stesso paese, ma in casa distinta. Che avesse ancora i suoi genitori?… Che fosse presso qualche prossimo parente che le faceva le veci dei genitori morti?… Sono domande a cui sarebbe inutile tentar di dare una risposta, perché  sarebbe sempre arbitraria. L’Evangelo non ci ha voluto dare informazioni su questo punto, ed a noi altro non resta che reprimere insoddisfatta la nostra curiosità. Ci preme però di mettere il lettore in guardia perché non pensi che il fidanzamento, lo sposalizio, presso gli Ebrei avesse quel medesimo valore che ha presso di noi. No!, presso gli Ebrei il vincolo che ne nasceva era molto più intimo, i diritti più. ampii. Il fidanzamento degli Ebrei aveva il valore del matrimonio rato presso i Cristiani. Gli sposi non coabitavano ancora, ma potevano trattarsi come marito e moglie. Se la sposa avesse mancato di fedeltà era dalla legge trattata come adultera, e viceversa se avesse avuto dei figli dal suo fidanzato questi non erano considerati come illegittimi. Il celebre rabbino Maimonide, del quarto secolo, che ben conosceva gli usi ebraici, scrive a proposito: Si sponsa in domo patris sui ex sponso concepisset, infans ut legitimus habebatur (De prohib. congr., cap. xv, n. 17). Per questo, lo stesso Maimonide dice che alla fidanzata ebrea si poteva con verità dare anche il titolo di moglie: Desponsata, tametsi nondum maritata, nec in domum viri introducta, illìus tamen est uxor (nel libro Ascetk, ossia La Donna). Il fidanzamento durava un anno, e passava in matrimonio coll’introduzione della sposa nella casa dello sposo; la quale introduzione ora si faceva solennemente, coll’invito cioè di molti amici, ai quali non si lasciava mancare lieta e copiosa mensa, ed ora si faceva tacitamente, senza fasto né  esteriori dimostrazioni. – Ammesso che Maria, quando fu salutata dall’Angelo, fosse semplice fidanzata di Giuseppe nel senso testé spiegato, si comprendono chiaramente tante cose, che a prima vista sembrano oscure. Si spiega, anzitutto, come Maria abbia potuto subito dopo lasciare Nazareth ed andare da Elisabetta senza essere accompagnata da Giuseppe. Che Giuseppe non sia andato da Elisabetta è fuor di dubbio. Lo dimostra il turbamento che provò quando si accorse della gravidanza di Maria, che non poteva in niuna maniera spiegare. Questa scoperta la fece certamente al ritorno di Maria in Nazareth. Se fosse andato anche lui dalla madre di Giovanni Battista, avrebbe inteso il saluto di lei a Maria, avrebbe inteso il Magnificat, avrebbe partecipato alle confidenze di Maria alla sua vecchia parente; per dir tutto in breve, lo stato della sua sposa non sarebbe più stato per lui ricoperto dall’impenetrabile velo del mistero. Giuseppe dunque non fu con Maria nelle regioni montuose, in montana; il che si comprende benissimo supposto che Maria ancora non coabitasse con lui. Si spiega ancora come la gravidanza di Maria non abbia suscitato in pubblico nessuna meraviglia, come il suo onore non ne fosse stato menomamente compromesso. Ella era legalmente fidanzata: dunque non c’era più nulla da obbiettare contro le condizioni in cui si trovava. In tutti doveva naturalmente formarsi la convinzione, che il frutto aspettato era il legittimo rampollo dello sposo Giuseppe. Questi però che sapeva di non aver mai usato i suoi diritti coniugali, ne restava meravigliato e turbato. Ma era il solo che poteva provare una simile impressione. In altri termini, il lettore si ricorda certamente quali siano state le ragioni per cui Dio volle la Vergine Maria, non

ostante il voto di verginità, unita in matrimonio con Giuseppe. Ebbene, quelle ragioni cominciavano ad avere tutto il loro valore dal giorno del fidanzamento di Maria.

III. — L’Angelo apparso a Maria fu Gabriele. Il suo nome etimologicamente vuoi dire forza di Dio, eroe di Dio. Non era questa, secondo la Scrittura, la prima apparizione da lui fatta ai mortali. Dal libro di Daniele risulta che si manifestò più volte a quel profeta, sotto forma di uomo alato, per istruirlo su varii punti, e, fra altro, per spiegargli il vero senso delle settanta settimane che dovevano trascorrere prima della venuta del Messia. S. Luca, nel capo medesimo in cui narra l’annunciazione a Maria, ci fa sapere che Gabriele era già prima apparso a Zaccaria, per annunciargli- che sarebbe diventato il padre del Precursore. Con Zaccaria si manifestò in questi termini: “Io sono Gabriele che sto in presenza di Dio„ (Luc. I, 19). Egli è dunque come Raffaele, del quale è detto nel libro di Tobia: “che è uno dèi sette spiriti che stanno davanti al trono di Dio„ (Tob. XII, 15). Stanno davanti al trono di Dio, s’intende, per ricevere e mandare ad esecuzione i suoi ordini. Per questo Gabriele si connumera tra gli arcangeli. S. Tommaso pensa che Gabriele non sia dell’ordine più sublime tra gli spiriti celesti, ma che sia sufficiente l’ammettere che ha il primo posto nell’ordine degli arcangeli, il cui officio è quello di annunciare agli uomini le cose di maggior importanza: Ad quartum dicendum, quod quidam dicunt Gabrielem fuisse de supremo ordine angelorum: propter quod Gregorius dicit: “Summum angelum venire dignum fuerat, qui summum omnium nuntìabat. „ Sed ex hc non habetur quod fxerit summus inter omnes ordines, sed respectu angelorum: fuit enim de ordine archangelorum: unde et Ecclesia eum archangelum nominat: et Gregorius ipse dicit in hom. de centum ovibus) quod “archangeli dicuntur qui summa annutiant „ satis est ergo credibile., quod sii summus in ordine archangelorum (III p., q. xxx, art. 2). Per la parte da lui avuta nell’annunciare i misteri riguardanti l’Uomo-Dio, Gabriele vien chiamato anche “l’Angelo dell’Incarnazione, „ ed è fuor di dubbio, come opportunamente fa osservare S. Gregorio, che il suo nome conveniva molto bene agli offici da lui compiuti. La Redenzione è certamente opera di potenza: è la manifestazione più bella dell’illimitato potere di Dio; era ben giusto quindi che il portare la novella di un tanto mistero fosse affidato all’angelo che si chiama la forza di Dio. Hoc nomen officio suo congruit. Gabriel enim Dei fortitudo nominatur. Per Dei ergo fortitudinem nuntiandus erat, qui virtutum Dominus, et potens in prœlio ad debellandas potestates aereas venlebat (S. Tho.). Gabriele apparve a Maria in forme d’uomo: questo è fuor di dubbio: altrimenti non si capirebbe più come sia “entrato _ da lei, come abbia materialmente “parlato „ con lei, come da lei si sia partito. „ Quale però sia stato precisamente l’aspetto assunto dall’Angelo, l’Evangelo propriamente non lo dice: a Daniele apparve alato; ma nel caso della Vergine si ritiene che non sia apparso in quest’atteggiamento. Il suo entrare e partire da Maria, è descritto da S. Luca con parole che fanno supporre nell’Angelo forme umane comuni. L’Arcangelo entrò dalla Vergine. Questo vuol dire che la salutò, e le annunciò il mistero dell’Incarnazione mentre Maria si trovava in casa: è troppo naturale il supporre che in quel momento fosse immersa nell’orazione e nella contemplazione dei divini misteri. Certo era sola. Di qui svanisce la leggenda diffusa presso gli Orientali, che Gabriele sia apparso a Maria mentre si trovava alla fontana per attingere acqua. Ciò urta col testo di S. Luca. Più strana ed infondata ancora è l’opinione di alcuni, che, per conciliare ogni cosa, ammettono una duplice apparizione: la prima alla fontana, la seconda in casa. E evidentemente contro la narrazione dell’Evangelo il duplicare l’annuncio dell’Angelo.

IV. — Perché Dio volle che il mistero dell’Incarnazione fosse prima annunciato che compiuto; e, di più, perché farlo annunciare da un Angelo? A queste due domanda risponde molto bene S. Tommaso nella terza parte della Summa Theologica, alla questione trentesima. Non si trattava certo di necessità assoluta. Iddio, padrone assoluto di ogni cosa, avrebbe potuto rendere Maria madre del suo Figlio anche senza inviarle nessun previo messaggio, anche senza aspettare il di lei consenso. Ma fu conveniente che Maria venisse prima edotta di ciò che stava per compiersi in lei, per quattro ragioni. La prima si fu per dar campo a Maria di prepararsi a ricevere degnamente in s’è il Verbo divino. Prima di concepire in sé materialmente il Figlio di Dio, era conveniente che lo concepisse spiritualmente, concentrando su di Lui in uno sforzo supremo tutti i suoi affetti, e tutti i suoi pensieri. Al Re dell’universo che entrava nel mondo, per quanto volesse da principio conservare l’incognito, era però troppo giusto che almeno la Madre sua facesse festa e rendesse grazie per tanta degnazione. Congruum fuit, dice S. Tommaso, B. Virgini  annuntiari quod esset Christum conceptura. Primo quidem ut, servaretur congruus ordo conjunctionis Filli Dei ad Virginem: ut scilicet priusmens ejus de ipso’ instrueretur, quam carne enm conciperet (l. c.). Poi, facendo questa rivelazione, Dio pensava a noi: Egli volle che Maria ne fosse diligentemente istruita, affinché ella poi, alla sua volta, fosse in grado di rendere davanti all’umanità una testimonianza inoppugnabile di questo mistero. In realtà, le informazioni che S. Luca ci dà sul modo con cui Dio s’incarnò, le ebbe appunto da Maria. Secundo, è sempre l’Angelico che parla, ut posset (Maria) esse certior testis hujus sacramenti, quando super hoc divinitus erat instructa. L’annunciazione fu conveniente anche, perché, come diremo tosto, fornì a Maria l’occasione di esercitare le più mirabili virtù. Tertio, ut voluntaria sui obsequii munera Deo offerret a quod se promptam obtulit, dicens: Ecce ancilla Domini. Infine, tenendo questa condotta, Dio ha mostrato una volta di più, come Egli ami trattare agni cosa secondo la sua natura, e come abbia sempre un delicato rispetto verso l’umano libero arbitrio. Ad un essere libero, l’amicizia, l’alleanza non, s’impone, ma convenienza vuole che si offra e si lasci alla libera accettazione. Coll’incarnazione Dio entrava in più intimi rapporti coll’umanità; era un indissolubile connubio che contraeva con lei. Ci voleva dunque la libera accettazione anche da parte dell’umanità. Questo libero consenso, in nome di noi tutti, lo diede Maria, rispondendo all’Angelo. Un’altra donna, col suo libero consenso all’angelo malvagio, ci aveva rovinati, Maria ci restituisce liberamente all’amicizia di Dio rispondendo a Gabriele. Quarto, ut ostenderetur esse quoddam spirituale matrimonium inter Filium Dei et humanam naturam. Et ideo per annuntiationem expectabatur consensus Virginis loco totius humanæ naturæ? (l. c., art. 1).

V. — Una volta decretato di manifestare a Maria il mistero dell’Incarnazione, prima di mettervi mano, nessuna maniera era più congrua o delicata per annunciarlo, che quella di incaricare di ciò un Angelo. Certo, Dio avrebbe potuto manifestarlo Lui direttamente; avrebbe anche potuto mandare a Maria un profeta. Ma questo secondo partito, l’intromissione cioè di un uomo, forse non sarebbe stata troppo decorosa, data la superiorità di Maria a tutto il restante dell’uman genere. Fu molto conveniente che di questo divino messaggio venisse incaricato un angelo, specialmente, secondo S. Tommaso, per tre ragioni. Anzitutto perché è la via ordinariamente seguita dalla divina Provvidenza, quella cioè di manifestare i suoi sovrannaturali disegni agli uomini per mezzo degli Angeli. E non vi sarebbe stato nessun motivo di fare un’eccezione per Maria. Ella, è vero, per un lato è superiore agli Angeli: è superiore a loro per dignità e santità; ma da un altro è inferiore ad essi: lo è per natura, e, mentre viveva quaggiù, lo era anche per condizione di viatrice. Anche Gesù Cristo, per la sua condizione di uomo e di viatore, fu per poco inferiore agli Angeli. Sentiamo S. Tommaso: Respondeo, dice nell’articolo secondo della questione citata, quod conveniens fuit Matri Dei annuntiari per Angelum divinæ incarnationis mysterium propter trio. Primo quidem ut in hoc etiam servaretur divina ordinatio, secundum quam mediantibus angelis divina ad homines perveniunt. E nella risposta ad primum soggiunge: Ad primurn ergo dicendum, quod Mater Dei superior erat angelis quantum ad dignitatem, ad quam divinitm eligebatur; sed quantum ad statum præsentis vitæ inferior erat angelis, quia et ipse Christus ratione passibilis vita, modico ab angelis minoratus est. – Di più, un angelo delle tenebre aveva col suo intervento iniziato l’opera della nostra caduta; era ben dunque conveniente che un altro angelo, un Angelo di luce, trattasse con un’altra donna per il nostro riscatto. Secundo, continua il santo Dottore, hoc fuit conveniensreparationi humanæ quæ futura erat per Christum; unde Beda dicit: Aptum humanai restauraiionis principium, ut angelus a Deo mitteretur ad Virginem partii consecrandam divino, quìa prima perditionis humanai fuit causa, cum serpens a diabolo mittebatur ad mulierem spiritu superbice decipiendam. „ Da ultimo un tal messaggero celeste era il meglio indicatoper presentarsi a colei che, diventando madre, non avrebbe cessatodi essere vergine. Vi hanno legami strettissimi tra la purezza angelica e la purezza verginale: vivete nel mondo conservandosempre illibato il candore verginale, e, più che umanadeve dirsi vita angelica. Tertio, così conchiude l’Angelico, quia hoc congruebat virginitati Matris Dei; unde Hieronymus dicit in sermone Assumptionis (è il discorso falsamente attribuito a lui): ” Bene angelus ad virginem mittitur quia semper est angelis cognata virginitas. Profecto, in carne, præter carnem vivere, non terrena vita est, sed cœlestis „ (l. c.).

VI. Alla critica razionalistica il racconto che S. Luca ci dà dell’annunciazione dell’Angelo, riesce troppo molesto, preso così com’è, e si è data quindi la briga di rifarlo a suo piacimento. Non parliamo di quelli che più radicali, ma certamente più coerenti, sopprimono addirittura i due primi capi di S. Luca, il così detto Vangelo dell’infanzia. Abbiamo in vista solo coloro, che più pudibondi, ma d’un pudore illogico, e non privo di sapore comico, ammettono sì i racconti dell’infanzia, ma vogliono far sparire l’affermazione della verginità di Maria. Questo insigne privilegio della Madre di Dio brilla di luce meridiana nel colloquio che Ella ebbe con l’Angelo; ed è appunto contro questa luce che si fa ribelle la critica razionalista, e precisamente quella che vorrebbe passar per più moderata, e dare ai propri argomenti l’aureola di scientifici. Ecco come procedono: Il Kattenbusch propone di eliminare dal colloquio quattro parole che l’Evangelista mette in bocca a Maria, « Epei andra u ghinoskopoiché non conosco uomo]. Solo quattro parole!… – Harnack non si accontenta di così poco, che pur sarebbe già un arbitrio intollerabile. Per meglio e più sicuramente eliminare l’idea del concepimento virgineo di Gesù, sostiene che debbansi riguardare come interpolati i versicoli 34, 35. come pure l’appellativo di vergine dato a Maria in principio del racconto. Nel testo primitivo, dunque, secondo Harnack, non si leggevano queste parole: 34. Allora Maria disse all’Angelo: come avverrà questo, mentre io non conosco uomo? 35. E l’Angelo rispose: lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà. Per ciò quel che ne è generato santo sarà chiamato Figlio di Dio. Quali sono le ragioni che hanno indotto il Professore di Berlino, il quale del resto è meritamente celebrato per la sua erudizione, e che ragiona egregiamente solo quando il pregiudizio non gli fa ombra, quali sono, domandiamo, le ragioni su cui appoggia quest’asserita interpolazione? Se si trattasse di noi cattolici che volessimo sopprimere qualche testo molesto, ci si richiamerebbe agli antichi codici, e ci si imporrebbe per essi un sacro rispetto. E la cosa sarebbe giusta. Ma appunto perché questo criterio è giusto, va rispettato sempre. La questione dunque dell’interpolazione bisognerebbe giudicarla in base ai documenti, e non con semplici supposizioni speculative. Ma quelli che si vantano di essere i monopolizzatori del sapere positivo, questa volta trovano troppo volgare il piegarsi davanti ai codici. Preferiscono ragionare a priori; e del resto non possono far altro, perché neppure uno dei codici è dalla loro parte. Tutti riferiscono, come è al presente, il fatto dell’annunciazione. Quali sono dunque gli argomenti di Harnack? Egli li espose nel 1901 [in Luk]e li deduce tutti dall’esame dei versetti 34 e 35 in relazione col contesto, e si riducono ai seguenti: 1° Anzitutto vi sono in questo brano delle parole e precisamente delle particelle, che tradiscono la mano dell’ interpolatore. Vi è per esempio la particella “epei”,poiché, che non si trova in nessun’altra parte degli scritti di S. Luca; non nell’Evangelo, non negli Atti degli Apostoli. Vi è ancora un’altra particella “Sto”, perciò, che si trova più volte negli Atti degli Apostoli, ma nell’Evangelo solo un’altra volta, al capo VII, al versicolo 7, il quale del resto manca in alcuni codici, per esempio nel codice D e nei codici dell’Itala. Queste particelle dunque accusano dei ritocchi posteriori. Ma perché mai? Se questo criterio valesse qualche cosa, allora non resterebbe più nulla, si può dire, dell’Evangelo di S. Luca, poiché l’uso di parole e di espressioni singolari non s’incontra solo in questi due versetti, ma nel terzo Evangelo è frequente, e proprio in quei passi, dei quali è fuor di dubbio, anche a giudizio dell’ Harnack, l’autenticità. Fermiamoci per esempio al prologo, di cui Harnack difese l’autenticità nell’anno 1899, in una conferenza tenuta all’Accademia reale prussiana di scienze. — Nel brevissimo tratto dunque che costituisce il prologo — è un solo periodo — troviamo delle parole, che invano si cercherebbero in seguito nello stesso Evangelo. La stessa prima parola “epeidepes”-poiché, non si riscontra più in questa forma. Solo ricorre negli Atti, c. xv, v. 24, ma nella forma più breve “epeide”. Né questo ricorrere di singolari parole in S. Luca ci deve sorprendere, poiché egli, come lo attesta nel prologo, ha fatto uso di altri scritti, e può essere che qualche volta li riporti integralmente. E si sa che riportando passi altrui, uno scrittore si mette con ciò nell’occasione di usare parole che, del resto, non sono familiari nel suo stile personale. Questa prima obbiezione cade dunque da sé.

2° Ma Harnack insiste, e trova che se fossero genuini i versicoli 34 e 35, l’Angelo avrebbe parlato molto inabilmente: avrebbe commesso delle inutili ripetizioni, anzi sarebbe caduto in aperte contraddizioni, adir poco, e nel suo filo di ragionamento non avrebbe tenuto troppo calcolo del senso comune. Infatti, così ragiona Harnack:

a) Il buon ordine logico esige che il versicolo 36 venga subito dopo il pensiero espresso nei versicoli 31, 32, 33. In essi l‘Angelo promette aMaria che concepirà un figlio di cui dà i connotati: ecco,concepirai nel seno, ecc. Poi nel versicolo 36 usa la medesima espressione: ed ecco Elisabetta tua parente ha concepito, ecc. Lo stesso giro delle due frasi esige che si succedano immediatamente; e quindi i versicoli 34 e 35 sono ingombranti; separano troppo violentemente le due frasi; furono dunque interpolati e perciò debbono scomparire. Ma questa è davvero una fantasia bella e buona. Da quando mai le frasi identiche debbonsi succedere immediatamente? Del resto il versicolo 36 non è posto per spiegare i versicoli 31, 32, 33, ma per rispondere alla domanda di Maria, che chiedeva come mai potesse Ella diventare madre, mentre era in condizione di non poter moralmente violare la propria verginità.

b) Ma l‘Harnack insiste: ilcontenuto del verso 35 è una ripetizione dei versi 31 e 32.

31, 32. E d ecco tu concepirai epartorirai un figlio… Egli sarà grandee Figlio dell’Altissimo sarà chiamato;e il Signore Iddio gli darà il tronodi David suo padre.

35. Lo Spirito Santo verrà in tee la potenza dell’Altissimo ti adombrerà.Per ciò quel che vi è generatosanto, sarà chiamato Figlio di Dio.

Anzi, più che una semplice ripetizione, ci sarebbe in questi versi una reale opposizione, poiché, mentre nei versi 31, 32 il promesso è un figliuolo di Davide, che sarà nominato Figlio dell’Altissimo, nel versicolo 35 il promesso sarà invece nominato Figlio di Dio, perché generato da Dio. – Ma questa osservazione pure è priva di fondamento. Per quanto il versicolo 35 si presenti simile agli altri due 31, 32. in realtà contiene qualche idea di più: non è dunque una mera ripetizione, una biasimevole tattologia, ma una vera spiegazione data da un crescendo. Il chiamare che fa l’Angelo, nel versicolo 35, il promesso nascituro “Figlio di Dio, „ mentre prima 1’aveva qualificato per “figlio di Davide, „ non è una contraddizione, ma un vero crescendo. In realtà il promesso Messia, nella sua qualità di Uomo-Dio, era ad un tempo figlio di Davide, generato da Davide, e figlio di Dio, generato da Dio. Solo una sistematica ed aprioristica opposizione al mistero, può rendere oscuri questi concetti per loro natura così limpidi. c) Continua l’illustre opponente. Se non si sopprimono i versicoli 34, 35, l’argomento portato dall’Angelo nei versicoli 36, 37 diventa inefficace allo scopo. Le parole: « 36. Ed ecco Elisabetta la tua parente ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia, e questo è il sesto mese per lei detta sterile;

37. perché niente è impossibile avanti a Dio, »

sono, secondo Harnack, bastantiad accertare che il figlio ch’ella concepirà naturalmente, saràil Messia. Ma allora devono venire immediatamente dopo ilversicolo 33, e si deve leggere: 33. e regnerà in eterno sulla casa di David ed il suo regno non avrà fine. 36. Ed ecco Elisabetta la tua parente, essa pure, ecc. Ma, posto dopo i versicoli 34, 35, ilversicolo 36 farebbe servire l’esempio di Elisabetta a dimostrarela possibilità del concepimento verginale. Il che sarebbeillogico, perché non è con un fatto minore che si deve provarela possibilità di un fatto più grande.

Rispondiamo: L’Angelo vuol illustrare la potenza divina; ne adduce come esempio un fatto già in corso, di carattere miracoloso. Questo fatto non è della grandezza dell’altro che sta per compiersi in Maria: ma tra tutti, è uno di quelli che più gli si avvicinano. Che offesa ne riceve di qui la logica? L’Angelo non ha inteso con ciò di dare un argomento apodittico: ha voluto semplicemente dare un’idea dell’onnipotenza divina, arrecando in mezzo un altro fatto miracoloso. Harnack, e nessun altro al mondo, avrebbe potuto fare diversamente.

d) L’ultimo argomento il critico-razionalista lo desume dalle parole di Maria: Come mai avverrà questo, poiché non conosco uomo? Egli osserva: 1° è strana questa meraviglia in una donna sposata; 2° queste parole di lei dimostrano incertezza e dubbio di fronte alle parole dell’Angelo, mentre in realtà credette, e della sua fede ne ebbe lode da Elisabetta; 3° questa risposta di Maria all’Angelo contraddice alla di lei indole taciturna, quale risulta dall’Evangelo. – Cominciamo da quest’ultima osservazione: Maria, secondo l’Evangelo, non deve poi ritenersi taciturna, come la vorrebbe far credere Harnack. Certo non era garrulamente loquace. Ma quanto sapesse sapientemente ed eloquentemente parlare a tempo debito, lo dimostra, se non altro, il Magnificat. E vero. l’Harnack attribuisce questo cantico inarrivabile ad Elisabetta e non a Maria; ma con qual fondamento lo vedremo in seguito. Le parole di Maria all’Angelo non sono indice di incredulità, ma manifestazione di sapiente prudenza. Ella si sentiva legata dal voto di verginità. Ora le si annunzia che diventerà madre. La cosa è troppo delicata perché Maria si accontenti senz’altra spiegazione. A lei importa di sapere come potrà, in seguito a quest’annunzio, rimaner fedele al voto con cui s’è legata a Dio. – Questo voto: ecco la vera causa che fa meravigliare Maria, quantunque sposata a Giuseppe, quando ella sente che dovrà diventar madre. Gli argomenti di Harnack dunque non hanno maggior consistenza della statua di Nabucco: basta un sassolino per mandarli in frantumi. Una mente ben più acuta ed assuefatta al maneggio della logica, di quello che lo possa essere qualsiasi razionalista, S. Tommaso d’Aquino, ha esaminato precisamente sotto l’aspetto della correttezza logica il colloquio avuto dall’Angelo con Maria, e lo ha trovato inappuntabile. Nessuno avrebbe mai potuto parlare con maggior ordine, e con un procedimento più razionale: tale è il giudizio che ne dà il S. Dottore. Di fatti, secondo S. Tommaso, si debbono distinguere nel discorso dell’Angelo tre punti, marcatamente differenti. Egli vuole anzitutto attirare a sé tutta l’attenzione della Vergine, la vuol istruire sul mistero che le annuncia, vuole avere da lei il consenso definitivo. Quanto al primo atto, per attirare cioè l’attenzione di Maria, l’Angelo la saluta in termini cosi elogiosi, che non potevano a meno di fare la più grande impressione su Maria tanto umile e sommamente schiva di pensare grandi cose di sé.Egli la saluta piena di grazia, e con ciò riconosce in Lei la disposizione a diventar Madre di Dio; le soggiunge che il Signore è con Lei, vale a dire che si compiace in Lei in una maniera tutta speciale, che l’assiste con una provvidenza singolarissima; termina il saluto preannunciando l’onore che a lei deriverà da questo singolare favore che gode presso Dio: Ella sarà benedetta fra tutte, cioè sopra tutte le donne. Per l’umiltà e la modestia verginale di Maria, c’era più che a sufficienza per rimanerne sbalordita: e l’Angelo opportunamente si ferma a rassicurarla. Insiste nel dirle che il favore di cui Ella gode non è fallace, perché è presso Dio; e per meglio dissipare i di lei timori stavolta la chiama col suo nome Maria (Beda, Curs. Script. Sac. del Migne). Guadagnata così 1’attenzione e la confidenza di Maria, l’Angelo passa ad esporle l’oggetto della sua ambasciata. Procede con quest’ordine: annuncia anzitutto a Maria che diventerà madre: Ecco concepirai nel seno, e partorirai unfiglio, cui porrai nome Gesù. — Poscia descrive i pregi e la dignità di questo figlio: Questo sarà grande, e sarà chiamato figlio dell’Altissimo, ed il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Prese in sé, queste parole indicano abbastanza chiaramente che il futuro figlio di Maria era il Messia. Ma l’umiltà di Maria non le permetteva di credersi, così senza ulteriori spiegazioni, la vergine predetta dal profeta Isaia, e oppone all’Angelo con mirabile candore il proprio voto di verginità. Ciò dà occasione all’Angelo di spiegare meglio il proprio concetto, e parla quindi del modo con cui Ella concepirà: concepirai di Spirito Santo, per la virtù dell’Altissimo, e così manifesta in maniera evidentissima che il di lei Figlio sarà il Figlio di Dio. Lo Spirito Santo scenderà in te, e la potenza dell’Altissimo t’adombrerà. Per ciò quel che n’è generato santo, sarà chiamato Figlio di Dio. – ‘Angelo prima di partire deve avere il consenso della Vergine; e perché questo consenso sia più pieno e spontaneo, appoggia tutte le grandi cose, a cui Maria deve acconsentire sulla onnipotenza divina, la quale ha già operato un gran prodigio in Elisabetta, che è sul punto di diventar madre, non ostante la sua sterilità. Ma quello non è che una pallida figura (S. Tommaso dice quoddam figurale exemplum, ad III) di quanto sta per operare in Maria. Maria non può resistere alla volontà divina, e dà il suo consenso: Si faccia di me secondo la tua parola; e cosi la missione dell’Angelo ha un esito felice. – Il colloquio dunque succede col miglior ordine desiderabile e non c’è da far stralcio di nessun versicolo.

VII. — Ed ora s’impone un rapido sguardo alla psicologia di Maria, nell’atto di diventar madre di Dio, quale appare dal suo atteggiamento di fronte all’Angelo e dalle risposte a lui date. L’Evangelo ha cura di dirci che Maria, sentendosi salutata dall’Angelo, si sentì turbata: turbata est. Perché questo timore? Stando al testo della Volgata latina, si dovrebbe dire che rimase turbata soltanto al saluto dell’Angelo: le sue parole e non la sua presenza originarono questo turbamento. Di fatto il testo latino dice: Quæ cum audisset, turbata est in sermone ejus, et cogitabat qualis esset ista salutatio. Quindi è che molti spiegano che Maria non sia rimasta turbata dalla presenza dell’Angelo, adducendo per ragione che era assuefatta a quelle visite: “E ponete ben mente, scrive il P. Curci, essa si turbò alla parola, “epì, to logo”, in sermone, e ripensava che cosa volesse dire quel saluto: ma qui non si dice che si turbasse all’aspetto dell’Angelo, come era avvenuto a Zaccaria, e come vi dissi, destarsi comune e naturale lo sbigottimento nell’ uomo alla presenza di esseri così diversi da lui. Il perché non mi sembra da rigettare ciò che alcune anime pietose meditarono: che cioè, alla designata Regina degli angeli dovesse essere familiare l’apparimento di questo spirito celeste „ Ma, se ben si osserva il testo greco, si deve conchiudere che la presenza dell’Angelo in forma di uomo non fu estranea al turbamento della Vergine. Di fatto nel greco e così pure nel siriaco, al posto di quae, cum, audisset, si legge quæ cum vìdisset. E per questo S. Ambrogio dice espressamente: Ad virilis sexus speciem peregrinam turbatur aspectus Virginia (lib. I Off., c. XVIII). Ed a lui fa eco S. Gerolamo nella lettera settima a Leta, al capo quarto: Imitetur Mariam, quam Gabriel solam in suo cubiculo reperiti et ideo for san timore perterrita est, quia virum, quem non solebat, aspexit. E così possiam ritenere che Maria sia rimasta perplessa anzitutto all’aspetto insolito di un uomo che improvvisamente le apparve, ma soprattutto al sentire le sue parole ed il suo saluto. Pensa S. Bernardo, che al sentire quel linguaggio tanto per lei elogioso, Maria si sia sentita attraversare la mente dall’idea di un inganno diabolico, e che l’angelo delle tenebre volesse indurla in superbia (Serm. 3 super Missus), Questa congettura del Dottor Mellifluo però non garba a tutti. Il Serry, per esempio, la trova non concordante col testo evangelico, il quale dice che Maria pensava bensì qual specie di saluto fosse quello, ma non chi fosse il salutante. Ma l’osservazione del dotto Domenicano non è in realtà di quel peso che egli crede. Quando si dice che Maria era incerta e turbata intorno al saluto, niente vieta che sotto la denominazione di “saluto „ s’intendano tutti gli elementi che lo costituiscono, e, prima d’ogni altra cosa, colui che lo pronuncia. E così Maria, non mostrandosi facile a credere ad ogni spirito, ma volendo prima accertarsi della verità, ha dato un bell’esempio di prudenza. Maria fu con l’Angelo prudente, quanto Eva era stata con un altro angelo imprudente. Ma i dubbi quanto alla natura dell’apparizione non dovettero durar molto. Da tutto l’atteggiamento del suo misterioso interlocutore, dalla riverenza che mostrava pronunciando il nome di Dio, in forza di quel fiuto, di quel divino istinto che hanno le anime sante di distinguere le opere celesti de quelle diaboliche, Maria comprese ben tosto che chi le parlava era un messaggero di Dio. Ma il turbamento perseverava ancora. Non più sostenuto dalla prudenza, era però alimentato dall’umiltà. L’Angelo diceva senza dubbio grandi cose di lei: che era piena di grazia, che possedeva Dio in maniera singolare, che a lei era riservata una benedizione che la distingueva fra tutte le donne. Per Maria, che era assuefatta soltanto a pensare il proprio nulla, al di fuori dei benefizi divini, questo cumulo di lodi è di un peso schiacciante, poiché, come osserva S.Tommaso, non c’è cosa tanto sbalordiente per un animo veramente umile, quanto al sentire l’esaltazione dei propri pregi: animo humili nìhil est mìrabilius, quam audìtus suo? excellentio? ( III p., q. xxx, a. 4 ad 1). Anche qui, qual differenza tra Eva e Maria! Eva, al sentire dall’infernale ingannatore che sarà simile a Dio, messa a parte di ogni segreto, non può più resistere alla lusinga: la vanità e la superbia le fanno sentire dei fatali capogiri. Maria invece, che veramente è il compendio di tutte le divine meraviglie, non può sentire senza una profonda scossa di turbamento il proprio panegirico, che per quanto magnifico, èancora inferiore alla realtà. Ma vari Padri trovano che a suscitare in Maria questo turbamento, ad un sentimento di prudenza e di umiltà, se ne intrecciava un altro, quello del pudor verginale. Questo pudor verginale, che la turbò anzitutto per la semplice presenza dell’Angelo in forma umana, aumentò questa perplessità allorché Maria sentì che ella era benedetta fra le donne. La benedizione di una donna presso gli Ebrei, aveva un senso più determinato e specifico di quello che abbia fra noi. La benedizione di una donna, secondo il modo di giudicare degli Ebrei consisteva soprattutto nel dono della maternità. Quando l’Angelo dunque disse a Maria che sarebbe stata benedetta fra le donne, le faceva capire in termini abbastanza chiari, che avrebbe avuto una maternità straordinaria. Per questo Maria, conscia dei propri propositi di verginità, si mise a riflettere sul senso di questo saluto: cogitabat qualis esset ista salutatio. Le parole dell’Angelo le facevano intravedere, in un presentimento angoscioso, il pericolo di quel che essa aveva di più caro. Cosìpensano fra altri sant’ Agostino, Serm. 2 de Ann., e S. Gregorio Nisseno, Orat. de Christi Nativ. E l’osservazione si presenta da sola piena di giustezza e di ponderazione. Di fatto, quando l’Angelo si spiega meglio, e non lascia dubbio che davvero annuncia a Maria l’onore di un futuro Figlio, straordinario per dignità e grandezza, ella con mirabile semplicità, ma con franchezza premurosa gli oppone: Come avverrà questo, mentre io non conosco uomo? Già altre volte abbiamo avuto occasione di valutare tutta la portata di queste parole. Esse manifestano il grande amore di Maria per il candor verginale; più ancora, esse ci garantiscono che era preceduto in lei un vero e proprio voto di verginità. Di fatti, come ben osserva il P. Curci, perché quella domanda sia vera difficoltà, deve necessariamente importare: non conosco, ne posso conoscere uomo. Senza ciò la richiesta non ha nessun valore, come non l’avrebbe se si dicesse, che la tal fanciulla avrà un figlio cosi e cosi: tutti intenderebbero che lo avrà pel modo ordinario, onde si hanno i figliuoli. Se dunque questa via ordinaria non si poteva supporre in Maria Vergine, neppure nell’imminente e già conchiuso connubio, vuol dire che vi doveva occorrere un impedimento insormontabile. Or questo non poteva essere altro, che il voto di perpetua verginità, fatto da lei da bambina, ed il fatto di conservarla intatta con lo sposo castissimo, anche nel connubio: due punti a noi assicurati dalla Tradizione, e tenuti per fermissimi dal popolo cristiano, ed eziandio da. autori protestanti; ma mi è parso bello averli potuto inferire con facile discorso dalle parole stesse dell’Evangelo „ Maria dunque, parlando coll’Angelo, dimostra insieme ad una rara prudenza, ad una profondissima umiltà, un amore impareggiabile per la verginità. Ma importa qui mettere il lettore in guardia contro un’esagerazione, da cui non sono alieni alcuni brani del Bossuet, che riportammo altrove, ma che il Serry chiama imprudente ed inconsulta, e contro la quale non mancano in genere di protestare i migliori teologi. L’esagerazione consiste nel dire che Maria, messa nel bivio di rinunciare o alla verginità, o alla divina maternità a lei richiesta da Dio, avrebbe, per conservar quella, rifiutato questa. La cosa non è esatta, perché la verginità in urto alla volontà di Dio, cessa di essere virtù: e, benché consacrata prima con voto, questo voto evidentemente cessa allorché Dio manifesta i suoi desideri in contrario. Diremo adunque con più esattezza, che l’amore di Maria per la verginità fu cosi grande, che nemmeno l’idea della divina maternità le dissipava l’amarezza di doverla perdere. Una volta conosciuta la volontà di Dio, ella non avrebbe mancato di ossequiarvi, ma in pari tempo la verginità perduta avrebbe lasciato nel di lei cuore un rammarico incancellabile. Così ha creduto di dover interpretare i sentimenti di Maria S. Bernardo, quando nel Serm. 4 Super Missus, le mise in bocca queste parole: Sì oportuerit me frangere votum (per comando di Dio, s’intende), ut pariam talem filìum, gaudeo de filio, et doleo de proposito. – Infondata e da rigettarsi, benché soffulta dall’autorità di qualche Padre, per esempio di S. Agostino e di S. Proclo, l’idea che le parole di Maria “come avverrà questo, mentre io non conosco uomo, „ esprimano un atto di incredulità simile a quello di cui si rese reo Zaccaria, per cui lo stesso Gabriele lo punì rendendolo muto. In realtà, tra la risposta di Zaccaria e quella di Maria, ci passa una enorme differenza, Zaccaria aveva risposto: “Onde conoscerò io tal cosa? Che  io sono vecchio e mia moglie avanzata in età (Luc. I, 18). „ Ognuno capisce subito che qui Zaccaria non si limita ad esporre le proprie difficoltà, ed a domandare il modo con cui saranno superate, ma non senza un petulante ardimento vuol le prove dell’asserzione dell’Angelo, dicendo: “Onde conoscerò io tal cosa? „ Questo linguaggio tradisce troppo chiaramente la non modesta intenzione di volersi erigere a giudice di ciò che  l’Angelo gli disse. Le parole di Maria sono invece di persona che crede, ma che con semplicità domanda di essere istruita. Per questo, dice molto acutamente S. Ambrogio: Temperantìor est Mariæ responsio, quam verba sacerdotìs: hæc ait: QUOMODO EI ET ISTUD? Ille respondit: UNDE HOC SCIAM?Negat Me se credere, qui negat se scire: ista se facere profitetur, nec dubitat esse faciendum, quod quomodo fieri possit inquirit – Cfr. da S.TOMMASO (III p, q. xxx, art. 4, ad 2) – E che di fatto Maria abbia creduto, lo afferma lo stesso Evangelo riferendo le parole che a lei ebbe poscia a dire S. Elisabetta: “‘Beata quæ credidisti, quoniam perficientur ea quæ dieta sunt tibi a Domino. — Beata te che hai creduto, perché s’adempiranno le cose dette a te dal Signore „ (Luc. c. I, 45). S. Tommaso chiama quel sapore di dubbio, che a prima vista sembrano contenere le parole di Maria, non incredulità, ma ammirazione, e per questo l’Angelo addusse delle prove della sua affermazione, non per togliere la di lei mancanza di fede, ma semplicemente per dissipare la sua meraviglia: Talis dubitatio magìs est admirationis, quam incredulitatis: et ideo probationem Angelus inducìt, non ad auferendam infidelitatem, sed magìs ad removendam ejus admìratìonem (III p., q. xxx, art. 4 ad 2). Rimossa cosi ogni ammirazione dal suo animo, Maria diede il suo consenso alle richieste dell’Angelo, e lo fece in termini che hanno destato e desteranno ancora la meraviglia dei secoli. Dice: Ecco la serva del Signore, sì faccia di me secondo la tua parola! Queste parole sono di per sé il più eloquente ed impressionante elogio dell’umiltà di Maria e della sua prontezza nel servir Dio. Non ci soffermiamo a commentarle, perché  nessun commento raggiungerebbe la loro natural forza e limpidezza. E dietro questa solenne manifestazione di umiltà e di obbedienza, non è difficile intravedere il cuore di Maria ardente di una carità da altri non mai raggiunta. Da principio Maria, per umiltà, non pensò ch’ella fosse la vergine predetta dai profeti. Ora che l’Angelo s’è spiegato meglio, non ha più dubbio che il suo figlio, è il Figlio di Dio, il promesso Messia. E benché il mistero dell’umana redenzione non brillasse ancora davanti a Maria, illuminato in tutte le sue minute circostanze, pure, almeno in confuso, ella perita nelle Scritture, intravedeva che al Figlio da lei nascituro erano riservati grandi patimenti e grandi umiliazioni, a cui Ella pure sarebbe stata associata. Insieme ai futuri patimenti vedeva però anche gli alti onori che le erano riservati; è da supporsi che già in quel momento sapesse quel che pochi giorni dopo disse ad Elisabetta, che tutte le genti l’avrebbero chiamata beata. Ma in quel momento il suo pensiero non si fermò su queste visioni: se le attraversarono la mente, fu un passaggio rapido, che non lasciò traccia nelle parole della Vergine. Tutta la sua attività vitale era concentrata su Dio che veniva al mondo per salvarlo. Due soli oggetti allora fecero battere forte il suo cuore: Dio e la salute del mondo. Quanto a sé non pensò: abituata a dimenticarsi sempre, si dimenticò anche in quell’ora suprema, ed in uno slancio di carità, di cui noi possiamo solo da lontano intravedere la smisurata grandezza, disse la formola, che doveva essere l’esordio del trattato di pace tra il cielo e la terra: “Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola! „ Queste parole sono il suggello di un amore che è superato solo dall’amor che ha Iddio, ma che non è uguagliato da nessun altro! Noi rinunciamo a descriverlo, perché  tenteremmo l’impossibile. L’idea di questo amore lascia l’impressione che si ha quando si affaccia ad un abisso. Per poco che si consideri, si capisce subito, che davanti alla carità di Maria, che dà il consenso all’Angelo, si è sulla soglia dell’infinito.

L’APPARIZIONE A LA SALETTE 1846 (II)

LA SALETTE (II)

[Some account of the APPARITION OF THE BLESSED VIRGIN Of LA SALETTE London 1853]

Qui non faremo altro che alludere alle numerose lettere che di tanto in tanto sono apparse scritte da ecclesiastici e da altre illustri personalità che avevano visitato quella che ora cominciava ad essere chiamata la “Montagna Santa”.

Una testimonianza di grande valore, tuttavia, dobbiamo rendere “a tutto tondo”, sia a motivo del carattere eminente del suo autore, sia per il modo accuratamente efficace e privo di pregiudizi in cui l’intero argomento è trattato. L’attuale Vescovo di Orleans, allora già molto noto nella Chiesa francese, Mgr. M. Dupanloup, scrive così ad un amico che aveva sollecitato la sua opinione sulla questione dell’apparizione: « Mio caro amico, ho seguito il suo consiglio e ho fatto una visita a La Salette. Sono appena tornato dal mio viaggio. Credo che sia vostro desiderio che vi comunichi, in tutta semplicità, il risultato delle osservazioni che ho fatto e delle impressioni che ne ho ricevuto. Innanzitutto, devo riconoscere che ho intrapreso questo pellegrinaggio senza alcuna inclinazione favorevole; non che voglia in alcun modo sminuire il merito dovuto alle numerose pubblicazioni apparse sull’argomento e che avevo attentamente studiato; ma tutto il tono di entusiasmo e di vivacità con cui quelle opere sono state scritte, mi aveva ispirato dei pregiudizi contro il fatto che fossero destinate a conservarsi. Ho passato quasi tre giorni tra Corps e La Salette: le impressioni personali che vi ho ricevuto sono state, devo dirlo, senza alcun fascino, quasi senza emozione. Sono tornato così come sono andato, senza provare alcun attaccamento alla scena; direi quasi senza interesse, almeno senza quell’interesse che nasce dall’entusiasmo. Eppure, più mi allontano dal luogo, e più mi metto a riflettere su tutto ciò che ho visto e sentito là, e più forte è la convinzione che la riflessione produce in me, e che mi assale in qualche modo contro la mia volontà. Non mi posso astenere dal dire a me stesso continuamente: « Non può essere che la fonte di Dio sia qui ». Tre circostanze in particolare sembrano offrire forti segni di verità: in primo luogo, la semplicità di carattere che i bambini hanno sempre mantenuto. In secondo luogo, le numerose risposte, assolutamente al di sopra della loro età e capacità, che hanno mostrato nei diversi interrogatori subiti. In terzo luogo, la fedeltà con cui hanno mantenuto i segreti che dicono siano stati loro conferiti. – Primo: L’immutata semplicità di carattere dei bambini. Ho visto questi due bambini. Il primo incontro che ho avuto con loro, ha suscitato in me un’impressione sgradevole; il ragazzino in particolare mi è stato fortemente sgradevole. Ho visto molti bambini nella mia vita, e ne ho incontrato pochi, quasi nessuno, che mi abbiano così poco attratto. Le sue maniere, i suoi movimenti, il suo sguardo, tutto il suo aspetto è ripugnante, almeno ai miei occhi. Una cosa che forse ha rafforzato la brutta impressione che mi ha dato è stata quella di avere una singolare somiglianza con uno dei ragazzi più sgradevoli e peggiori che abbia mai dovuto educare. Parlando così dell’idea che mi sono fatto di questo ragazzino, non pretendo di attaccare in nessun modo le impressioni più favorevoli che ha lasciato sugli altri. Voglio solo esprimere i miei sentimenti. Almeno, se la mia testimonianza sarà finalmente favorevole a questi bambini, sarà senza sospetti; certamente non sarà stato nulla di per sé a sedurmi. C’è una grande maleducazione in Maximin; il suo continuo svagare è davvero fuori dal comune; ha un’indole singolarmente leggera e fantasiosa, ma accompagnata da una tale maleducazione e finanche da occasionale violenza, che il primo giorno in cui l’ho visto non solo ero rattristato, ma anche così scoraggiato, che mi sono detto: « Perché sono venuto fin qui per vedere un bambino così? che follia ho mai commesso! » Ho avuto tantissimi problemi per impedirmi dall’intrattenere i sospetti più gravi. Quanto alla bambina, anche lei mi è apparsa a suo modo repellente. Il suo modo di fare, però, è, direi, migliore di quello del ragazzino; i diciotto mesi che ha passato con le Suore della Provvidenza al Corps, dicono, l’hanno un po’ formata. Nonostante ciò, però, mi è sembrata ancora una personcina imbronciata, sciatta, silenziosa, che non diceva mai niente, e quando rispondeva, si esprimeva semplicemente a monologhi: “sì” e “no”. Se dice qualcosa di più, nelle sue risposte c’è sempre una certa rigidità e una timidezza che deriva dall’essere imbronciata, e che non mette affatto a proprio agio. In una parola, dopo aver visto più volte ognuno di questi bambini, non ho trovato in loro nessun’attrattiva particolare legata alla loro età; non hanno, o almeno non sembrano averne, nessuna di quella pietà e di quel candore infantile che tocca e attira ed ispira fiducia. Il ragazzino in particolare l’ho osservato a lungo e spesso, soprattutto il giorno in cui è salito con me a La Salette. In quell’occasione abbiamo passato circa quattordici ore insieme. Egli venne a trovarmi alla locanda alle cinque del mattino; mi accompagnò alla montagna dell’Apparizione, e non ci separammo fino alle sette di sera. Sicuramente ho avuto tutto il tempo di guardarlo bene, di studiarlo attentamente e di esaminarlo a mio piacimento. E ho fatto del mio meglio per farlo. Non c’è stato un momento, devo dire, in cui non sia stato oggetto del mio più attento esame e, anzi, di una profonda diffidenza. Non c’è stato un solo momento in cui mi sia stato simpatico; ed è stato solo nel pomeriggio, quando si stava facendo tardi, che per gradi, per così dire mio malgrado, un’impressione favorevole si è impadronita di me. Quasi senza esserne consapevole, e contrariamente ai miei sentimenti personali, mentre osservavo e ascoltavo tutto ciò che vedevo e sentivo, ero costretto a esclamare: « Nonostante tutto sia così ripugnante in questi bambini, tutto ciò che dicono, tutto ciò che vedo e sento, è spiegabile solo sulla base della supposizione della verità della loro storia ». A Grenoble ero stato informato del modo in cui i bambini mi avrebbero recitato gli episodi della loro narrazione. Mi è stato detto che l’hanno vissuto come una lezione. Si aggiunse che si poteva trovare per loro una qualche attenuante, perché durante diciotto mesi avevano ripetuto la stessa storia così tante migliaia di volte, che non era da ipotizzare che sia diventata per loro una mera routine. Ero disposto a scusarli su questo punto, purché la routine e la recitazione non fossero assolutamente ridicole; ma l’impressione che avevo in mente era ben diversa da quella che avevo previsto. Anche se i bambini non mi piacevano affatto prima che raccontassero la loro storia, e continuavano ad essere ugualmente poco attraenti ai miei occhi anche dopo, devo riconoscere che hanno affrontato la recita con una semplicità, una gravità, una serietà ed un certo rispetto religioso, che, in contrasto con il tono volgare e abitualmente scortese del ragazzino ed il carattere solitamente cupo della bambina, mi hanno colpito particolarmente. Devo aggiungere pure che questo stupore si è costantemente rinnovato nell’arco di questi due giorni, soprattutto per quanto riguarda il ragazzino, che è passato, come ho già detto, un’intera giornata con me. L’ho poi messo perfettamente a suo agio, e gli ho permesso di prendersi tutte le libertà che gli sono piaciute; tutti i suoi difetti, tutte le sue maleducazioni, poi sono apparsi in modo molto discreto. Eppure, ogni volta che questo bambino maleducato è stato sollecitato, anche di soppiatto, a parlare del grande evento, c’è stato in lui uno strano, profondo ed istantaneo cambiamento; e lo stesso è stato per la giovane ragazza. Il ragazzino conserva ancora il suo sgradevole aspetto esteriore, ma ciò che era eccessivo nella sua maleducazione è ormai del tutto perduto. Diventano all’improvviso così gravi e seri; assumono, per così dire, involontariamente, qualcosa di così singolarmente semplice e ingenuo, così pieno di rispetto di se stessi, oltre che per il soggetto di cui parlano, da ispirare in chi li ascolta, e quasi impone loro, come una soggezione religiosa per le cose che raccontano, ed una sorta di rispetto per le loro persone. Ho vissuto costantemente e molto vivamente queste impressioni, senza perdere per un attimo, in prima persona, il mio sentimento di avversione per i bambini. Farò qui un’osservazione riferita a quanto ho appena detto. Quando parlano del grande evento di cui professano essere stati testimoni, o quando ci si rivolge a loro con riferimento ad esso, questo singolare rispetto per ciò che dicono si spinge così lontano, che quando accade che diano una di queste risposte, veramente stupefacenti e perfettamente inaspettate, che confondono i loro interlocutori, tagliano corto a tutte le domande indiscrete, e risolvono semplicemente, profondamente, e completamente, le più grandi difficoltà, e non assumono alcuna aria di trionfo. I loro esaminatori sono sbalorditi, ma essi da parte loro, rimangono inalterati. Sulle loro labbra non passa mai anche per un solo istante il benché minimo sorriso. Inoltre, essi non rispondono mai alle domande che vengono loro rivolte, se non nel modo più semplice e breve possibile. La loro semplicità è a volte rozzaa, ma l’esattezza e la precisione delle loro risposte lascia sempre senza parole. Appena la conversazione accenna al “grande evento”, sembrano non avere più nessuno dei difetti ordinari della loro età; soprattutto si può osservare come in quei momenti non siano affatto chiacchieroni e ciarlieri. In altre occasioni Maximin parla molto; quando è a suo agio, è un pettegolare continuo. Durante le quattordici ore che abbiamo trascorse insieme, mi ha dato una prova continua di questa sua qualità; mi ha parlato di tutto con una grande cascata di parole, facendomi domande senza ritegno, finanche ad essere il primo a darmi la sua opinione, e contraddicendo la mia. Ma rispetto all’evento di cui parla, rispetto alle sue impressioni, alle sue paure o alle sue speranze per il futuro, e tutto ciò che ha un riferimento all’Apparizione, non è più lo stesso bambino. Su questo punto non prende mai l’iniziativa nella conversazione, né commette alcuna pur minima colpa contro il buon costume. Non si addentra nel dettaglio mai più di quanto sia necessario per rispondere alla domanda che gli viene rivolta, alla quale risponde con grande precisione. Quando si è esaminato il segreto che gli è stato chiesto di custodire, ed abbia risposto agli interrogatori ai quali è stato sottoposto, tiene la lingua a freno. – Si è ansiosi, si desidera che si parli, che si fornisca qualche dettaglio, che si entri in qualche dichiarazione sui propri sentimenti in quel momento e dopo l’evento: non aggiunge una parola al di là della risposta necessaria. Presto riprende il filo della conversazione che la sua storia ha interrotto, parla con grande libertà di qualsiasi altro argomento, o se ne va. È certo che non hanno né l’uno né l’altra desiderio di parlare dell’evento che li ha resi così famosi. Da quanto ho potuto imparare sul posto, non parlano mai inutilmente dell’argomento con nessuno, né con i loro compagni, né con le Suore della Provvidenza che li educano, né con gli estranei. Quando vengono interrogati, rispondono; se si tratta della storia dell’evento che viene loro chiesto, lo ricordano semplicemente; se viene proposta una difficoltà, ne danno una soluzione chiara; non aggiungono nulla di superfluo, e allo stesso tempo non dicono null’altro. Non si rifiutano mai di rispondere alle domande che vengono loro poste, ma è impossibile far loro perdere di vista per un solo istante, in ciò che dicono, il giusto criterio di correttezza. Potete porre loro tutte le domande indiscrete che volete, non c’è mai alcuna indiscrezione nelle loro risposte. In effetti, la discrezione, la più difficile di tutte le virtù, è (solo su questo argomento) naturale per loro in misura inaudita. Spremendoli quanto si voglia, si trova in essi qualcosa di invincibile, che non riescono a spiegare nemmeno a se stessi, che abbatte tutti gli attacchi, e si fa beffe involontariamente e con sicurezza delle tentazioni più forti e difficili. Chi conosce bene i bambini e ne abbia studiato la natura, così leggera, instabile, vanitosa, chiacchierona, indiscreta, curiosa, e farà gli stessi esperimenti che ho fatto io, condividerà la mia meraviglia e il mio stupore, e si chiederà, se sia beffato  dai due bambini, o ci sia in gioco qualche potere superiore e divino. Aggiungo che negli ultimi due anni i due bambini ed i loro genitori sono rimasti poveri come prima. – Questo è un dato di fatto che ho verificato sufficientemente per mia soddisfazione, e che è più facile da dimostrare al di là di ogni dubbio. Qui riporto un’osservazione che ho già fatto, e cioè che i due bambini, e più in particolare Maximin, di cui ho visto molto più dell’altra, sembrano aver conservato, nonostante l’onore che hanno ricevuto e la celebrità che gli si attribuisce, una semplicità e, dirò, uno spirito di umiltà così profondo, che queste qualità appaiono loro del tutto naturali, e non si possono chiamare virtù acquisite. Sembra come se sia impossibile per loro essere diversi da quelli che sono; e tutto questo con una sorta di indifferente candore, che è abbastanza sorprendente quando li si vede da vicino e si riflette sui loro comportamenti. Il fatto è che non capiscono gli onori che hanno ricevuto e sembrano non avere la più pallida idea dell’interesse che susciti il loro nome. Hanno visto migliaia di pellegrini, 60.000 in un giorno, venuti in seguito alla loro storia sulla montagna di La Salette. E per questo non si sono dati delle arie, né alcuna importanza, né hanno mostrato alcuna presunzione nelle loro parole e nei loro atteggiamenti. Considerano tutto questo senza alcuno stupore, senza un riguardo, senza alcun riferimento a se stessi. E, in una parola, se quello che dicono è vero, guardano alla loro missione nella stessa luce in cui la Vergine stessa l’ha considerata. Ella non ha professato di far loro un onore; ha professato solo di scegliere per sé alcuni testimoni che dovevano essere al di sopra di ogni sospetto, con una semplicità così profonda, così completa, e così straordinaria, che nulla poteva esserle paragonabile, e che non poteva essere spiegata o compresa per mezzo di cause naturali; ed è riuscita perfettamente nella sua scelta. Questo è il primo segno di verità che scopro in questi bambini. – 2) Il secondo segno appare dalle numerose risposte, complessivamente al di sopra della loro età e capacità, che hanno dato liberamente nei diversi interrogatori a cui sono stati sottoposti. Va infatti osservato che mai, in una corte di giustizia, i colpevoli siano stati così tormentati con domande sul reato di cui sono accusati, come questi due poveri bambini contadini indagati per due anni sulla questione della visione che raccontano. Difficoltà spesso premeditate, a volte lungamente ed insidiosamente pianificate, hanno sempre ricevuto da loro risposte pronte, precise e chiarissime. È palpabile che sarebbero assolutamente incapaci di tale presenza di spirito se ciò che dicono non fosse vero. Sono stati condotti come malfattori nel luogo stesso dell’Apparizione, o dell’impostura, [se è impostura], e non sono mai stati sconcertati dalla presenza delle persone più illustri, né spaventati dalle minacce e dagli abusi, né sedotti dalle minacce e dai soprusi, né convinti dalle persuasioni e dalle carezze, né affaticati dagli esami più lunghi; inoltre, il ripetersi frequente di tutte queste prove non li ha mai indotti a contraddire né se stessi né l’altro. Non è possibile che due esseri umani abbiano l’aria di essere complici di una frode; e se fossero davvero tali, devono avere un genio come non si è mai conosciuto finora, per poter essere così costantemente uniformi nel loro racconto, e in accordo con se stessi e tra di loro, durante i due anni che hanno assistito, senza interruzione, a questo strano e rigoroso processo. A tutta questa coerenza si aggiunge il contrasto che deriva dalla loro maleducazione, dall’impazienza e da un certo broncio dell’umorismo, e nello stesso tempo, quando l’Apparizione è l’oggetto della conversazione, si passa ad una dolcezza di comportamento, ad una calma ed una presenza di spirito del tutto imperturbabili, e sono al servizio, con impenetrabile discrezione a tutti, genitori, compagni, conoscenti, a tutti coloro che hanno sempre conversato con loro. Vi darò ora alcune delle domande e delle risposte che mi vengono fornite, sia dai miei ricordi personali, sia dalle relazioni redatte in debita forma e depositate a Grenoble, di cui posso garantire l’autenticità. D. A Mélanie. La Signora, allora, le ha dato un segreto e le ha proibito di raccontarlo. Bene, benissimo; ma mi dica almeno se questo segreto si riferisce a lei o a qualcun altro.

Melanie. Chiunque sia la persona a cui si riferisce, Ella ci ha proibito di raccontarlo. D. Il tuo segreto è qualcosa che devi fare?

Melanie. Che sia qualcosa che debba fare o meno, non sono affari di nessuno: ci ha proibito di dirlo.

D. Non sei forse consapevole che Dio non ha rivelato il tuo segreto ad una santa suora ma ho preferito affidarlo a te?, … assicurarmi che tu dica la verità.

Melanie. Se questa suora lo conosce, può dirlo a voi. Io non lo dirò.

D. Devi però dire il tuo segreto al tuo confessore, al quale non devi nascondere nulla. Maximin. Il mio segreto non è un peccato; in confessione si è obbligati a dire solo i propri peccati.

D. E se dovessi dire il tuo segreto o morire?

Maximin (con fermezza). Morirei. Non lo direi.  

D. Se il Papa ti chiedesse il tuo segreto, tu saresti obbligato a dirglielo; perché il Papa è più grande della Santa Vergine.

Maximin. Il Papa è più grande della Beata Vergine! Se il Papa fa bene il suo dovere, sarà un santo, ma sarà sempre meno della Beata Vergine.

D. Ma forse è stato il diavolo a darti il tuo segreto?

Maximin. No, perché il diavolo non porta il crocifisso, e il diavolo non proibisce la bestemmia.

Melanie (alla stessa domanda). Il diavolo sa parlare bene, ma non credo che possa raccontare segreti del genere. Non proibirebbe di imprecare, non porterebbe una croce e non ordinerebbe alla gente di andare a Messa.

D. Non voglio chiederle il suo segreto. Ma questo segreto riguarda, senza dubbio, la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Deve essere conosciuto dopo la sua morte; e questo è ciò che le consiglio di fare: scriva il suo segreto in una lettera, che lei stesso sigillerà, e farà recapitare nell’ufficio del Vescovo. Dopo la morte del Vescovo e di te stesso la lettera sarà letta, e così avrai mantenuto il tuo segreto.

Maximin. Ma qualcuno potrebbe essere tentato di togliere il sigillo alla mia lettera. Inoltre, non conosco coloro che entrano in questo ufficio. Allora dite: “Mettetegli la mano prima sulla bocca e poi sul cuore: Il mio migliore ufficio è qui”.

D. a Maximin: Tu desideri essere sacerdote: bene, dimmi il tuo segreto e io mi occuperò di te. Scriverò al Vescovo, che ti farà compiere i tuoi studi gratuitamente. R. Maximin. Se per essere sacerdote è necessario che io dica il mio segreto, vuol dire che non lo sarò mai.

D. a Melanie. Lei non capiva il francese e non andava a scuola; come poteva allora ricordare cosa le dicesse la Signora in quella lingua? L’ha detto tante volte?

R. Melanie. Oh, no; l’ha detto solo una volta, e io me lo ricordo perfettamente. E poi, anche quando non l’ho capito esattamente io stessa nel ripetere quello che ci ha detto, chi capiva il francese lo capiva; è stato sufficiente, anche quando non l’ho capito io stessa.

D. a Maximin La Signora l’ha ingannata, aveva previsto una carestia, eppure il raccolto è buono ovunque.

R. Maximin. Che importa a me? Mi ha detto così; sono affari suoi. A questa domanda i bambini hanno risposto in altre occasioni: « Ma forse hanno fatto penitenza? »

D. Sa che la signora che ha visto è al sicuro nella prigione di Grenoble?

R. Maximin. Era senz’altro un uomo intelligente quella che l’ha rapita.

D. La signora che ha visto non era che una nuvola luminosa e splendente.

R. Maximin. Ma una nuvola non parla.

D. Un sacerdote. Lei è un piccolo bugiardo, e non le faccio la morale.

R Maximin. Che cosa importa a me! Mi è stato chiesto di dirti questo, non di fartelo credere.

D. Un altro sacerdote. Guarda tu, io non ti credo, tu sei un bugiardo!

R. Maximin (con vivacità). Allora perché sei venuto fino a qui per interrogarmi?

D. Un prete. La signora è scomparsa in una nuvola.

R. Melanie. Ma non c’era nessuna nuvola.

D. Il curato insiste. Ma è molto facile circondarsi di una nuvola e scomparire.

R. Melanie (con vivacità). Potete allora, signore, circondarvi di una nuvola e scomparire?

D. Un Sacerdote. Non sei stanco di dover dire ogni giorno sempre la stessa cosa?

R. Maximin. E lei, signore, si stanca forse di dover dire Messa ogni giorno?

Risposte ancora più sorprendenti sono state date da loro spesso. M. Repellin, sacerdote, scriveva il 19 novembre 1847: « Ho chiesto alla bambina se la persona meravigliosa che aveva visto non fosse uno spirito maligno che voleva seminare il disordine nella Chiesa ». Mi rispose, come ha risposto agli altri: « Ma, signore, il diavolo non porta la croce ». Continuai: « Ma, figlia mia, il diavolo portò nostro Signore sulla cima del tempio e sulla cima di un’alta montagna, e così poteva ben portare la sua croce ». No, signore – disse lei, con una certa sicurezza, – No! Dio non avrebbe permesso che la sua croce fosse portata in quel modo: è sulla croce che è morto ».  Ma Egli stesso ha sofferto per esservi trasportato!. Ma è stato con la croce che ha salvato il mondo. La sicurezza di questa bambina, e il significato profondo di questa risposta, di cui probabilmente non ha percepito la bellezza, mi ha chiuso la bocca. In un’altra occasione si spiegò ancora più acutamente. Le dissero che il diavolo aveva portato il Signore in persona. « Sì – disse lei – ma Lui non era ancora glorificato ».

D. Il tuo Angelo custode conosce il tuo segreto?

R. Mélanie « Sì, signore ». C’è qualcuno, allora, che lo sa? « Ma il mio Angelo custode non è uno del popolo ».

Uno dei miei amici, due giorni prima del mio viaggio a La Salette, disse a Maximin: « Tutti noi che andiamo a La Salette, tutti dobbiamo obbedienza al Papa ». Ebbene, se il Papa ti dicesse: « Figlio mio, non devi credere a nulla, tu cosa gli diresti? » Il bambino rispose, con la massima dolcezza e rispetto: « Gli direi: vedrà! ». Queste sono alcune delle innumerevoli risposte di questi bambini. Non so se li giudicherete come me, ma sono sicuramente, a dir poco, molto sorprendenti; e questo stupore aumenterà dopo aver considerato le osservazioni che ho fatto su questi bambini e che ora vi presenterò. – 3). Non ho potuto fare a meno di riconoscere, nella fedeltà con cui hanno mantenuto il segreto che essi professano di aver ricevuto, un segno caratteristico della verità, e che sono due: possedere ciascuno un segreto, e questo da quasi due anni. Ognuno di loro ha un segreto distinto, l’uno non si è mai vantato di conoscere quello dell’altro. I loro genitori, i loro padroni, i loro curatori, i loro compagni, le migliaia di pellegrini, li hanno interrogati su questo segreto, e hanno chiesto loro di rivelarlo in qualche modo: a questo scopo sono stati fatti sforzi inesplorati; ma né motivi di amicizia, né interesse personale, né promesse, né minacce, né l’autorità civile o ecclesiastica, nulla ha potuto in alcun modo influenzarli su questo punto; e ora, dopo due anni di sforzi continui, non si sa nulla, assolutamente nulla. Io stesso ho fatto i più grandi tentativi di penetrare in questo segreto. Alcune singolari circostanze mi hanno reso capace di portare avanti i miei attacchi più di altri; per un momento ho persino pensato di esserci riuscito. È andata così: « Avevo portato, come ho detto, il piccolo Maximin sulla montagna con me. Nonostante la ripugnanza che questo ragazzo mi ispirava, non avevo mai cercato di essere gentile e amabile con lui, e avevo fatto tutti i tentativi in mio potere per cercare di aprirgli e di conquistare il suo cuore. Non ci ero riuscito molto bene. Ma arrivando in cima alla montagna, qualcuno che era lì gli ha dato due fotografie, una delle quali rappresentava la lotta del 24 febbraio per le strade di Parigi. In mezzo ai combattenti c’era un prete che aspettava i feriti. Il ragazzino pensò di vedere una certa somiglianza tra questo ecclesiastico e me; e sebbene gli dissi che si era completamente sbagliato, si convinse che ero io la persona rappresentata, e da quel momento mi mostrò un’amicizia più vivace e più aperta. D’allora in poi apparve del tutto a suo agio, e mi si mostrò molto familiare. Ne ho approfittato con entusiasmo, siamo diventati i migliori amici del mondo, senza però che lui smettesse di essere, allo stesso tempo, perfettamente sgradevole per me. Ora lui mi pendeva dal braccio, e non la smetteva per tutto il giorno; così scendemmo insieme dalla montagna. Gli preparai la colazione e cenammo insieme. Parlava di tutto con la massima cura e libertà, della Repubblica, degli alberi, della libertà, etc. etc.. Quando ho riportato la conversazione all’unico argomento che mi interessava, ha risposto, come ho detto, brevemente e semplicemente; tutto ciò che si riferiva all’apparizione della Beata Vergine era sempre come qualcosa di diverso nella nostra conversazione. Si è fermato subito pur nel completo fluire torrenziale delle sue chiacchiere. La sostanza, l’espressione, il tono, la voce, la precisione di ciò che poi mi ha detto, sono diventati all’improvviso singolarmente gravi e religiosi. Poi è passato ben presto a qualche altro argomento con tutta la libertà della conversazione familiare e vivace. Allora ripresi i miei sforzi e le più abili insinuazioni per approfittare di questa libertà ed apertura, e per fargli parlare di ciò che mi interessava, e più in particolare del suo segreto, senza che lui percepisse il mio intento ed il mio oggetto. Ho deciso di vedere chiaro in quest’anima, di coglierla in fallo, e di trarre la verità dal profondo del suo cuore, che lo fosse o no. Ma devo confessare che dal mattino tutti i miei tentativi erano stati sventati: nel momento in cui ho pensato di aver ottenuto qualcosa e di aver raggiunto il mio fine, tutte le mie speranze sono svanite; tutto ciò che pensavo di avere in mano è sfuggito all’improvviso, e una risposta del bambino mi ha rimandato nella mia incertezza. Questa riserva mi appariva così ordinaria in un bambino, dirò in qualsiasi essere umano, che senza fargli alcuna violenza morale, sarebbe stata ripugnante per la mia coscienza, volevo andare il più lontano possibile, e fare qualche ultimo sforzo per conquistarlo con qualcosa, e ottenere il suo segreto di sorpresa. Era il possesso di questo singolare segreto che mi stava particolarmente a cuore. Per sfondare con lui su questo punto, non ho risparmiato nessuna seduzione che mi sembrasse possibile. Dopo molti sforzi e tentativi assolutamente vani, una circostanza mi ha offerto un’opportunità che per un attimo ho pensato potesse avere successo. Avevo portato con me una borsa da viaggio, il cui lucchetto si apriva e si chiudeva con un trucchetto, che non richiedeva l’uso di una chiave. Siccome questo ragazzino è molto curioso, tocca tutto, guarda tutto, e sempre nel modo più puntiglioso, non ha mancato di esaminare la mia borsa da viaggio; e vedendomi aprirla senza chiave, mi ha chiesto come abbia fatto. Gli ho risposto che era un segreto. Mi ha pressato molto urgentemente per rivelarglielo. La parola segreto mi aveva ricordato il suo stesso mistero; e per approfittare della circostanza, gli dissi: « Figlio mio, questo è il mio segreto; tu non sei stato disposto a rivelarmi il tuo e io non ti dirò il mio ». Questo è stato detto per metà sul serio e per metà per scherzo. « Non è la stessa cosa – disse egli subito – perché a me è stato proibito di dire il mio segreto e a te non è stato proibito di dire il tuo ». La risposta era giusta. Mi considerai scoperto; e fingendo di non aver capito perfettamente, gli dissi con lo stesso tono: « Poiché non sei stato disposto a dirmi il tuo segreto, io non ti dirò il mio ». Lui ha insistito; ho fatto quello che potevo per eccitare la sua bramosia e la sua curiosità; ho aperto e chiuso il mio misterioso lucchetto senza che lui potesse capire il mio segreto. Mi spinsi al punto di tenerlo impaziente, smanioso e in attesa, per molte ore. Dieci volte in questo periodo il ragazzino è tornato impetuosamente alla carica. « Molto bene – gli dissi – ma dimmi anche il suo segreto ». A queste parole di tentazione, nel bambino riapparve nel suo carattere religioso, e tutta la sua curiosità sembrò svanire. Qualche tempo dopo, mi fece di nuovo pressione. Gli diedi la stessa risposta, e trovai sempre la stessa resistenza da parte sua. Vedendolo così, gli dissi finalmente: « Ma, figlio mio, visto che vuoi che ti dica il mio segreto, dimmi almeno qualcosa del tuo ». Non ti chiedo di raccontarmelo del tutto, ma dimmi, almeno, quello che puoi dirmi; dimmi, almeno, che sia una buona o cattiva notizia e non mi dirai il tuo segreto ». « Non posso », era l’unica risposta. Solo che, dato che eravamo così amici, ho notato che c’era un’espressione di rammarico nel suo rifiuto. Alla fine mi sono arreso e gli ho rivelato il segreto del mio lucchetto. Era incantato, saltava di gioia, apriva e chiudeva la borsa molte volte. « Vedete – gli dissi – io vi ho detto il mio segreto e voi non mi avete detto il vostro ». È apparso dispiaciuto per questo nuovo attacco, e per il tipo di rimprovero espresso nelle mie parole. Ora ho pensato che non avrei dovuto fare altri tentativi; e sono rimasto convinto, come tutti coloro che conoscono l’indiscrezione umana, e più in particolare quella dei bambini, che questo ragazzino aveva appena vinto una delle tentazioni morali più violente che si possano immaginare. Ben presto, però, ho ripreso la questione con un tono ancora più serio, e gli ho fatto subire un nuovo assalto. È andata così: Gli avevo dato delle foto che avevo scattato in cima alla montagna. Avevo solo un cappello di paglia molto brutto; ne comprai un altro per lui quando tornammo a Corps. Oltre a questo, mi offrii di dargli tutto quello che desiderava; mi chiese una camicetta, gli dissi di andare a comprarne una, che gli costava 48 dollari, e che pagai. Andò a mostrare le foto, la camicetta e il cappello a suo padre, e tornò per dirmi che suo padre era stato molto contento. Mi aveva già parlato con un certo affetto delle disgrazie e dei problemi di suo padre. Approfittai anche della recente morte di sua madre; e sebbene mi rimproverassi interiormente di aver fatto subire al ragazzo tali tentazioni, gli dissi: « Ma, figlio mio, se tu raccontassi solo quello che puoi dire sul tuo segreto, la gente farebbe molto per tuo padre ». Andai ancora più lontano, e gli dissi: « Io stesso – mio caro bambino – potrei procurargli molte cose, e riuscire a far sì che egli viva a casa con te in pace e felicità, senza volere nulla ». Perché sei così ostinato a rifiutarti di dire quello che puoi dire sul tuo segreto, quando questo solleverebbe tuo padre dai suoi problemi e lo consolerebbe? » In verità, la tentazione era forte. Il bambino mi ha creduto pienamente, ed io ero disposto a fare per lui tutto quello che gli avevo promesso. Lo vide chiaramente; ma rispose a tono basso: « No, signore, non posso ». Bisogna riconoscere che se avesse inventato una favola, non sarebbe stato difficile per lui fingere, e raccontarmi un segreto o altro in linea con la sua storia, quando i grandi vantaggi che ne sarebbero derivati sarebbero stati per lui, se me l’avesse raccontata. Non mi considerai però completamente sconfitto; e spinsi la tentazione ancora più in là, forse troppo in là, ma certamente fino al limite massimo. Giudicherete voi stessi, e forse darete la colpa a me. Avevo addosso, per cause accidentali, una grossa somma in oro. Mentre si aggirava per la mia stanza, guardando i miei bagagli e rovistando dappertutto, la mia borsa e quest’oro attirarono la sua attenzione; lo afferrò avidamente, tirò fuori i denari sul tavolo, e cominciò a contarne i pezzi, dividendoli in più lotti; poi si divertì a sistemare e riordinare continuamente questi piccoli cumuli d’oro. Quando l’ho visto così completamente preso dalla vista e dalla manipolazione di questi soldi, ho pensato che fosse giunto il momento di metterlo alla prova, e di mettere alla prova la sua veracità in modo infallibile. Gli dissi in tono amichevole: « Ebbene – figlio mio – tu mi dirai quello che potrai dirmi del tuo segreto, ed io ti darò tutto questo oro a te e a tuo padre. Te lo darei tutto, e subito: e non pensare che io lo voglia, perché non ho più soldi con cui continuare il mio viaggio ». Sono stato testimone di un fenomeno morale molto singolare, e ne sono ancora colpito mentre ve lo racconto. Il bambino era completamente assorbito da quest’oro: si dilettava a guardarlo, a toccarlo e a contarlo. All’improvviso, alle mie parole, si rattristò, abbandonò bruscamente la tavola e la tentazione e mi disse: « Signore, non posso ». Ho insistito: « Eppure c’è un modo per rendere felice tuo padre e te stesso ». Mi rispose ancora una volta: « No, non posso! »; e in un modo e con un tono così fermo, anche se molto semplice, che mi sentii sconfitto. Tuttavia, per non apparire così, aggiunsi, con un tono di scontento, disprezzo e ironia, « Ma forse non racconterai il tuo segreto perché non ne hai da raccontare: è tutto uno scherzo ». Non sembrava offeso da queste parole, ed anzi mi ha risposto in modo vivace: « Oh, ne ho solo uno infatti, ma non posso dirlo ». « Chi te l’ha proibito? » « La Beata Vergine ». Ho rinunciato allora a una gara senza speranza. Sentivo che il bambino aveva più dignità morale di me. Misi, con amicizia e rispetto, la mia mano sulla sua testa, e facendo il segno della croce sulla sua fronte, gli dissi: « Adieu, caro bambino: Spero che la Santa Vergine perdonerà il modo in cui ti ho pressato. Sii fedele per tutta la vita alla grazia che hai ricevuto ». E pochi istanti dopo ci siamo separati, per non rivederci più. – A simili interrogatori ed offerte la bambina ha risposto: « Oh, ne abbiamo abbastanza: non c’è bisogno di essere così ricchi ». Questo è il terzo segno di verità che ho osservato in questi bambini. E ora, cosa pensare di tutto questo? È verità, errore o impostura? Tutto questo non può essere spiegato ragionevolmente se non con una delle quattro seguenti supposizioni:  – 1). O si deve ammettere la verità soprannaturale dell’apparizione, la storia e il segreto dei bambini. Ma questo è molto grave, e porta con sé gravi conseguenze. Se ci dovesse essere un inganno, che un giorno dovesse essere scoperto, praticato da questi bambini o da altri, di quanti cuori religiosi non sarà stata ferita la sincerità? – 2). Oppure sono stati ingannati, e sono ancora vittime di qualche allucinazione. Ma chi ha fatto il viaggio a La Salette, e ha esaminato tutto, non esiterà ad affermare che questa supposizione è assolutamente ridicola e inammissibile. – 3). Oppure i bambini sono gli inventori di questa favola, che hanno imbastito essi stessi, e che sostengono da soli per due anni contro tutti, senza mai contraddirsi. Da parte mia, non posso ammettere neanche per un momento questa terza supposizione. La favola mi sembrerebbe più sorprendente della verità. – 4). O supponiamo, finalmente, che ci sia stato un qualche escamotage, un impostore nascosto dietro ai bambini, e che questi si siano prestati ad interpretare il personaggio che egli ha preparato per loro, e che ogni giorno insegna loro a rinnovare. Senza andare in fondo a questa domanda, come ha fatto M. Rousselot, risponderò solo che tutto ciò che precede ripugna a questa supposizione. L’inventore mi sembrerebbe, allo stesso tempo, molto abile a scegliere come attori e testimoni di un’impostura così straordinaria questi bambini, e molto abile ad insegnare loro come sostenere una tale parte per due anni davanti a due o trecentomila spettatori successivi, osservatori, investigatori, interrogatori di ogni genere, senza che questi bambini non si siano mai impegnati in nulla in nessun momento, senza che nessuno abbia scoperto questo impostore dietro le quinte, senza una sola indiscrezione da parte dei bambini che potesse far sospettare di qualcuno, e senza che nessun segno di frode si sia mai manifestato fino a questo momento. Non c’è nulla, quindi, da sostenere se non la prima supposizione, cioè la verità soprannaturale dell’insieme; che è, peraltro, molto fortemente confermata. 1) Dal carattere che i bambini hanno mantenuto immutato. 2). Dalle risposte, del tutto ben oltre la loro età e capacità, che hanno dato nei diversi interrogatori a cui sono stati sottoposti. 3). Dalla straordinaria fedeltà con cui mantengono il segreto che dicono sia stato loro confidato. Se fossi obbligato a pronunciarmi su questa rivelazione e a dire “sì” o “no”, e dovessi essere giudicato su questo argomento dalla rigorosa sincerità della mia coscienza, direi “sì” piuttosto che “no”. La prudenza umana e cristiana mi costringerebbe a dire “sì” piuttosto che “no”; e non credo di dover temere di essere condannato dal giudizio di Dio come colpevole di imprudenza e di precipitazione. Sempre tuo, DUPANLOUP. Gap, 11 giugno 1848. – La lettera che è stata appena consegnata è forse la prova più conclusiva che sia apparsa sul tema dell’Apparizione. Fu scritta da un personaggio noto in tutta la Francia per la sua grande capacità e sobrietà di giudizio, che si recò sul posto deciso a mettere alla prova la storia semplicemente secondo le regole della prudenza umana, con pregiudizi nei confronti dei bambini, che rimasero indifferenti, e con la volontà di formarsi un’opinione unicamente da ciò che egli stesso avrebbe potuto vedere e sentire. Egli afferma il suo credo senza alcun tipo di entusiasmo; ed è stato attento ad usare, nel dare il suo giudizio, i termini più sobri. –

[2. – Continua]

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/26/apparizione-a-la-salette-1846-iii/

SALMI BIBLICI: “CREDIDI, PROPTER QUOD LOCUTUS SUM” (CXV)

SALMO 115: “CREDIDI, propter quod locutus sum”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 115

Alleluja.

[1]  Credidi, propter quod locutus sum;

ego autem humiliatus sum nimis.

[2] Ego dixi in excessu meo: Omnis homo mendax.

[3] Quid retribuam Domino pro omnibus quæ retribuit mihi?

[4] Calicem salutaris accipiam, et nomen Domini invocabo.

[5] Vota mea Domino reddam coram omni populo ejus.

[6] Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum ejus.

[7] O Domine, quia ego servus tuus; ego servus tuus, et filius ancillæ tuæ. Dirupisti vincula mea:

[8] tibi sacrificabo hostiam laudis, et nomen Domini invocabo.

[9] Vota mea Domino reddam in conspectu omnis populi ejus;

[10] in atriis domus Domini, in medio tui, Jerusalem.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXV.

Ringraziamento a Dio per la vita eterna, che Il profeta, in isperanza, già cominciò a posseder. Gli Ebrei perciò fanno di questo un Salmo solo con il precedente, che è sospiro della vita eterna. Rende grazie a Dio della sua liberazione . Conviene ai Martiri di Cristo.

Alleluja: Lodate Dio.

1. Credetti: per questo parlai; ma io fui umiliato oltremodo.

2. lo dissi nella mia perturbazione: tutti gli uomini son mendaci.

3. Che renderò io al Signore per tutte le cose che egli ha date a me?

4. Prenderò il calice di salute, e invocherò il nome del Signore. (1)

5. I voti da me fatti al Signore scioglierò alla presenza di tutto il suo popolo:

6. preziosa nel cospetto del Signore è la morte dei santi suoi. (2)

7. Perché io, o Signore son tuo servo; io tuo servo, e figliuolo di tua ancella. (3)

8. Tu hai spezzate le mie ritorte: a te sacrificherò ostia di lode, e invocherò il nome del Signore.

9. Scioglierò i voti fatti da me al Signore alla presenza di tutto il suo popolo,

10. nell’atrio della casa del Signore, in mezzo a te, o Gerusalemme.

(1) Il Profeta fa qui allusione alla coppa ove era il vino che nella oblazione accompagnava i sacrifici di azioni di grazie, ove al calice che si chiamava il calice di azioni di grazie, che il padre di famiglia prendeva e faceva passare in circolo durante i pasti che si tenevano in seguito all’oblazione dei sacrifici di azioni di grazie e dal quale si beveva per onorare e lodare Dio.

(2) La morte dei santi è cosa preziosa agli occhi del Signore, cioè, secondo il senso adottato da diversi interpreti, Egli non abbandona la loro vita alla mercé dei malvagi, perché noi non diamo facilmente ciò che è prezioso ai nostri occhi

(3) «  Io sono Vostro servitor e figlio della vostra serva. » Tutti i Giudei si glorificavano di essere figli di Abramo  (Giov. VIII, 33, 37, 39). Io sono il vostro servo, ancor più io sono nella vostra casa, e di una madre già vostra serva ella stessa; di conseguenza la vostra schiava ha una perpetuità come i figli degli schiavi che erano nati nella casa erano in perpetuo schiavi del loro padrone.

Sommario analitico

Il Salmista parla qui a nome di Dio prorompendo in un canto di riconoscenza, e promette di adempiere ai voti che ha fatto, durante l’esilio, al Dio che ha spezzato i suoi legami, ed offrirgli solennemente in Gerusalemme dei sacrifici di lode. In un senso più elevato, e secondo il sentimento più autorizzato e più probabile, parla anche a nome dei martiri perseguitati per la causa di Dio, e fa vedere:

I. – La loro fede prima del combattimento

1° La forza con la quale essi fanno professione di fede; 2° l’umiltà che fa loro accettare tutti gli oltraggi per la causa della fede (1);

3° Il dono della contemplazione che li eleva ai di sopra di tutte le cose della terra, e dà loro una conoscenza perfetta della vanità degli uomini (2).

II. – La loro costanza in mezzo al combattimento che:

1° Ha come fondamento il desiderio di rispondere ai benefici di Dio (3);

2° Scoppia nell’ardore che essi testimoniano nel bere il calice delle loro sofferenze (4);

3° Si appoggia sull’invocazione del Nome di Gesù in mezzo ai tormenti, e non sulla loro forza (4);

4° Promette di compiere i voti fatti a Dio (5).

5° Stima gloriosa la morte sofferta per il nome di Gesù-Cristo (6);

III. – La loro riconoscenza dopo il combattimento

1° Essi proclamano che Dio è loro Signore, offrendogli il loro sacrificio di lode, ed invocandone frequentemente il Nome (7,8);

2° Essi compiono le promesse che hanno fatto: – a) in presenza di tutto il popolo; – b) nel sagrato della casa di Dio; – c) in mezzo alla celeste Gerusalemme (9, 10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1, 2. – Il fuoco che avvolge un cuore non può restarvi rinchiuso per molto tempo; bisogna che faccia irruzione all’esterno e spanda le sue fiamme su ciò che lo circonda. Così, vedete la fede del Profeta, parlando a nome dei martiri; è un fuoco brillante che sfugge dal cuore con queste parole. « Io ho creduto, perciò ho parlato. » Cosa vogliono dire queste parole: « Io ho creduto, perciò ho parlato? » Il salmista  non aveva ancora detto nulla, ma ha fatto allusione al linguaggio interiore che aveva rivolto a se stesso, e che può tradursi così: Ricordando in me le calamità e gli infortuni dei giudei, questa intera distruzione e questo annientamento senza ritorno della loro nazione, lontano dal disperare il vedere per essi giorni migliori, io ne ho fatto l’oggetto delle mie speranze, e le ho annunziate, ne ho parlato pubblicamente, ne ho parlato sotto ispirazione della fede (S. Chrys.). – « Io ho veduto, perciò ho parlato. » Ecco la fede perfetta, perché non hanno una fede perfetta coloro che rifiutano di professare ciò in cui credono. E Davide non dice solamente: « Io ho creduto ed io ho parlato », ma dichiara che ha parlato perché ha creduto. (S. Agost.). – Necessità di professare esternamente la fede che abbiamo nel cuore: « bisogna credere con il cuore per ottenere la giustizia, e confessare con la bocca per ottenere la virtù. » (Rom. X, 10). « Giudicate se sia giusto davanti a Dio obbedire a voi piuttosto che a Dio (Act. X, 20). – Coloro che non professano la verità che credono, sono pure colpevoli e degni di riprovazione, come coloro che non credono la verità che hanno sulle labbra (S. Agost., S. Prosp.). – « Io ho creduto, ecco perché ho parlato. » Cosa ha creduto? La verità che ha enunciato nel versetto precedente (nell’ebraico, questo salmo è congiunto al precedente, cosa che si accorda molto bene con il suo soggetto). « Sarò gradito al Signore nella regione dei viventi. » Ecco ciò che ho creduto e che ho professato altamente. « Ma per me, io sono stato nella più profonda umiliazione. » O intelligenza profonda della divina parola! Io ho creduto – egli dice – che sarò gradito al Signore, che diventerò un angelo, che abiterò i cieli, che non mi sia mai inorgoglito; io non mi sono elevato, ma sono stato profondamente umiliato; perché se io entro nella regione dei viventi, è alla misericordia di Dio che sarò riconoscente. Per me, io mi ritengo essere terra e cenere … Io so che, secondo la condizione del mio corpo mortale, non sono niente; non c’è nessuna verità nella sostanza del mio corpo, non è se non come ombra e menzogna. (S. Gerol.) – « Io ho creduto, ed è per questo che ho parlato ». Spesso non c’è bisogno che di una parola ad un uomo al quale la reputazione, l’erudizione, il genio, la posizione, il carattere dà un certo credito nel mondo, per mantenere o per fortificare la fede e la religione negli spiriti prevenuti in suo favore e disposti ad ascoltarlo. È ciò che aveva così ben compreso il Profeta reale, e che noi stessi dobbiamo concludere, dicendo come lui: « Io ho creduto e non mi sono fermato là. » Io non ho cercato di dissimulare i miei sentimenti, né la mia credenza; io non ho avuto paura di esserne stato istruito e di aver conosciuto; ma nella persuasione che ne ho avuto e nella quale ancora sono, io devo questo omaggio alla verità e questa riconoscenza ai benefici del Maestro che me l’ha rivelato, io ne sono più esplicito nei miei discorsi e nella mia condotta (Bourd., Zèle pour l’honneur de la Rel.). Il salmo precedente comincia con « Io ho amato », e questo con: « Io ho Creduto »; il precedente con una ferma speranza di essere esaudito in conseguenza dell’amore, e questo con una confessione autentica della verità, come conseguenza della fede. Ecco tutta la religione. Sembrava essere sorprendente che il primo pensiero fosse l’amore, ma questo ci insegna una grande verità (spesso riprodotta in San Agostino), che il cuore non va mai verso la vera fede se non quando non sia inclinato dalla grazia, la quale tende sempre all’amore. (Berthier). – « Quanto a me, io sono stato umiliato all’eccesso. » In effetti egli ha sofferto numerose afflizioni a causa della parola di Dio che osservava fedelmente e che dispensava fedelmente, ed è stato oberato di umiliazioni, prove che temevano coloro che hanno preferito la gloria che viene dall’uomo alla gloria che viene da Dio. E cosa significano queste parole: « … Quanto a me? » se non che un uomo può essere ben umiliato da coloro che contraddicono la verità, ma non la verità che egli crede e che proclama? È quanto faceva dire all’Apostolo parlando delle sue catene: « Ma la parola di Dio non può essere incatenata. » (II Tim. II, 9). – Ugualmente il Profeta, figura dei santi testimoni, cioè dei martiri di Dio, ha detto: « Io ho creduto, ecco perché ho parlato, e quanto a me, io sono stato umiliato all’eccesso; ma ciò a cui ho creduto, la parola che ho predicato, non è stata umiliata. » – « Ed io ho detto nella mia estasi: » Egli chiama estasi lo spavento che avverte la debolezza umana alle minacce dei persecutori ed all’avvicinarsi delle sofferenze he causano i supplizi o la morte. (S. Agost.). – Io ho detto nel turbamento del mio spirito, nell’eccesso del mio dolore, nell’estremo del mio infortunio: « Ogni uomo è mendace. » Tale è in effetti la potenza della fede; essa è come un’ancora sacra che sostiene l’anima che vi si attacca, e questa potenza appare soprattutto quando in mezzo alle prove più difficili della vita, persuade colui che riceve le sue ispirazioni ad aspettare il compimento delle magnifiche speranze che essa gli dona, respingendo i ragionamenti umani che non possono che disturbarla.(S. Chrys.). – Ebbene il Profeta è rapito in estasi, per levarsi alla conoscenza della regione dei viventi, e questo è un pensiero da comparare con le grandezze di questa regione beata che gli avrebbe strappato questa confessione: tutto ciò che gli uomini raccontano della felicità umana non è che menzogna. Trasportato dal Signore nelle sfere elevate dello spirito in cui mi sono ritirato, e vedendo quanto sono falsi e mendaci i beni che gli uomini considerano solidi ed inalterabili, io ho detto: « ogni uomo che parla di felicità con umana compiacenza, e fa gran conto dei beni mortali e deperibili, è mendace. » (Euthym.). – Tutto è verità in Dio, tutto è menzogna nell’uomo! Egli inganna gli altri con la sua vita, le sue azioni, le sue parole; inganna se stesso con l’erranza dei suoi pensieri, la falsità dei suoi giudizi, e la sregolatezza dei suoi desideri. Egli sembra volere ingannare Dio con la sua ipocrisia, ma inganna se stesso; e così è mendace davanti a Dio e davanti agi uomini (Duguet). – Gli antichi dicevano: « L’errare è dell’uomo; » « … errare humanum est; » ed il salmista ha detto meno tristemente: « ogni uomo è mendace. » Anche quando è sincero, il maestro umano non cessa dall’essere ingannato dalla propria scienza. Egli sa l’indomani ciò che ignorava al la veglia; egli si riprende, si corregge, è tutto il progresso dell’uomo e tutto il cammino della scienza. (PerreyveEntret. sur l’Egl. Cath.). – È dunque vero che ogni uomo è mendace; ma d’altra parte questa parola è egualmente vera: « Io ho detto: voi siete tutti dei e figli dell’Altissimo. » Dio consola gli umili e li riempie non solo di fede per credere la verità, ma ancora di coraggio per la confessione, visto che perseverano nella loro sottomissione verso Dio, e che non imitano il demonio, uno dei principi del cielo, che non si è tenuto fermo nella verità, e che è caduto. Se in effetti, ogni uomo è mendace, essi cesseranno di essere mendaci quando cesseranno di essere uomini, perché saranno dei e figli dell’Altissimo. (S. Agost.). – Finché siamo uomini, noi siamo mendaci; quando diventiamo degli dei, cessiamo di mentire. Con la contemplazione delle cose divine, ci trasformiamo in dei; la nostra intelligenza si eleva all’altezza delle cose che essa contempla. Diventate santi e diventate Dio, per così dire, ed una volta che partecipate della natura divina, cessate di essere uomini e di essere mendaci (S. Gerol.).

II. – 3-6.

ff. 3-6. – Il Re-Profeta fa uscire il prezzo del beneficio, non solo dalla sua grandezza naturale, ma dall’indegnità di colui che lo riceve.  È in altri termini, la stessa verità che esprime in un altro salmo, quando dice: « Che cos’è l’uomo perché vi ricordiate di lui, ed il figlio dell’uomo perché vi degniate di visitarlo? » (Ps. VIII, 5). Ciò che raddoppia in effetti il prezzo dei benefici, è il loro valore intrinseco, ed il niente di colui che li riceve, e questa circostanza che ingrandisce il beneficio, deve aumentare anche la riconoscenza. Cosa renderò al Signore, « … che ha scelto l’uomo che non è che menzogna, misero e niente, per colmarlo di così gradi benefici? » (S. Chrys.). – Il salmista non dice: per tutto ciò che mi ha dato, ma: « Per tutto ciò che mi ha reso. » In cosa dunque l’uomo ha prevenuto Dio, perché si possano chiamare i benefici di Dio, non una donazione, ma una retribuzione? Cos’è dunque che ha prevenuto i benefici di Dio, da parte dell’uomo, se non il peccato? Dio ha dunque reso il bene per il male, Egli al quale gli uomini rendono il male per il bene. (S. Agost.). – Cosa render che sia degno del Signore per tanti benefici? Tutto ciò che potrò dargli mi viene da Lui, e gli restituisco dei beni piuttosto che donarglieli. Io non ho nulla che possa rendergli, se non spandere il mio sangue per Lui, essere martire per la sua gloria. È la sola cosa che possa offrirvi di degno, … darvi il mio sangue in cambio del sangue che Voi avete versato. Noi che siamo stati liberati, riscattati dal nostro Salvatore, siamo pronti a versare il nostro sangue per Lui … « Io prenderò il calice di salvezza ed invocherò il nome del Signore. » Nell’ebraico c’è: io prenderò il calice di Gesù, vale a dire del Salvatore. Qual è questo calice di Gesù? « Padre mio, se è possibile, che passi da me questo calice. » (Matth., XX). Ed ancora: « Potete voi bere questo calice? » per farci comprendere che il calice della sua passione è il martirio. È una gran cosa il martirio. Come è una gran cosa? Perché l’uomo vi rende a Dio ciò che ha ricevuto da Lui: Gesù-Cristo ha sofferto per lui, ed egli soffre per il Nome di Gesù-Cristo … Ma cosa c’è qui di simile? Un Dio ha sofferto per gli uomini, il Signore per i servi, il Giusto per i peccatori. Dov’è qui la similitudine? Ma siccome il servitore è qui nell’impotenza di rendere altra cosa al suo Signore, Dio, pieno di clemenza e di condiscendenza, riceve il martire come cosa uguale a ciò che Egli ha donato … Ma questo calice del martirio non dipende dalle mie forze; solo la grazia di Dio può rendermi capace di berlo. Io non posso dunque berlo se non dopo avere invocato il Nome del Signore, è Gesù che trionfa, è Gesù che viene coronato nel suo martirio. (S. Girol.). – Colui che parla in questo Salmo cerca dunque ciò che può rendere al Signore e non trova niente se non qualcosa che il Signore stesso gli abbia reso. « Io riceverò – egli dice – il calice di salvezza, ed invocherò il Nome del Signore. » O uomo, mendace per il tuo peccato, veridico per la grazia di Dio, elevato da questa stessa grazia al di sopra dell’uomo, chi ti ha dato il calice di salvezza che tu puoi, dopo averlo ricevuto ed invocando il suo Nome santo, rendergli per tutti i beni che Egli stesso ti ha reso? Chi? Se non Colui che ha detto: « Potete bere il calice che Io berrò? » (Matth. XX, 22); chi ti ha dato la forza di imitare le sue sofferenze se non Colui che per primo ha sofferto per te? (S. Agost.). – Il Profeta era già in quel tempo e prima della nascita del Messia, un vero Cristiano; tutti i sentimenti erano concordi ai principi del Cristianesimo, e benché non avesse sotto gli occhi la croce di Gesù-Cristo, l’abbracciava già con i suoi desideri, vi si attaccava con la fede che aveva nel Redentore (Berthier). – Siccome il martirio non è un atto che viene dall’uomo, dalla sua virtù, dalla sua forza personale, il Profeta aggiunge: « Ed invocherò il Nome del Signore, » affinché mi dia la grazia di berlo coraggiosamente (S. Gerol.). –  La Chiesa mette queste belle e calorose parole sulla bocca del Sacerdote che sta per consacrare e consumare l’ostia divina; essa le mette anche sulla bocca del fedele che sta per ricevere il Corpo e Sangue di Gesù-Cristo. In questi felici momenti in cui l’anima riceve Gesù-Cristo e si dà a Lui, essa si sente disposta a fare tutto, a soffrire tutto per piacergli e compiere la sua santa volontà, che è che quella che essa esprima ripetendo in quel momento questa nobile dichiarazione. (Rendu). – Questo sacrificio di lode e di azioni di grazie, il Profeta è disposto ad offrirla non in luogo segreto e ritirato, ma pubblicamente, alla vista di tutti, in presenza di tutto il suo popolo, ed anche di fronte ai suoi nemici, dovendo essere la morte il prezzo del suo coraggio, « perché la morte dei Santi è preziosa agli occhi del Signore; » Vale a dire che Dio attribuisce il valore più alto alla morte dei Santi, ricevuti per la gloria e la confessione del suo Nome sacro, come presso gli uomini si stimano le pietre preziose che ornano il diadema dei re, e di cui nulla saprebbe eguagliare il valore (Bellarm.). La morte dei suoi giusti è brillata tra i gioielli più preziosi della sua corona; Egli la considera come la più ricca di tesori che possiede per il diritto del suo amore creatore (Faber., Le Créât, et la créât.). la morte dei suoi giusti è brillata tra i gioielli più preziosi della sua corona; questa morte dei Santi è preziosa davanti a Dio, perché Egli l’ha riscattata con il prezzo del suo sangue, che ha versato prima per la salvezza dei suoi servi, affinché i suoi servi non esitassero a versare il proprio sangue per il Nome del loro Padrone, benché l’utilità della loro morte fosse per se stessi e non per il Signore (S. Agost.). Cosa c’è di più prezioso di una morte che procura questo inestimabile vantaggio che tutti i peccati siano rimessi ed i meriti portati al loro grado più alto (S. Agost., De civit. Dei, c. VII.). – Ciò che rende preziosa davanti a Dio la morte dei Santi, è talvolta la vita, talvolta la causa della morte, altre volte le due cose insieme. Nei confessori che muoiono nel Signore, è la loro vita che rende la loro morte preziosa; nei martiri che muoiono per il Signore, ne è talvolta causa la sola loro morte; talvolta e più spesso ne sono causa e la loro morte ed il merito della loro vita. La morte preceduta, preparata dal merito di una vita santa, è preziosa; più preziosa, la morte sofferta per la causa della fede; ben più preziosa, infine, la morte in cui queste due cause di merito si trovano riunite. (S. BERN. Serm. XXIV ex parv.). « La morte dei giusti è preziosa davanti a Dio. » Questa morte beata arriva in sua presenza: Egli vi presiede con la sua grazia, con i suoi Sacramenti, con le consolazioni che effonde nella loro anima; Egli non risparmia loro i dolori, inseparabili da ogni vita umana che stia per finire; è necessario che ciò che è successo a Gesù-Cristo, accada a loro, che sentano il peso della loro mortalità. Ma questo momento è breve, queste tribolazioni leggera a paragone dell’immensa felicità che è loro riservata (Berthier).

III. — 7-10.

ff. 7-10. –  « Voi avete spezzato le mie catene, Signore, » diceva Davide nei primi momenti della sua liberazione; così, nell’eccesso della gioia e del santo piacere che mi trasporta, il vostro calice non ha più nulla di amaro per me; i doveri più penosi della vostra legge santa, lungi dal sembrarmi onerosi, costituiscono tutta la mia consolazione e le mie delizie più care: « Io prenderò il calice della salvezza. » I discorsi degli uomini invece di abbattere la mia risoluzione, animano la mia fede, e non mi sembrano che discorsi vani e puerili. O Signore, quanto è consolante essere nel numero dei vostri servi, e come mi sembra essere più glorioso contare tra i miei ancestri una sola anima che abbia attrattiva per voi, che una lunga sequela di principi e di conquistatori: « Io sono vostro servo e figlio della vostra serva. » (MASSILL., sur l’inconst., etc.). – Bisogna essere, dice S. Agostino, non solo servi di Dio, ma i figli della serva di Dio, cioè la Chiesa, fuori della quale si invoca invano il Nome di Dio, e si soffre anche invano il martirio. – L’uomo è legato da quattro catene che Dio solo può rompere: quella del proprio corpo, da cui San Paolo desiderava sì ardentemente essere liberato; quella del peccato al quale, secondo lo stesso Apostolo, si obbedisce per la morte; quella della concupiscenza, che faceva gemere sì amaramente questo grande Apostolo; infine quella della tomba, che il profeta chiama i lacci dell’inferno. Dio rompe la prima di queste catene, e nessuno ha il potere, né il diritto di accelerare o ritardare il momento della sua liberazione. Gesù-Cristo ha rotto la seconda facendosi vittima del peccato; non si tratta dunque che di raccogliere i frutti di questo grande sacrificio. La terza non si rompe interamente se non al momento della morte, ma la grazia di Gesù-Cristo diminuisce il peso per l’anima fedele che lo invoca con fiducia. L’ultima non si romperà che nel giorno della resurrezione generale, e sarà l’effetto della onnipotenza di Colui che dà la morte e che vivifica. (Berthier). – Questo sacrificio di lode è comune sia ai martiri che ad ogni anima consacrata a Dio. I martiri lodano il Signore: così i religiosi e le anime consacrate a Dio, che cantano notte e giorno le lodi del Signore. Devono avere la stessa purezza, perché sono anche martiri in un senso vero; ciò che gli Angeli fanno nel cielo, i martiri lo fanno sulla terra (S. Gerol.). – L’obbligo di acquistarsi dei voti che si sono fatti, è qui ripetuto per farne vedere l’importanza, principalmente quando si sia ricevuto da Dio qualche favore o che si sia ottenuto ciò che gli si domandava. Occorre farlo davanti al mondo, particolarmente quando si è obbligati a dare il buon esempio, e farlo nella Chiesa Cattolica, che è la casa del Signore. – Noi abbiamo un Padre che è Dio, abbiamo una madre che è la Chiesa; l’uno e l’altra sono eterni, ed è per questo che ci hanno generato alla vita che non ha fine. (S. Agost.). – Colui che mangia l’agnello fuori dalla casa di cui Pietro è il fondamento, non può essere che un  profano; egli si perderà come tutti coloro che non furono nell’arca di Noè durate il diluvio (S. Gerol.). – Coloro che compiono questi doveri fuori dalla Chiesa Cattolica non compiono niente; gli eretici possono essere uccisi, ma non saranno mai coronati; la loro morte non è la corona della fede, ma il castigo della perfidia. (S. CIPRIANO, de Unit. Eccl.). – Quando Davide diceva: io offrirò i miei voti al Signore, ma li offrirò in presenza di tutto il suo popolo, nella cinta del suo tempio, in mezzo a Gerusalemme, pretendeva fare qualcosa di più grande grande di quanto avrebbe potuto formare nel segreto del suo cuore. Ed in effetti, un voto solenne è ben diverso da un voto particolare in segreto, perché la Chiesa accetta l’uno e non accetta l’altro, ratifica l’uno e non ratifica l’altro, obbliga se stessa nell’uno e non si obbliga nell’altro, circostanze ben rimarchevoli in materia di voto.  (BOURD., Alliance de l’âme relig. avec Dieu.)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO X – “TRIBUS CIRCITER”

Questa lettera enciclica di S. S. Pio X, DEL 1906, affronta il tema spinoso, per l’epoca, dei cosiddetti “mariaviti”, sacerdoti polacchi seguaci di una presunta mistica che, promuovendo un culto apparentemente cattolico, minava la sacra costituzione apostolica della Chiesa incitando alla separazione dai legittimi pastori e addirittura dalla Sede Apostolica. La vicenda andò avanti con alterne vicende, finché il Santo Padre si vide costretto ad assumere una posizione di intransigenza verso i ribelli alle legittime Autorità divinamente istituite. Quanta differenza con i comportamenti degli attuali usurpanti che, sotto un finto ed indulgete buonismo lasciano pseudo-sacerdoti ed ingannati fedeli alla mercé di lupi rapaci, falsi mistici propagatori di ancor più false rivelazioni sacrileghe, tutte a favore però – guarda caso – del modernismo della ovviamente falsa chiesa dell’anticristo o sinagoga di satana attualmente insediata nei sacri palazzi ed usurpante le diocesi di tutto l’orbe, con i risultati di scristianizzazione che tutti possiamo facilmente osservare. Qui viene ribadito il ruolo essenziale dei Vescovi nell’edificio ecclesiale, il cui fondamento portante, la pietra fondante, è il Santo Padre, il Vicario di Cristo, successore senza soluzioni di continuità del Beato Pietro, Principe degli Apostoli, la cui adesione dottrinale al Magistero ordinario universale, e l’indiscussa sottomissione disciplinare è condizione “sine qua non” e garanzia di salvezza eterna dell’anima. Ma attenzione, aderire scientemente, o pure con falsa o dubbia coscienza ad un illegittimo Vescovo di Roma, come ci ha avvertito fin da quando la Chiesa ha mosso i primi passi alla conquista del mondo, San Cipriano, significa essere fuori dalla Chiesa Cattolica e quindi – senza scampo – fuori dalla via della salvezza. Ma torniamo al nostro documento apostolico, redatto in inglese, e facciamone tesoro, come per tutto il Magistero pontificio:

TRIBUS CIRCITER

ENCICLICA DI PAPA PIUS X

SUI MARIAVITI O SACERDOTI MISTICI DELLA POLONIA

AI NOSTRI VENERABILI FRATELLI, GLI ARCIVESCOVI DI VARSAVIA E I VESCOVI DI PLOTSK E DI LUBLINO

Venerabili Fratelli, Salute e Benedizione Apostolica.

Circa tre anni fa questa Sede Apostolica è stata debitamente informata che alcuni sacerdoti, soprattutto tra il clero minore delle vostre diocesi, avevano fondato, senza il permesso dei loro legittimi Superiori, una sorta di società pseudo-monastica, nota come i Mariaviti o Sacerdoti mistici, i cui membri, a poco a poco, si sono allontanati dalla retta strada e dall’obbedienza che devono ai Vescovi “che lo Spirito Santo ha posto al governo della Chiesa di Dio”, e si sono vanificati nei loro pensieri.

2. Ad una certa donna, che essi hanno proclamato « santissima, meravigliosamente dotata di doni celesti, divinamente illuminata su molte cose, e provvidenzialmente donata per la salvezza di un mondo che sta per perire », non hanno esitato ad affidarsi senza riserve, e ad obbedire ad ogni suo desiderio.

3. Basandosi su un presunto mandato di Dio, si sono posti l’obiettivo di promuovere senza discriminazioni e di propria iniziativa tra la gente, numerosi esercizi di pietà (altamente lodevoli se giustamente eseguiti), specialmente l’adorazione del Santissimo Sacramento e la pratica della Comunione frequente; ma allo stesso tempo hanno mosso le più gravi accuse contro tutti i Sacerdoti e i Vescovi che si sono avventurati ad esprimere qualche dubbio sulla santità e l’elezione divina della donna, o hanno manifestato una qualche ostilità alla società dei Mariaviti. Un tale passaparola ha fatto sì che ci fosse motivo di temere che molti fedeli, nella loro illusione, stessero per abbandonare i loro legittimi pastori.

4. Così, su consiglio dei nostri venerati fratelli, i Cardinali dell’Inquisizione generale, abbiamo fatto emettere, come sapete, un decreto, in data 4 settembre 1904, che sopprimeva la suddetta società di sacerdoti e ordinava loro di interrompere assolutamente ogni rapporto con questa donna. Ma i sacerdoti in questione, nonostante avessero firmato un documento che esprimeva la loro sottomissione all’autorità dei loro Vescovi e che, come dicono di aver fatto, interrompevano in parte i loro rapporti con la donna, non riuscivano comunque ad abbandonare l’impegno e a rinunciare sinceramente all’associazione condannata. Non solo ne condannarono poi le esortazioni e le inibizioni, non solo molti di loro firmarono dichiarazioni audaci in cui rifiutavano la comunione con i loro Vescovi, non solo in più di un luogo incitavano gli illusi a scacciare i loro legittimi pastori, ma, come nemici della Chiesa, affermarono che essa è caduta dalla verità e dalla giustizia, e quindi è stata abbandonata dallo Spirito Santo, e che solo a loro, i sacerdoti mariaviti, è stato dato divinamente l’incarico di istruire i fedeli alla vera pietà.

5. Né questo è tutto. Qualche settimana fa due di questi sacerdoti sono venuti a Roma: Romanus Prochniewsky e Joannes Kowalski, quest’ultimo riconosciuto, in virtù di una sorta di delegazione della donna citata, come loro superiore da tutti i membri della Società. Entrambi, in una petizione da loro scritta, come asseriscono, per espresso ordine di Nostro Signore Gesù Cristo, chiedono al Supremo Pastore della Chiesa, o alla Congregazione del Sant’Uffizio a suo nome, di emettere un documento concepito in questi termini: « Che Maria Francesca (la donna sopra menzionata) è stata resa santissima da Dio, che è la madre di misericordia per tutti gli uomini chiamati ed eletti alla salvezza da Dio in questi giorni; e che tutti i sacerdoti Mariaviti sono incaricati da Dio di promuovere in tutto il mondo la devozione al Santissimo Sacramento e alla Beata Vergine Maria del Perpetuo Soccorso, libera da ogni restrizione della legge o del costume ecclesiastico o umano, e da ogni potere ecclesiastico e umano. . . »

6. Da queste parole eravamo disposti a credere che i sacerdoti in questione fossero accecati non tanto dall’orgoglio consapevole, quanto dall’ignoranza e dall’illusione, come quei falsi profeti di cui Ezechiele scrive: « Vedono cose vane e preannunciano menzogne, dicendo: Il Signore dice: “Il Signore non li ha mandati, mentre il Signore non li ha mandati”. Non avete visto una visione vana e pronunciato una divinazione menzognera: e voi dite: Il Signore dice: “Il Signore dice: mentre io non ho parlato” » (Ezechiele XIII. 6, 7). Li abbiamo dunque accolti con pietà, li abbiamo esortati a mettere da parte gli inganni della vana rivelazione, a sottomettere se stessi e le loro opere alla salutare autorità dei loro Superiori, e ad affrettare il ritorno dei fedeli di Cristo sulla via sicura dell’obbedienza e della riverenza verso i loro pastori; e infine a lasciare alla vigilanza della Santa Sede e delle altre Autorità competenti il compito di confermare quelle pie consuetudini che possono sembrare più adatte per il pieno incremento della vita cristiana, in molte parrocchie della vostra diocesi, e allo stesso tempo ammonire i sacerdoti che sono stati giudicati colpevoli di parlare in modo abusivo o sprezzante di pratiche ed esercizi devoti approvati dalla Chiesa. E ci consolava vedere i due sacerdoti, commossi dalla Nostra paterna bontà, gettarsi ai Nostri piedi ed esprimere la loro ferma volontà di realizzare i Nostri desideri con la devozione dei figli. Hanno poi fatto sì che ci venisse trasmessa una dichiarazione scritta che accresceva la Nostra speranza che questi figli ingannati abbandonassero sinceramente le illusioni del passato e tornassero sulla retta strada:

7. « Noi (queste sono le loro parole), sempre pronti a compiere la volontà di Dio, che ora ci è stata resa così chiara dal suo Vicario, revochiamo con grande sincerità e gioia la nostra lettera, che abbiamo inviato il 1° febbraio di quest’anno all’Arcivescovo di Varsavia, e nella quale dichiariamo di esserci separati da lui. Inoltre, professiamo con grande sincerità e gioia che desideriamo essere sempre uniti con i nostri Vescovi, e specialmente con l’Arcivescovo di Varsavia, per quanto Vostra Santità ci ordinerà di fare. Inoltre, poiché ora agiamo in nome di tutti i Mariaviti, facciamo questa professione di tutta la nostra obbedienza e sottomissione in nome non solo di tutti i Mariaviti, ma di tutti gli Adoratori del Santissimo Sacramento. Facciamo questa professione in modo speciale a nome dei Mariaviti di Plotsk che, per la stessa causa dei Mariaviti di Varsavia, hanno consegnato al loro Vescovo una dichiarazione di separazione da lui. Perciò tutti noi, senza eccezione, ci prostriamo ai piedi di Vostra Santità, professando sempre di nuovo il nostro amore e la nostra obbedienza alla Santa Sede, e in modo speciale a Vostra Santità, chiediamo umilmente perdono per ogni dolore che abbiamo causato al Vostro cuore paterno. Infine, dichiariamo che ci metteremo subito al lavoro con tutte le nostre energie per ristabilire immediatamente la pace tra il popolo e i suoi Vescovi. Possiamo affermare che questa pace sarà veramente ristabilita molto presto ».

8. E’ stato quindi di grande piacere molto per Noi il poter credere che questi nostri figli, così graziati, al loro ritorno in Polonia, avesseero subito dato attuazione alle loro promesse, e per questo ci siamo affrettati a consigliare a voi, Venerabili Fratelli, di accogliere loro e i loro compagni, ora che hanno professato tutta l’obbedienza alla vostra autorità, con eguale misericordia, e di ristabilirli legalmente, se i loro atti corrispondevano alle loro promesse, alle loro facoltà per l’esercizio delle loro funzioni sacerdotali.  – Ma gli eventi hanno ingannato le Nostre speranze, perché abbiamo appreso da recenti documenti che essi hanno di nuovo aperto le loro menti a rivelazioni false, e che dal loro ritorno in Polonia, non solo non hanno ancora mostrato a voi, Venerabili Fratelli, il rispetto e l’obbedienza che avevano promesso, ma che hanno scritto ai loro compagni una lettera del tutto contraria alla verità e all’obbedienza genuina.

9. Ma la loro professione di fedeltà al Vicario di Cristo è vana in coloro che, di fatto, non cessano di violare l’autorità dei loro Vescovi. Infatti « la parte di gran lunga più augusta della Chiesa è costituita dai Vescovi (come scriveva il Nostro Predecessore Leone XIII di santa memoria nella sua lettera del 17 dicembre 1888 all’Arcivescovo), in quanto questa parte, per diritto divino, insegna e governa gli uomini; quindi, chi resiste o rifiuta loro pertinentemente l’obbedienza, si separa distingue dalla Chiesa. D’altra parte, giudicare o rimproverare gli atti dei Vescovi non appartiene affatto ai privati – cosa che compete per giurisdizione solo a quelli più alti in autorità e soprattutto al Sovrano Pontefice, perché a lui Cristo ha affidato l’incarico di nutrire non solo i suoi agnelli, ma anche le sue pecore di tutto il mondo. Al massimo, in questioni di grave lamentela, è consentito riferire l’intero caso al Romano Pontefice, e questo con prudenza e moderazione, come richiede lo zelo per il bene comune, non con clamore o fraudolentemente, perché in questo modo si allevano, o certamente aumentano, i dissensi e le ostilità.

10. Oziosa e ingannevole è anche l’esortazione del sacerdote Johannes Kowalski ai suoi compagni in errore a favore della pace, mentre egli persiste nei suoi discorsi stolti e negli incitamenti alla ribellione contro i pastori legittimi e nella sfacciata violazione dei comandi episcopali.

11. Per questo motivo, affinché i fedeli di Cristo e tutti i cosiddetti sacerdoti mariaviti che sono in buona fede, non siano più traviati dalle illusioni della suddetta donna e del sacerdote Johannes Kowalski, confermiamo ancora una volta il decreto per cui la società dei mariaviti, fondata illegittimamente e invalidamente, è interamente soppressa, e Noi la dichiariamo soppressa e condannata, e proclamiamo che è ancora in vigore il decreto che vieta a tutti i sacerdoti, ad eccezione di quello che il Vescovo di Plotsk, nella sua prudenza, sostituirà come suo confessore, di avere qualsiasi cosa a che fare con la citata donna con qualsiasi pretesto.

12. Voi, Venerabili Fratelli, Vi esortiamo vivamente ad abbracciare con paterna carità i sacerdoti che avendo sbagliato, immediatamente e sinceramente si pentono, e a non rifiutarsi di richiamarli di nuovo, sotto la vostra direzione, ai loro doveri sacerdotali, quando si saranno stati debitamente dimostrati degni. Ma se essi, che Dio non voglia, dovessero rifiutare le vostre esortazioni e perseverare nella loro contumacia, sarà Nostra premura che siano trattati con severità. Studiate di ricondurre sulla retta via i fedeli di Cristo che ora si trovano ad operare sotto un’illusione che può essere perdonata; e promuovete nelle vostre diocesi quelle pratiche di pietà, recentemente o da tempo approvate in numerosi documenti della Sede Apostolica, e fatelo con tanta più alacrità ora che, con la benedizione di Dio, i sacerdoti tra di voi sono messi in grado di esercitare il loro ministero e i fedeli di emulare l’esempio di pietà dei loro padri.

13. Intanto, come pegno di favori celesti e come prova della Nostra paterna buona volontà, concediamo amorevolmente nel Signore la Benedizione Apostolica a voi, Venerabili Fratelli, e a tutto il clero e a tutto il popolo affidato alle vostre cure e alla vostra vigilanza.

Dato a Roma, a San Pietro, il quinto giorno di aprile, MDCCCCVI, nel terzo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2020)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). La riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì. –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mose, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. E dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta coi nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è la Domenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia, e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

Omelia I

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Ambia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

S. Paolo a dimostrare ai Galati come la legge di Mosè non possa continuare ad esistere daccanto al Cristianesimo, che l’ha sostituita, ricorre a un fatto del vecchio testamento, il quale oltre il valore storico, ha un significato allegorico. Abramo ha un figlio, Ismaele, da Agar, schiava, e ha un figlio, Isacco, da Sara, libera. Agar significa la legge che tiene schiavi i suoi figli; legge promulgata sul monte Sina in Arabia, terra abitata dagli schiavi, discendenti di Agar, e che ha per suo centro la Gerusalemme terrena. Sara significa la Gerusalemme celeste, la Chiesa, libera, sposa di Gesù Cristo. Ismaele nato secondo le leggi ordinarie significa la discendenza naturale di Abramo; Isacco, nato non secondo le leggi naturali ma in forza d’una promessa fatta da Dio ad Abramo, significa la discendenza spirituale, noi Cristiani, nati spiritualmente nel Battesimo, uniti con la grazia a Gesù Cristo, termine della promessa. E come allora Ismaele perseguitava Isacco così adesso i Giudei perseguitano i Cristiani, cercando di ridurli sotto il giogo della legge. Ma, come Agar fu cacciata dalla casa con suo figlio, senza diritto all’eredità; così, l’antica legge è stata bandita dalla Chiesa, che resta l’erede delle promesse divine. Parliamo un po’ della Chiesa, nostra madre. Essa:

1. È di origine divina;

2. È universale,

3. Trionfa dei suoi oppositori.

1.

Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera. La Gerusalemme di lassù, cioè la Gerusalemme celeste, è la Chiesa a cui noi apparteniamo, la Chiesa di Gesù Cristo. La sua condizione è ben differente dalla condizione della Sinagoga, centro del culto giudaici. La Sinagoga era schiava della legge: la Chiesa, invece, è libera. È chiamata giustamente Gerusalemme di lassù, Gerusalemme celeste, perché celeste è !a sua origine. Dio stesso l’ha istituita, per mezzo del suo Figlio, Gesù Cristo. Gesù espresse in termini chiarissimi la volontà di fondare la Chiesa. A Pietro, che lo confessa « Figlio del Dio vivente», egli dice: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei ». (Matth. XVI, 18). Non un uomo, non un Angelo, ma Egli stesso ne sarà il fondatore. E quanto aveva promesso si avvererà dopo la sua risurrezione gloriosa. Vicino al lago di Tiberiade Gesù dice a S. Pietro: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore ». (Giov. XXI, 16)). Il Redentore salirà al cielo, ma a pascere visibilmente il suo gregge è posto un altro, al quale è dato il potere e l’autorità necessaria. – Agli Apostoli, da Lui scelti, affida un ben determinato corpo di dottrina, che essi apprendono, o direttamente dalla sua bocca, o dall’ispirazione dello Spirito Santo, da Lui mandato. A loro dà la missione ben specificata di insegnare, di battezzare, di rimettere i peccati, di sciogliere e di legare: e questi poteri li dà come continuazione dei poteri suoi. La loro azione non avrà limiti né di luogo né di tempo; Egli, poi, sarà sempre tra loro con la sua assistenza. «E’ stato dato a me ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque a istruire tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto v’ho comandato. Ed ecco Io sono con voi tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli». (Matth. XXVIII, 18-20) «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno loro rimessi; e saranno ritenuti, a chi li riterrete». (Giov. XX, 22-23). « In verità vi dico: quanto legherete sulla terra, sarà legato nel cielo: e quanto scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo». (Matth. XVIII, 18). Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Luc. X, 16). La Chiesa è veramente la Gerusalemme di lassù. Di lassù venne il suo fondatore; lassù guidano la sua dottrina e i suoi Sacramenti: lassù sta il suo Capo invisibile, la pietra angolare che la sostiene, Gesù Cristo, Nostro Signore.

2.

Questa Gerusalemme di lassù è la nostra madre. « Questa è la madre di tutti, la quale ci raduna da ogni stirpe e da ogni nazione, e ne forma poi un corpo solo » (S. Zenone Tract. 33). Gesù Cristo ha costituito la Chiesa come una famiglia. Chi entrerà a farvi parte? Tutti quelli che parlano una data lingua? che abitano una determinata regione? Chi è fornito di un certo grado di coltura o di un certo censo? chi vi trova un adattamento ai propri gusti? Gesù Cristo non fa distinzione di luoghi e di persone. Se la legge mosaica si estendeva al solo popolo eletto, la legge cristiana si estenderà a tutti i popoli della terra. «Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo. a ogni creatura, dice agli Apostoli (Marc. XVI, 15). È dunque la Chiesa di tutti gli uomini e di tutte le nazioni. Nei primissimi anni l’attività della Chiesa si svolge in Gerusalemme e in Palestina. Poi, in adempimento alla missione ricevuta, gli Apostoli allargano il campo della loro azione. Ancor viventi essi, la buona novella è già conosciuta in buon numero delle province dell’impero romano. Roma, che si assoggetta il popolo ebreo, ne distrugge la capitale e ne conduce prigionieri gli abitanti, non ha la forza di soggiogare i dodici ebrei che Gesù Cristo ha mandato a dilatare la sua Chiesa, la quale stabilisce subito il suo centro in Roma stessa. Ben presto si estende a tutto l’impero romano, e a tutto il mondo conosciuto. Man mano che si scoprono nuove regioni, la Chiesa vi pone le sue tende. È una società unica in condizioni e in luoghi disparatissimi. Ovunque si ubbidisce allo stesso capo, si amministrano gli stessi sacramenti, si insegna la stessa dottrina, «che si conserva unica e identica a traverso il succedersi delle età » (S. Vincenzo Lirin. Comm., 24). Non può essere altrimenti, poiché «la Chiesa è la bocca di Cristo » (S. Ilario, Tract. Ps. XXXVIII, 29). A questa universalità della Chiesa non possono nuocere le defezioni, provocate nel corso dei secoli dalle eresie e dalle persecuzioni. Quando un albero è in pieno vigore non fa che una perdita temporanea, se la tempesta o il ciclone gli stroncano qualche ramo. Al posto di un ramo troncato, sorgono, pieni di rigoglio, parecchi altri rami. Se qualche popolo, o parte di qualche popolo, fa talora apostasia dalla Chiesa Cattolica, ben presto altri popoli ne prendono il posto. L’assistenza di Gesù Cristo le infonde un vigore continuo, che la porta a nuove e sempre più ampie conquiste. E come allora, chi era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. E così avverrà sempre.. Ismaele, figlio della schiava perseguita Isacco; i Giudei, schiavi della legge. perseguitavano la Chiesa nascente; gli schiavi della passione e dell’errore perseguiteranno la Chiesa nel corso dei secoli, pur soccombendo sempre.Il giorno della Pentecoste è il giorno natalizio della Chiesa. In quel giorno parecchie migliaia formano la prima comunità, che il giorno seguente aumenta di altre. migliaia, I membri della Chiesa crescono sempre più di numero, e il fatto non può sfuggire ai suoi nemici. Il Sinedrio che aveva visto sigillata la pietra che chiudeva il sepolcro di Gesù, credeva di aver seppellito per sempre anche il suo nome. Si accorge di essersi ingannato. Il Nome di Gesù risuona più di prima, e in questo nome si compiono grandi miracoli. Ed ecco che fa in carcerare e battere gli Apostoli. Presto seguirà il martirio di chi professa la divinità di Gesù Cristo. Verrà S. Stefano, verrà S. Giacomo, verranno altri martiri, in Palestina e fuori; ma non per questo la Chiesa s’arresta nel suo cammino. Il Redentore, dopo l’omaggio e l’adorazione dei Magi, è portato in Egitto per essere sottratto alla persecuzione di Erode. Un bel giorno, l’Angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe, e gli dice: «Levati, prendi il fanciullo e la Madre di Lui, e va nella terra d’Israele; perché son già morti coloro che volevano la vita del bambino » (Matth. II, 20).

3.

Ecco la storia di tutti i persecutori della Chiesa. La Chiesa è ancor salda sul fondamento posto da Gesù Cristo e i suoi persecutori dove sono? Essi sono scomparsi, uno dopo l’altro, non lasciando di sé alcun nomea, o lasciando un nome esecrato. Quello che Dio guarda, è ben guardato. Eliodoro era stato mandato a Gerusalemme dal re Seleuco con l’ordine di spogliare il Tempio dei suoi tesori. Atterrato all’entrata del luogo santo dal cavallo d’un misterioso cavaliere, e flagellato con violenza da due giovani fulgenti di gloria, è salvato per l’intervento del Sommo Sacerdote Orda. Egli ritorna a Seleuco, a man vuote, ad annunciargli la potenza del Dio d’Israele. E quando il re gli chiede chi altro potrebbe essere mandato un’altra volta a Gerusalemme, risponde francamente: «Se tu hai qualche nemico o traditore del regno da punire, mandalo là, e ti ritornerà flagellato, se riuscirà a scampare la morte… Poiché colui che ha stanza nei cieli visita e protegge quel luogo, e percuote e stermina chi va a farvi del male» (2 Macc. III, 38-39).Brama di perdere, chi contro Dio combatte. Brama di fare una fine triste, dopo opera inutile, chi contrasta e combatte la Chiesa. Lo dimostra l’esperienza di 19 secoli. Abbiamo, dunque, la più grande fiducia nel continuo trionfo della Chiesa. Tutte le forze che si possono mobilitare contro di essa, non varranno a scuoterla. È sopra un fondamento troppo saldo. Lo scoglio avanzato o l’isolotto su cui s’innalza il faro ha ben poco da temere dall’insidia o dal furore delle acque. Il lavorio nascosto delle correnti non riesce a intaccare la salda roccia, e le onde impetuose non la possono abbattere. A ogni assalto c’è un po’ di rumore per l’urto: spruzzi d’acqua s’innalzano per un momento, poi tutto è quiete. Le onde si riversano infrante, lo scoglio sta, e il faro continua a brillare. La Chiesa continuerà la sua missione di illuminare il mondo, e intorno ad essa s’infrangerà qualunque forza.« Poiché è proprio della Chiesa il vincere quando è colpita, esser compresa quando è biasimata, riuscire quando è abbandonata » (S. Ilario, De Trin. L. 7, 4).Gesù Cristo rimprovera gli Apostoli di poca fede, quando temono di andar sommersi nelle onde del lago, nonostante la presenza del divin Maestro nella barca: non li rimprovera però, perché da parte loro fanno il possibile, lavorando di remi, per condurre la barca a riva. Saremmo certamente Cristiani di poca fede, se dubitassimo un momento del progresso continuo e del continuo trionfo della Chiesa; non saremmo certamente Cristiani modello, se non procurassimo, da parte nostra, aggiungere i fatti alla domanda che rivolgiamo tutti i giorni a Dio: «Venga il tuo regno ».

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

OMELIA II

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i vantaggi della Comunione.

“Accepìt Jesus panes, et quum gratias egìsset, distribuit discumbentibus”

(Joan. VI)

Era necessaria, Fratelli miei, una possanza così grande, ed una bontà così pietosa, come quella dell’Uomo-Dio, per satollare cinque mila persone con cinque pani. La moltiplicazione di questi pani fu senza dubbio un gran motivo di riconoscenza per quel popolo che seguito aveva Gesù Cristo nel deserto. Quindi lo stesso Vangelo, che ci riferisce questo miracolo, ci fa sapere, che quel popolo per denotare la sua gratitudine al Salvatore, volle farlo Re; il che Egli evitò ritirandosi sul monte. Benché grande fosse questo prodigio, era un nulla, Fratelli miei, in paragone del miracolo, che questo Dio Salvatore opera nella santa Eucaristia pel nutrimento delle nostre anime. Mentre non è già quivi un pan materiale, e corruttibile, moltiplicato per nutrire il corpo; né meno è un pane formato miracolosamente dalla mano degli Angeli, come fu la manna che nutrì il popolo di Dio nel deserto; ma è un pane celeste, che nutrisce l’anima, un pane composto della carne, e del sangue di un Dio che non è più dato ad un semplice popolo, né moltiplicato in un sol luogo, ma che è prodotto in un’infinità di luoghi, e dato a tutti i popoli che vogliono profittarne. Ammirabile invenzione dell’amor di Dio per gli uomini, il quale non contento di averli ricolmi di mille benefici, ha esaurita, per cosi dire, la sua magnificenza, dandosi Egli stesso per nutrimento ai deboli mortali, che non meritavano, che i suoi castighi! Non solamente loro permette di mangiare questo pane celeste, ma per un nuovo prodigio d’amore, loro ne fa un comando espresso; comando la cui trasgressione basta ad escluderli dalla vita eterna. Egli è questo quel divin comando, Fratelli miei, che la Chiesa ogni anno vi rinnova, ordinandovi di partecipare alla santa Tavola nel tempo Pasquale. Per indurre più efficacemente i suoi figliuoli ad adempiere il loro dovere, essa minaccia dei suoi anatemi coloro che ricusano di soddisfarvi. È forse d’uopo, Fratelli miei, che noi abbiamo ricorso a questo espediente per sottomettervi? Fa di mestieri dirvi, che essa rigetta dal suo seno i suoi figliuoli ribelli su questo punto, che essa loro ricusa la sepoltura ecclesiastica? No; io penso troppo bene di vostra pietà per credervi disubbidienti a questi santi comandamenti: io ho qualche cosa di più interessante a proporvi; sono i vantaggi annessi ad una santa Comunione, riserbandomi per un’altra volta di parlarvi delle disposizioni, che voi dovete apportarvi. Io trovo questi vantaggi nell’unione intima che Gesù Cristo contrae con l’anima fedele che lo riceve nella santa Eucaristia, e nelle grazie che Egli le comunica. L’anima unita a Gesù Cristo: primo vantaggio, e primo punto. L’anima ricolma di grazie da Gesù Cristo nella sua santa Comunione: secondo vantaggio, e secondo punto, Ecco tutto il mio disegno.

I. Punto. Per darvi, Fratelli miei, una giusta idea di questa unione ineffabile, che l’anima contrae con Gesù Cristo nell’augusto Sacramento dei nostri Altari, egli è importante di prima proporvi alcuni dei punti di Fede, che dobbiamo noi credere su questo mistero, la cui cognizione deve servire a sviluppare la verità che trattiamo. E primieramente convien sapere, che sotto i segni sensibili del pane e del vino, che noi chiamiamo le specie sacramentali, sono veramente rinchiusi il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo, che prendono le veci del pane e del vino: il che si fa in virtù delle parole sacramentali, che il Sacerdote pronuncia a nome di Gesù Cristo, per la potestà ch’egli ne ha ricevuto nella persona degli Apostoli; potestà ammirabile, che rende Dio ubbidiente alla voce di un uomo mortale, non per arrestare il Sole, come fece altra volta Giosuè, ma per far discender il Figliuolo di Dio sull’Altare, nel momento che egli pronuncia le parole della consacrazione. Obediente Domino voci hominis (Jos. XX). Egli non è men vero, che il Sangue di Gesù Cristo è dopo la sua risurrezione riunito al suo sacro Corpo per non esserne separato di modo che l’uno non può esser senza l’altro, perché il corpo di Gesù Cristo è un corpo vivente; quindi il fedele che sotto le specie del pane mangia la carne di Gesù Cristo, è realmente abbeverato del suo Sangue. Egli è ugualmente certo che questo Corpo, e questo Sangue sono uniti ipostaticamente alla Divinità: quindi il fedele che riceve l’una e l’altro nella, comunione, riceve veramente tutta la divinità, perché riceve Gesù Cristo, che è Dio e uomo tutto insieme. Si, Fratelli miei, noi crediamo, ed è questa una verità ben consolante, noi crediamo, e la fede ce lo insegna, che Gesù Cristo si moltiplica per un amore ingegnoso, e si trova in tutte le Ostie consacrate, e che così senza lasciare la destra di suo Padre, e senza dividersi, Egli è nel Cielo e sulla terra; con questa differenza, ch’Egli si mostra sviatamente ai Beati nel Cielo per essere l’oggetto della loro beatitudine; laddove si nasconde sotto il velo eucaristico per esercitare la nostra fede. Ma noi possiamo dire, che sotto i simboli del pane e del vino, in questo Sacramento di amore, noi possediamo lo stesso oggetto che fa la felicità dei Santi; noi vi possediamo non solamente il Figliuolo di Dio, la seconda Persona della Santissima Trinità, unita alla nostra natura; ma in certo modo ancora le due altre Persone, il Padre, e lo Spirito Santo, che essendo inseparabili l’uno e l’altro dal Figliuolo, non possono mancare di trovarsi e di comunicarsi tutti e tre, dove l’uno si trova e si comunica. Così Fratelli miei, quando vi comunicate, il vostro corpo diventa il tempio, il santuario della Divinità, la Santissima Trinità risiede in mezzo di voi medesimi; allora voi possedete ciò che il cielo e la terra hanno di più prezioso; e Dio, benché onnipotente e ricchissimo, nulla può darvi di più grande e di migliore, dice S. Agostino: Quam sit potentissimus, plus dare non potuit. Ma come mai Gesù Cristo si comunica a noi nella Santa Eucaristia, e come mai vi possediamo noi le tre Persone della Santissima Trinità? Gesù Cristo vi si comunica per l’unione, la più intima, per l’unione la più gloriosa per noi: unione la più intima, di cui Egli stesso ci ha data l’idea la più sensibile, e la più penetrante allorché la paragona a quella che si fa del cibo col corpo che lo riceve. La mia carne, dice Egli, è veramente un cibo, ed il mio sangue una bevanda: Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus (Joan. VI) . Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue, dimora in me, ed Io in lui; Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, in me manet, et ego in illo (Ibid.). Vale a dire, che siccome non si fa che una sostanza del cibo e di chi lo prende, così nella santa Comunione non si fa più, per così dire, che una sostanza di Gesù Cristo col fedele che lo riceve; con questa differenza ancora molto vantaggiosa per noi, che il cibo corporale che prendiamo, si cangia in nostra carne; ma nella santa Comunione Gesù Cristo ci cangia in Lui, noi diventiamo altri Egli stesso, dice S. Leone: non è solamente la sua carne, che si comunica alla nostra, ma ella ne prende, per così dire, le veci; è il suo sangue, che scorre nelle nostre vene, è la sua anima, è la sua divinità che risiedono in noi; sono le tre adorabili Persone della Santissima Trinità che vi fanno la loro dimora, non solo con la loro immensità, come fanno in tutti gli altri luoghi; non solo con la grazia e con la carità, come nell’anima dei giusti, con una presenza particolare annessa a questo Divin Sacramento; di modo che se per impossibile queste divine Persone non fossero in tutti i luoghi del mondo, esse si troverebbero in noi per la loro unione con questo, divin Sacramento. O prodigio dell’amore di un Dio che si comunica in una maniera sì intima ad una vile creatura, che si unisce ad essa non solo con legami d’amicizia, quale si trova tra fratelli, tra amici sinceri! questo sarebbe già molto; ma v’è qui qualche cosa di più, v’è una unione di sostanza, quale si trova, dice S. Cirillo d’Alessandria, tra due cere liquefatte, e sì ben mischiate insieme che non si può più distinguere l’una dall’altra. Che dirò di più, Fratelli miei? Gesù Cristo paragona ancora questa unione a quella ch’Egli ha con suo Padre nella Santissima Trinità: siccome Io vivo per mio Padre, dice Egli, e della medesima vita che mio Padre; così chi mangia la mia carne vivrà per me, e della medesima vita che vivo Io: Sicut ego. vivo propter Patrem, qui manducat me, vive propter me (Joan. VI). Vale a dire, che siccome Gesù Cristo è uno con suo Padre a cagione della natura divina che loro è comune, non è che uno in un senso con l’anima che lo riceve, nella santa Comunione, non facendo, per così dire, che una sostanza con essa; e siccome Gesù Cristo riceve da suo Padre una vita tutta divina, nello stesso modo a proporzione diventa Egli medesimo il principio di una vita spirituale e divina in coloro che si uniscono a Lui con la partecipazione del suo corpo e del suo sangue: non è più dunque il fedele che vive, è Gesù Cristo che vive in lui, come dice l’Apostolo: Vivo ego, jam. non ego, vivit vero in me Christus (Gal. II). Non è più il fedele che pensa, che parla, che agisce; è Gesù Cristo che pensa, che parla, che agisce in lui; o per lo meno è il fedele che deve pensare, parlare, agire come Gesù Cristo; mentre se egli non opera come Gesù Cristo, se la sua vita non è conforme a quella di Gesù Cristo, se egli non vive per Lui, deve dire che non ha partecipato, come conviene, a questo divin nutrimento. Eh! come poter accordare azioni affatto materiali e terrestri col principio di una vita celeste? Tremate a questo soggetto, voi in cui si osserva sì poco cangiamento dopo tante Comunioni, e che vivete una vita carnale e sensuale, come se non aveste giammai ricevuto questo pane degli Angeli. Tremate, voi che dopo esservi sì spesso nutriti della carne di un Dio pieno di amore e di bontà, siete ancora soggetti all’odio e all’ira; tremate voi che siete sì dominati dalla superbia, e sì portati alla vanità, malgrado le lezioni di umiltà che vi dà Gesù Cristo nel suo Sacramento di amore. Ma questo timore v’induca a fare tutti i vostri sforzi per prepararvi con più di attenzione che non avete fatto sinora, a ricevere questo cibo tutto celeste in cui Gesù Cristo si comunica all’anima in una maniera sì intima e sì gloriosa per essa. Per comprendere la gloria che ritorna all’anima fedele dall’unione ch’ella contrae con Gesù Cristo nel santo Sacramento dell’altare, converrebbe poter comprendere la distanza infinita che v’è tra Dio e la creatura, tra l’onnipotenza e la debolezza, tra la grandezza infinita e la bassezza, tra il tutto ed il nulla. Sarebbesi giammai creduto, che fosse un giorno per messo all’uomo peccatore di mangiare alla tavola del suo Dio, di nutrirsi della sua carne, e del suo sangue adorabile? Se Dio avesse promesso all’uomo di accordargli qualunque grazia gli domandasse, l’uomo avrebbe giammai osato portare sin là la sua speranza? E certamente chi può comprendere ciò che si opera nella santa Comunione? La creatura non solo si accosta a Dio suo Autore, ma ancora si nutrisce della sua sostanza; un vile schiavo s’impingua della carne del suo padrone. E non è questo ciò che deve far lo stupore del cielo e della terra? O res mirabilis! manducat Dominum pauper, servus, et humilis. Che cosa è l’uomo, o mio Dio, sicché vi degnate di ricordarvi di lui ed onorarlo della vostra visita? Era già molto che voi l’aveste ricevuto nella vostra amicizia; era forse necessario portare la prodigalità sino a farlo mangiare con Voi, sino a cibarlo di un pane che fa nel cielo la beatitudine degli Angeli? Non è questo, Fratelli miei, l’eccesso della tenerezza di un Dio per la sua creatura, ed il sommo dell’onore, cui possa questa creatura essere innalzata? Qual sarebbe la sorpresa e la gioia di un suddito, che un gran Re facesse mangiare alla sua tavola, che lo servisse di sua mano, principalmente se fosse un uomo da nulla, dispregevole per sua nascita e suo stato? Quanto questo suddito non si terrebbe onorato di un tal favore, poiché i grandi medesimi , cui è accordato, si fanno una gloria di pubblicarlo? Quando il Re Davide presentò la sua tavola a Miphiboseth, in considerazione di suo padre Gionata, che gli ordinò di non prenderne altre che la sua: *chi son io, ripigliò questo umile Israelita prostrandosi sino a terra, per mangiare alla tavola del mio Re? Sarebbe egli possibile, che un vile schiavo, un uomo come io, avesse quest’onore?. Quis ego sum servus tuus , quoniam respexisti super canem mortuum similem mei ( II Reg. VI)? Benchè grande fosse questo favore accordato da Davide al figliuolo di Gionata; benché onorato fosse l’ ultimo dei sudditi di mangiare alla tavola del suo Re; che è questo, Fratelli miei, in paragone dell’onore che riceve l’anima fedele di mangiare alla tavola del suo Dio? Vi è infinitamente maggior disproporzione tra Dio e la creatura, che tra il più gran Re del mondo ed un verme di terra. Di più, questo Re che onorerebbe in tal modo quel suddito, non gli servirebbe vivande della sua propria sostanza; sarebbero carni di animali, o altri cibi più squisiti veramente di quelli che sono comuni agli altri uomini; ma si darebbe egli medesimo in cibo, come lo fa Gesù Cristo nella santa Comunione all’anima che lo riceve, che s’impingua, per così dire, della sostanza di Dio medesimo, e che si arricchisce. de’ suoi doni? In quel momento quest’anima diviene la sposa del suo Dio, il tempio della divinità; ella partecipa del privilegio della Santa Vergine nel mistero dell’Incarnazione del Verbo. Qual gloria! qual onore! Sì, Fratelli miei, ogni volta che noi riceviamo Gesù Cristo alla santa Comunione, dir si può che rinnova in noi ciò che avvenne nel mistero della sua Incarnazione; il che ha fatto dire ai Santi Padri, che la Comunione è un’estensione di quel mistero. Nel mistero dell’Incarnazione la carne di Maria divenne la carne di Gesù Cristo, perché questa fu formata della sostanza di quella. Un Dio diventa uomo per l’unione della Divinità con l’umanità. Così nella santa Comunione la nostra carne diventa quella del Salvatore per l’unione ch’ella contrae con essa; noi siamo in qualche modo deificati, divinizzati, perché noi diventiamo i membri d’un Dio, il corpo di un Dio pel cambiamento ch’Egli fa di noi in Lui. Qual gloria, ancor una volta, qual onore per una creatura. – Non bastava che questo Dio d’amore avesse nobilitata la nostra natura, sposandola nel ministero della sua Incarnazione; è stato d’uopo ancora per contentare quest’amore, ch’Egli si comunicasse a ciascheduno di noi in particolare, dandoci per nutrimento non solo la natura umana ch’Egli ha presa, ma ancora la natura Divina. Che poteva fare di più per innalzar la creatura? Si può dunque dire del fedele che si comunica ciò che dicevasi della Santissima Vergine che aveva portato il Figliuolo di Dio per lo spazio di nove mesi nel suo seno verginale: beate, dicevasi indirizzandosi a Gesù Cristo, le viscere che ti han portato: Beatus venter, qui te portavit (Luc. X). Si può anche dire, beato il corpo del fedele che è santificato dalla presenza di Gesù Cristo, in cui Gesù Cristo risiede come nel suo Santuario: beate sono le labbra e la lingua che sono tinte ed innaffiate del suo Sangue prezioso: beato è il cuore di quel fedele che serve di trono alla maestà di un Dio: beata è l’anima che è, per così dire, divinizzata per l’alleanza ineffabile che contrae col suo Dio; essa può dire che possedendolo possiede tutti i beni. Sì, Fratelli miei, quando vi comunicate, Gesù Cristo vi tien luogo di tutto, Egli è vostro cibo, vostra gloria, vostro tesoro, vostro amico, vostro padre, vostro tutto, come dice S. Ambrogio: Omnia nobis est Christus! – Ma se la felicità di un’anima che riceve Gesù Cristo nella santa Comunione, si può paragonare a quella di Maria, qual purità, qual disposizione non esige da essa un dono così prezioso? Dio per l’adempimento del mistero dell’Incarnazione elesse una Vergine del tutto pura; in conseguenza di questa scelta Egli la riempi delle sue grazie le più singolari; Ella preparassi a quel gran favore con le più sublimi virtù: con tutto ciò, benché pura, benché perfetta fosse questa Vergine incomparabile, la Chiesa è nello stupore, che il Figliuolo di Dio abbia voluto scendere nel suo seno: Tu ad liberandum suscepturus hominem, non horuisti virginis uterum. Qual deve dunque essere all’accostarsi della santa tavola il timore di una creatura colpevole, che non sa se abbia essa ottenuto il perdono del suo peccato? Quali precauzioni non deve apportare per purificarsi, per tema di fare un’alleanza mostruosa di Belial con Gesù Cristo, e d’incorporare il Dio d’ogni santità in un corpo di peccato? Se questo corpo diventa per la Comunione il Tempio, il Santuario della Divinità, qual rispetto non deve aversi per questo corpo, e qual castighi non debbono aspettarsi coloro che lo profanano con piaceri brutali, con eccessi d’intemperanza o d’altre passioni cui si abbandonano? Non sia così di voi, Fratelli miei: giacché Gesù Cristo si unisce a voi in una maniera sì intima nella santa Comunione, unitevi a Lui, dimorate in Lui, come Egli dimora in voi, se volete profittare delle grazie singolari che comunica a coloro che lo ricevono con sante disposizioni.

II. Punto  Giacché Gesù Cristo sì comunica all’anima in una maniera sì intima nel Sacramento del suo amore, fa d’uopo confessare, Fratelli miei, ch’Egli ha dei gran disegni su di essa, e noi possiamo sperare ogni sorta di grazie da una santa Comunione. Gesù Cristo vi viene con le mani piene di doni propri ad arricchirci per l’eternità; giacché si dà Egli medesimo in persona, come non darebbe con sé le sue grazie, i suoi meriti, i suoi tesori? Simile ai Principi della terra, i quali facendo la loro entrata nelle città, si compiacciono di spargere le loro grazie sopra i loro popoli, Gesù Cristo si fa un piacere di spargere le sue nei nostri cuori. La manna celeste che ci dà per alimento, ha ogni sorta di virtù, e si estende a tutti i nostri bisogni. Essa ci serve ad uno stesso tempo di cibo e di rimedio; di cibo. per conservare ed accrescere in noi la vita della grazia; di rimedio per guarirci dalle nostre infermità, e preservarci dalla morte del peccato. Tali sono i vantaggi d’una santa Comungione. – Perché pensate voi, Fratelli miei, che Gesù Cristo ha istituito la Santa Eucaristia sotto i simboli del pane e del vino? Si è per farci conoscere gli effetti meravigliosi che essa produce nelle nostre anime. Infatti, siccome il pane ed il vino fanno vivere i nostri corpi, conservano in noi la vita, ed accrescono le nostre forze; così questa carne celeste conserva in noi la grazia che è la vita dell’anima, ci fa crescere in virtù, e c’innalza talmente al di sopra di noi medesimi, dice S. Cipriano, che di uomini terreni, essa ci rende uomini affatto celesti. Il pane ed il vino conservano in noi la vita del corpo, perché mantengono il calore naturale, che si consumerebbe per difetto di nutrimento. Tale è l’effetto che la santa Eucaristia produce nelle nostre anime; effetto tanto più sicuro, quanto che essa contiene l’Autore ed il principio della vita. Mentre v’è questa differenza tra il Sacramento dell’Altare e gli altri Sacramenti, che gli altri Sacramenti danno la grazia, ma questo contiene l’Autore stesso della grazia, che è Gesù Cristo. Quindi qual forza e qual vigore non riceviamo noi mangiando questo pane disceso dal Cielo? Quante volte l’avete voi medesimi sperimentato, Fratelli miei! vi abbiamo giammai veduti più fedeli ai vostri doveri che nei giorni, in cui vi siete cibati del pane dei forti? E certamente, siccome il ramo di un albero è sempre vivo, mentre che resta unito al tronco e alla radice, l’anima innestata, per così dire in Gesù Cristo per la santa Comunione, sarà sempre piena di vita, sin che sarà a lui attaccata! È vero che noi portiamo la gloria in vasi fragili, soggetti ad ogni momento a rompersi contro gli scogli delle tentazioni; ma l’anima nutrita di Gesù Cristo, e ripiena della sua virtù, non è forse in istato di vincere tutte le tentazioni? Giacché ella possiede quello che ha vinto ed incatenato il dragone, ne può forse temere i morsi? No, Fratelli miei, dimori sempre unita al suo Dio, e i suoi nemici non prevarranno giammai su di essa. Il Sacramento che ha ricevuto le dà un diritto particolare a certi aiuti che noi chiamiamo grazie attuali, per resistere a tutti gli sforzi dei nemici della salute. Or queste grazie potenti ci sono date a tempo e luogo, e nelle occasioni in cui bisogna combattere per conservar la vita della grazia. – Così, Fratelli miei, quantunque tutti i nemici di nostra salute si sollevassero contro di noi, quantunque il demonio, il mondo e la carne cospirassero a perderci, noi non abbiamo che ad accostarci alla santa tavola per mangiarvi il pane dei forti, e riporteremo su di essi un’intera vittoria. Per superare le ribellioni della carne, noi non abbiamo che a prendere nel calice del Signore il vino che fortifica le Vergini; ebri di questo prezioso liquore, noi diverremo insensibili a tutte le attrattive del piacere, una rugiada salutare, che accompagna questa manna divina, estinguerà i fuochi della concupiscenza, ne reprimerà tutti i movimenti. Che potremo noi anche temere delle potenze infernali, cui diventiamo terribili uscendo dalla santa tavola, come leoni animati da un fuoco divino, dice il Crisostomo: Tanquam leones ignem spìrantes? facti diabolo terribiles? Il demonio vedendo, le nostre labbra bagnate del sangue di Gesù Cristo, è costretto a prender la fuga pel terrore che gl’ispira il segno che l’ha vinto ed incatenato: in questo modo l’Angelo sterminatore risparmiò le case degli Israeliti, perché erano esse tinte del sangue dell’Agnello Pasquale, figura dell’Eucaristia. Finalmente che potremo noi temere del mondo, che con le sue carezze e con le sue minace vorrebbe indurci a seguire il suo partito? Ah! da che gustate abbiamo le dolcezze della santa Eucaristia, tutte quelle del mondo ci divengono insipide, e si cangiano in amarezza. Troviamo la nostra felicità nel sostenere le sue più crudeli persecuzioni: testimoni i generosi martiri, che andavano a munirsi alla santa tavola del pane degli eletti, prima di salire sui palchi, dove sostener dovevano la gloria della Religione con l’effusione del loro sangue. Si è pel soccorso di questo divin frumento, che la Chiesa nascente ha trionfato di mille mostri, che l’inferno vomitava per divorarla nel suo nascere. Allora i fedeli, come nuove piante intorno della tavola del Signore, si nutrivano, si fortificavano, e si moltiplicavano, malgrado il fuoco delle più sanguinose persecuzioni: A fructu frumenti multiplicati sunt (Psal. IV). Tali erano, Fratelli miei, gli effetti meravigliosi che la divina Eucaristia produceva nei primi Cristiani: essa li conservava nel fervore di una nuova vita, e li sosteneva contro gli assalti dei loro nemici. Noi non saremmo, ohimè! sì spesso vinti dai nostri, se come essi avessimo la precauzione di mangiar sovente, e con le disposizioni necessarie il pane celeste della divina Eucaristia. Questo cibo prezioso non solamente conserverebbe in noi la vita della grazia, fortificandoci contro i nemici che possono farcela perdere; ma ancora accrescerebbe in noi questa grazia, e ci farebbe crescere di virtù in virtù, secondo le disposizioni che porteremmo per riceverla. – Il carattere proprio dei Sacramenti dei vivi è di accrescere la grazia nei soggetti che li ricevono. Il Sacramento dei nostri Altari essendo di questo numero, deve produrre questo effetto in coloro che vi si accostano con sante disposizioni; ma con questa avventurata differenza, che gli altri Sacramenti, non essendo che canali che fanno scorrere su di noi l’acqua salutare della grazia, e l’Eucaristia essendone la sorgente, non solamente un soggetto ben disposto può prendere un qualche grado di grazia, ma un’abbondanza, una pienezza di grazie, di cui l’anima è ripiena: Mens impletur gratia. Grazia che è per quest’anima un pegno sicuro, che essa è di già, per cosi dire, sin da questa vita mortale, in possesso della felicità eterna, come Gesù Cristo ne la assicura: Habet vitam æternam. Il che ha fatto dire a S. Agostino, e a S. Tommaso, che in questo Sacramento Dio ha rinchiuso un mezzo sicuro di predestinazione. Da ciò, Fratelli miei, qual felice conseguenza a tirare in favore di coloro che vi si accostano sovente? Ma qual funesto presagio di riprovazione per coloro che se ne allontanano! O voi che accesi siete dagli ardori di una sete mortale, che in voi eccitano le passioni, venite ad attingere in queste fontane del Salvatore quell’acqua salutevole che temprerà i vostri ardori; voi ancora che ardete della sete della giustizia, che desiderate ardentemente la vostra salute, venite a dissetarvi e prendere forze in questa cisterna, le cui acque zampillano sino alla vita eterna. Non solo voi crescerete in grazie, ma vi avanzerete ancora in virtù, ed in merito, mentre questa carne celeste dà un nuovo accrescimento a tutte’ le virtù cristiane; essa anima la fede; fortifica la speranza, perfeziona la carità. La santa Eucaristia anima ed accresce la fede; e per questa ragione si chiama mistero di fede: Mysterium fidei. Noi ne abbiamo una prova nei due discepoli d’Emmaus; sentivano per verità il loro cuore infiammarsi dai discorsi che Gesù Cristo loro teneva in istrada; ma non conobbero questo divino Maestro, che nella frazione del pane: sino allora l’avevan preso per uno straniero, e le loro nebbie non furono dissipate se non quando Gesù Cristo avendo benedetto e rotto il pane, loro ne diede: Cognoverunt eum in fractione panis (Luc. XXVII). Lo stesso accade ad un’anima che si accosta al sole di giustizia rinchiuso sotto i veli dell’Eucaristia; Egli l’illumina nella sua ignoranza, la rassicura nei suoi dubbi, dissipa le sue perplessità, le scopre le insidie dei nemici, e dirige i suoi passi nelle vie di una santa pace. O voi, che siete tentati di dubbi contro la fede che il demonio, lo spirito delle tenebre, suscita in voi per turbare la serenità della vostr’anima, ricorrete a chi può dissipare le vostre nebbie, ed assodarvi in una perfetta credenza a tutte le verità che vi sono rivelate, pregatelo di accrescere la vostra fede: Domine, adauge nobis fidem (Luc. XVII); e ben tosto le tenebre faran luogo alla luce: con la fede sentirete ancora rianimarsi la vostra speranza. Infatti che non deve aspettare un’anima fedele da un Dio che si dà tutto ad essa, che le dice nel suo entrare in essa, che è la sua salute: Salus tua ego sum? Che i suoi nemici, per sconcertarla le richieggano, come altre fiate chiedevasi al Re Profeta, ove è il tuo Dio? Ubi est Deus tuus (Psal. XLII)? Esso loro risponderà, che lo tiene, che lo possiede, che è in sua disposizione, che il tutto da Lui attende, essendo egli l’Autore di sua salute: salutare vultus mei, et Deus meus; risponderà quest’anima a coloro che vorranno contristarla, spaventarla, che il suo Dio è la sua luce, che è la sua forza, il suo protettore, ch’ella è in sicurezza sotto l’ombra delle sue ali: Dominus illuminatio mea, quem timebo (Psal. XXVI)? – Finalmente la carità si perfeziona, e diventa tutta ardente ed infocata dalla virtù di questo Sacramento di amore. Mentre qual è quel cuore, fosse ben egli il più insensibile, fosse il più freddo che il ghiaccio, più duro che il diamante: quale è quel cuore, se pure non vuol resistere alle impressioni del divino amore, che non si ammollisca, che non s’infiammi, che non si consumi all’accostarti a questo roveto ardente? Siccome il fuoco che si comunica al ferro, lo rende sì ardente, che non sembra più ferro, ma fuoco; allo stesso modo, dicono i Santi Padri, Gesù Cristo nell’Eucaristia riscalda talmente il cuore di chi lo riceve, che lo cangia per così dire in se stesso; per seguire questo paragone, diciamo, fratelli miei, che siccome il fuoco fa perdere al ferro la sua ruggine, così il fuoco Divino che si comunica all’anima nella santa Eucaristia, la purifica dalle sue macchie, la rende pura, e netta dalle sozzure, ch’ella ha contratte pel peccato. Si è in questo senso, che dire si può, che questa carne celeste, la quale serve di cibo all’anima, le serve nello stesso tempo di rimedio per guarire le sue ferite e le sue infermità . Ed in vero, se gli ammalati, che si accostavano a Gesù Cristo, ricevevano la guarigione per la virtù che usciva da quest’uomo Dio, se il semplice tocco delle sue vesti fu capace di rendere la sanità ad una donna da lungo tempo assalita da una perdita di sangue, qual salutevoli effetti non deve produrre in un’anima la presenza reale di Gesù Cristo? Non ne dubitate, Fratelli miei; lo stesso Salvatore che ha guarito i leprosi, che ha renduta la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, il moto ai paralitici, ha lo stesso potere, e la stessa bontà per voi, che aveva per coloro che a Lui si accostavano durante la sua vita mortale. – Vi resta forse ancora qualche pena temporale ad espiare? Questo Sacramento ve la rimetterà, e finirà di purificarvi. La vostr’anima si è ella renduta difforme agli occhi del suo casto sposo per li mancamenti quotidiani, in cui i più giusti stessi cadono talvolta? Questo celeste antidoto ve ne guarirà, e renderà alla vostr’anima la sua primiera bellezza in quella guisa che il carbone ardente purificò le labbra del Profeta, questo fuoco divino vi netterà di tutte le vostre sozzure, di tutti i vostri mancamenti i più leggieri. Si è in questo senso che la Chiesa ci assicura nel santo Concilio di Trento, che questo Sacramento opera la remissione dei peccati: antidotum quo liberamur a culpis quotidianis. – Siete voi involti nelle tenebre dell’ignoranza, che v’impediscono di conoscere il male che dovete fuggire, ed il bene che praticar dovete, i nemici che dovete combattere, e i doveri che dovete adempiere? Voi avete in questo Sacramento di luce lo stesso Gesù Cristo che rese la vista ai ciechi, e che v’illuminerà su tutto ciò che dovete fare. Siete voi oppressi da una languidezza mortale che vi da della ripugnanza per le cose di Dio, che vi rende il giogo del Signore più pesante, che non lo è in realtà? Mangiate questo pane che fa le delizie dei Re, voi vi troverete lo stesso Gesù Cristo che ha guarito i paralitici, e che vi darà dell’agilità, che diletterà il vostro cuore per correre nella via dei suoi comandamenti: le vostre nausee si cambieranno in soavità; voi porterete non solo senza fatica, ma con una santa allegrezza l’amabile giogo del Signore. Interrogate quelle anime sante, cui Gesù Cristo comunica l’unzione della sua grazia; esse vi diranno che, da poi che hanno avuta la bella sorte di partecipare ai santi misteri, la virtù dei Sacramenti raddolcisce tutte le loro amarezze, e le innalza al di sopra di esse medesime, per eseguire con piacere tutto ciò che sembra di più difficile nel servigio di Dio: Gustate, et videte, quoniam suavis est Dominus (Psal. XXXIII). Gustate, e sperimentate voi medesimi queste dolcezze, e facilmente ne sarete persuasi. Se un pane cotto sotto la cenere diede forza bastante al Profeta Elia per continuare il suo viaggio sino al monte Oreb, qual forza non riceverete voi da questo pane celeste per continuare il gran viaggio che vi resta a fare verso l’eternità? Mangiatelo dunque, mentre avete ancora molto di strada: Grandis tibi restat via (3 Reg. X). Voi troverete in questo divin pane di che terminare tutta la vostra carriera. – Perché dunque, Fratelli miei, siamo noi sì deboli, sì vacillanti nelle vie della salute con un sì potente soccorso? Perché tanta ripugnanza al servigio del nostro Dio? Perché ancora ve ne sono tanti tra voi, che son oppressi da infermità spirituali, che sono nel triste stato della morte del peccato? Inter vos multi infirmi, et imbecilles et dormiunt multi (1. Cor. XI). Queste disgrazie non provengono, che dalla negligenza ad accostarsi alla santa tavola, o dalle cattive disposizioni che si recano per mangiarvi il pane che ci viene in essa presentato. La manna, che gl’Israeliti mangiarono nel diserto, non gl’impedì di morire; ma chi mangia il pane dell’Eucaristia, vivrà eternamente, dice Gesù Cristo: non è dunque per colpa di questo pane, se moriamo, o se siamo infermi; è per colpa delle disposizioni che recar dobbiamo a riceverlo. Preparatevi dunque, Fratelli miei, preparatevi come si conviene, a profittare di un Sacramento sì augusto, e sì salutevole, in cui Gesù Cristo vi si dà in una maniera sì intima per essere vostro cibo, vostro rimedio, vostra vita, vostra salute eterna.

Pratiche: In che consiste il prepararsi ad una santa Comunione? ‘Eccovi alcune pratiche che vi propongo col finir del discorso riserbandomi di trattarle più a lungo in un altro. 1° – La principale e la più essenziale si è la purità di anima, che consiste nell’esser esente per lo meno da ogni peccato mortale, per non comunicarsi indegnamente, e da ogni peccato veniale per ricevere più di grazie dalla Comunione. Questa manna celeste non deve essere mangiata che dai figliuoli di promissione: non conviene di ammettervi quelli della schiava; mentre il figliuolo della schiava, dice S. Paolo, non deve aver parte all’eredità col figliuolo della libera: Non hæres filius ancillæ cum filio liberæ (Gal. IV). Così per partecipare al dono per eccellenza del testamento di Gesù Cristo, che è la santa Eucaristia, bisogna godere della libertà dei figliuoli di Dio, che Gesù Cristo ci ha meritata; e per questo bisogna avere scosso il giogo del peccato e delle sue passioni: Qua libertate Chrìstus nos liberavit (Ibid.) – Se voi non siete ancora liberati dalla schiavitù dei vostri cattivi abiti, come vi ho esortati sin dal principio della Quaresima, non differite di più a correggervene. Bisogna principalmente aver lasciata l’occasione del peccato, allontanando da voi quelle che sono in casa vostra, ejice ancillam, ed allontanandovi da quelle che sono al di fuori: giammai non sarete ammessi ai santi misteri con l’abito e l’occasione del peccato . 2°- Pieni di stima e di amore per la santa Comunione, non trascurate cosa alcuna per procurarvi i preziosi vantaggi che essa rinchiude; a quest’effetto non aspettate di confessarvi il giorno in cui dovete comunicarvi; egli è bene che siavi un intervallo tra la Confessione e la Comunione; e non conviene accostarsi alla santa tavola con un cuore ancora tutto fumante del fuoco che le passioni vi hanno acceso, come fanno certi peccatori, che uscendo dal tribunale vi si vanno a presentare. 3° – In questo intervallo dalla Confessione alla Comunione, leggete o fatevi leggere qualche libro di pietà che tratti di questa materia; fate qualche visita a Gesù Cristo, sopra tutto la vigilia della vostra Comunione, per pregarlo di preparare dentro di voi medesimi una dimora, degna di Lui: si può in queste visite fare gli atti avanti la Comunione. 4° – Il giorno della vostra Comunione non siate occupati che della grande azione che andate a fare; pregate il vostro buon Angelo di aiutarvi in un affare così importante, e di accompagnarvi alla santa tavola. Siate fedeli a queste pratiche, Fratelli miei, e la Comunione sarà per voi il germe della fortunata eternità; io ve la desidero. Così sia.

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

Ultimo Evangelio e preci leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (104)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIV.

Testimonianza che rendono i bruti a Dio colla loro stupenda propagazione.

I . Chi già negò negli animali ogni moto, non mentì sì bruttamente ai sensi, come bruttamente mentisce alla ragione chi neghi in detti animali il primo Motore immobile, qual è Dio. Voi avete già diveduto, quanto Egli vi operi negli strumenti e negli istinti che loro porge a conservazion de’ propri individui. Rimane ora a dire quello che vi operi a conservazion delle spezie. Conciossiachè, se un artefice sommo ha da compartire le cure sue con saviezza, non può dubitarsi, che dopo aver lui rimirato sì attentamente al ben di ciascuno, non rimiri più al ben di tutti.

I.

II. Primieramente non è meraviglia grande, che in sessanta secoli da che i bruti apparvero al mondo, non si sia di loro perduta pure una razza, massimamente se noi consideriamo, che alcune di queste sono perseguitate con tante insidie dagli uomini in aria e in acqua, ed altre con tanta forza nelle boscaglie? Come potea mantenersi in piedi sì lungamente quest’alta guerra che gli animali del continuo ricevono da chi può tanto più di loro, se quel gran fabbro, che dapprincipio lavorò ciascuna natura, non si fosse pigliato insieme l’assunto di conservarla, concedendo una virtù prodigiosa di propagarsi a quelle spezie più particolarmente , che più correvan pericolo di perire? Le lepri, chei forse le più innocenti fra tante bestie, hanno per loro mala ventura l’essere nondimeno le più ricercate a morte, son sì feconde, che generano in ogni mese felicemente; e congiungendo con unione mirabile frutti e fiori, stan preparando nell’utero nuovi parti, mentre allattano i parti usciti alla luce: tanto che non più che una piccola lepre gravida, la quale fu casualmente introdotta in una isoletta del mare icario, tra pochi anni vi dilatò in tanti rami la sua prosapia, che divorate tutte le biade, ridusse gli abitanti di quel paese a penuria somma. Andiamo a parte a parte considerando questa special provvidenza della natura, sì avanti che i bruti nascano, sì di poi.

II.

III. Fra tutti quegli, in cui non solo a generare la prole, ma ad educarla, fa di mestieri che si accordino insieme il maschio e la femmina, passa quasi una specie di matrimonio. Così avvien tra gli uccelli, i quali, essendo tutti privi di latte, hanno a sostentare le covate loro, per altro numerosissime, di rapina o di ruberia; e però ripartitasi la fatica, mentre uno restasi a custodirle nel nido ed a fomentarle, l’altro va alla busca di cibo. E quello che è più mirabile, mantengono con tanto di lealtà quella fede datasi, che non si scorge, che la rompano mai; rinfacciando in tal modo all’uomo i suoi gran disordini, sconosciuti ancora fra i bruti. Negli animali provveduti di latte, come sono tutti li quadrupedi, l’accoppiamento è vario e vagante, perché basta la femmina ad allevare la prole nata. Vero è, che in questi medesimi appaiono le passioni più regolate che tra noi stessi: non si accendendo nei più di loro la brama di propagarsi, se non in un tempo determinato dell’anno, oltre a cui tutti i maschi sogliono e sanno conversare poi tra le femmine con modestia. Chi girerà gli occhi sopra gli eccessi che la sfrenatezza degli uomini in questo genere fa vedere di tutte l’ore, e gli porrà al paragone dell’ordine inviolato con cui gli animali tengono in briglia la maggior parte dell’anno quella concupiscenza medesima che tra noi, rotto ogni freno, trascorre tanto; come non saprà ravvisare anche i n questo la bella scorta che a’ bruti fa la natura, sempre a sé somigliante nell’amar legge?

IV. Dopo la concezion della prole facea d’uopo pensare al suo nascimento. E perché  gli uccelli, come abitatori dell’aria, non doveano gravarsi di troppo peso, convenne, che per la loro gravidanza si fabbricassero un nido, ove riposasser con agio, ove depositassero l’uova, ove le scaldassero, ove le schiudessero, ed ove poscia allevassero ciò che nacque. In questa fabbrica sono meravigliose la struttura e la simmetria corrispondenti alla varietà del disegno. Scelgono il sito che pare loro più sicuro, o nelle siepi più intralciate, o negli scogli più inospiti, e non contenti della sicurezza natia che provien dal posto, si fortificano di vantaggio. Però, come la volpe difende il suo covile da’ lupi con l’erba squilla, da’ lupi abborrita in estremo; così la rondinella il difende da certi vermini con le foglie dell’apio, e così le cicogne il difendono da’ serpenti con la pietra detta lienite. Stupendo è poscia l’istesso nido a mirarsi nella sua fabbrica. La parte esteriore e quivi sempre più rozza, per darle forza, ed è fornita o di spine, o di sarmenti o di fango; e la parte interiore è più molle, o di fieno, o di muschio, o di lanugini, o di lane, o di piume, sì per fomento, e sì per quiete più agiata de’ figlioletti; ciò che dispongono i padri con tanta regola, e intessono con tant’arte che ben dimostrano di essere in tutto guidati da mano occulta, la quale non soggiace ad abbaglio. I nidi dell’alcione sono bastevoli a fare trasecolare di meraviglia; tanto egli, ponendoli giusta al mare, sa poi formarli impenetrabili all’onde.

III.

V. Nati che sieno i parti, chi può spiegare l’amore con cui gli allevano, e l’attenzione con cui gli ammaestrano, secondo i loro vari stati? Lo scimmie, domestiche per le case, sono tanto impazzate de’ lor figliuoli, che vanno incontro a chi entra, e glieli porgono a divedere, come la più bella cosa del mondo. La donnola, per gelosia che non le sieno rubati li trasporta più volte il giorno, or di qua or di là, tanto che sembra ch’ella abbiali sempre in bocca. Il Castore è della prole sì tenero, che essendo una volta chiuso lontan da essa, per ricercarla, rose co’ denti l’uscio del suo serraglio, e fattasi larga strada, si gettò da un luogo altissimo in precipizio dietro di lei. Né un tale affetto è proprio solamente di qualche specie: è comune a tutte; anzi le più fiere ne sono più dominate; sgorgandone quivi una vena più copiosa, dove sembra più duro il sasso. Il leone mai non combatte più intrepido, che quando abbia a difendere i suoi leoncelli. Allora sì che egli non fa caso nè di lance, ne di strali, nè di saette, nè delle ferite medesime che in sé miri, lasciando prima la vita, che la tutela di que’ teneri parti. La balena, ad ogni improvviso pericolo, li nasconde dentro di sé tenendoli nelle fauci, come nell’intimo di una rocca ben fortificata da orribile dentatura; e passato il rischio, li torna lieta a rivomitare nell’acque, quasi partorendoli nuovamente alla vita. La tigre, tanto efferata, che ha dato in presto il suo nome alla crudeltà, è nondimeno sì smaniante ancor ella de’ suoi tigretti, che una volta fu veduta in Bengala correre su le spiaggie ben trenta miglia dietro una nave, che costeggiando a vele piene per l’alto, glieli portava via senza remissione su gli occhi di lei medesima.

VI. Questo amore poi è ne’ bruti la ruota maestra di tanta macchina. Conciossiachè questo li fa arditi, benché non sieno. Il rosignuolo, per difendere il nido, non teme di azzuffarsi in fin colla vipera; e così imbelle com’egli è, col rostro, con l’ale, confida di lacerarla, se tanto gli riesca, o di porla in fuga. Questo li fa ingegnosi. I ladroni nell’indie, andando alla ruba, si vagliono più volentieri di quei cammelli cha tuttavia danno il latte. Imperocché questi, condotti ancora di notte in lontan paese, e mal segnato di vie, non solamente sanno poi rinvenire la strada da ritornare alla mandra, ma raddoppiano il passo per ritrovarvisi tanto più tostamente. Questo li fa prudenti. Il rinoceronte, per quanto sia provocato, sopporta pazientemente, insino a tanto ch’egli abbia posta in sicuro la prole amata: e dipoi si rivolge con tal furore, che getta a terra gli alberi, i quali incontra, e gli svelle fin dalle barbe. Questo gli fa giusti distributori dell’alimento (Jac. Bontius 1. 5. hist. nat. et med. c. 1). La rondinella comincia dall’imboccar quel figliuoletto che è nato il primo, e va in giro di mano in mano assegnando a ciascuno di loro con meravigliosa equità la porzion dovuta; grande esempio a que’ padri troppo parziali, che, per lasciare un figliuolo più benestante dell’altro, cambiano bene spesso l’eredità in un pomo venefico di discordia. Questo li fa costanti fino all’estremo. Il delfino, ove sia dato nelle reti uno de’ suoi parti, lo segue mesto, né sa staccarsene a forza di verun colpo, finché preso anch’egli non corra con esso lui la ventura stessa, o di liberazione o di morte. Così fin alla morte pur amali il pellicano, che giunge ad abbruciarsi per ismorzare le fiamme avventate al nido. E così fin alla morte pur amali la cicogna, che in caso d’incendio simile fu veduta volare al fiume e bagnarsi tutta, tornando poi per sopraffare con quell’acque le vampe; nè desisté dalla malagevole impresa finché non andò col nido ancor ella in cenere (Alber. Magn. v. Ciconia).

VII. E perché questo amore fu dato a’ bruti per educare la prole, non dura più che quanto dura il bisogno dell’educarla; che però poi non si riconoscono più (dirò così) per parenti ma si disgiungono: sicché quell’agnellino che sa ravvisare la madre in uno stuolo di tante pecorelle simili a lei, spoppato ch’egli si sia, la confonde in uno con l’altre quasi straniera. Parimente quelle cagnuole che prima disfacevano se medesime, essendo madri, per porgere l’alimento a’ lor catellini; cresciuti che questi sieno, giungono con essi a combattere per privarli fin di quell’osso che loro scorgono in bocca: tanto è rimasto estinto in esse un amore già sì cocente; mercecchè ora non è più questo necessario a quel fine per cui dianzi lo avevano ricevuto dalla natura, la quale diversificando, come è dovere, i bruti dagli uomini, ha pretesa in questi una educazione perpetua (tanto sono essi capaci di approfittarsi), in quegli una breve (Oltre al divario qui accennato dall’autore tra l’educazione dei bruti e quella dell’uomo, è a notarsi quest’altro, che l’uomo solo può altresì darsi a se medesimo l’educazione, perché dotato di intelligenza e di libera volontà, mentre un bruto, incalzato da cieco ed insuperabile istinto, non ha virtù di educare se stesso.).

IV.

VIII. Frattanto questa numerosa repubblica di animali, così ben governata in ciò che appartiene e al mantenimento di ciascuno individuo, e alla conservazione di ciascuna spezie, rende da tutti i lati dell’universo una testimonianza incessabile e incontrastabile alla esistenza divina. E la forza di tale testimonianza consiste in ciò che fu già notato più volte. Da un lato noi veggiam che tutte le bestie camminano al lor fine tanto ordinatamente, che, se usassero di ragione non potrebbero andarvi a passi più giusti. Dall’altro lato non conoscono il fine, ma operano in virtù puramente di quell’istinto che fu loro impresso nel cuore. (S. Th. contra gent. l. 3. c. 44). Adunque vi ha un Artefice superiore, il qual conoscendo questo fine per esse, imprime in esse parimente l’istinto da conseguirlo.

IX. Che poi le bestie di verità non conoscano questo fine, ma che vi vadano bensì, ma alla cieca, come va la palla scoccata da pratico balestriere a ferire il bianco, è manifestissimo. Conciossiachè, se operassero queste di ragion propria, non sarebbero tutte così uniformi nelle lor opere; ma come ogni pittore tra noi ha la sua maniera diversa di disegnar le figure, e di colorirle, perché quantunque vi adoperi gli stessi pennelli, le stesse tele, e l’istesse tinte degli altri, riguarda nondimeno l’idea diversa che egli ne concepì nella fantasìa; così le bestie in ciascuna razza sarebbono tra sé varie ne’ loro affetti, e ne’ loro affari, se non fosser guidate, ma si guidassero, come noi di capriccio. Oltre a ciò, men bene opererebbero le prime volte, che l’ultime mentre veggiamo, che sempre si perfezionano con l’esperienza quelle arti le quali sono apprese da noi per via di discorso. E pure la prima volta che la rondinella piglia a fabbricare il suo nido, lo fa sì bene, come la volta seguente. Non v’ha differenza tra quella tela che i ragni tessono appena nati, e quella che essi tessono già decrepiti: né i novelli sciami delle api sono meno esperti a riconoscere i fiori più delicati, a suggerne il miele, a fondere le cere, a formar le celle, a fare ogni lor lavoro nell’alveare, di quello che a ciò sieno gli sciami antichi.

X. Che più? Sappiamo che i bruti, ammaestrati dall’uomo, operano regolatamente molte azioni di cui al certo non intendono l’arte, perché non fu loro data per via di regole, ma per via di carezze e di bacchettate, alternate in tempo. I teatri moderni di Firenze, col ballo che introdussero dei cavalli, possono fare invidia ai teatri antichi di Roma. E pure quantunque si muovano quelle bestie in sì bell’ordine, e s’intreccino, e posino, e passeggino, e saltino tutte a un’ora, come se fossero tante ninfe danzanti, non è già, che intendano l’armonia di quel suono, o che capiscano la proporzion di que’ passi, o che conoscano il fine di quella festa (indirizzata al trattenimento di qualche ospite regio di una tal corte, manierosa al pari e magnifica in onorarli), mercecchè l’idea di quell’opera artificiale, non è nei cavalli stessi, è nel cavallerizzo, è negli scozzonatori, è ne’ sonatori, è negli uomini, i quali loro impressero nelle stalle con gran fatica la volontà di que’ moti che con tanto applauso da loro poi conseguiscono su la scena. E similmente l’idea di quelle opere naturali, assai più mirabili, che fan da sé tanti bruti senza maestro, non è ne’ bruti medesimi, è nel primo artefice Dio, il quale, avendo negata loro la ragione, si sta in vece di essa ne’ loro petti per governarli, disponendo lo spezie della loro fantasia di tal guisa, che secondo il bisogno apprendano come conveniente o come nocivo ciò che è amico o contrario alla loro conservazione. E questa disposizione di spezie è quella che da noi vien chiamata istinto (L’istinto dei bruti accoppia in sé  due caratteri, che sembrano contradditori : esso è cieco nelle sue movenze, infallibile nel suo scopo. Ma la contraddizione): ed in riguardo ai beni, in cui risiede, infallibile rispetto a Dio, da cui proviene come da sua ragion creativa. Negato Dio, e l’istinto rimane inesplicabile): ed in   quanto ella è mezzo ad operare con arte, è una piccola partecipazione dell’arte immensa, la quale risiede in Dio; ed in quanto è mezzo a conservarsi con prò, è una piccola partecipazione dell’infinita sua provvidenza. Sicché i bruti ancor essi, da qualunque banda li riguardate, manifestano la sapienza del loro artefice: a guisa di una statua condotta perfettamente, che da qualunque sito la rimiriate da alto o da basso, in prospettiva o in profilo, in faccia o alle spalle, sotto qualunque aspetto vi soddisfa pienamente, e rende autorevole testimonianza di lode intera al nome del suo maestro.

SALMI BIBLICI: “DILEXI, QUONIAM EXAUDIET DOMINUS” (CXIV)

SALMO 114: “DILEXI, QUONIAM EXAUDIET DOMINUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 114

Alleluja. 

[1] Dilexi, quoniam exaudiet Dominus

vocem orationis meæ.

[2] Quia inclinavit aurem suam mihi, et in diebus meis invocabo.

[3] Circumdederunt me dolores mortis; et pericula inferni invenerunt me. Tribulationem et dolorem inveni,

[4] et nomen Domini invocavi: o Domine, libera animam meam.

[5] Misericors Dominus et justus, et Deus noster miseretur.

[6] Custodiens parvulos Dominus; humiliatus sum, et liberavit me.

[7] Convertere, anima mea, in requiem tuam, quia Dominus benefecit tibi;

[8] quia eripuit animam meam de morte, oculos meos a lacrimis, pedes meos a lapsu.

[9] Placebo Domino in regione vivorum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXIV.

Preghiera dell’uomo, che geme sotto le tentazioni ed i pericoli, e sospira la vita eterna.

Alleluja: Lodate Dio.

1. Ho amato, perché esaudirà il Signore la voce della mia orazione.

2. Perocché egli le sue orecchie inchinò a udirmi; ed io nei miei giorni lo invocherò.

3. Mi circondarono dolori di morte: pericoli di inferno m’investirono.

4. Trovai tribolazione e affanno; e il nome del Signore invocai.

5. Libera, o Signore, l’anima mia; il Signore è misericordioso e giusto, e il nostro è benigno.

6. Il Signore custodisce i piccolini; fui umiliato, ed egli mi liberò.

7. Torna, o anima mia, nella tua requie perocché il Signore ti ha fatto del bene.

8. Imperocché egli ha sottratta l’anima alla morte, gli occhi miei alle lacrime, i piedi alle cadute.

9. Sarò accetto al Signore nella regione dei viventi.

Sommario analitico

Questo salmo è un cantico di azioni di grazie che sembra appartenere agli ultimi tempi della cattività, quando cominciava a delinearsi l’aurora della liberazione. Questa cantico è più ancora il cantico dell’anima fedele dell’umanità intera che esce interamente sia dai legami del peccato per il primo avvento del Salvatore, sia soprattutto dall’esilio di questa vita per il secondo avvento. [Questo salmo è in ebraico il CXVI; ma siccome nella Vulgata è diviso in due, i numeri non differiscono che per metà, a partire dal versetto che forma la divisione (10, “credidi…”)].

Il Salmista esprime:

I. – La costanza del suo amore per Dio:

1° perché spera che Dio esaudisca la sua preghiera (1),

2° Perché è certo che dio lo ha esaudito sovente per il passato (2);

3° Perché ha il desiderio e l’intenzione di pregare frequentemente per l’avvenire (2).

II. –La grandezza della sua afflizione:

  Intorno a sé vede i suoi nemici che gli fanno vedere la morte in faccia (3);

2° Dentro di sé a) vede degli abissi minacciosi (3); b) prova un profondo sentimento di tristezza e di dolore (4);

3° Sopra di sé mette la sua fiducia in Dio che egli invoca e che è a) misericordioso (3), b) giusto (5), c) guardiano e protettore dei piccoli (6), d) salvatore di coloro che sono umiliati.

III.- La sicurezza del riposo a venire:

1° L’anima si riposerà a) ricca di doni di Dio (7), b) affrancata dalla morte, dalle lacrime e da ogni caduta (8);

2° L’uomo tutto intero sarà gradito a Dio nella eterna regione dei viventi (9). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-2.

ff. 1, 2. – Nel salmo precedente, Davide ha trattato dell’esperienza dei figli di Israele e di tutti coloro che temono Dio (v. 17), speranza eccitata dai numerosi benefici di Dio. Nel salmo seguente ci sarà la questione della fede « … io ho creduto, etc. » Questo salmo ha come oggetto la carità, che egli pone al centro come una regina che tutta in una volta è nutrita e sostenuta dalla speranza della fede, e nello stesso tempo proietta su queste due virtù un nuovo splendore. Tuttavia S. Agostino ed altri interpreti trovano le tre virtù teologali in questo salmo. La carità, di cui è fatta espressa menzione: « io, ho amato »; la speranza, di cui i parla chiaramente: « Dio esaudirà la mia preghiera; » infine, la fede, alla quale vien fatta allusione in maniera più oscura; « perché Egli ha abbassato il suo orecchio verso di me. » Come potete voi sapere, o anima umana, chiede S. Agostino, che Dio ha abbassato l’orecchio verso di voi, se non dite dapprima « io ho creduto? » Queste tre virtù restano dunque: la fede, la speranza e la carità. « Perché voi avete creduto, avete sperato; poiché avete sperato, avete amato. » Il salmista non dice: io amerò, ma « io ho amato. » Egli non promette di obbedire a questo precetto dell’amore di Dio, ma dichiara, attesta che egli lo ha già compiuto (S. Gerolamo). Un’anima infervorata di un amore ardente per Dio, dice semplicemente che essa ha amato, senza esprimere che essa ama. – Io ho amato, dice il salmista; io non credo si possa fraintendere l’oggetto del suo amore: è Dio solo, , senza che sia necessario nominarlo. Quanta verità, forza e dolcezza in questo sentimento! (Berthier). – « L’amore di Dio non si insegna. » Non si apprende a godere della luce, a desiderare la vita, ad amare i genitori; a maggior ragione l’amore di Dio è radicato nell’anima nostra; non si tratta che di svilupparlo con lo studio dei divini comandamenti (S. Basil. Reg. fus. tract.). – Ma chi è colui, mi direte, il cui cuore non si apra all’affezione quando è esaudito? La maggior parte degli uomini del mondo. Essi non vogliono intendere parlare di ciò che è loro utile e vantaggioso, essi chiedono delle cose che non possono che essere loro nocive, e se i loro voti non sono subito esauditi, essi sono nella tristezza e nello sconforto. Non è da tutti quindi indifferentemente rallegrarsi quando Dio li esaudisce accordando ciò che debba essere utile. C’è un gran numero di uomini che desiderano dei beni inutili di cui si compiacciono. La condotta del Profeta, è invece opposta: egli ama, perché Dio lo aveva esaudito accordandogli dei beni di una utilità incontestabile. (S. Chrys.). –  La carità considera Dio in se stesso, essa ama per se stessa; tuttavia essa è aiutata, sostenuta dai suoi benefici come dalle tante vie che la conducono fino a Dio. Essa risale fino alla fonte dai ruscelli; è con i suoi raggi che il sole ci fa vedere che ci riscalda. – È per la ragione del nostro amore per il Signore che Egli ascolterà la voce della nostra preghiera? Non l’amiamo piuttosto perché Egli ci ha già ascoltato? Che significano dunque queste parole: « Io ho amato il Signore, perché mi ascolterà? Non sarebbe perché per la speranza che infiamma d’ordinario l’amore, che il Profeta avrebbe detto che egli ha amato il Signore, perché era pieno della speranza che il Signore ascoltasse la voce della sua preghiera? (S. Agost.). – Questi giorni, sono i giorni di quaggiù, brevi e malvagi (Gen. XLVII, 9), giorni pieni di dolori e di angosce, in cui l’uomo è lordato da parecchi peccati, impegnato da numerose passioni, agitato da mille timori, afflitto da mille cure, condotto qua e là dalla curiosità, sedotto da una folla di chimere, circondato da errori, oberato di lavori, travolto dalle tentazioni, indebolito dalle delizie, tormenta dalla povertà (Imit. De J.-C., 1, IV, c. XLVIII). – « Invocherò il Signore durante i miei giorni. » E non differisce nel tempo della morte, nei tempi della vecchiaia; egli non dice: quando avrò regolato questo o quell’affare, quando avrò provveduto a stabilizzare la mia famiglia, quando mi sarò liberato da tutti i nemici che mi perseguitano, allora io consacrerò ciò che resta dei miei giorni al servizio del Signore; egli dice: « Io lo invocherò durante i miei giorni » C’è un tempo nella vita che non sia del numero dei nostri giorni, o piuttosto che non componga i nostri giorni? (Berthier). – Invocare Dio in certi giorni e non tutti i giorni della vita, è il segno di un’anima dominata dalla tiepidezza e non dalla speranza. Ricevete ogni giorno, invocate tutti i giorni (S. Ambr.).

II. — 3-6.

ff. 3, 4. – Il salmista spiega ora quel che costituisce la materia della sua preghiera: le tentazioni ed i pericoli della salvezza eterna, sole tribolazioni sensibili per un’anima che ama veramente il Signore. – Maledetti che siamo, sorte deplorevole la nostra, il peccato non cessa di cercarci! Ora, se il peccato ci insegue sempre, cerchiamo di fuggirlo e di evitarlo. Ecco in cosa i dolori della morte differiscono dai pericoli dell’inferno: i dolori della morte circondano l’anima quando pensa al male e desidera commetterlo, questi sono i dolori del parto; quando essa partorisce il peccato, è vicina ai dolori della morte. (S. Girol.). – In questa vita, i dolori della morte ci circondano, ma i pericoli dell’inferno ci trovano solamente, senza circondarci, perché non abbiamo mezzi di sfuggirvi. Quando essi circondano realmente un peccatore, non è più possibile evitarli; è un labirinto inesplicabile, perché non c’è redenzione negli inferi. – « Io ho trovato la tribolazione ed il dolore. » Questo è qualcosa di nuovo. Il Profeta non dice: Io ho trovato il riposo, ho trovato la soddisfazione, l’appagamento dei miei desideri; egli non dice qui: « la tribolazione, il dolore mi hanno trovato, » ma « Io ho trovato la tribolazione ed il dolore. » Egli l’ha trovato come oggetto delle sue ricerche, perché si trova ordinariamente ciò che si cerca. I santi non cercano quaggiù il riposo, ma la tribolazione; perché essi sanno che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza la prova, la prova la speranza. E la speranza non confonde (S. Girol.) – « Io ho trovato la tribolazione ed il dolore. » Dopo aver fatto prova di coraggio e di fermezza perseverante contro gli attacchi del tentatore, volendo mostrare la grandezza del suo amore per Dio, io ho aggiunto afflizione all’afflizione, dolore a dolore, ma io ho potuto superare queste prove non con le mie forze, ma perché ho riposto la mia fiducia nel nome del Signore che ho invocato. È ciò che diceva l’Apostolo: « Tra tutti questi mali, trionfiamo per virtù di Colui che ci ha amati. » (Rom. VIII, 37). Colui che non è abbattuto dalle prove ordinarie della vita, resta vincitore di queste prove; ma egli è ben più vincitore se affronta volontariamente i dolori per mostrare fin dove si spinge la sua pazienza ed il suo coraggio: egli si leva al di sopra di essi, come glorioso trionfatore (S. Basil. In Psalm. CXIV). – « Io ho trovato il dolore e l’afflizione, ed ho invocato il nome di dio. » Badate a questo modo di parlare: « Io ho trovato l’afflizione ed il dolore, » infine io l’ho trovato questa afflizione fruttuosa, questo dolore medicinale della penitenza. Lo stesso salmista ha detto in un altro salmo che « le pene e le angosce, hanno saputo trovarlo. » In effetti, mille dolori, mille afflizioni ci perseguitano senza sosta e, come dice il salmista, le angosce ci trovano facilmente. Ma ora, dice questo santo profeta, ho trovato infine il dolore che ben meritava che io lo cercassi. È il dolore di un cuore contrito e di un’anima afflitta dai suoi peccati; io l’ho trovato questo dolore, ed ho invocato il nome di Dio. Io mi sono afflitto per i miei crimini, e mi sono convertito a Colui che li cancella; i miei segreti hanno fatto la mia felicità, ed i rimorsi della mia coscienza mi hanno dato la pace. (Bossuet, Sur l’amour des plais.). – Noi dobbiamo cercare  la tribolazione: 1° perché ci libera dai dolori della morte; 2° perché allontana da noi i pericoli dell’inferno; 3° perché dà alla nostra anima una forza della quale la prosperità la spoglia sovente; 4° perché essa è come uno scudo che ricaccia da tutti i colpi del nemico. Gesù-Cristo non ci dà la sua croce da portare se non per proteggerci; (S. BERN., Serm. I de S. Andr.) 5° perché essa spegne in noi i vizi, o almeno li comprime e li riduce all’impotenza; 6° perché essa dà alle virtù tutto il loro splendore: « La virtù è perfezionata nella infermità » (II Cor. XII, 9); 7° perché essa ci conduce ad andare verso Dio: « Io li attirerò con i lacci che catturano gli uomini » (Osea, XI, 4); cioè con i dolori e le afflizioni che sono i doni del mio amore per gli uomini (S. Chrys.., in Ps. IX); 8° perché la tribolazione ci merita e ci ottiene la corona di gloria: Egli ti circonderà di tribolazioni » (Isai. XXII, 18); cosa che faceva dire a San Paolo: « io mi glorificherò volentieri delle mie infermità » (II. Cor. XII, 9), « perché le tribolazioni sono il dono più prezioso che Dio possa fare ai suoi amici, sono pietre preziose che Egli dà a coloro che hanno lasciato tutto per amor suo: « potete voi bere il calice che Io berrò? » dice ai suoi discepoli diletti (Marc. X, 29). – « Signore, liberate la mia anima. » Vedete la saggezza del Re-Profeta come sacrifica tutti gli interessi di questa vita per non chiedere che una sola cosa, che la sua anima non commetta alcun peccato, alcun danno che possa divenire mortale. In effetti, se la nostra anima va bene, saremo necessariamente felici in tutte le nostra azioni; ma se essa soffre, non speriamo nulla dalla prosperità che può circondarci (S. Chrys.). – Preghiera poco familiare agli uomini di poca fede: essi chiedono di essere liberati dalle loro malattie, dalle loro disgrazie domestiche, dalla persecuzione dei loro nemici, ma le miserie della propria anima li interessano poco. « Essi vogliono, dice S. Agostino, che tutto ciò che appartiene loro, sia buono, e si inquietano poco che la loro anima sia cattiva. Cosa ha fatto dunque quest’anima per essere esentata dal desiderio generale che le porte a non legarsi che a ciò che è buono? Come non arrossire di essere la sola cattiva in mezzo a tante buone cose che essi possiedono? » (Berthier). 

ff. 5. – « Il Signore è misericordioso e giusto, » vedete come il Profeta ci insegna a tenerci ugualmente lontani dal disperare e dal rilassamento. Non disperate, ci dice, perché Dio è misericordioso; guardatevi da ogni negligenza, perché Egli è giusto (S. Chrys.). –  Aprite le orecchie, peccatori: « Il Signore è misericordioso, ma guardatevi da ogni negligenza, perché il salmista aggiunge: « ma Egli è giusto … » Ma direte voi, se vengo a soppesare i miei peccati, posso sperare tanti bene come quelli che fo  ha da tenere di male? I miei peccati sono per me un fardello pesante, ma la misericordia di Dio ne trionfa. Così il salmista non dice che una volta: il Signore è giusto, mentre dice per due volte: ed il Signore è portato a far grazia (S. Gerol.). – La compassione è un sentimento che proviamo per coloro che sono caduti in un infortunio estremo. Così noi abbiamo pietà per colui che, dopo aver posseduto grandi ricchezze, è ridotto ad una indigenza assoluta; tutti compassioniamo colui che, ad una salute florida e perfetta, si vede succedere uno stato costante di malattia e di infermità; noi abbiamo compassione per che era di una bellezza e di una eleganza rimarchevole, e che malattie devastanti hanno completamente sfigurato. Così, Dio ha pietà di noi, quando compara ciò che eravamo e ciò che siamo divenuti: noi eravamo nel paradiso, di una bellezza eclatante, e dopo la nostra caduta nel peccato, noi offriamo lo spettacolo di una triste e vergognosa deformazione. È questo sentimento di compassione che Dio esprimeva quando chiamava Adamo con queste parole: « Adamo, dove sei? » Egli non cercava di sapere ciò che gli era perfettamente noto, ma gli voleva far comprendere in quale stato fosse caduto. « Dove sei? » da quale altezza sublime sei caduto, in quel profondo abisso sei precipitato (S. Basil.). – Dio è stato dall’inizio misericordioso, perché ha inclinato il suo orecchio fino a me; poi è giusto, perché Egli castiga, e di nuovo concede misericordia perché accoglie; perché Egli castiga tutti i figli che accoglie, e deve essere per me l’amar meno essere castigato che non essere dolce nell’essere accolto.(S. Agost.). – I piccoli che Dio riguarda, sono coloro che lo sono ai suoi occhi; è l’ordine di Dio umiliare coloro che Egli destina a qualche cosa di grande e di straordinario, affinché la loro umiltà sia come un fondamento solido che esce senza scalfire il peso della dignità o della santità alla quale Egli ha come disegno di elevarli. (Duguet). – Il salmista non dice: Egli mi ha preservato dal pericolo, ma me ne ha liberato perché vi ero caduto … non cercate dunque una vita al riparo da ogni pericolo, non sarebbe un bene per voi. Una tale vita non era vantaggiosa per il Profeta, e lo sarebbe molto meno per voi. « È bene che mi abbiate umiliato, dice il salmista (Ps. CXVIII, 71), affinché io apprezzi i vostri ordini pieni di giustizia. » (S. Chrys.).  

III. — 7-9

ff. 7- 8. – « Rientra, o anima mia, nel tuo riposo. » La sua anima godeva quindi in precedenza di un riposo che ha perduto, perché nessuno rientra se non tornando nel luogo ove era in precedenza. Dio ci ha creati buoni, e ci ha lasciato tra le mani del nostro libero arbitrio, ci ha posto tutti con Adamo nel Paradiso. Ma noi caduti volontariamente da questa felicità, siamo stati esiliati in questa valle di lacrime, ecco perché il giusto esorta la sua anima a rientrare nel riposo che ha perduto. Questa terra è un luogo di tribolazione, terra di combattimento; è un soggiorno di lacrime ove non possiamo camminare con sicurezza. Ovunque andiamo, siamo in presenza di qualche pericolo. – E dove rientrerai, anima mia? … nel Paradiso, non perché tu ne sia degna, ma per effetto della bontà di Dio; « Perché il Signore ti ha fatto misericordia. » Tu sei uscito dal Paradiso per colpa tua, vi puoi rientrare solo per misericordia del Signore (S. Gerol.). – Il Profeta descrive la dolcezza del riposo del quale gode, comparandola con le amarezze della vita presente. Qui i dolori della morte mi hanno circondato, là Dio ha liberato la mia anima dalla morte; qui i miei occhi, versano lacrime che fanno fluire abbondantemente le afflizioni di questa vita, là le lacrime non oscurano i nostri occhi rapiti dalla contemplazione dell’ineffabile bellezza di Dio: « Il Signore asciugherà le lacrime di tutti coloro che piangono. » (Isai. XXV, 8). – Quaggiù noi siamo sempre nel gran pericolo di  cadere, cosa che faceva dire a San Paolo « Colui che crede di essere fermo, badi di non cadere. » (I Cor, X, 12). Là i nostri piedi saranno fermi, la nostra vita non sarà soggetta alla mutabilità; non ci sarà più il pericolo di cadere in peccato. (S. Basil.). Finché siamo trattenuti in questa dimora mortale, viviamo assoggettati ai cambiamenti, perché questa è la legge del paese che abitiamo, e non possediamo alcun bene, anche nell’ordine della grazia che non possiamo perdere nel momento successivo, per la mutevolezza naturale dei nostri desideri; ma non appena cessiamo di contare le ore e misurare la nostra vita con i giorni e con gli anni, usciti da figure che passano e da ombre che spariscono, arriviamo al regno della verità, ove siamo affrancati dalla legge dei cambiamenti. Così la nostra anima non è più in pericolo, le nostre risoluzioni non vacillano più; la morte, o piuttosto la grazia della perseveranza finale, ha la forza di fissarle (BOSSUET, Or. fun. de la Duch. d’Or.). – Tutti gli uomini cercano il riposo, non si ingannano che nei mezzi per giungervi. I corpi tendono al riposo con la diminuzione dei loro movimenti, e gli uomini vi tendono con l’agitazione. “Quando vi riposerete ?” si può dire al commerciante, al cortigiano, all’uomo di studio, e infine a tutti coloro che non cessano di tormentarsi in questo mondo con i diversi oggetti che condividono le condizioni della vita. A questa domanda, nessuno risponderà che non riposerà mai, e al contrario, tutti si riprometteranno il riposo, perché quando saranno giunti alla meta che si erano proposti, si imbarcheranno in nuovi imbarazzi, e dopo questi, altri si succederanno ancora, di modo che ci sarà un’agitazione senza fine ed un movimento che non cesserà che alla morte. Ma domandate al vero servo di Dio, a colui che non sospira se non il riposo dell’eternità, perché si dà a tutto il movimento che riempie i suoi giorni. Egli non dirà che tenderà al riposo in questa vita: egli sa che il riposo non è un frutto che si raccoglie in questa terra d’esilio, in questa regione di lacrime; egli dirà che tutti i suoi lavori tendono al godimento della vera pace, che è solo nel cielo. Tuttavia, siccome la sua speranza è indistruttibile e sa, come l’Apostolo, che Colui che gli ha promesso questo felice riposo è fedele alle sue promesse, egli già pregusta questo stato infinitamente desiderabile. La sua anima è nel riposo, per quanto possibile a chi non possiede ancora il sovrano Bene, cioè l’essere esente da turbamenti ed inquietudini. Dio lo ha ritirato dalla morte del peccato; gli lascia ancora le lacrime della compunzione, ma esse sono piene di dolcezza; egli veglia su se stesso per preservarsi dalle cadute, ma si appoggia sulle braccia dell’Onnipotente, che lo sostiene e lo solleva. Quest’uomo lavora molto, ma tutte le sue pene danno frutto per l’eternità.  (Berthier). – Una doppia ragione deve portarci a fare tutti i nostri sforzi per entrare nel nostro riposo. L’una è tratta dal punto di partenza di questa conversione, vale a dire dal mondo e dalle sue attrattive seduttrici, dalle quali dobbiamo separarci; l’altra, dal termine verso cui tende questa conversione, cioè il cielo. 

ff. 9. – Egli non dice: io sono gradito, ma: « io sarò gradito al Signore; perché nella vita presente, nessun uomo può arrivare alla perfezione della giustizia. Egli fa vedere da questo che non ancora sia gradito agli occhi del Signore, per questa parte di se stesso che è nella regione dei morti, cioè nella carne mortale. – Queste parole del Profeta: « Egli ha preservato i miei occhi dalle lacrime, ed i miei piedi da ogni caduta, » benché sembrino celebrare un fatto compiuto, non sono tuttavia ancora che parole di speranza … Noi attendiamo ancora la redenzione dei nostri corpi (Rom. VIII, 2-3), ma quando la morte sarà stata assorbita nella vittoria, quando ciò che è corruttibile in noi sarà rivestiti da incorruttibilità, e ciò che è mortale da immortalità (I Cor. XV, 53, 54) non ci saranno più lacrime, perché non ci saranno più cadute; non ci saranno più cadute perché non c’è più corruzione (S. Agost.). – In questa vita, che è la dimora, la terra dei morenti, quantunque possiamo essere santi, abbiamo sempre qualche imperfezione da combattere, la crudele guerra della concupiscenza da sostenere, è difficile che non riceviamo qualche ferita, perché non poche delle nostre opere sono miste a qualche difetto. Noi non saremo dunque veramente graditi al Signore che nel cielo, che è la vera terra dei viventi (Duguet). Si, questa regione è veramente la regione dei viventi, ove non ci sono notti, non più sonno, immagine della morte, non più bere e mangiare, non più alimenti, deboli sostentamenti della nostra infermità, non più malattie, dolore, non più arte del guarire, non più commercio e negozio, fonte di traffici ingiusti, non più cause di guerra, non più radici di inimicizia. È veramente la  regione dei viventi, di coloro che vivono della vera vita in Gesù-Cristo (S. Basil).

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2020)

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2020)

F476

Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ sanctissimæ auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter exposcimus. Per eam, quæsumus, quæ te cum immaculata Virgine Dei Genitrice coniunxit, caritatem, perque paternum, quo Puerum Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur, ut ad hereditatem, quam Iesus Christus acquisivit Sanguine suo, benignius respicias, ac necessitatibus nostris tua virtute et ope succurras. Tuere, o Custos providentissime divinæ Familiæ, Iesu Christi sobolem electam; prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum ac corruptelarum luem; propitius nobis, sospitator noster fortissime, in hoc cum potestate tenebrarum certamine e cœlo adesto; et sicut olim Puerum Iesum e summo eripuisti vitæ discrimine, ita nunc Ecclesiam sanctam Dei ab hostilibus insidiis atque ab omni adversitate defende: nosque singulos perpetuo tege patrocinio, ut ad tui exemplar et ope tua suffulti, sancte vivere, pie emori, sempìternamque in cœlis beatitudinem assequi possimus. Amen.

(Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fueri: (Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).

Sancta Missa

San Giuseppe, Sposo della B. V. Maria, Conf.

Doppio di 1* classe. – Paramenti bianchi.

La Chiesa onora sempre, con Gesù e Maria, San Giuseppe, specialmente nelle feste di Natale; ecco perché il Vangelo di questo giorno è quello del 24 dicembre. La Chiesa diede a questo Santo fin dall’VIII sec, secondo un calendario copto, un culto liturgico nel giorno 20 luglio. Alla fine del XV sec. la sua festa fu fissata al 19 marzo e nel 1621 Gregorio XV l’estese a tutta la Chiesa. – 1870 Pio IX proclamò San Giuseppe protettore della Chiesa universale. Questo Santo, « della stirpe reale di Davide », era un uomo giusto (Vang.) e per il suo matrimonio con la Santa Vergine ha dei diritti sul frutto benedetto del seno verginale della Sposa. Una affinità di ordine legale esiste tra lui e Gesù, sul quale esercitò un diritto di paternità, che il Prefazio di San Giuseppe designa delicatamente con queste parole « paterna vice ». Senza aver generato Gesù, San Giuseppe, per i legami che l’uniscono a Maria, è, legalmente e moralmente, il padre del Figlio della Santa Vergine. Ne segue che bisogna con atti di culto riconoscere it questa dignità o eccellenza soprannaturale di San Giuseppe. Vi erano nella famiglia di Nazareth le tre persone più grandi ed eccellenti dell’universo; il Cristo Uomo-Dio, la Vergine Maria Madre di Dio, Giuseppe padre putativo del Cristo. Per questo al Cristo si deve il culto di latria, alla Vergine il culto di iperdulia, a San Giuseppe il culto di suprema dulia. Dio gli rivelò il mistero dell’incarnazione (ìd.) e « lo scelse tra tutti gli uomini » (Ep.) per affidargli la custodia del Verbo incarnato e della Verginità di Maria [Toccava al padre imporre un nome al proprio figlio. L’Angelo, incaricando da parte di Dio di questa missione, Giuseppe, gli mostra con ciò che, nei riguardi di Gesù, ha gli stessi diritti che se egli ne fosse veramente il padre.]. – L’inno delle Lodi dice che: « Cristo e la Vergine assistettero all’ultimo momento San Giuseppe il cui viso era improntato ad una dolce serenità ». San Giuseppe salì al cielo per godere per sempre faccia a faccia la visione del Verbo di cui aveva contemplato cosi lungamente e da vicino l’umanità sulla terra. Questo santo è dunque considerato giustamente come il patrono ed il modello delle anime contemplative. Nella patria celeste San Giuseppe conserva un grande potere sul cuore del Figlio e della sua Santissima Sposa (Or.). Imitiamo in questo santo tempo la purezza, l’umiltà, lo spirito di preghiera e di raccoglimento di Giuseppe a Nazaret, dove egli visse con Dio, come Mosè sulla nube.

Incipit

In nómine Patris,et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCI : 13-14.
Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.
Ps XCI: 2.
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus. Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur: [Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XLV: 1-6.

Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ. [Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza].

Graduale

Ps XX :4-5.
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.
V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sæculum sæculi.
Ps CXI: 1-3.
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sæculum sæculi.

Evangelium

Sequéntia + sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 1: 18-21.

Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum. [Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati].

Sermone di san Bernardo Abbate
Omelia 2 su Missus, verso la fine


Chi e qual uomo sia stato il beato Giuseppe, argomentalo dal titolo onde, sebbene in senso di nutrizio, meritò d’essere onorato così da essere e detto e creduto padre di Dio; argomentalo ancora dal proprio nome, che, come si sa, s’interpreta aumento. Ricorda in pari tempo quel gran Patriarca venduto altra volta in Egitto; e sappi ch’egli non solo ha ereditato il nome di quello, ma ne ha imitato ancora la castità, ne ha meritato l’innocenza e la grazia. E se quel Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli e condotto in Egitto, prefigurò la vendita di Cristo; il nostro Giuseppe, fuggendo l’invidia d’Erode, portò Cristo in Egitto. Quegli per rimaner fedele al suo padrone, non volle acconsentire alle voglie della sua padrona: questi, riconoscendo vergine la sua Signora madre del suo Signore, si mantenne continente e fu il suo fedele custode. A quello fu data l’intelligenza dei sogni misteriosi; a questo fu concesso d’essere il confidente e cooperatore dei celesti misteri. Il primo conservò il frumento non per sé, ma per tutto il popolo : il secondo ricevé la custodia del Pane vivo celeste e per sé e per tutto il mondo. Non v’ha dubbio che questo Giuseppe, cui fu sposata la Madre del Salvatore, sia stato un uomo buono e fedele. Voglio dire, «un servo fedele e prudente»

Omelia di san Girolamo Prete
Libr. 1 Commento al cap. 1 di Matteo


Perché fu concepito non da una semplice vergine, ma da una sposata? Primo, perché dalla genealogia di Giuseppe si mostrasse la stirpe di Maria ; secondo, perch’ella non fosse lapidata dai Giudei come adultera: terzo, perché fuggitiva in Egitto avesse un sostegno. Il martire Ignazio aggiunge ancora una quarta ragione perché egli fu concepito da una sposata : affinché, dice, il suo concepimento rimanesse celato al diavolo, che lo credé il frutto non di una vergine, ma di una maritata. Prima che stessero insieme si scoperse che stava per esser madre per opera dello Spirito Santo» Malth. 1, 18. Si scoperse non da altri se non da Giuseppe, al quale per la confidenza di marito non sfuggiva nulla di quanto riguardava la futura sposa. Dal dirsi poi: « Prima che stessero insieme », non ne segue che stessero insieme dopo: perché la Scrittura constata ciò che non era avvenuto.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo
Lib. 4 al capo 4 di Luca, verso la fine

Guarda la clemenza del Signore Salvatore: né mosso a sdegno, né offeso dalla grave ingratitudine, né ferito dalla loro ingiustizia abbandona la Giudea: anzi dimentico dell’ingiuria, memore solo della clemenza, cerca di guadagnare dolcemente i cuori di questo popolo infedele, ora istruendolo, ora liberandone (gl’indemoniati), ora guarendone (i malati). E con ragione san Luca parla prima di un uomo liberato dallo spirito malvagio, e poi racconta la guarigione d’una donna. Perché il Signore era venuto per guarire l’uno e l’altro sesso; ma prima doveva guarire quello che fu creato prima: e non bisognava omettere (di guarire) quella che aveva peccato più per leggerezza di animo che per malvagità.

OMELIA

SAN GIUSEPPE, PROTETTORE DELLA CHIESA E DEI CRISTIANI

[A. Carmagnola: S. GIUSEPPE, Ragionamenti per il mese a lui consacrato. RAGIONAMENTO XXXI. – Tipogr. e Libr. Salesiana. Torino, 1896]

Del Patrocinio di S. Giuseppe sulla Chiesa Cattolica.

Aiuto e protettor nostro è il Signore; in lui si rallegrerà il nostro cuore, e nel santo Nome di Lui porteremo la nostra speranza: Adiutor et protector noster est Dominus; in eo laetàbitur cor nostrum, et in nomine sancto eius speravimus (Salm. XXXII, 20, 21). È con queste bellissime parole, che il Santo re Davide ci ricorda la grande verità che è da Dio solo propriamente che ci viene ogni aiuto e protezione, e che perciò in Lui solo abbiamo da riporre tutte quante le nostre speranze. Così pure l’apostolo S. Paolo ci fa attentamente osservare che un solo è il nostro naturale patrono appresso Dio Padre, vale a dire Gesù Cristo; poiché è Egli solo, che, Uomo e Dio ad un tempo, valse a ritornare in grazia e riamicare col sommo Padre il genere umano: Unus est mediator Dei et hominum homo Christus Iesus (1 Tim. II, 5). Ma sebbene sia Iddio solo, che nella sua onnipotenza ci dia aiuto e protezione, non è tuttavia men vero, che ordinariamente ci da un tale aiuto ed una tal protezione non direttamente Egli stesso, ma per mezzo dei suoi Angeli e dei suoi Santi. Così pure, sebbene Gesù Cristo per sua natura ed ufficio sia l’unico e primario patrono degli uomini, ciò non toglie, come insegna l’Angelico, che vi possano essere e realmente vi siano altri patroni secondari e per intercessione tra Dio e gli uomini stessi, quali appunto sono ancora gli Angeli e i Santi. Or bene, come è verissimo che Iddio si serve massimamente del ministero di Maria SS. sua Madre per comunicare a noi il suo santo aiuto e la sua santa protezione, e che fra tutte le creature nessuna può esercitare ed esercita più efficacemente l’ufficio di patrona degli uomini, che la stessa Vergine, così dobbiamo pure ritenere che dopo di Lei per nessun altro più Iddio fa a noi pervenire l’aiuto e la protezione sua e che nessun altro più vale ad essere il nostro patrono che S. Giuseppe, Sposo di Maria e Custode di Gesù. – La Chiesa pertanto riconoscendo una tal verità che ha fatto ella? Dopo di essersi nel corso dei secoli affidata al patrocinio della Beatissima Vergine, e continuando tuttora ad affidarvisi, in questi ultimi tempi si è pure particolarmente affidata al patrocinio di S. Giuseppe, dichiarando questo gran Santo Patrono della Chiesa cattolica, cioè universale. Ora con quanta sapienza la Chiesa abbia proclamato S. Giuseppe Patrono universale di se medesima è quello che ci faremo a riconoscere oggi in questo ultimo ragionamento, chiudendo il bel mese, che abbiamo consacrato a questo gran Santo. Io credo che non potevamo riservarci un argomento più adatto e più gradito, epperò non sento alcun bisogno di raccomandarlo alla vostra attenzione.

PRIMA PARTE.

La Chiesa Cattolica, o miei cari Cristiani, voi ben lo sapete, è la congregazione di tutti i fedeli, che fanno professione della fede e legge di Gesù Cristo, nella ubbidienza ai legittimi Pastori e principalmente al Papa, che ne è il Capo visibile sulla terra. Questa Chiesa, la sola una, santa, cattolica ed apostolica, ha per suo immediato fondatore e capo invisibile nostro Signor Gesù Cristo, il quale nel fondarla le ha promesso e comunicata tale una forza, per cui non verrà meno giammai sino alla consumazione dei secoli. Tu sei Pietro, disse al Principe degli Apostoli, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa giammai: et portæ inferi non prævalebunt adversus eam (Matt. XVI, 18). Io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede: rogavi prò te, ut non deficiat fides tua(Luc. XXII, 31). E a tutti gli Apostoli disse: Ecco che io sarò con voi sino alla consumazione dei secoli: Ecce ego vobiscum sum usque ad consummationem sæculi (Matt. XXVIII, 20). Così ha parlato Gesù Cristo alla Chiesa nella persona degli Apostoli, e Gesù Cristo ha fatto, fa e farà onore alla sua parola sino alla fine del mondo. Come la testa tiene il primo luogo nel corpo umano e da lei l’anima dà vita e forza a tutto il corpo, così Gesù Cristo capo invisibile di tutto il corpo mistico che è la Chiesa, risiedendone sempre in lui lo spirito e l’anima, a tutto il corpo mantiene la vita e la forza. – Ma sebbene per la promessa, che fedelmente Gesù Cristo mantiene, la Chiesa Cattolica non debba mai temere o tanto o poco di venir meno, è certo tuttavia che la Chiesa va soggetta alle persecuzioni, è destinata anzi alle persecuzioni, e le persecuzioni formano uno dei suoi essenziali e divini caratteri. Quelle parole profetiche che il Santo vecchio Simeone pronunciava sopra di nostro Signor Gesù Cristo: Ecco che questo Bambino è posto in segno alla contraddizione: ecce positus est hic … in signum cui contradicetur (S. Luc. II, 34) non erano pronunziate meno per la Chiesa, di cui Gesù Cristo è capo. Anzi lo stesso Gesù Cristo come predisse ed assicurò alla Chiesa la indefettibilità, così le predisse e assicurò le persecuzioni. Se hanno perseguitato me, disse Agli apostoli, perseguiteranno anche voi: Si me persecuti sunt, et vos persequentur (S. Gio. XV, 20). E difatti da diciannove secoli, quanti ne conta la Chiesa Cattolica, mentre nel suo cammino e nel suo stabilirsi attraverso il mondo da molti è stata felicemente accolta, amata obbedita, da molti altri invece è stata derisa, odiata, perseguitata a morte. E così sarà con momenti più o meno lunghi di tregua e di pace sino alla fine del mondo. E ciò perché mai? senza dubbio per moltissime ragioni, alcune delle quali non comprenderemo che in cielo. Ma tra quelle che anche qui in terra possiamo rilevare, questa tiene un principalissimo posto: volere cioè il Signor nostro Gesù Cristo che non dimentichiamo giammai essere Egli colui dal quale solo viene la vita e la forza della Chiesa e dovere noi perciò incessantemente ricorrere a Lui per aiuto e protezione, affinché esaudendo le nostre preghiere e concedendo alla Chiesa l’aiuto e la protezione invocata si renda ognor più manifesta la sua potenza e la sua gloria. È ciò che ci ha fatto chiaramente intendere Gesù Cristo stesso nel suo Santo Vangelo. Essendo Egli insieme cogli Apostoli montato sopra una nave sul lago di Genezareth, e a poppa di quella nave dormendo, si suscitò una gran tempesta, che sembrava da un momento all’altro dover capovolgere la nave istessa e farla colare a fondo, e che fece mandare agli Apostoli un grido di spavento e di invocazione: Signore, salvaci, periamo: Domine, salva nos, perimus (S. Matt. VIII, 25). Or bene, bellamente osserva Origene, quantunque Gesù Cristo allora dormisse col corpo, vegliava con la sua divinità, perché concitava il mare e conturbava gli Apostoli affine di manifestare la sua potenza: Dormiebat corpore, sed vigilabat Deitate, quia concitabat mare, contarbabat Apostolos, suam potentiam ostensurus. E poiché, come dice S. Agostino, quella nave, in cui Gesù Cristo si trovava con gli Apostoli, in tale circostanza raffigurava la Chiesa Cattolica, perciò ben possiamo dedurre che l’intendimento che ebbe allora nel permettere la tempesta, lo abbia tuttora nel permettere le persecuzioni.Egli è certo ad ogni modo che la Chiesa ha mai sempre riconosciuto il bisogno ed il dovere di ricorrere a Dio per aiuto e protezione in tutti quanti i tempi, ma allora massimamente che trovasi stretta dalla tribolazione, epperò sempre, benché con molteplici forme, ella ha fatto salire al cielo questo grido: Salva nos, perimus.Signore, vieni in nostro aiuto, in nostra protezione, affinché non abbiamo a perderci. E per essere più sicura di conseguire il fine di questo grido ha sempre in tutte le sue preghiere interpostala mediazione e il patrocinio del suo vero e naturale mediatore e patrono Gesù Cristo. Per Christum Domininum nostrum. E Iddio, o tosto o tardi, come stimò meglio nei disegni imperscrutabili della sua provvidenza, sempre ha esaudito le preghiere della Chiesa, a Lui offerte nel nome di Gesù Cristo, facendole toccar con mano che Egli veramente è il suo aiuto ed il suo protettore, e che realmente in Gesù Cristo abbiamo sempre un avvocato, un patrono onnipotente.Ma la Chiesa non si è contentata di questo. Sapendo bene, come già dicemmo, che Iddio per concederci i suoi favori ama servirsi del ministero dei suoi Angeli e dei suoi Santi, e che negli Angeli e nei Santi abbiamo dei patroni per grazia, oltre a quello che abbiamo in Gesù Cristo per natura, ebbe pur sempre in uso di ricorrere alla mediazione degli Angeli e Santi e di riguardarli almeno in generale quali suoi intercessori e patroni, ed eleggerli poi in particolare quali intercessori per un determinato genere di grazie o quali patroni particolari di un paese, di una città, di una provincia, di un regno. Or bene così facendo la Chiesa per essere eziandio aiutata e protetta in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni mercé l’intercessione e il patrocinio degli Angeli e dei Santi, non era conveniente che ella ne eleggesse e costituisse uno che di essa fosse il patrono universale? E ciò essendo, come è manifesto, convenientissimo, chi altri mai, dopo la SS. Vergine, doveva essere eletto e costituito Patrono della Chiesa universale, se non il nostro grande Patriarca San Giuseppe? Ed in vero, oltre che per la sua potenza, egli ne aveva il diritto per la sua stessa condizione di Custode della Divina Famiglia. Che egli sia stato il Custode della divina Famiglia non vi ha alcun dubbio. « Come Iddio, dice la Chiesa medesima, come Iddio aveva costituito l’antico Giuseppe, figliuolo del patriarca Giacobbe a presiedere in tutta la terra di Egitto per serbare ai popoli il frumento; così venuta la pienezza dei tempi, essendo per mandare in sulla terra l’Unigenito suo Figliuolo a redimere il mondo, prescelse un altro Giuseppe, del quale quel primo era stato figura, e lo costituì signore e principe della sua casa e della sua possessione, e lo elesse a custode de’ suoi divini tesori. Perocché ebbe questi in isposa la immacolata Vergine Maria, dalla quale per opera dello Spirito Santo nacque il nostro Signor Gesù Cristo, che presso agli uomini si degnò esser riputato figliuolo di Giuseppe ed a lui fu soggetto. E quel Salvatore che tanti re e profeti bramarono di vedere, questo Giuseppe non solo vide, ma con Lui conversò e con paterno affetto lo abbracciò e lo baciò; e con solertissima cura Lui nutricò, che il popolo fedele doveva ricevere come pane disceso dal cielo per conseguire la vita eterna ». Così parla la Chiesa, (Decr. 1870), e così parlandoci apprende che S. Giuseppe fu veramente il Custode della divina Famiglia. Ma che cosa era la divina Famiglia, se non la Chiesa, per così esprimermi, in embrione? non era dessa il primo principio di quella sterminata famiglia, alla quale appartengono oggi più che trecento milioni di figliuoli? È propriamente nella casa di Nazaret, dove S. Giuseppe era il capo, che la Chiesa ebbe i suoi natali. È lì che si cominciarono a compiere i sublimi disegni di Dio, ed i grandi misteri di nostra Religione; è lì che sorsero i primi modelli del culto cristiano, i primi seguaci del Vangelo ed i primi frutti della Redenzione. È lì in quella famiglia che Gesù Cristo fondatore della Chiesa, ed ora suo Capo invisibile, stette soggetto a Giuseppe e da Giuseppe volle essere scampato nel pericolo della persecuzione di Erode. È li che lo stesso Giuseppe aiutò e protesse Maria, il primo membro dellaChiesa, ed è lì ancora che per conseguenza come patrono di Gesù, Capo della Chiesa, e di Maria, suo primo membro, acquistò un certo diritto di essere il Patrono di tutte le membra del corpo mistico della Chiesa istessa. Ben a ragione pertanto il venerabile Bernardino da Busto dice a questo proposito: Che a questo santissimo uomo essendo del tutto appropriato quel che si legge in S. Luca ed in S. Matteo: « Ecco il servo fedele e prudente, che il Signore stabilì sopra la sua famiglia; doveva ancor essere costituito sulla universale famiglia di Dio; e poiché fu trovato così sufficiente all’opera tanto eccelsa del custodire la divina famiglia, così doveva essere più che mai sufficiente alla custodia e patrocinio di tutto il mondo; perciocché chi fu bastevole al più, molto meglio è da credersi bastevole al meno ». E non meno bellamente disse il devoto Isolano: « Il Signore ha suscitato per sé ed in onore del suo nome S. Giuseppe Capo e Patrono della Chiesa militante ». E non male si apponeva il grande Gersone quando nel Concilio di Costanza esortando i Prelati ivi raccolti a stabilir qualche cosa in lode ed onore di S. Giuseppe, li andava con tutte le sue forze persuadendo ad eleggerlo in Patrono della Chiesa, affine di estinguere il funestissimo scisma, che allora da tanto tempo lacerava la veste inconsutile di Gesù Cristo. E quando finalmente l’immortale Pio IX, il Pontefice dell’Immacolata e del Sacro Cuore di Gesù, il Papa dal cuore vasto come il mare, assecondando le suppliche ed i voti dei Vescovi e dei fedeli di pressoché tutto il mondo, per organo della S. Congregazione dei Riti proclamava di fatto S. Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica, altro non faceva che assegnare ed assicurare a S. Giuseppe la gloria di quel terzo titolo, che giustamente gli competeva insieme con gli altri due di Sposo purissimo di Maria e di Padre putativo di Gesù. Perciocché lo stesso grande Pontefice prima ancora di aver promulgato un tanto oracolo, già alcun tempo innanzi aveva detto con gioia: Mi consola, che i due sostegni della Chiesa nascente, Maria e Giuseppe, riprendano nei cuori cristiani quel posto, che non avrebbero dovuto perdere giammai ».Sapientissima adunque fu l’opera della Chiesa nel riconoscere e proclamare l’universale Patrocinio di San Giuseppe, essendoché una tal prerogativa ed un tale ufficio è perfettamente consentaneo alla sublime dignità di sì gran Patriarca. Ma la sapienza di tal opera rifulgerà anche di maggior luce se attentamente si osservi in quanta opportunità di tempo essa fu compiuta. Certamente se mai furono tempi calamitosi perla Chiesa di Gesù Cristo, se mai volsero giorni così infausti alla nostra santissima fede sono propriamente i giorni ed i tempi nostri. Oggi, più che mai, si muove guerra tremenda contro i santi altari; oggi, più che mai, si assaltano i dommi, i misteri, la dottrina e la morale di Gesù Cristo; oggi, più che mai, si vede l’empietà sfidare il cielo e far disperate prove onde sbandire dalle menti umane persin l’idea di Dio. È ritornato proprio oggidì il tempo in cui: Fremuerunt gentes…astiterunt reges terræ et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius(Salm. II). Popoli e re, grandi e piccoli, tutti l’hanno con Cristo e con la sua Chiesa. I falsi dotti con la penna, la stampa irreligiosa coi fogli, il popolazzo con le urla e con le maledizioni, i re ed i governi con la forza brutale assalgono ad un tempo e da ogni parte questa rocca fondata da Dio e già quasi si applaudono d’averla atterrata. Si snaturano le intenzioni della Chiesa, le si attribuiscono umane passioni ed ingorde voglie, e sotto questi futili pretesti, i quali alle masse poco istruite, segnatamente in fatto di Religione, presentano sempre qualche cosa di specioso, le si rimprovera d’aver degenerato dalla primitiva perfezione, l’accagionano di idee retrograde, di ostinazione a non volersi associare al progresso dei tempi, si rovesciano le sue istituzioni, si rapiscono violentemente i suoi beni, si atterrano le sue opere pie, si assediano e si spiano i suoi ministri per coglierli in fallo, ed al caso si calunniano; si sparge il ridicolo sopra le sue più auguste cerimonie, si beffano i più devoti e fedeli suoi figli. E intanto, ahimè! l’incredulità e l’indifferenza religiosa si impadronisce dei cuori, il vizio passeggia a fronte alta da per tutto, i popoli, la gioventù si guastano e si corrompono spaventosamente e così i membri della Chiesa di Gesù Cristo corrono i più gravi pericoli della eterna perdizione. Or bene, quantunque la Chiesa, neppure ai dì nostri abbia a temere di se stessa, né con una lotta sì accanita abbia a cadere, a disfarsi, a perire, pur tuttavia ella ha bisogno di aiuto e di protezione celeste. Ed a chi altri mai, dopoché a Dio ed alla SS. Vergine, poteva essa ricorrere per aiuto e protezione che al gran Patriarca S. Giuseppe? « In questi difficilissimi tempi, dice il grande nostro Pontefice Leone XIII (Brev. 1891), nulla torna più efficace per conservare il patrimonio della fede e per menare cristianamente la vita, quanto il meritarsi il patrocinio di S. Giuseppe e conciliare il favore di Maria Madre di Dio ai clienti del suo castissimo sposo ». Ed in vero, come Custode della divina Famiglia avendo egli scampato la Chiesa nascente dalla persecuzione di Erode lascerà egli, da noi invocato, come Patrono della Chiesa Cattolica di scamparla dalla persecuzione degli Erodi moderni? Ah no! Senza dubbio questo è il suo uffizio, questo è il suo diritto: questo anzi, diciamolo pure, è il suo dovere, ed egli lo compirà a perfezione, come già lo ha compiuto per il passato, come massimamente lo compié in questo primo venticinquennio dacché fu solennemente come Patrono della Chiesa Cattolica proclamato. Sì lo compirà, e mercé il suo patrocinio torneranno per la Chiesa i giorni di libertà e di pace, somiglianti a quelli che egli godette quaggiù con Gesù e Maria nella casa di Nazaret, spenti che furono i persecutori della divina famiglia. Lo compirà, e come egli allora, non più ricercato a morte il suo caro Gesù, poté godere senza affanno la sua convivenza, così ancor noi senza oppressioni e senza timori potremo adempiere tutti i doveri e valerci di tutti i diritti di figliuoli di Dio e della Chiesa. – Sapientissima adunque, torniamolo a dire, sapientissima fu una tal proclamazione e sommamente opportuna pei tempi che corrono. Epperò santamente confidiamo, che avendo per tal modo S. Giuseppe ripreso quel posto che non avrebbe dovuto perdere giammai, siccome disse Pio IX e come col fatto asserisce il regnante Leone XIII: il mondo un’altra volta sarà salvo. Fiat! Fiat!

SECONDA PARTE.

Se la Chiesa, come abbiamo veduto, dimostrò una grande sapienza nel proclamare S. Giuseppe suo universale Patrono, tocca ora a noi, figliuoli della Chiesa, assecondare i suoi intendimenti in questa proclamazione, vale a dire tocca a noi implorare incessantemente il Patrocinio di San Giuseppe sopra della Chiesa istessa. Come gli Egiziani, colpiti dal terribile flagello della carestia, presentandosi all’antico Giuseppe, andavano esclamando: Salus nostra in manti tua est; la nostra salute, o Giuseppe, è nelle tue mani (Gen. XLVII, 25); così anche noi, in mezzo alle tribolazioni, da cui presentemente è stretta la Chiesa, facciamo salire al trono di S. Giuseppe con somma fiducia lo stesso grido. Imploriamo anzi tutto il patrocinio di S. Giuseppe sopra di noi, affinché mercé la sua potente intercessione e la sua valida protezione possiamo sempre vivere da figliuoli degni della Chiesa, e non mai questa nostra madre abbia a soffrire e piangere per noi. Sì, diciamogli, con tutto il cuore: Fac nos innocuam, Ioseph, decurrere vitam; sitque tuo semper tuta patrocinio; danne, o Giuseppe, di menar una vita lontana dalla colpa, e sempre protetta dal tuo patrocinio. – Imploriamolo in secondo luogo per tutta la Chiesa in generale, pei bisogni nei quali ora si trova, per i suoi Vescovi, per i suoi Sacerdoti, per i suoi religiosi, per i suoi missionari, per tutti quanti i suoi figliuoli, per i buoni e per i cattivi, per i giusti e per i peccatori, per coloro che ancora combattono sopra di questa terra ed eziandio per quelle sante anime, che ora soffrono nel carcere del Purgatorio. Che mercé il patrocinio di S. Giuseppe i Pastori della Chiesa si mantengano sempre in un solo spirito col Supremo Pastore, il Papa (oggi S. S. Gregorio XVIII – ndr. -) che vedano coronato di esito felice il loro apostolico zelo, che possano ricondurre molti traviati all’ovile. Che mercé il patrocinio di S. Giuseppe i Sacerdoti ed i religiosi si mantengano fedeli alla sublimità della loro vocazione e lavorino sempre con somme forze nella mistica vigna. Che sotto il patrocinio di S. Giuseppe i missionari non vengano meno giammai al loro coraggio, riescano a trionfare delle difficoltà e dei pericoli che ad ogni istante incontrano sul loro cammino, e facciano presto risplendere la luce del Santo Vangelo fra quei popoli, che giacciono ancor nelle tenebre e nell’ombra di morte. Che all’ombra del patrocinio di S. Giuseppe perseverino i giusti nella loro giustizia e vadano innanzi nella perfezione e nella santità; e i peccatori si convertano e vivano. Che sotto lo scudo di tanto patrocinio riescano sempre vincitori e trionfanti del mondo, della carne e del demonio tutti i Cristiani, che quaggiù ancora combattono; e per l’efficacia dello stesso patrocinio volino presto al cielo le sante anime del purgatorio: che tutta quanta la Chiesa sia da S. Giuseppe validamente protetta. Sì, diciamo ancora con tutto il cuore: Alme Joseph, dux noster, nos et sanctam Ecclesiam protege: almo Giuseppe, nostro patrono, proteggi noi e tutta quanta la Chiesa. Finalmente imploriamo il patrocinio di San Giuseppe in modo specialissimo per il Capo di tutta la Chiesa, pel Romano Pontefice. Nel 1814, il dì 10 di Marzo, in cui aveva principio la novena di S. Giuseppe, quell’irrequieto conquistatore, quello snaturato tiranno, quel sacrificatore di tante vittime, Napoleone I, che a Savona aveva chiuso in carcere il grande Pio VII, tentando invano di farlo zimbello di sua insana politica, vedendo volgere a male le sue sorti, decretava che fossero restituite al Papa le Provincie di Roma e del Trasimeno. E gli imperiali ordini arrivavano in Savona il 19 Marzo, giorno sacro a S. Giuseppe; per modo che immediatamente dopo il Pontefice, liberato dalla sua prigionia, poteva mettersi in viaggio per la sua diletta Roma, nella quale poi faceva trionfale ritorno il 24 Maggio di quel medesimo anno.Non fu quello un segno dei più manifesti del patrocinio specialissimo, che S. Giuseppe intende esercitare, ed esercita di fatto, sopra il Capo augustissimo della Chiesa? Preghiamo adunque per lui questo gran Santo, affinché si degni di far sentire un’altra volta per lui tutta la potenza della sua intercessione e protezione: che anche oggi S. Giuseppe voglia fiaccare l’orgoglio insensato dei nemici della Chiesa, che anche oggi spezzi le catene che tengono avvinto il venerando Vegliardo del Vaticano, che anche oggi gli ritorni la piena libertà nell’esercizio del suo sublime ministero, che anche oggi lo esalti, lo glorifichi e lo renda beato qui sulla terra, che assecondi i voti ardentissimi del suo cuore, lo zelo incessante del suo meraviglioso pontificato e riconduca al suo cuore paterno tanti figli dissidenti dalla sua dolcissima autorità, che insomma efficacemente conforti il suo animo affaticato dalle cure dell’apostolico ministero, che più vicino sente sovrastare il tempo di sua dipartita (Encicl.20 Sett. 1896). O Giuseppe, salus nostra in manu tua est, la nostra salute è nelle tue mani: col tuo patrocinio salvaci: salva la Chiesa! salva il Papa (Gregorio XVIII)! salva noi tutti! Amen!

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps LXXXVIII: 25.

Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus. [La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus. [Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode.]

Præfatio  de S. Joseph

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes: [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode]

Comunione spirituale: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Matt 1: 20.

Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. [Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo].

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.
[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni].

Ultimo Evangelio e Preghiere leonine: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ringraziamento:

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/03/19/nella-festa-di-san-giuseppe-2018/