UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI-APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “NOVÆ HÆ LITTERÆ”

« … Poiché è sempre stato tipico degli eretici e degli scismatici servirsi della simulazione, così anche questi intrusi non hanno nulla di più tradizionale che indurre le genti in errore mediante l’inganno, mentre coprono quasi tutte le loro azioni con il manto della carità … » queste parole, perfette oltremodo per descrivere gli attuali usurpanti delle cariche ecclesiastiche, sono la chiave per comprendere le turbolenze della Chiesa vissute nel corso dei secoli, ricordate dal Sommo Pontefice Pio VI nella sua lettera Enciclica diretta al clero francese coinvolto nei funesti accadimenti immediatamente successivi alla massonica Rivoluzione francese che, con leggi inique oltre ogni intendimento, voleva distruggere la fede dei Cattolici di Francia alimentando uno scisma che coinvolgeva naturalmente i prelati di sana fede, “affiancati” da falsi e sacrileghi preti e addirittura finti-vescovi, come la storia (quella vera, non gestita da coloro che odiano Dio e tutti gli uomini) ci ricorda opportunamente nella descrizione della feroce persecuzione sferrata contro la Chiesa Cattolica, nella persona di religiosi, prelati e fedeli. Quante analogie con la situazione presente, epoca di scismi plurimi, di pseudo-consacrazioni prive di ogni Giurisdizione o mandati canonici, senza alcuna missione, auto-giustificate da situazioni contingenti di necessità opportunamente create, da presunte rimembranze ed “offerte” della tradizione truffaldinamente manipolata ed adattata alle esigenze dei padroni occulti, dai burattinai che tengono tra le mani i fili delle marionette “moderniste” e di quelle “tradizionaliste” (Lienart-Lefebvriani, sedevacantisti obnubilati ed apocalittici … nel loro cervello) che fanno apparentemente tra loro azzuffare, come i “pupi” siciliani che combattono fragorosamente tra le risate sghignazzanti degli spettatori. Squallida era allora la situazione sociale ed ecclesiale, ma non paragonabile nemmeno lontanamente all’attuale marasma nel quale non c’è nemmeno la consolazione del “martirio” che produce immediatamente santi e beati in Paradiso, mentre oggi la stragrande maggioranza delle anime, eretiche, scismatiche, in aperta apostasia, sono irrimediabilmente avviate all’eterna perdizione « …. siamo costretti ad esclamare che nulla mai di simile è accaduto alla Chiesa di Dio! ».  Veramente quel che oggi vediamo nella Conchiglia vaticana e nel panorama dell’arcipelago “tradizionalista”, non è mai accaduto, forse si sta compiendo quanto profetizzavano S. Giovanni nell’Apocalisse e San Paolo nella lettera ai suoi fedeli di Tessalonica! – Ma il Santo Padre confortava i fedeli dell’epoca e assicura quelli di oggi scrivendo: « …. ringraziamo Dio e speriamo fortemente di esultare in futuro, dacché abbiamo riscontrato che la Fraternità Cattolica è arricchita da un tale spirito di Fede che nessuna tentazione eretica potrà indebolire in alcun modo i vostri cuori… Sebbene dunque grandi spazi fisici Ci dividano, siamo tuttavia uniti con voi nella Fede… ». La comunità cattolica è ridotta ad un numero veramente esiguo di anime, ma c’è, ed al Signore bastano per poter umanamente agire e vincere, come già successo al condottiero Gedeone al quale furono sufficienti solo trecento soldati, dalle migliaia di cui disponeva, per sbaragliare l’esercito nemico. Il “Pusillus grex” è unito nella fede e non è sollecitato da tentazioni eretiche.

Pio VI
Novæ hæ litteræ

1. Questa nuova lettera che vi indirizziamo vi renderà testimonianza di quanto il Nostro animo da una parte gioisca e dall’altra sia rattristato per il diverso esito delle Nostre ammonizioni, contenute nella lettera emanata il 13 aprile dell’anno scorso; per altro, quali fossero queste ammonizioni, vi è ben noto, così come non l’ignora alcun Vescovo del mondo cattolico.

Per quanto concerne la gioia, Voi per primi, diletti Figli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa, e Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, Ce ne date abbondantissimo motivo. Confermati infatti dalle Nostre paterne voci, sempre più avete fatto risplendere la lodevole vostra costanza; alcuni fra voi, tollerando con animo invitto l’esilio fuori dalle vostre chiese e fuori dallo stesso regno; altri schiavizzati nelle stesse chiese dalle ingiurie e dalle persecuzioni degli avversari; altri ancora sopportando persino lo squallore del carcere, come in particolare abbiamo capito dalla tua lettera essere toccato a Te, venerabile fratello Vescovo di Senez, degno perciò del maggiore elogio. Quasi tutti (se si eccettuano quattro infelicissimi pastori) sia presenti, sia assenti, si sono impegnati al massimo per diffondere la Nostra lettera, affinché i fedeli di tutte le Diocesi si attenessero alle nostre ammonizioni.

2. Perciò, Noi, assieme a San Leone, “ringraziamo Dio e speriamo fortemente di esultare in futuro, dacché abbiamo riscontrato che la Fraternità Cattolica è arricchita da un tale spirito di Fede che nessuna tentazione eretica potrà indebolire in alcun modo i vostri cuori… Sebbene dunque grandi spazi fisici Ci dividano, siamo tuttavia uniti con voi nella Fede…, e rendiamo grazie per la concordia della vostra professione: purché la vostra concordia perseveri, con l’aiuto di Dio, secondo le parole dell’Apostolo: A voi è stato fatto dono della grazia in nome di Cristo, non soltanto perché crediate in Lui, ma anche perché soffriate nel Suo nome” Le vostre pene sono anche le Nostre. “Soffriamo infatti – come dicevano i Padri di Sardica al tempo della persecuzione Ariana – con i nostri fratelli che soffrono, e facciamo nostri i loro patimenti, ed abbiamo mischiato le nostre lacrime con le vostre.

3. Anche voi avete consolato il Nostro animo, diletti figli Canonici e Parroci degni di singolare lode, e voi professori universitari, in particolare della Sorbona, eminenti per sapienza e rigorosi per comportamento in questa delicata vicissitudine della Religione; voi, Rettori dei Seminari, Ecclesiastici di qualunque altro genere, Vergini consacrate ed anche Laici, che – attenendovi alle Nostre esortazioni – vi siete mantenuti costanti nella Fede ed avete fatto fronte ai vostri doveri in modo tale che, sull’esempio dei vostri Pastori, molti di voi hanno affrontato con grande virtù ingiurie, esilio, carcere ed altre vessazioni. Non pochi infatti, tra il clero dello stesso vostro secondo Ordine, deputati all’Assemblea nazionale francese, uomini egregi e famosi per la loro cultura e l’impegno in difesa della buona causa, si sono onorati di far presenti a Noi i sensi della loro costanza, del loro ossequio e della loro osservanza, a mezzo di lettere mandateci sei mesi fa; lo stesso fecero altri Ecclesiastici del secondo Ordine, insieme al venerabile fratello Francesco, vescovo di Clairmont, con una lettera inviataci il 22 gennaio; altri ancora il 17 febbraio di quest’anno. Perciò in questa sede li ricordiamo e li lodiamo.

4. Maggior consolazione Ci avete arrecato voi, diletti figli del secondo Ordine Ecclesiastico, che – appena uditi il Nostro parere e le Nostre ammonizioni – avete imitato l’illustre esempio di alcuni antichi Vescovi della Gallia. Quelli infatti, dopo aver approvato insieme con i Vescovi orientali l’erronea formula del Concilio di Rimini, rendendosi conto che la loro semplicità era stata ingannata, ritrattarono tutto ciò che per ignoranza avevano approvato, respingendo quei sacerdoti apostati che, per ignoranza o empietà di alcuni, erano stati collocati al posto di fratelli indegnamente mandati in esilio; così anche voi solleciti disdiceste quell’empio giuramento che vi era stato estorto con la paura, con l’ignoranza, con l’inganno, detestando gli errori contenuti nel giuramento, allontanandovi da quegli intrusi e ricongiungendovi infine per vostra volontà ai legittimi pastori dai quali vi eravate allontanati. Le ritrattazioni di tal fatta furono talmente tante che ogni giorno ne recava delle nuove; di conseguenza, coloro che – completamente accecati – preferirono restare nell’errore, sono rimasti gravemente disonorati presso tutti gli Ordini e sono decaduti dalla stima anche di coloro che li avevano spinti sulla strada dell’apostasia, come Ci è stato riferito da molti Vescovi.

5. Perciò non è da stupirsi se il Nostro gaudio sarà, grazie a voi, tanto più grande e comune a tutta la Chiesa; per cui riteniamo che sia da seguire con voi la stessa benevola condotta che San Leone adottò con alcuni vescovi orientali che avevano avuto parte nella cacciata di San Flaviano dalla sede di Costantinopoli. Così infatti egli scrisse ad Anatolio, Vescovo di Costantinopoli: “Quanto poi a quei fratelli che abbiamo saputo essere desiderosi della comunione con Noi, poiché si pentono di non essere rimasti saldi contro il potere e il terrore e di avere offerto consenso all’altrui scelleratezza; dal momento che la paura li aveva così ottenebrati da farli partecipare con trepido ossequio alla condanna di un Vescovo cattolico innocente ed all’accoglimento di orribili malvagità, vogliamo che costoro si rallegrino della comunione e della pace con Noi ogni volta che condannano in piena consapevolezza le malvage azioni e preferiscono accusarsi piuttosto che difendersi. E la Nostra benignità non può in alcun modo essere condannata, poiché accogliamo penitenti coloro che ci dispiacque veder ingannati“.

6. Ci consola ancora la notizia che l’intruso di Roven abbia lasciato la sede che aveva occupato e che altri intrusi abbiano preso la fuga. Ascoltando dunque queste notizie abbiamo considerato quel che di buono deriva dalla loro abdicazione e dalla loro fuga. Infatti, abdicazioni e fughe di questo tipo danno chiaramente ai Fedeli la misura di come gli intrusi si rendessero conto del disonore intrapreso e da quali stimoli di coscienza fossero animati allorché – sotto maschera dell’episcopato – più di tutti gli altri alimentavano e fomentavano lo scisma. D’altra parte la Nostra gioia in questa circostanza non può essere completa. Non ci sfugge infatti che l’intruso di Roven, proprio nel momento in cui abdica l’incarico, anziché ritrattare il sacramento e detestare l’errore, ha nuovamente esibito la propria pervicacia; ed anche gli altri che hanno preso la fuga hanno dato prove non equivoche della loro pertinacia, cosicché si rende necessario che tanto questi – quanto altri che imitassero il loro esempio – rendano piena soddisfazione alla Chiesa. Diversamente non potranno giovarsi della comunione né con Noi né con la Chiesa, poiché “tale grazia non deve essere né rigidamente negata né sconsideratamente elargita“, come insegna San Leone.

7. Fin qui per quanto riguarda la gioia. Ora parliamo del dolore. Ci addolora infatti profondamente che molti membri del secondo Ordine Ecclesiastico ed una gran parte dei Laici, nonostante le Nostre ammonizioni, si siano tuttavia confermati nell’errore. Ma Ci addolora ancora di più che nello stesso errore abbiano perseverato sia il Vescovo di Autun, principale causa dello scisma, sia l’Arcivescovo di Sens e i Vescovi di Viviers e d’Orléans, i quali, essendo legittimi pastori, non potevano assolutamente ignorare né i doveri né i ruoli del ministero, né la gravità delle offese che recavano a tutto il corpo della Chiesa francese, senza contare che in virtù del loro titolo erano vincolati più strettamente ad ottemperare alle Nostre disposizioni. Inoltre richiamavano su di sé e facevano proprie le colpe dei Popoli loro soggetti. In effetti, perché ai pastori siano attribuiti i peccati degli inferiori, basta soltanto la negligenza, come insegna, San Leone, “dal momento che le colpe degli ordini inferiori a nessuno sono da imputare meglio che ai Rettori trascurati e negligenti, che spesso nutrono la pestilenza che s’è insinuata, rinviando l’adozione della medicina necessaria“. Allo stesso modo, tanto più condannabili saranno quegli infelici Vescovi che, anziché porgere le mani salvifiche ai traviati dall’errore, col loro esempio hanno spinto al male anche i buoni.

8. In verità Ci duole profondissimamente la stessa espansione di questo scisma, per descrivere la quale non potranno mai essere trovate parole sufficientemente gravi. Mentre infatti, al tempo della Nostra prima lettera, non Ci risultavano che otto Vescovi sacrileghi consacrati ed empiamente intrusi in altrettante Chiese, poco dopo Ci giunse la terribile notizia che le mani erano state illecitamente imposte a così tanti che nel breve volgere di giorni quasi tutte le Chiese di codesto Regno erano state occupate da intrusi.

9. Se Sant’Atanasio per l’invasione di una sola Chiesa in Alessandria (quella che Giorgio aveva occupato sulla base dell’editto del Principe contro la disposizione dei Canoni Ecclesiastici) a buon diritto e giustamente proruppe in queste parole: “In tutta la terra non s’è mai udito nulla di simile; ora tutta la Chiesa è stata offesa, il Santuario è trattato ignominiosamente e, quel ch’è peggio, la pietà patisce persecuzione dall’empietà… Infatti, se un solo membro soffre, tutte le altre parti si dolgono insieme con lui“, con quanto maggior diritto Noi, di fronte all’improvvisa occupazione di quasi tutte le Chiese di fiorentissimo Regno, siamo costretti ad esclamare che nulla mai di simile è accaduto alla Chiesa di Dio!

10. Un antichissimo Sinodo romano, che i Vescovi francesi avevano consultato, oltre che su altri punti, anche sul fatto che parecchi Vescovi di altre Diocesi avevano precipitosamente invaso le loro, impartendovi Ordinazioni irregolari e svolgendovi altri atti contro la giurisdizione, rispose loro gravemente: “Se qualcuno avrà invaso scientemente i confini altrui, sarà giudicato reo di violenza. Perché si corre? Perché ci si affretta a conculcare le regole della Chiesa? Le leggi umane vengono rispettate ed i precetti divini sono disprezzati; si temono la spada presente e la pena temporale, e si trascura la punizione divina, che ha le fiamme eterne della Geenna. Vedrete a cosa avrà portato la presunzione: perciò se qualcuno avrà osato fare Ordinazioni in una Diocesi altrui e vorrà sostenerle, sappia che vacilla dal suo stato proprio colui che avrà invaso la Chiesa non sua. Qui non si tratta di affari civili; queste non sono promozioni mondane“. Se, come dicevamo, il predetto Sinodo condannò in tal modo quei Vescovi che avevano occupato soltanto parti delle Diocesi altrui, quanta maggior riprovazione meriteranno non soltanto tutti gli pseudo-vescovi (che, scelti contro le norme ed ordinati in modo sacrilego, hanno invaso – senza missione canonica – Sedi Episcopali che avevano i loro legittimi Pastori, occupando così per intero le Diocesi) ma anche quattro Pastori legittimi: tre di loro, conformandosi ai decreti dell’Assemblea Nazionale, occuparono una parte delle Diocesi altrui ed abbandonarono una parte delle loro; l’altro poi, consacrando per primo gli intrusi, con l’aiuto di due Vescovi assistenti, ha finito col diventare il “padre” degli pseudo-vescovi, dando motivo a che le altre Sedi fossero invase e, abbandonando la propria, consentendo l’avvento di un intruso.

11. Di sicuro non può accadere “che si compia con esito favorevole ciò che ha avuto un cattivo principio“. Sarebbe lungo e troppo triste riferire qui dello stato della Chiesa francese, sconvolta in ogni sua parte, e dei gravissimi danni che sono stati recati alla Religione dagli intrusi. Basti riflettere sul fatto che un regime profano e sacrilego ha sostituito quello sacro e legittimo. Infatti costoro che si gloriano d’essere chiamati “Vescovi costituzionali” danno prova di capir bene che non sono “Vescovi cattolici“; perciò rifuggono dai sacri ministeri e ne allontanano anche coloro che, sulla base delle norme Ecclesiastiche, possono essere definiti i soli pastori legittimi, e lo sono. Quando essi si sono introdotti abusivamente nelle Sedi Episcopali, hanno inserito nel governo delle Parrocchie altri loro simili, che la Chiesa avversa e respinge, e che soltanto la Costituzione riconosce ed approva: gente che corrompe i Sacri Ordini e l’amministrazione dei Sacramenti e che, per dirla con poche parole, sottomette al potere temporale la Chiesa e la sua autorità di matrice divina; sostituisce alla verità l’errore; l’empietà alla pietà, secondo la schietta interpretazione della predetta Costituzione.

12. Poiché è sempre stato tipico degli eretici e degli scismatici servirsi della simulazione, così anche questi intrusi non hanno nulla di più tradizionale che indurre le genti in errore mediante l’inganno, mentre coprono quasi tutte le loro azioni con il manto della carità; proteggono e lodano le riforme costituzionali come se fossero su misura per la più antica e la più pura disciplina ecclesiastica; si vantano di esser in sincera comunione con la Chiesa e con questa Sede Apostolica. A questo soltanto mirano le lettere “nunciatorie” che, seguendo l’esempio dei primi intrusi, Ci hanno mandato anche altri in seguito; a questo mirano anche le “esortazioni” alle preghiere da recitare per la Nostra salute e la Nostra conservazione.

13. Ma questo stile di contestazione e di preghiera si riconosce derivato, chiaro come da un archetipo, dalle empie scuole degli scismatici e degli eretici. Infatti leggiamo che Fozio scrisse al Santo Pontefice Niccolò, Lutero a Leone X, Pietro Paolo Vergerio il giovane a Giulio III; e tutti, mentre fingevano obbedienza e sintonia con la Sede Apostolica, si lamentavano della malvagità con la quale era giudicata la loro dottrina, insultavano contemporaneamente la Santa Sede e disseminavano i loro cattivi errori.

14. Così anche gli odierni Vescovi intrusi hanno di recente pubblicato un’opera nella quale hanno raccolto tutti i pensieri erronei, scismatici ed eretici, spesso contestati e rifiutati, dei quali sono pieni parecchie loro Lettere Pastorali ed alcuni libelli, non senza grave offesa alla storia della Chiesa. A quest’opera hanno premesso l’insidioso titolo “Accord de vrais principes de l’Eglise, de la morale et de la raison, sur la Constitution Civile du Clergé de France par les Evêques des départements membres de l’Assemblée Nationale Constituant. A Paris 1791“, aggiungendo alla fine di quest’opera iniqua, per meglio ingannare il popolo, una falsa lettera, presentata come se fosse stata a Noi spedita. Ma, per istruzione dei buoni e per consolidare la loro perseveranza, non smetteremo di render noto il pestilenziale veleno che emana da ogni parte di quell’opera indegna.

15. Frattanto non possiamo tacere il doppio inganno, uno peggiore dell’altro, che i Vescovi intrusi divulgano imperterriti per distogliere il popolo dall’obbedienza dovuta ai Nostri Ammonimenti Apostolici. Il primo inganno concerne la negata autenticità delle Nostre lettere; non c’è nessun commento più congruo se non che ciò si attaglia perfettamente alla fonte dalla quale proviene. Con quale buona fede, infatti, si può dubitare della verità delle Nostre lettere, che, firmate di Nostro pugno, sono state mandate ai Metropolitani francesi e che, per Nostro ordine, furono edite presso la Stamperia Romana e fatte circolare non soltanto nel Regno di Francia ma in tutte le parti del mondo cattolico, così come accadrà anche per questa Nostra? Come dunque può essere definito apocrifo quel documento che è Nostro, che deriva unicamente da Noi, che è stato divulgato con tanta solennità da non lasciare spazio ad alcun dubbio; che, in definitiva, è tale che con poca fatica chiunque può distinguerlo dagli altri documenti, falsi e corrotti, che i Refrattari fecero circolare fra il popolo a Nostro nome, con somma audacia e manifesta calunnia, per procurare approvazione alla Costituzione Civile del Clero, che Noi avevamo rifiutato sin dall’inizio con sommo orrore?

16. L’altro fraudolento, raggirante inganno degl’Intrusi riguarda la mancanza di una certa forma “civile” nella pubblicazione delle Nostre lettere. Infatti essi certamente non ignorano, e a nessun altro può sfuggire, che allo stato attuale delle cose in Francia una forma di questo tipo non poteva essere adottata; cosicché coloro che utilizzano tale forma null’altro hanno in mente se non facilitare la crescita impunita dello scisma e dell’intrusione. Non sfugge infatti che questa forma “civile” non è necessaria, soprattutto quando si tratta di “causa maggiore“, che compete a Noi e che è stata resa nota attraverso i Vescovi. Proprio questo tutti i Cattolici riconoscono, e Valentiniano Augusto affermò con chiare parole nella “Novella” che segue la lettera di San Leone Magno ai Vescovi della provincia viennese: “Questa stessa sentenza [di San Leone] avrebbe dovuto aver valore in Francia anche senza la sanzione imperiale. Che cosa infatti non dovrebbe essere consentito nelle Chiese all’autorità di un Pontefice tanto grande?“. Lo stesso clero francese lo riconobbe quando si trattò di divulgare le lettere encicliche del Nostro predecessore Pio VI: “Non avete alcun bisogno dell’approvazione regia per divulgare come Regola la risposta della Santa Sede Apostolica su un tema esclusivamente spirituale“.

17. Quel che abbiamo detto fin qui sul lacrimevole stato dello scisma, al quale gli Intrusi si dedicano in modo ammirevole, è percepibile da chiunque lo esamini attentamente; perciò a buon diritto possiamo esclamare con Sant’Atanasio: “Non avete ancora capito che il Cristianesimo viene distrutto e che il Demonio, cerca, con l’inganno e sotto altre fattezze, di sconfiggere la Chiesa?“.

18. In tanto grave perturbazione delle vicende della Chiesa francese ed in altrettanta gravità e notorietà del crimine, Noi avremmo potuto fin da ora procedere contro i contumaci, con la comminata pena della scomunica, dal momento che per oltre undici mesi dal giorno dei Nostri Ammonimenti, da parte loro non giunse alcun segno di pentimento. Nondimeno, poiché abbiamo visto che il Nostro Ammonimento ha avuto esito non inutile presso molti, e avendo ritenuto di dover aspettare un certo tempo perché anche altri si adeguassero; tenendo soprattutto presente la grande bontà di Dio, il quale tollera i peccatori con molta pazienza e non vuole portarli alla perdizione, ma indurli alla penitenza; dopo aver ascoltato il parere di una scelta Congregazione dei venerabili Nostri fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa, riunitasi davanti a Noi il 19 gennaio di quest’anno, abbiamo ritenuto di dover agire fin qui con benignità nei confronti dei contumaci, per vedere se ritornino in sé e si rivolgano a Dio. Infatti non ci siamo ancora spogliati della misericordia paterna nei loro confronti ed in un certo senso, “come una madre non può dimenticarsi del suo bambino, per non dover avere pietà del figlio del suo ventre“, così la Santa Romana Chiesa non può dimenticarsi dei suoi figli, per quanto ribelli ed ostinati, e nei loro confronti è mossa più da pietà che da rabbia. Per questo motivo Noi, non senza gran pianto e lamento, temendo la frammentazione delle Nostre viscere, Ci asteniamo per ora dal comminare la sentenza di scomunica, accettando anche di differire più oltre la pena, affinché possa aver luogo il pentimento. Rimane tuttavia confermata la pena di sospensione inflitta con la Nostra lettera del 13 aprile.

19. Perciò abbiamo deciso di presentare questa nuova e perentoria Ammonizione, da valere anche come seconda e come terza, in base alla quale, contando sessanta giorni dalla data di questa Lettera per la seconda, ed altri successivi sessanta per la terza, disponiamo quanto segue:

20. Per primi ammoniamo, come è giusto, sollecitandoli al doveroso pentimento, i sacrileghi consacratori dei Vescovi intrusi e gli assistenti (Carlo Maurizio Vescovo di Autun; Giovanni Battista Vescovo di Babilonia e Giovanni Giuseppe Vescovo di Lidda), i quali in certo modo sono gli autori del funestissimo scisma, poiché con le prime azioni che osarono compiere, cioè le consacrazioni degli pseudo-Vescovi, precedettero tutti gli altri nell’atrocità del crimine.

21. Ammoniamo inoltre tutti gli pseudo-Vescovi intrusi che, senza elezione, ordinazione o missione legittima, hanno invaso le Sedi Episcopali – sia quelle antiche, sia quelle di recente ed illegittima costituzione – la maggior parte delle quali era retta dai legittimi Presuli, mentre quelle che erano vacanti erano rette dai Vicari capitolari, secondo le leggi prescritte dal Concilio di Trento.

22. Ammoniamo anche l’Arcivescovo di Sens, il Vescovo di Orléans, il Vescovo di Viviers e Pier Francesco Martello, coadiutore dell’Arcivescovo di Sens. Di costoro, i primi tre, quantunque abbiano ricevuto correttamente il vescovado, hanno tuttavia osato invadere parti di altre Diocesi e rinunciare a porzioni delle proprie, attenendosi ai decreti dell’Assemblea nazionale; tutti, poi, allo stesso modo dei Vescovi consacratori, degli assistenti e di tutti i Vescovi intrusi, non si sono vergognati di sottomettersi alla Costituzione civile del clero, prestando puramente e semplicemente quel giuramento civico che Noi avevamo definito “fonte ed origine di tutti gli avvelenati errori” nella Nostra lettera del 13 aprile.

23. Ammoniamo i Parroci e coloro che con qualunque nome esercitano in titolo la cura delle anime, i quali, oltre ad imbrattarsi con quel giuramento sacrilego, hanno invaso intere Parrocchie, sia vecchie sia di recente ed illegittima istituzione, oppure ne hanno invaso delle parti, per istituzione ricevuta (per altro senza valore) dai Vescovi intrusi o dall’Arcivescovo di Sens o dai Vescovi d’Orléans e di Viviers (legittimi, in verità, ma legati col giuramento civico) che hanno operato al di fuori dei confini delle rispettive Diocesi, anche se alcuni di loro in precedenza avevano correttamente ricevuta l’investitura delle Parrocchie.

24. Infine ammoniamo anche tutti i Vicari e gli altri Preti, con qualunque nome chiamati, delegati all’esercizio della giurisdizione ed allo svolgimento degl’incarichi ecclesiastici dai Vescovi intrusi, i quali non possono trasferire ad altri un diritto che essi stessi non possiedono.

25. Avendo tutti così ammoniti, se a Noi non risulterà che, nell’arco di tempo precedentemente assegnato, ciascuno abbia fatto, in favore della Chiesa, la penitenza dovuta per i suoi peccati, allora certamente “ci addoloreremo, ci rattristeremo, piangeremo e ci sentiremo le viscere lacerate, come se fossimo spogliati delle nostre stesse membra“; tuttavia non Ci dorremo in modo da non procedere, in una vicenda così grave, secondo la gravità dei delitti, la moltitudine dei delinquenti e la pericolosità del contagio, da non comportarci come richiedono il ministero apostolico e le norme canoniche, scagliando cioè la sentenza di scomunica, notificandola pubblicamente ed indicando costoro come allontanati dalla comunione con la Chiesa, da considerarsi scismatici pervicaci e perciò da evitare.

26. Ancor oggi Noi rivolgiamo quest’ultima ammonizione canonica, piena di sollecitudine paterna e di moderazione, ai Vescovi consacratori, agli Assistenti, ai Vescovi intrusi ed ai loro Vicari, ai Vescovi che han prestato giuramento, ai Parroci parimenti intrusi; ai Vicari ed ai Sacerdoti delegati o approvati dai Vescovi intrusi; dal momento che il loro crimine è di gran lunga più grave e pericoloso, sia per la natura stessa del peccato, sia per la dignità ed autorevolezza della persona che lo compie; fattori, entrambi, che contribuiscono moltissimo a corrompere gli altri, insieme con l’esempio e l’uso della giurisdizione usurpata. Nondimeno vogliamo che si considerino ammoniti anche gli altri: gli autori e i fautori della Costituzione pubblicata, tutti quelli che hanno giurato, specialmente gli Ecclesiastici e soprattutto i Parroci, i Superiori ed i Rettori dei Seminari, i Professori ed i Presidi di Università e Collegi, perché non pensino di schivare a suo tempo analoga pena, se persisteranno ostinati e contumaci nel loro delitto.

27. Mentre diciamo queste cose, mentre Ci affidiamo a queste minacce, chiamiamo Dio a testimone di quanto non vorremmo esser costretti ad usare queste armi spirituali, se potessimo farne a meno. Con animo ben disposto abbiamo sempre dato spazio alla moderazione e alla misericordia, facendo ricorso alla severità malvolentieri e soltanto se costretti dalla necessità. Proprio per questo ancora una volta e con il massimo vigore, nel nome delle viscere di Gesù Cristo, preghiamo coloro che in qualunque modo hanno avuto parte in questo scisma, ed in particolare i sacri Ministri, e li scongiuriamo affinché riflettano su quanto sia indegno, perverso e miserrimo, per i Fedeli, specialmente Ecclesiastici, favorire ed assecondare questo scisma pestilenziale; esso è nato per l’iniquo consiglio dei filosofi innovatori che costituivano la maggior parte dell’Assemblea Nazionale, e si sarebbe quasi estinto sul nascere se i Fedeli e gli Ecclesiastici l’avessero contrastato. Inorridiscano dunque meditando quanto l’attesa d’un terribile giudizio, simile ad un fuoco, consumerà coloro per colpa dei quali lo scisma (che col loro ravvedimento potrebbe cessare) perdura ancora e si espande e cresce nelle fiorentissime regioni francesi.

28. Mancano forse famosi “eccitamenti dei francesi” per ritrattare il giuramento civico? Eppure è noto che molti fra i più illustri intellettuali francesi si dimostrarono docili nel detestare gli errori precedentemente propugnati. Infatti, già all’inizio del V secolo il monaco Leporio pubblicò la ritrattazione dei suoi errori, che fu letta nel quinto Sinodo africano e fu inviata ai Vescovi francesi; il sacerdote Lucidio ne indirizzò un’altra al Sinodo di Arles; non diversamente si comportò Giovanni Gerson, che formulò la sua ritrattazione basandosi sugli insegnamenti dei libri di San Bonaventura. A questi sono seguiti Pietro de Marca e Francesco Fénelon, Arcivescovo di Cambrai, meritevole del più elogiativo ricordo, e molti altri scrittori francesi, al cospetto dei quali chi potrà arrossire e ancora ostinatamente rifiutare di imitarli, loro che seppero trasformare il loro errore in gloria e vanto singolari? Una convinta speranza ci induce a ritenere che la mano di Dio non si arresterà sopra gli intrusi e gli scismatici; che i loro animi traviati saranno richiamati sulla via della salvezza, e, sollecitati dagli esempi di antenati così famosi, con la ritrattazione dell’empio giuramento condanneranno le consacrazioni sacrileghe, rinunceranno agli incarichi sacerdotali precedentemente occupati e riconosceranno i legittimi pastori.

29. Voi intanto, Venerabili Fratelli, che – udito l’ultimo ammonimento di questa Nostra lettera – Ci pare di vedere agitati e tremanti per la salvezza del Vostro gregge e Ci par di udire esclamare con San Paolo “Chi di voi cadrà infermo, senza che questo indebolisca anche me? Chi sarà scandalizzato senza che anch’io mi senta avvampare?“; Voi, dicevamo, mentre renderete pubblica questa Nostra lettera, aggiungete le vostre alla Nostra preoccupazione, levando preghiere più fervide a Dio Ottimo e Massimo, ripetendo le esortazioni ed i vostri consigli, affinché – in tanta crudezza dei tempi ed in tanta confusione degli animi – possiate consolidare la fermezza dei fedeli che sono rimasti tali e recare aiuto alla debolezza di coloro che sono caduti. Ma soprattutto mettete sotto gli occhi di coloro che sono caduti che niente servirà tanto alla loro salvezza eterna, niente alla loro vera gloria, niente alla gioia dell’intera Chiesa, niente sarà così gradito quanto questo sacrificio di obbedienza, al quale li invitiamo, li preghiamo, li scongiuriamo per le viscere del nostro Dio e per l’avvento del Signore Nostro Gesù Cristo. Facendo queste cose, continuerete ad essere quel che già siete, cioè “buoni ministri di Gesù Cristo, cresciuti nelle parole della Fede e della corretta dottrina che avete sempre seguito“.

30. Voi pure, diletti Figli Canonici di rispettabili Capitoli, Parroci, Sacerdoti, altri ministri del clero francese, infine, Fedeli tutti abitanti nel Regno francese, che vi siete distinti dagli altri per la costanza e l’impegno religioso, unite le vostre preghiere alle Nostre ed a quelle dei vostri Pastori, ed implorate nella cenere, nell’orazione, nel digiuno, “Perdona, o Dio, il Tuo popolo“. Poiché Dio è buono e misericordioso, quando vedrà il pianto dei Sacerdoti e dei cittadini, di certo sarà compassionevole ed avrà pietà. Perciò sopportate con pazienza gli infortuni che vi sono capitati e che forse ancora vi accadranno, “fintanto che la destra di Dio onnipotente distruggerà tutte le armi del demonio, al quale perciò si permette di tentare arditamente qualcosa, perché poi sia sconfitto con maggior gloria dei fedeli di Cristo; poiché dove la verità è maestra non vengono mai meno, fratelli carissimi, i conforti divini“.

31. Soprattutto vi raccomandiamo e v’ingiungiamo di mantenervi sempre strettamente a contatto con i vostri Pastori, affinché non comunichiate in alcun modo, e men che meno nelle cose divine, con gli intrusi ed i refrattari, con qualunque nome vengano chiamati; allo stesso modo guardatevi dallo scellerato opuscolo di cui si diceva prima, il capzioso “Accord des vrais principes“, dalle lettere pastorali e “nunciatorie“e da qualunque genere di scritto diffuso od in via di diffusione da parte di coloro che, mentre difendono la Costituzione civile del clero, in realtà danno vigore allo scisma. Allo stesso modo che nelle Nostre precedenti lettere già avevamo contestato e condannato tale Costituzione, così ancora con questa Lettera riproviamo, rigettiamo e condanniamo la predetta opera, le lettere pastorali e “nunciatorie” e tutti gli altri scritti, sulla base del supremo ufficio Apostolico del quale siamo rivestiti.

32. Nell’immensità della Sua benevolenza, Dio voglia dar forza alle Nostre cure pastorali, affinché coloro che fra voi sono rimasti fedeli si rafforzino, e coloro che sono caduti si rialzino. Questo chiediamo a Dio, implorandolo ed inginocchiandoci – per usare le parole dell’apostolo Paolo agli Efesini – davanti al Padre Signore nostro Gesù Cristo “affinché vi conceda di fortificarvi nella virtù secondo le ricchezze della sua gloria, per mezzo del suo spirito che scende nel cuore dell’uomo, e di fare abitare Gesù Cristo nei vostri cuori, radicati e consolidati nella carità. Come pegno di questi doni celesti, diletti Figli, Venerabili Fratelli e diletti Figli, Noi vi impartiamo dal più profondo del cuore, paternamente e con amore, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2020)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione: a S. Pietro.

Semidoppio Dom. privil. di II cl. – Paramenti violacei.

Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il « padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. «Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: Io vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima, infatti le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questa Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto), Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto «per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: «Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare (VI orat. del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito », cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa» (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì). Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri il suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S. Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

[Ps XXX: 3-4] Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX: 2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. – [In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Orémus.

Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

Omelia I

ECCELLENZA DELLA CARITÀ

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

 “Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi  giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”. (1. Cor. XIII, 1-13).

I diversi doni spirituali, di cui erano stati abbondantemente arricchiti i fedeli di Corinto, dovevano essere tenuti tutti nel medesimo pregio. Se alcuni avevano doni più appariscenti degli altri, li avevano avuti da Dio, che distribuisce le grazie come a lui piace. Questi doni poi, come le membra di un sol corpo, dovevano concorrere a vicenda nel promuovere il bene comune, della Chiesa. Nessuno, dunque, deve invidiare i doni degli altri. Del resto c’è un bene molto più desiderabile di tutti questi doni: la carità. Di questa l’Apostolo dimostra l’eccellenza nell’epistola di quest’oggi. Essa, infatti:

1. È necessaria più di tutti i doni,

2. È l’anima di tutte le virtù,

3. Dura nella vita eterna.

1.

Se parlassi le lingue degli. uomini e degli Angeli e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante.

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che. son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. Che giova a Balaam predire, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, la grandezza d’Israele, quando egli si fa ispiratore di prevaricazioni abominevoli, perché sopra Israele cadano i tremendi castighi di Dio? (Num. XXIV, 2 ss.) Che giova a Giuda aver avuto il mandato di predicare il regno di Dio e di risanare gli infermi? Anche coi doni più eccellenti, anche con le azioni più eroiche non cessiamo di essere iniqui agli occhi di Dio, se ci manca la carità. Gesù Cristo ci fa sapere che molti nel giorno del giudizio diranno: «Signore, non abbiamo noi profetato nel nome tuo, e non abbiamo nel tuo nome cacciato i demoni, e nel nome tuo non abbiam fatto molti prodigi?» Ma Gesù dirà loro: «Non v’ho mai conosciuti: ritiratevi da me, operatori d’iniquità» (Matt. VII, 22-23). Come possono essere operatori d’iniquità, coloro che compiono tali prodigi nel nome di Dio? Intanto uno è iniquo, in quanto non possiede la carità. «Chi non possiede la carità è senza Dio» (S. Pier Grisol. Serm. 53). E lontani da Dio non si può esser che suoi nemici, meritevoli della sua maledizione. Anche senza doni straordinari, anche senza l’opportunità di compiere atti eroici, a tutto basta, a tutto supplisce la carità. «Io credo — dice S. Agostino — che questa sia quella margherita preziosa, della quale sta scritto nel Santo Vangelo che, un mercante, trovatola dopo una lunga ricerca, vendette tutte le cose che aveva per poterla comperare. Questa preziosa margherita è la carità, senza la quale nulla ti giova di quanto possiedi: questa sola, se l’hai, ti può bastare. ((2) In Ep. Ioa. Tract. 5, n. 7).

2.

 La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, ecc.  – L’Apostolo, dopo aver detto che la carità è più eccellente di qualsiasi dono, passa a mostrarne i caratteri. S. Gerolamo, riportata questa descrizione, conchiude : «La carità è la madre di tutte le virtù » (Ep. 82, 11 ad Theoph.). Per la carità noi amiamo Dio per se stesso e il prossimo per amor di Dio. Questo amore dev’essere necessariamente l’anima di tutte le nostre azioni, sia che riguardino Dio, sia che riguardino il prossimo. Così, la città spinse gli Apostoli alla conquista del mondo, e li rese forti e costanti a traverso tutte le difficoltà. La carità sostenne fino all’ultimo i martiri, rendendoli trionfatori dei più raffinati tormenti. La carità rese prudenti i confessori contro tutte le insidie, e li fece perseverare nella via retta dei comandamenti. La carità fa vivere sulla terra angeli in carne, e adorna questa misera valle di lagrime dei fiori d’ogni virtù. Essa stacca da questa terra il cuor dell’uomo e lo accende del desiderio di unirsi a Dio così da poter dire con l’Apostolo: «Bramo di sciogliermi dal corpo per essere con Cristo» (Filipp. 1, 23). Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. Ecco perché i Santi cercavano di progredire sempre più nella carità, anteponendola, nella stima, a tutte le grande azioni. Un giorno si vollero fare congratulazioni al Beato Bellarmino per tutto quello che aveva fatto in servizio della Chiesa. Ma il Beato respinge prontamente la lode con queste belle parole: « Una piccola dramma di carità val più di quanto io possa aver fatto » (Raitz. von Frentz. Der ehrw. Kardinal Rob. Bellarm. Freiburg, 1923, p. 141).

3.

L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita, L’Angelo sveglia S. Pietro nell’oscurità del carcere, lo guida a traverso le tenebre e le guardie, e scompare. L’Angelo Raffaele fa da guida a Tobia nel viaggio a Rages, lo libera nei pericoli, lo sostiene nella sua opera, ma un giorno dice: « Ora è tempo che io torni a Colui che mi ha mandato » (Tob. XII, 20). – La fede ci fa da guida in questa vita, mostrandoci la via che conduce al cielo. La speranza ci preserva dallo scoraggiamento, e, mostrandoci i beni della patria celeste, accende la nostra carità, la quale, a traverso a qualunque ostacolo, ci fa pervenire alla meta sperata. Qui, il compito della fede e della speranza è finito. Quando vediamo ciò che la fede insegna, essa cessa di sussistere: quando possediamo ciò che si sperava cessa la speranza. Solamente la carità non si ferma alla soglia della seconda vita. Essa vi entra con noi, ed entra nel regno suo proprio. Alla fede sottentrerà la visione di Dio; alla speranza sottentrerà la beatitudine: ma nulla sottentrerà alla carità, la quale, anzi, vi avvamperà maggiormente. Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

 Graduale:

Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam. [Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph.

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto:

[Ps XCIX: 1-2] Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII: 31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto dai profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. Esclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia?” E quegli disse: “Signore, ch’io vegga”. E Gesù dissegli: “Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo.” E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]

Omelia II.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra il peccato mortale.

“Tradetur enim gentibus et illudetur et flagellabitur et conspuetur; et postquam flagellaverint, occident eum”. Luc. (XVIII).

Ecco, fratelli miei, la predizione che il Salvatore faceva ai suoi Apostoli su ciò che doveva accadergli nella città di Gerusalemme. L’evento ha verificato questa predizione. L’abbiamo veduto questo Figliuolo dell’uomo, questo Salvatore adorabile, abbandonato al furore dei Giudei e dei gentili, che, malgrado la loro antipatia, si sono riuniti per fargli soffrire gli oltraggi più atroci, i supplizi più rigorosi, la morte più crudele. Tale fu la riconoscenza che Egli ricevette da un popolo che ricolmato aveva delle sue grazie e de’ suoi favori. Ah! se la malizia e l’ingratitudine degli uomini avesse almeno avuto fine con gli oltraggi che ricevette durante la sua passione! ma, ohimè! noi vediamo ancora a nostri giorni la continuazione degli avvenimenti predetti dal Salvatore; ogni giorno i peccatori rinnovano, per quanto è in essi, come dice l’Apostolo, la passione e la morte di un Dio che li ha riscattati a prezzo del suo sangue. No, non solamente dai Giudei, che erano suoi nemici, e dai gentili, che nol conoscevano, Gesù Cristo è stato oltraggiato, perseguitato, messo a morte; ma Io è ancora dai suoi propri figliuoli. Checché abbiano potuto fare per questo fine gli Apostoli col loro zelo indefesso, i martiri coi loro patimenti; checché possano fare ancora gli operai evangelici colla guerra continua che menano al peccato, checché faccia Dio medesimo coi castighi, colle calamità con cui affligge il suo popolo per arrestare il corso del libertinaggi, il peccato nulla di meno, quel mostro orribile, sussiste sempre per dichiarare la guerra a Dio, per rinnovare la morte di Gesù Cristo e per perdere gli uomini. Questo mortal veleno infetta tutte le condizioni del mondo, l’iniquità sembra aver inondata tutta la terra. Potrò io quest’oggi sperare di arrestare questo torrente, opponendogli qualche argine? Ah quanto mi stimerei fortunato! Al peccato dunque vengo io a dichiarare la guerra, malgrado l’impero ch’egli ha preso su gli uomini, massime in questo maledetto tempo di dissolutezza, in cui egli alza più arditamente lo stendardo, per gli eccessi vergognosi cui si abbandonano con più libertà i malvagi Cristiani, come se fosse un tempo in cui il peccato fosse meno enorme. Ed è per questo altresì e noi dobbiamo ancora vieppiù sollevarci contro questo nemico della gloria di Dio e della felicità dell’ uomo. E sotto questi due aspetti bisogna rappresentarvelo per ispirarvene tutto l’orrore che merita. Il peccato è il nemico di Dio per l’ingiuria che gli fa: primo punto. Il peccato è il nemico dell’uomo a cagione dei gran mali che tira addosso a chi lo commette: secondo punto. In due parole, il peccato è il sommo male di Dio ed il sommo male dell’uomo. Siccome questa materia è di una grande estensione, noi ci feriremo quest’oggi al primo punto, in cui tratteremo dell’ingiuria che il peccato fa a Dio. Favoritemi di tutta la vostra attenzione.

I . Punto. Che cosa è il peccato? È, dice s. Agostino, un pensiero, una parola, un’azione contro la legge di Dio; o, come dice s. Ambrogio, una trasgressione dei divini comandamenti: cœlestium inobedientia mandatorum. Or, sapete voi, peccatori, qual è l’ingiuria che fate a Dio col peccato ed in che consiste la sua malizia? Lo stesso s. Agostino o dopo lui s. Tommaso ce ne forniscono l’idea, allorché ci dicono che il peccato è un allontanamento da Dio e un attaccamento sregolato alla creatura: Aversio ab incommutabili bono et conversio ad creaturam. Chi commette un peccato mortale, si allontana da Dio con la ribellione più temeraria; egli s’attacca alla creatura con la preferenza più indegna e più ingiuriosa, cioè il peccatore si rende colpevole verso Dio della ingratitudine più nera, del disprezzo più oltraggiante, della ribellione più temeraria; tre caratteri del peccato mortale che ne fanno conoscere tutta la malizia e che debbono ispirarne un estremo orrore.

1. Riflessione. Richiede il buon ordine che il servo sia sottomesso al suo padrone, il figliuolo a suo padre, il suddito al suo re, la creatura a Dio. Il che riconosceva altre fiate un esempio, oppresso sotto i colpi della divina giustizia: egli è giusto diceva che l’uomo sia sottomesso a Dio: iustum est subditum esse Deo (2 Mach. IX) . La dipendenza è tanto essenziale alla creatura, quanto l’indipendenza al Creatore; dipendenza sì universale che siccome la creatura non può sussistere né operare senza Dio, così non può nemmeno e non deve operare che per Dio. Essa deve ubbidirgli in tutto ed applicarsi incessantemente ad adempiere tutti i suoi voleri. Che fa dunque una creatura quando pecca? ella vuole uscire dal suo stato di dipendenza; è un servo che vuole sottrarsi all’autorità del suo padrone, un figliuolo che non riconosce più suo padre, un suddito che si ribella contro del suo re. E, dice s. Ambrogio, un nulla che prende l’arme contro l’Onnipotente per eguagliarsi a Lui, nihilum armatum. Si può concepire una ribellione più temeraria che quella dell’uomo che non vuol ubbidire a Dio? I servi sono sottomessi ai loro padroni e solleciti ad eseguire puntualmente la loro volontà. E che pensereste voi medesimi di un servo che vi mancasse di sottomissione? Qual rispetto non hanno i sudditi pel loro re? Non solamente i piccoli, ma ancora i grandi si fanno un dovere di rendergli l’omaggio di un’intera sottomissione. Fa d’uopo per questo spendere il fatto suo, sacrificare il riposo, esporre la sanità ed anche la vita ai più grandi pericoli? Si lascia tutto, si sacrifica tutto per dimostrare la sua sommissione all’autorità del sovrano. E l’uomo, che di sua natura è servo di Dio, che dipende più da Lui che il servo dal suo padrone, il suddito dal suo re, ricuserà di ubbidire a Dio, il più grande di tutti i padroni, sovrano di tutti i re? a Dio, innanzi cui tutti i potentati dell’universo non sono che cenere e polvere? Non è forse questo un sommo disordine e l’intero rovesciamento di ogni subordinazione? Ecco nulladimeno ciò che avete fatto, fratelli miei, e ciò che voi fate ogni qual volta cadete in peccato. Quando un servo è ribelle agli ordini del suo padrone, un suddito a quelli del suo re, egli disubbidisce, è vero, ad un uomo che gli è superiore per stato e condizione, ma in sostanza si è ad un uomo simile a lui, soggetto come lui allo stesso destino. Ma, o uomo, chi sei tu riguardo a Dio? O homo! tu quis es? Meno che un verme di terra in confronto del più gran re del mondo. Paragona la tua bassezza colla grandezza di quell’Essere supremo che con una sola parola ha cavato dal nulla questo vasto universo e che può con la stessa facilità ridurvelo, innanzi a cui tutte le nazioni sono come se non fossero. Come osi tu dunque, cenere e polvere qual sei, sollevarti contro quella maestà suprema, a cui rimpetto tu sei un nulla? Come osi tu scuotere il giogo che Egli t’impone e dire come quell’empio di cui parla la Scrittura; io non voglio sottomettermi. Confregisti iugum, dixisti: non serviam (Jer. II). Qualunque autorità Dio abbia di proibirmi quell’azione peccaminosa, quella vendetta, io non voglio ubbidirgli, io voglio contentare la mia passione: non serviam. – Che? mentre tutte le creature eseguiscono gli ordini di Dio, le colonne del cielo tremano al minimo segno della sua volontà, gli elementi ubbidiscono alla sua voce senza conoscerlo; tu, che lo conosci, ti servi della conoscenza e della libertà che ti ha dato per resistergli? Che? sarai tu il solo che non voglia subordinazione alcuna e che sconvolga l’ordine? Tu sei dunque un mostro nella natura, che non meriti che il sole ti rischiari, che la terra ti porti e ti nutrisca; ma piuttosto ch’ella apra i suoi abissi per inghiottirti. Tu sei ancora tanto più colpevole, quanto che l’offendi alla sua presenza e gli resisti in faccia. Imperciocché non sai tu che questo Dio ha gli occhi su di te aperti, che in Lui tu vivi, e che non hai moto alcuno che per lui? In ipso vivimus, movemur et sumus. Come osi tu dunque violare la sua santa legge e fare alla sua presenza azioni che non oseresti fare alla presenza dell’ultimo degli uomini? Come osi tu far servire la sua possanza ed il suo aiuto ad offenderlo? Servire me fecisti iniquitatibus tuis (Isai. XLIII). Non sai tu ancora che questo Dio di tutta maestà può nel momento che tu l’offendi ridurti in polvere, precipitarti nel profondo degli abissi? Quale audacia e temerità è dunque la tua di ribellarti contro di Lui, d’irritarlo coi tuoi peccati? Che pensereste voi di un suddito, di un vile schiavo, che andasse ad insultare il suo re, il suo signore, sin sul suo trono, armato di tutta la sua possanza per punirlo? Non vi sarebbe, direste voi, castigo abbastanza rigoroso per punire la sua arroganza. La vostra è ancora più grande, peccatori, che offendete il vostro re, il vostro Dio, senza rispettare la sua presenza e senza temere i castighi della sua giustizia. Ma perché ribellarvi così contro l’Autore del vostro essere? Perché allontanarvi dal vostro Dio? Riconoscete quivi l’ingiuria che voi gli fate; si è per attaccarvi alla creatura, cui voi date un’ingiusta preferenza sul Creatore. Quale orrore! quale indegnità! qual disprezzo! ne conoscete voi di più oltraggiante?

2. Riflessione. Dio merita la preferenza nel nostro cuore su d’ogni altro oggetto, sia per l’eccellenza del suo essere, sia perché Egli solo può renderci felici ed effettivamente lo vuole. Egli la merita per l’eccellenza del suo essere; Egli è l’oggetto più amabile, più perfetto, più degno per conseguenza del nostro amore. Egli possiede le perfezioni più atte a guadagnare il nostro cuore; grandezza, bontà, sapienza, bellezza: il nostro cuore non è fatto che per Lui, e non può trovare che in Lui di che soddisfare i suoi desideri. Anche Dio vuol fare la nostra felicità e dar sé stesso per ricompensa di un amore su cui ha i diritti più incontrastabili. Se noi gli ricusiamo questo amore, Egli ci minaccia di privarci di quella ricompensa, di rigettarci per sempre dalla sua divina faccia. Che fa dunque l’uomo peccando? Ecco, fratelli miei, ciò che forse voi non avete giammai compreso, in che consiste il sommo disprezzo che l’uomo fa del suo Dio, offendendolo. Da una parte Dio si presenta all’uomo con tutti gli allettamenti delle sue perfezioni, con tutta la magnificenza delle sue ricompense; dall’altra si presenta la creatura con le sue imperfezioni, con la caducità dei suoi beni, con l’ombra de’ suoi piaceri. Dio domanda all’uomo la preferenza sulla creatura e gli promette di dargli sé stesso per ricompensa della sua fedeltà nel servirlo: al contrario lo minaccia di privarlo per sempre del possesso della sua gloria, in punizione della sua disubbidienza. Che fa il peccatore? Nell’impossibilità in cui è di servire a due padroni, Dio e la sua passione, egli rinunzia al servizio di Dio per contentare la sua passione. Un vile interesse, un sozzo piacere, un punto d’onore, che si trova in concorrenza con la legge di Dio, la vince sull’ubbidienza che esso gli deve. Ama meglio rinunziare al possesso del sommo bene che di privarsi di quel piacere, di quell’interesse, di quel punto d’onore. E non è questo, fratelli miei, preferire la creatura a Dio? Fare più stima di un oggetto creato che di un Oggetto infinito? Non è questo un sommo disordine? Mentre, laddove le creature debbono servirsi di mezzi per giungere al loro ultimo fine che è Dio, il peccatore mette il suo ultimo fine nelle creature, egli fa dei mezzi il suo fine, fissa il suo godimento e la sua felicità in ciò che non gli è dato che per suo uso, dice s. Agostino, e fa il suo uso dell’oggetto che far dovrebbe il suo godimento: Omnis perversitas humana, fruì utendis et uti fruendis. Pensatevi seriamente, peccatori ostinati; che fate voi trasgredendo la legge del Signore? Egli vi comanda, voi disubbidite: Egli vi minaccia, e voi niente affatto temete i suoi castighi; Egli vi promette beni eterni, e voi disprezzate le sue ricompense; voi amate meglio ubbidire alle vostre passioni che a chi vi ha dato la vita; qual disprezzo! Ve ne fu mai di più oltraggiante? Oimè! Fratelli miei, Dio chiede il vostro cuore; Egli lo chiede in qualità di Padre, e voi gli ricusate questo cuore ch’Egli ha creato, questo cuore ch’Egli ha riscattato, questo cuore ch’Egli tante volte ha santificato, e voi lo date alla creatura. O cieli, stupite e fremete d’orrore alla vista di un tale rovesciamento! porte celesti, siate nella desolazione, vedendo il vostro Dio messo al di sotto del nulla! Obstupescite cæli, super hoc; et portœ eius desolamini vehementer (Jer. II). Egli è Dio stesso che parla in questi termini per uno de’ suoi profeti. Il mio popolo, dice Egli, ha fatto due mali: ha abbandonato me, che sono la sorgente d’acqua viva, e si è scavato cisterne aperte che non possono ritenere le acque. Io sono il solo grande, il solo buono per eccellenza, che merito tutto il rispetto e l’amore dell’uomo, il solo bene capace di contentare i suoi desideri; e quest’uomo mi ha preferito un vile oggetto, un’ombra, di cui fa il suo Dio e la sua felicità! Me derelinquerunt fontem aquæ vivæ, et foderunt sibi cisterna dissipatas, quæ continere non valent aquas (ibid.). Sì, peccatori, voi offrite a quel mondo caduco un incenso che dovrebbe incessantemente innalzarsi verso il cielo; voi fate vostro Dio la creatura. Avaro, il tuo Dio è il tuo denaro: impudico il tuo Dio è l’idolo della tua passione: sensuale, il tuo Dio è il tuo ventre: Quorum Deus venter est. Quale indegnità, peccatori, e qual sorta di divinità voi vi fate? Le nazioni barbare cangiano forse il loro Dio come voi cangiate il vostro, preferendogli oggetti creati che sono infinitamente a Lui inferiori? Quindi è che il vostro peccato porta pur anche il carattere della più nera ingratitudine.

3. Riflessione. Dimenticare i benefizi che si son ricevuti, è ciò che gli uomini durano molta fatica a perdonare. Render male per bene, è ciò che provoca ancor più i sentimenti della natura. Ma servirsi dei beni medesimi che si sono ricevuti per oltraggiare il suo benefattore, questo è un portento d’ingratitudine, che non si vede neppur tra le bestie feroci. Tali sono nulladimeno i gradi d’ingratitudine del peccatore riguardo a Dio. Bisogna infatti, o peccatori, che abbiate perduta affatto la memoria dei beni che Dio vi ha fatti, per diportarvi, come fate, con Lui. E che? ignorate voi forse che quello che voi offendete è Colui che vi ha dato l’essere, che vi conserva ad ogni istante e che, se cessasse un sol momento di conservarvi, cadreste nel nulla? Richiamatevi, se potete, tutti ì mali da cui vi ha liberati, tutti i rischi da cui vi ha preservati, tutti i beni di cui vi ha ricolmi; non evvi alcun momento di vostra vita che non sia contrassegnato da qualche tratto di sua bontà. Se ai beni della natura voi aggiungete quelli della grazia, qual più grandi motivi di riconoscenza non vi trovate? Consultate su questo la vostra religione; essa v’insegnerà che Dio non contento di avervi creati a sua immagine e somiglianza, vi ha dato il suo Figliuolo per riscattarvi dalla schiavitù pel peccato e del demonio, ch’Egli ha abbandonato questo Figliuolo alla morte per darvi la vita, che per li meriti di questo Figliuolo adorabile vi ha adottati per suoi figliuoli, vi dà in abbondanza le sue grazie, vi chiama al suo regno. Ma qual riconoscenza gli rendete per tanti benefizi? Voi non vi corrispondete che con una nera ingratitudine. E questo dunque – diceva altre fiate Mosè ad un popolo ingrato e perverso come voi – è questo dunque il pagamento che il Signore doveva attendere delle sue bontà? Hæccine reddis Domino, popule stulte et insipiens (Deut. LII)? Non è forse Egli che è vostro Padre, che vi ha dato l’essere, e a cui appartenete per un’infinità di titoli? Numquid non ipse est pater tuus, qui possedit te et fecit te (ibid.). – Consultate i tempi passati, quei felici momenti in cui vi ha fatto nascere nel seno della vera Religione, a preferenza di tanti altri che non hanno avuta la stessa sorte che voi. Richiamate tutte le grazie con cui vi ha prevenuti, tutti i buoni sentimenti che vi ha ispirati, tutti i passi che ha fatto per ricercarvi nel tempo anche in cui voi eravate suoi nemici, tutti i segni di tenerezza che vi ha dati, tutti i mezzi di salute che vi ha somministrati: Memento dierum antiquorum (Deut. LII). Egli vi ha eletti come sua eredità; Egli vi ha cavati da una terra deserta ed orribile per condurvi per diversi sentieri ed istruirvi della sua legge; Egli vi ha custoditi come la pupilla dei suoi occhi: Circumduxit, docuit, custodivit quasi pupillam oculi sui (ibid.). Come un’aquila svolazza su i suoi pulcini e li eccita a volare, così il Signore ha steso le sue ali su di voi; Egli vi ha portati sulle sue spalle, come l’aquila fa ai suoi aquilotti: Expandit alas suas atque portavit in humeris suis (ibid.). Egli vi ha stabiliti in una terra eccellente, in cui avete ritrovato il miele che distilla dalle pietre, e l’olio dalle più dure rupi, ove vi ha nutriti del fiore di frumento e del vino più squisito, nei Sacramenti ch’Egli ha istituiti per la salute della vostr’anima: Ut sugeret mel petra cum medulla tritici, et sanguinem uvæ biberet meracissimum (ibid.). Ma come avete voi corrisposto a tanti favori? Ricolmi di beni di Dio; impinguati dei suoi doni, voi vi siete ribellati contro di Lui: Incrassatus est dilectus est recacalciravit. Voi avete sacrificato a dei stranieri ed avete reso al demonio un culto che non dovevate che a Dio solo: lmmolaverunt dæmoniis et non Deo, diis quos ignorabant. Voi avete abbandonato il Dio che vi ha dato la vita del corpo e dell’anima, voi avete dimenticato il Signore che vi ha formati: Deum qui te genuit dereliquisti, oblitus es Domini creatoris tui (ibid.). Come, figliuoli disumani, voi avete pagate le carezze di questo tenero Padre con l’indifferenza la più contrassegnata: ingrati, voi gli avete reso male per bene. Non ha Egli dunque ragione di farvi i medesimi rimproveri che faceva altre fiate per uno dei profeti ad un popolo di cui voi imitate l’iniqua condotta? Io ho allevato, dice Egli, figliuoli; Io non ho cessato di spargere su di essi i miei favori i più segnalati: Filios enutrivi et exaltavi (Isa. I); ed io non ho avuto per ricompensa delle mie bontà che disprezzi oltraggianti: Ipsi autem spreverunt me. Si vide mai simile ingratitudine negli animali? Essi conoscono i loro padroni, loro rendono servizio per li beni che ne ricevono: Ros cognovit possessorem suum. Ma voi non conoscete il vostro Dio, voi non gli rendete che oltraggi per li beni che vi ha fatti: Israel me non cognovit (ibid.). E ciò che rende somma la vostra ingratitudine, si è che voi vi servite di questi beni medesimi per offenderlo. Qual uso infatti fate voi dei doni naturali e soprannaturali di cui Dio vi ha ricolmi? in che impiegate voi, ricchi del secolo, quelle ricchezze ch’Egli vi ha date, se non ad appagare le vostre passioni, a mantenere la vostra mollezza, il vostro lusso, la vostra cupidigia? Come vi servite voi della sanità, se non per abbandonarvi alle dissolutezze? Que’ membri ch’Egli ha formato per aiutarvi non l’impiegate voi a commettere le ingiustizie o altri delitti di cui sarebbe troppo lungo il racconto? Quegli occhi ch’Egli vi ha dati per condurvi, voi li fermate su l’oggetto di una rea passione. Quella lingua ch’Egli vi ha data per chieder soccorso nei vostri bisogni, consolazione nelle vostre afflizioni, voi ne fate, come dice s. Giacomo, un mondo d’iniquità, con le bestemmie, con le parole oscene che profferite, con le maldicenze, con le ingiurie, e tutti i colpi maligni che vibrate contro del prossimo. Qual abuso non fate voi altresì dei doni soprannaturali, delle grazie, dei Sacramenti, della parola di Dio? Le grazie voi le calpestate con le vostre resistenze alla voce di Dio; i Sacramenti; voi li profanate con le cattive disposizioni con cui li ricevete; la parola di Dio, voi non vi degnate di ascoltarla o non l’ascoltate che con noia; il tempo che Dio vi ha dato per far penitenza, voi ne abusate per abbandonarvi alle vostre passioni; voi vi servite dei mezzi che Dio vi ha dati per servirlo e glorificarlo, voi ve ne servite per fargli la guerra, voi vi rivolgete contro di Lui i suoi propri doni. E non è questo portar l’ingratitudine al più alto grado. Non sareste voi medesimi sdegnati della condotta di una persona che in tal modo si diportasse a vostro riguardo, che impiegasse i vostri benefizi contro di voi medesimi, che se ne servisse per distruggervi e togliervi la vita? Poiché, ecco, peccatori; fino a qual eccesso si porta la vostra ingratitudine verso Dio. Non già che il vostro peccato possa rapirgli qualche parte della sua felicità e delle sue perfezioni infinite: Dio è sempre eguale a se stesso; benché oltraggiato sia dai peccatori, il suo trono è inaccessibile ai loro colpi: ma non è men vero che il peccatore vuole, per quanto dipende da lui, distruggere l’Autore del suo essere, perché vorrebbe che non vi fosse alcun vendicatore del suo peccato e per conseguenza che non vi fosse alcun Dio, a fine di peccare più liberamente: Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus (Psal. XIII). Oh! chi potrà comprendere quanto questa ingratitudine, unita al carattere di ribellione e di disprezzo che accompagna il peccato, è ingiuriosa a Dio? L’ingiuria che gli fa il peccato gli rapisce più di gloria che tutte le virtù dei Santi non gliene hanno potuto procurare e non gliene procureranno giammai. No, fratelli miei, tutto lo zelo degli Apostoli, tutti i patimenti dei martiri, tutte le penitenze degli anacoreti, tutto l’amore degli Angeli, tutte le virtù della ss. Vergine non hanno tanto glorificato Dio quanto un sol peccato lo disonora, perché la stessa ragione che sminuisce il merito della creatura, cioè la sua estrema bassezza, accresce la malizia del peccato e la rende infinita per la distanza infinita che si trova tra Dio e l’uomo. Per conseguenza Dio ha più di orrore per un sol peccato mortale che non ha di compiacenza in tutte le virtù dei Santi. Quindi è stato necessario, per riparare l’ingiuria che il peccato fa a Dio, che Dio stesso divenisse una vittima di propiziazione per l’uomo, che un Dio si umiliasse, si annientasse, divenisse ubbidiente sino alla morte della croce, per calmare l’ira di Dio irritato per il peccato. Tutti gli uomini e tutti gli Angioli insieme non avrebbero giammai potuto, con tutte le virtù le più eroiche, dare a Dio la soddisfazione che esigeva, se il Figliuolo di Dio, Egli stesso, non si fosse fatto nostro mallevadore presso di suo Padre. – Comprendete voi, o peccatori, l’enormità dell’oltraggio che il peccato fa a Dio? Ah! se voi non l’avete ancora compresa, gettate per un momento gli occhi sopra Gesù Cristo confitto in croce e dite a voi medesimi; ecco dunque ciò che costa il riparar l’ingiuria che il peccato fa a Dio! un Dio fatto uomo, un Dio che soffre, un Dio che muore, un Dio sacrificato all’ira di suo Padre perché si è rivestito della somiglianza del peccato, perché ha voluto portar il peso delle nostre iniquità! Ah! che al presente io comprendo la malizia del peccato, l’odio ch’egli porta a Dio, e l’odio ch’io debbo avere per lui. Ma ciò che non si può comprendere, fratelli miei, si è che il peccato, che è sì detestabile per i gradi di malizia che l’accompagnano, sia nulladimeno sì comune nel mondo; si è che altri si faccia del peccato un divertimento, un giuoco, un diletto. Il sole sembra non rischiarare che iniqui, la terra non portare che scellerati, essa non contiene che ribelli agli ordini di Dio. Dappertutto si rinnova la passione dell’uomo-Dio, io non vedo che Calvari dove si crocifigge di nuovo Gesù Cristo. Sì, peccatori, voi lo crocifiggete nel luogo santo con le vostre irriverenze, egualmente che nelle assemblee profane con le vostre libertà peccaminose: voi lo crocifiggete nel vostro spirito con i cattivi pensieri, non altrimenti che nel vostro cuore coi desideri sregolati: voi lo crocifiggete nei vostri occhi con gli sguardi lascivi, siccome nella vostra bocca coi discorsi osceni: ibi crucifìxerunt eum. Con tutto ciò questo Dio salvatore non vi ha fatto che del bene, e voi calpestate il prezzo del suo sangue i meriti della sua passione e la virtù della sua croce: o ingratitudine senza esempio! Il Signore è il migliore di tutti i padri ed il più mal ubbidito, Egli è il più grande di tutti i re, ed è il più mal servito, il sovrano di tutti i padroni ed è il meno rispettato. Ma che dico io mai? No, non v’è alcun nemico che gli uomini oltraggiano in una maniera più sensibile che il Signore, il miglior di tutti gli amici. Ed è principalmente, io lo ripeto, in questo maledetto tempo di libertinaggio, in cui è più esposto agli insulti dei peccatori che s’abbandonano alla dissolutezza, che fanno un Dio del loro ventre, che con mille intemperanze si preparano alla santa quaresima, che coi loro eccessi sembrano volersi risarcire della penitenza che sono per fare malgrado loro, che cangiano l’immagine di Dio in quella del demonio, e che rinnovano nelle veglie, nei balli e nelle assemblee notturne gli oltraggi che Gesù Cristo ricevette dai Giudei nella notte della sua passione.

Pratiche. Evitate, fratelli miei, queste esecrabili assemblee, piangete amaramente su tali disordini, e nel mentre che un’infinità di Cristiani piegano le ginocchia avanti Baal, venitevi a prostrare ai piedi di Gesù Cristo nel suo santo tempo, per fargli ammenda onorevole, domandargli perdono per quelli che l’offendono e rifarlo in qualche modo con i vostri rispetti e col vostro amore degli oltraggi che riceve dai suoi nemici. Accostatevi ai Sacramenti per cancellare con la penitenza i peccati che avete commessi ed unirvi a Gesù Cristo nella santa Comunione. Protestategli come s. Pietro che non volete lasciarlo, quand’anche tutti gli altri l’abbandonassero. Dove potrò io andare, o Signore, per esser meglio che presso di voi? Domine, ad quem ibimus! Io voglio essere con voi durante il tempo, per esservi durante l’eternità. Cosi sia.

Credo

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Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui. [Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Comunione Spirituale https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo. [Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem … [Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

Ultimo Evangelio e Preghiere lenine : https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ringraziamento dopo la Comunione

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

Ordinario della Messa

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CORONA

Si parla tanto di Corona, oggi, più o meno proposito. Ma vediamo nel gergo cabbalistico cosa voglia significare Corona, in modo da renderci conto del perchè sia stato scelto questo tipo di fantomatico virus tra le migliaia che la virologia conosce (o meglio suppone esistere.). Capiremo così pure come sia stata scelta non una immaginaria variante nazionale, pure di moda nei mesi scorsi, bensì la cosiddetta delta … Δ lettera greca che rappresenta … guarda caso, un triangolo a punta in sù … un simbolo strano … o no? Manca l’occhio di Horus, ma è sottinteso … Grembiulini, smettetela, il vostro gioco è chiaro ormai: Dio vi sta usando come bastoni a nostro meritato castigo di apostati, ma dopo il castigo, il bastone viene buttato nel fuoco e distrutto … la storia non vi insegna proprio nulla?

CORONA

[L. MEURIN:  LA FRAMMASSONERIA; trad. A. Acquarone, Siena Uff. Bibliot. del Clero, 1895]

LIBRO I

CAPITOLO III.

IL KETHER-MALKHUTH, LA CORONA DEL REGNO.

1. Origine dei Séfìroth Corona e Regno.

Ma donde viene la Corona che noi vediamo interpolata tra l’Ensoph e la Sapienza, tra la sostanza eterna e le tre persone divine?

Per approfondire tale questione importante, abbiamo consultato la Bibbia ebraica. Ora, nel libro d’Ester abbiamo trovato il Kéther-Malkhuth. Il re Assuero domandò che fosse condotta dinanzi a lui e ai principi del regno, la regina Vasthi col suo diadema reale. La regina vi si rifiutò. Allora la bella Ebrea Ester fu eletta invece di Vasthi disobbediente e detronizzata. Essa fu coronata da Assuero stesso del diadema reale tolto a Vasthi, e Mardocheo, suo zio, fu onorato e decorato del diadema reale che perdeva Amanno per aver voluto distruggere tutta la razza ebrea. – In questi passi il diadema reale è chiamato Kéther-Malkhuth. Dopo la caduta della regina Vasthi, dopo quella del primo ministro Amanno, e dopo l’innalzamento dell’Ebrea Ester al trono, e di Mardocheo al primo posto nel regno del re Assuero, gli Ebrei sterminarono i loro nemici, il tredicesimo e il quattordicesimo del mese d’Adar; essi istituirono una festa perpetua che dovea essere celebrata il quattordicesimo e il quindicesimo del mese di Adar. Eccoci sulle tracce dell’origine del primo e decimo Séfìroth Kéiher e Malkhuth: l’Uomo archetipo è l’Ebreo, con la Corona in testa e il regno ai suoi piedi. Non è questo uno dei più grandi misteri della Cabala? Non troverem noi il penultimo secreto della frammassoneria?

2. Applicazione politica del Kéther-Malkhuth.

Dopo aver scritto queste linee, abbiamo trovato nel libro di Drumont, Testamento di un Antisemita, p. 142, la conferma seguente del nostro esposto. Negli Archivi Israeliti del 16 ottobre 1890, l’Ebreo Singer interpella direttamente il signor di Bismarck e gli dice senza altro preambolo: « Io vi prego a rileggere il magnifico libro di Ester, dove troverete la storia tipica di Amanno e di Mardocheo. Amanno, l’onnipotente ministro, siete voi, mio signore; Assuero, è Guglielmo, e Mardocheo, è il socialismo alemanno, inaugurato dagli Ebrei Lassalle e Marx, e continuato dal mio omonimo e correligionario Singer. Voi avete voluto abbassare e annientare Mardocheo, e siete voi, il grande cancelliere, che siete divenuto sua vittima! »

Quale imprudenza da parte di questo Ebreo Singer! Egli chiama l’attenzione del mondo su questo libro di Ester dove appare il suo correligionario Mardocheo coronato dal Kéther-Malkhuth, di cui i Rosa-Croce del 18° grado, quegli obbedienti cavalieri degli Ebrei, portano l’immagine attaccata al gioiello sui loro petti leali! « Il timore della potenza degli Ebrei, dice la santa Scrittura (Esth. C. IX), avea invaso generalmente tutti i popoli. Gli Ebrei fecero adunque una grande carneficina dei loro nemici; e massacrandoli, resero loro il male che questi usi erano preparati a fare ad essi. » In Susa stessa, uccisero cinquecento uomini, senza contare i dieci figliuoli di Amanno. Si riferì tosto al re Assuero il numero di quelli che erano stati uccisi in Susa. « Il re disse alla regina Ester: Quanto grande, pensate voi, debba essere la carneficina che fanno i Giudei in tutte le province? Che domandate voi di più? e che cosa volete ch’io ordini ancora? — La regina gli rispose: Io supplico il re di ordinare che i Giudei abbiano il potere di fare ancora domani in Susa ciò che fecero oggi, e che siano appesi i dieci figliuoli di Amanno. Il re comandò che ciò si facesse, e tosto l’editto fu affisso in Susa, e i figliuoli di Amanno furono appesi; e al domani, i Giudei uccisero ancora in Susa trecento uomini. E intutte le province uccisero i loro nemici in sì gran numero che settantacinque mila uomini furono compresi in quella strage. » Quella supplica della bella Ebrea ci svela tutto il carattere crudele della sua razza quando essa ha la vittoria in mano,

Guai ai popoli padroneggiati dagli Ebrei!

Ecco come gli Ebrei intendono le parole di Davide: « Le lodi di Dio saranno sempre nella loro bocca, essi avranno nelle loro mani delle spade a due tagli per vendicarsi delle nazioni e punire i popoli, per legare i loro re e incatenarne i piedi, e i grandi di essi, mettendo loro i ferri alle mani (Ps. CXLIX). » – La festa che essi chiamano Purim, il 14 febbraio, gli Ebrei la celebrano in memoria della loro liberazione dalla tirannia di Amanno, per coraggio di Esther e di Mardocheo. « Gli Ebrei s’impegnano allora di rubare tutti i Cristiani che possono, principalmente i fanciulli. In quella notte, non ne immolano che uno solo fìngendo di uccidere Amanno. E mentre il corpo del fanciullo sacrificato è sospeso, essi scherzano intorno, fingendo di farlo ad Amanno. Col sangue raccolto, il rabbino fa certi pani impastati col miele, di forma triangolare, destinati non agli Ebrei, ma ai Cristiani loro amici (E. Desportes, le Mystere du sang, p. 311). » Gli Ebrei danno ai loro propri figliuoli giunti all’età di tredici anni una corona in segno di forza (ibid. p. 258). » La Corona in testa e il Regno ai suoi piedi, ecco l’ideale dell’Ebreo praticamente e perseverantemente perseguitato dacché Iehovah ha eletto la posterità di Abramo come suo popolo di predilezione. – Adam Kadmon, l’Uomo primordiale, è l’archetipo dell’Ebreo. L’Ebreo è l’Uomo per eccellenza. Tutta la fraseologia si bene conosciuta sull’Uomo e l’Umanità, la loro liberazione, la loro libertà, i loro diritti, ecc…, devono intendersi in primo luogo degli Ebrei; poi, per comunicazione, degli affiliati degli Ebrei, cioè dei frammassoni; perché soltanto nella frammassoneria si forma l’Uomo, e solo all’undicesimo grado l’uomo diviene perfetto, in guisa da poter rispondere alla domanda:

« Siete voi Sublime Cavaliere Eletto?

Risposta: — Il mio nome è Emmarek, uomo vero in ogni occasione (P. Rosen, p. 251). » Emmarek, in ebraico, vuol dire: Io sono purificato. « Fuor del popolo ebreo e degli individui giudaizzati per mezzo dei misteri massonici, non havvi Uomini veri, le altre nazioni non sono che una varietà d’animali (Talmud, v. Pontigny, le Juif selon le Talmud). » Questa è la dottrina del Talmud che per l’Ebreo è la teologia morale, come sua sorella, la Cabala, è la teologia dommatica. Ma come noi già lo dicemmo, se i frammassoni sono ingannati dagli Ebrei, gli Ebrei lo sono dal nemico dell’uman genere. Non vediam noi il tentatore nascosto sotto questo « diadema reale » Kéther-Malkhuth, come un tempo sotto la forma del serpente?

Il pomo del paradiso è cambiato in corona.

Non sentiam noi le parole del tentatore, ripetute più tardi a Gesù, mostrandogli tutti i regni del mondo e la loro gloria: « Tutte queste cose, io ti darò, se tu prostrato mi adorerai (S, Matteo, cap. IV, 8-9)?

L’Ebreo non ha risposto, come Gesù: « Ritirati, satana, perchè è scritto: « Tu adorerai il Signore Dio tuo, e servirai a lui solo (ibid. v. 10). »

Noi lo vedremo: si adora veramente Lucifero nelle logge massoniche. Libero agli Ebrei di adorare il diadema reale come il loro vitello d’oro:

satana, sotto il nome di Kéther, ha preso posto al di sopra della santissima Trinità.

Vediamo a questo punto, quali i siano i gradi della massoneria “dominati” dalla Corona, cioè – per ogni undicina – il decimo, il ventunesimo e l’apice: il trendaduesimo grado.

X Grado

La 1a Sephirah. La Corona. —

L’Illustre Eletto dei Quindici.

Il senso cabalistico del numero Quindici ci è già noto. La « Corona », Lucifero, vuol vedere la sua generazione (cinque) stabilita nei tre mondi, nell’universo. Al 10° grado, la frammassoneria deve rappresentare il primo dei dieci Séphirot, la Corona, nell’uno o nell’altro dei sensi che abbiamo indicati. La Corona è il simbolo della dominazione suprema, della vittoria completa su tutti i loro nemici. – A ben comprendere questo 10° grado, bisogna ricordare l’istruzione del Presidente del 33° grado: « Questi tre assassini infami sono: la Legge, la Proprietà, la Religione… Di questi tre nemici infami, è la Religione che deve essere il pensiero costante dei nostri assalti nichilisti, perché un popolo non ha mai sopravvissuto alla sua Religione, e perché con l’uccidere la Religione avremo nelle nostre mani e la Legge e la Proprietà; perché solo col stabilire sui cadaveri di questi assassini, la religione massonica la legge massonica, la Proprietà massonica, noi potremo rigenerare la Società (Paolo Rosen, p. 297.). » – Il rappresentante perfetto del potere supremo di Lucifero sì farà iniziare all’11° grado. Prima di divenire un tale rappresentante, egli deve meritare la sua corona, uccidendo, dopo Abibala che simboleggia la Religione, Sterkin e Oterfut, gli altri due assassini d’Hiram, che simboleggiano la Legge (i Re) e la Proprietà. – Il 9° grado è destinato a simboleggiare la distruzione della Religione; il 10°, quella della Legge e della Proprietà. Il recipiendario vi riceverà la civica corona degli Eletti della razza d’Eblis, quando avrà apportato le due altre teste: egli sarà acclamato e glorificato: « Gloria a lui! Riconoscenza eterna al vendicatore d’Hiram! » (P. 223). –  La tappezzeria della sala del 9° grado era screziata di fiamme rosse: la rabbia vendicatrice che immerge la mano nel sangue. Nel 10° grado queste fiamme saranno sostituite da lacrime rosse e bianche, lacrime di rabbia sanguinaria e lacrime di gioia e di vittoria. Nell’11° grado queste lacrime faranno posto a cuori infiammati, simboli dell’unione cordiale dei Sublimi Cavalieri Eletti, rappresentanti della Potenza Suprema. Si accende da prima una fiaccola di cinque bracci verso 1’Oriente, da dove parte la luce: la generazione « nel cielo »; poi un’altra al sud: la generazione « nell’aria di mezzo »; e infine una terza all’occidente: la generazione « sulla terra ». Il Tempio, l’Universo, è illuminato da quindici lumi. – Il recipiendario, dopo aver prestato il suo giuramento, porta le teste degli altri due assassini; con la mano destra, quella di Sterkin, con la sinistra, quella di Oterful. La testa di Sterkin, traversata da un pugnale sotto la mascella, simboleggia la decapitazione dei monarchi, quella di Oterfut, la rovina della Proprietà. Il re Maaca di Geth, nel cui territorio i due assassini si erano nascosti, è un personaggio biblico, e del fatto che gli schiavi di Semel eransi rifugiati nel suo territorio se ne fa parola nella Bibbia (III Re., 11, 39.); ma non v’è alcuna relazione tra questi fatti e la leggenda massonica. Quell’uso di nomi e di passi dell’Antico Testamento è una prova che il sistema massonico è un’ invenzione ebrea, e naturalmente a profitto degli Ebrei. Questa osservazione si trova confermata dal significato dei nomi seguenti: Ben-Dicar, figlio del pugnalamento, nome della caverna di rifugio dei due scellerati, Zerbaei, fuoco divorante di Dio, ed Eligam fremito di Dio, nomi dei due primi dei quindici Maestri che li scoprirono, e Herar, detenzione, nome della prigione dove essi furono chiusi. Finalmente le tre teste degli assassini d’Hiram sono un segno della vittoria finale dell’iniziato; egli ha meritato la sua corona, si è mostrato degno di essere posto tra i valenti avversari della Religione, della Legge e della Proprietà; tra i degni emuli di satana, che egli stesso si è imposto una Corona, per compensarsi della corona perduta il giorno nefasto in cui tre auguste persone « infami assassini », lo hanno condannato alla perdita della gloria celeste.

XXI Grado

21. La 1. Séphirah. La Corona. —

Il Cavaliere Prussiano Noachita

Questo grado rappresenta la Corona, il Kéther ebreo, e deve farci scorgere la speranza del « Popolo eletto » di essere un giorno coronato del diadema reale sul quadrato intero dell’universo, come un tempo Ester e Mardocheo su tutto il regno persiano, o come il Re frammassone Federico sulla Prussia. Questa è ancora una volta la riunione del potere spirituale e del potere temporale nella stessa mano, con l’estensione dell’augusto regno d’Israele sul mondo abitato da tutti i discendenti di Noè. – Il Noachita è un termine del Talmud e significa il Non-Ebreo (A. Pontigny, Le Juif selon le Talmud, p. 167). Il Motto de Passe, Phaleg, è pronunciato tre volte con tono lugubre, sia perché quell’uomo non è riuscito a compiere la Torre di Babele, sia perché gli Ebrei sono tristi di essere ancora tanto lontani dall’effettuazione della lor grand’Opera, la dominazionesull’universo.Sem, il fratello primogenito di Jafet, generò Arphazad, il nonno di Heber. « Heber ebbe due figli: uno si chiama Phaleg perché la terra fu divisa ai suoi tempi in nazioni e in lingue diverse; e il suo fratello chiamasi Jectan (Genesi. X. 25.). » Questo è tutto ciò che la cronaca santa riferisce su Phaleg. Essa non dice in nessun luogo ch’egli sia stato 1’architetto della Torre di Babele, e contraddice l’affermazione ch’ei fosse della stirpe di Cham. – Il « Grande Capitolo » dei Cavalieri Prussiani si tiene in una vasta sala illuminata solamente da una grande finestra per cui penetra la luna piena. Ogni altra luce è proibita. La sala deve essere decorata nello stile medioevale, e tutti gli assistenti hanno una maschera. – L’opinione volgare sulla Santa Vehme è che questo tribunale misterioso tenesse le sue sedute nelle tenebre della notte, sotto volte tetre, sedendo i membri coperti di maschere (Wetzer, Dictionnaire, Vehme. Conf. Clavet. Hist. de la Framm. p. 356.1).Il Fratello Cavaliere Prussiano porta all’occhiello una piccola luna d’argento. La Batteria è di tre colpi lenti; essa significa il Motto sacro: Sem, Cham, e Jafet. La marcia è: tre passi di Maestro. La leggenda racconta bene l’inganno di un membro della aristocrazia e di un vescovo, ma è difficile conchiuderne che lo scopo di questo grado sia di attaccare il clero e l’aristocrazia. Questo scopo è troppo subordinato per indicare il vero senso di questo grado eminente, che è, per così dire, la corona dei nove gradi precedenti. La Santa Vehme, rappresentando la giudicatura secreta massonica, non forma che una parte della leggenda di questo grado, e certamente la parte accessoria.La parte principale e la più secreta pare essere contenuta nel Gioiello: un triangolo d’oro, traversato da una freccia di argento avente la punta voltata in basso (p. 402). Che cosa può significare questo gioiello? Il triangolo dei tre Séphiroth superiori, di cui la Corona è la punta in alto, è facile a spiegarsi; ma la freccia (« La freccia è, come la spada, la lancia, l’arco, il giavellotto ecc., un simbolo del Fuoco filosofico). Le frecce di Apollo (Sterminatore) uccidono Tifo. » Ragon, Orthodoxie maçonnique p. 550, 556.) non si trova, per quanto sappiamo, tra i simboli numerosi di cui la Cabala fa uso. Nella Santa Scrittura, essa significa sempre la distruzione. Qui noi crediamo dover riferire questo simbolo alla soggezione dei re e dei popoli, perché è là il mezzo di conquistare la corona delle corone. Parlando di Ciro, Isaia, dice in nome del Signore le parole seguenti, che in questo grado Lucifero e gli Ebrei cabalisti applicano ai loro Ciri moderni, i Federico di Prussia, i Cavalieri Prussiani, i loro Fratelli, gli Ebrei Re: « Chi ha fatto uscire il giusto dall’Oriente e chi l’ha chiamato ordinandogli di seguirlo? Egli ha atterrato i popoli dinanzi a lui e lo ha reso il maestro dei re; egli ha fatto cadere sotto la sua spada i suoi nemici come la polvere, e li ha fatti fuggire davanti al suo arco come paglia portata dal vento… Ma tu, Israele, mio servo; tu, Giacobbe, che io ho eletto; tu, stirpe di Abramo che fosti mio amico, nella quale io ti ho preso per trarti dall’estremità del mondo… non temere perché io sono con te… Io lo chiamerò dal settentrione, ed egli verrà dall’ Oriente; egli riconoscerà la grandezza del mio nome; egli tratterà i grandi del mondo come il fango, e li calpesterà come lo stovigliaio calpesta l’argilla (Isaia, XLI, 2, 9, 55.)». La freccia che scende dalla punta del triangolo, dalla Corona, significa la stessa cosa che il segno del grado; prender le tre prime dita (Sem, Cham e Jafet) che il Fratello vi mostra. – Il Cesaro-papismo esercitato dagli Ebrei su tutte le nazioni è l’idea del 21° grado, idea degna di un Cavaliere Prussiano! Questo Principe regnerà in nome di Lucifero, e con lui, su tutti i popoli della terra nati da Sem, Cam e Jafet.

XXXII Grado

32. La 1a Sèphiraph. La Corona. —

Il Principe del Reale Secreto, Cavaliere di S. Andrea e Fedelissimo Custode del Sacro Tesoro.

La Sèphiraph Corona che deve presiedere al 32° grado, vi si è « impenetrabilmente nascosta ». Tuttavia noi l’abbiamo trovata sopra le due teste dell’Aquila onnipotente. Leo Taxil non dà la spiegazione del Campo dei Principi, di cui ha parlato alla pagina 443. Essa trovasi nel Rituale di questo grado pubblicato dal Fratello Ragon. Là, alla pagina 32, ei dice: « Il vessillo G, che è quello dei Grandi Maestri della Chiave, è verde chiaro. Esso porta un’Aquila a due teste, coronata, avente una collana d’oro, una spada nell’artiglio destro e un cuore sanguinante nella sinistra. » Così si vede giustificata sino alla fine la nostra ipotesi che la Cabala ebrea è la midolla della frammassoneria. Il 32° è il grado ebreo per eccellenza. Invece di Principe del Real Secreto, si dovrebbe dire: Principe dell’Esiglio; perché questo grado è l’apparato del salmo 136: « Sulle rive dei fiumi di Babilonia, ivi sedemmo, e piangemmo ricordandoci di Sionne. Ai salici appendemmo i nostri strumenti di musica. Come canteremo noi il Cantico del Signore in una terra straniera? Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se non avrò più memoria di te!…. Figliuola infelice di Babilonia! beato colui che farà a te quello che tu hai fatto a noi! Beato colui che prenderà e infrangerà sulle pietre i tuoi figliuoli! » Dolore, odio e rabbia! – I frammassoni non ebrei sono ben obbligati di mettersi in duolo per Israele esiliato, e di versar lagrime per le disgrazie degli Ebrei loro maestri! – La prima grande disgrazia nazionale fu l’esilio di Babilonia. La tappezzeria della Loggia è nera, colore di duolo, seminata di lagrime, di scheletri, di teste di morte e di tibie incrociate. Il Motto sacro è la parola latina Salix, salice: « Ai salici noi appendemmo le nostre lire! » La seconda grave sventura fu l’incendio pel Tempio, sotto Tito, il nove del mese Ab; ancora oggidì, questo giorno è per gli Ebrei un giorno di digiuno; da ciò il secondo Motto sacro la parola latina Noni, il nove. I due fratelli pronunciano allora insieme il terzo Motto sacro, la parola greca Tengu, affliggiamoci! — L’idea generale del campamento è la marcia verso la Terra Santa per riconquistarla e per ricostruire il Tempio di Gerusalemme. L’abate Chabauty (Les Juifs nos maitres. Parigi, Palme 1882.) ha dimostrato la perennità di un governo unico presso gli Ebrei dispersi: « È storicamente incontestabile, ei dice, che dalla loro dispersione sino all’undecimo secolo, gli Ebrei hanno avuto un centro visibile e conosciuto di unità e di direzione. » Teodoro Reinach lo afferma nella sua Storia degli Israeliti. Dopo la rovina di Gerusalemme, questo centro si trovò lungo tempo ora a Japhné, ora a Tiberiade; esso era rappresentato dai Patriarchi della Giudea (20° grado) che godevano di una grande autorità. « Essi decidevano i casi di coscienza e gli affari importanti della nazione; dirigevano la Sinagoga come capi superiori; stabilivano le imposte, avevano degli ufficiali detti apostoli che portavano i loro ordini agli Ebrei delle provincie più remote e ne riscotevano il tributo. Le loro ricchezze divennero immense. Questi Patriarchi agivano in una maniera palese o nascosta, secondo le disposizioni degli imperatori romani a riguardo degli Ebrei. Essi scomparvero sotto Teodoro. Superiori a questi Patriarchi erano i Principi della Schiavitù, che risiedettero lungo tempo a Babilonia. Gli scrittori ebrei mettono una grande differenza tra i Patriarchi della Giudea e i Principi dell’Esilio. I primi, dicono essi, non erano che luogotenenti dei secondi. I Principi della Schiavitù avevano la qualità e l’autorità assoluta dei capi supremi di tutta la dispersione d’Israele. Secondo la tradizione dei dottori, essi sarebbero stati istituiti per tenere il posto degli antichi re, ed essi hanno il diritto di esercitare il loro impero sugli Ebrei di tutti i paesi del mondo. – « I Califfi d’Oriente, spaventati della loro potenza, suscitarono loro delle terribili persecuzioni, e a partire dall’undecimo secolo, la storia cessa dal fare memoria di questi capi d’Israele. » – Scomparvero essi completamente, o trasportarono altrove la sede della loro potenza? Questa seconda ipotesi è molto più verosimile, vista la lettera degli Ebrei d’Arles a quelli di Costantinopoli, e la risposta degli Ebrei di Costantinopoli a quelli di Arles e della Provenza, con la data del 1489, di cui facemmo più sopra memoria. L’abate Chabauty ne deduce l’evidenza che a Costantinopoli risiedeva il loro Capo Supremo, non solamente religioso, ma eziandio politico: « Là era la testa della nazione. » – Questo Principe di Costantinopoli era il successore dei Principi Dell’Esilio di Babilonia. Egli trovavasi là nel centro della dispersione, e godeva di una piena autorità; « egli comandava da padrone ed era puntualmente obbedito (C. Desportes, Le Mistere du sang. p. 335). » Non ci meravigliamo adunque che alla testa di quella Istituzione affatto ebrea che chiamasi la frammassoneria, noi troviamo il Principe dell’Esilio vero, nascosto sotto il nome di Principe del Reale Secreto, coll’epiteto: Fedelissimo Custode del Tesoro Sacro (Ragon. Rituel du 31° e 32° degrè, p.. 9). – Tutti si persuadano bene che la Società secreta della frammassoneria è il piano di guerra il più nascosto e il più destro della Sinagoga decaduta, avente per iscopo la soggiogazione di tutte le nazioni della terra a profitto della stirpe eletta degli Ebrei. Chiunque dà il nome a quella società coopera alla Grande Opera degli Israeliti di porre il Kether-Malkhuth del mondo sulla fronte dell’Ebreo. Perché il maestro del 32° grado prende egli il titolo di Sovrano dei Sovrani, se con questo titolo i Capi supremi non vogliono designare il Diadema Reale sulla testa di Ester e di Mardocheo di tutti i regni della terra? – Perché questo « Sovrano dei Sovrani » chiamasi Grande Principe, se non perché il vero Principe dell’Esilio deve celarsi sotto il costume regale e lo scettro dei Fratelli del 32° grado? Perché porta egli ancora il titolo di Illustre Commendatore in capo, se non perché il Principe dell’Esilio deve essere alla testa della Supremazia esecutiva dell’Ordine? Il toccamento non è altro che l’Unione dei « Templari « di tutti i paesi per conquistare il mondo intero sotto la direzione suprema degli Ebrei. Ecco i Motti de Passe: A dice: Phagal-Khol, egli ha annientato tutto, B risponde: Pharas-Khol, egli ha spezzato tutto! A ripiglia: Nekam-Makkah, Vendetta! Carneficina! A e B: Schaddaì, l’Onnipotente. Queste parole esprimono bene quell’idea «Beato colui che prenderà e infrangerà i tuoi figli sulla pietra! ». – Noi ci siamo domandati perché le due teste dell’aquila non sono più apertamente coronate in questo grado che corrisponde alla Sephirah Corona. Sul cordone si vede bene l’Aquila a due teste, ma non si dice e non si vede ch’esse portino la corona. La ragione sembra essere che la corona non è chiamata a unire insieme i due poteri, il temporale e lo spirituale, che al 33° grado; il 32° rappresenta solo il potere temporale. Il vessillo G tuttavia reclama già, al 32° grado, ciò che il 33° è chiamato ad effettuare. – La Croce teutonica dei Templari, che ha già trovato la sua interpretazione cabalistica, fa qui una gran parte come decorazione sul bavero, sul cordone, sulla cintola, e come gioiello. Se si vuole penetrare più profondamente negli emblemi della frammassoneria, si troverà che la Croce teutonica è la Pietra cubica a punta (14° grado) spiegata. Tirate dalla punta della piramide quadrata quattro linee perpendicolari sulle quattro linee della sua base, e delineate queste otto linee, le basi e le perpendicolari, in un piano attorno a un punto, e troverete la forma della Croce teutonica. Il punto rappresenta la Corona cabalistica, o l’Intelligenza ermetica; le quattro perpendicolari, la generazione quadrupla, e le quattro basi, i quattro mondi. Sopra uno dei quattro lati della piramide trovasi lo Schemhamphorasch, il Nome spiegato. La piramide e la Croce teutonica hanno la stessa significazione. Ora, il 32° grado è il grado della Corona rappresentata dal punto centrale della Croce teutonica e dalla punta in alto della Pietra cubica a punta. I cinque ultimi gradi sono i gradi templari; perché gli Ebrei furono abbastanza sagaci per vedere in questi religiosi decaduti i migliori strumenti dei quali potessero servirsi per la loro Grand’Opera, in pari tempo che la loro Croce è un simbolo ammirabile della loro dottrina cabalistica nascosta negli emblemi del 32° grado. Ma perché, a fianco delle lagrime in argento sulla tappezzeria della loggia, vi sono lagrime ardenti sul fondo del trono ove siede Lucifero? L’esilio d’Israele è esso una figura dell’esilio di Lucifero nel fuoco eterno? e le lagrime di Lucifero sono esse lagrime di fuoco? Dante, parlando delle tre facce di satana incatenato nell’abisso dell’inferno, dice: « Egli piangeva con sei occhi, e le lagrime miste a sanguinosa bava gocciavano su tre meati ». La fiamma di luce sulla testa d’Eblis, crediam noi, è abbastanza viva per impedire che le sue lagrime si gelino prima di cadere sul ghiaccio, sul ghiaccio da dove « l’Imperatore del Regno dei dolori usciva sino a metà del petto ». – Per far risaltare l’idea cabalistica di questo grado importante, distinguiamo la dottrina dello Zohar dalla sua applicazione alla magia diabolica, fondata, si sa, sulla Cabala. Parliamo dapprima dell’ultima, a cui non vogliamo consacrare che poche linee, per timore di essere trascinati in una esposizione della magia cabalistica che esigerebbe un libro. Dopo la spiegazione del Campo fatto al Kadosch recipiendario, il Sovrano dei Sovrani gli fa le domande seguenti:

1. « Che cosa vi resta a sapere? (Noi citiamo dal Rituale di Ragon, avendo Leo Taxil omesso le prime quattro di queste domande) — Risp. Un punto essenziale che subito mi sarà rivelato.

2. « Perché vi è nascosto ? — Risp. Perché tredici di voi possono solo conoscerlo e che, troppo recentemente iniziato, io non posso essere di questo numero.

3. « Voi non conoscete dunque tutto ciò che vi importa sapere? — Risp. Vi sono certamente delle cose che io ignoro; pur tuttavia ne conosco tante altre per camminare verso la perfezione: verrà un giorno che mi sarà permesso di saper di più.

4. « Su che fondate voi quella speranza? — R. Sopra un’apparizione.

5. « Quali oggetti vi ha essa presentati? — R. Tre uccelli: un corvo, una colomba e una fenice.

6. « Che cosa annuncia il corvo? — R. La nerezza delle sue piume simboleggia la pena, il disordine e la morte.

7. « Che cosa vi ritraccia la colomba? — R. La sua bianchezza mi annuncia la generazione degli esseri.

8. « Che cosa vi ricorda la fenice? — Quell’uccello che esce dalle fiamme per ricominciare una novella vita, è l’emblema della natura perfezionata d’una teoria universale e di un potere senza limiti.

9. « Spiegatemi questo. — R. Io non lo posso, sono ancora troppo giovane.

10. « Che età avete voi. — R: 5, 7, 9, 27 e 33 anni — 81 anno. »

Ragon comunica ancora le Note del manoscritto su questo grado (32°). Alla prima domanda trovasi annotata quella rivelazione importante: « (27) pagina 40. Quella domanda come le otto seguenti non devono esser fatte che a coloro che sono destinati a cognizioni di un’altra specie, alle quali non si può anticipatamente iniziare un Principe del Real Secreto. » A quella nota del manoscritto Ragon aggiunge la sua : « All’Arte sacerdotale, l’arte di trasmutare i metalli imperfetti in argento e in oro puro. » (Vedi la Maçonnerie occulte, in cui trovasi l’Arte sacerdotale, p. 128 e seg.) J. M. R.). –  Queste due note bastano per far vedere a coloro che non sono bendati, né abbagliati dal licopodo, che tali questioni alzano poco il velo che copre ancora la massoneria occulta. La sfera ancora nascosta in cui essa si muove non è altro che il declivio soprannaturale per il quale essa fa discendere l’uomo verso l’abisso e lo conduce direttamente ai piedi dell’Imperatore infernale. – Noi abbiamo dinanzi l’Ortodossia massonica del Fr. Ragon, e vi troviamo, a pagina 542, la descrizione dell’Arte sacerdotale. È l’Alchimia; là si parla del mercurio (33° grado), del nero, del bianco e del rosso, del corvo, del serpente, della corona reale, ecc. Il Punto essenziale, non ancora rivelato al Principe del Reale Secreto, è la Corona della Cabala; è, in una parola, Lucifero in persona. – La risposta alla seconda domanda ci rammenta « il Tredicesimo » che l’ abate Girod vide nella Loggia misteriosa dove il principe russo Pomerantzeff l’aveva introdotto. Sull’invocazione dei dodici membri: « O Padre del male, vieni a noi! » egli venne; e l’abate vide « il nuovo venuto, il Tredicesimo, che sembrava venuto per il cammino dell’aria da cui pareva nascere ». – Il corvo nero e la colomba bianca, è l’aquila mezzo bianca e mezzo nera, l’Ermafrodita significando le antitesi del Buono e del Cattivo Principio, della materia e dello spirito, del potere temporale e del potere spirituale, del genere mascolino e del genere femminile, le colonne J e B, le due corna a fianco della fiamma sulla testa del Baphomet, le sue dita alzate, ecc. La fenice che esce dalle fiamme è la grande menzogna panteistica della trasformazione eterna di tutto ciò che è, è la risurrezione d’Hiram, lo Zizon del 4° grado. I tre uccelli significano adunque: la Fenice, l’universo che si rinnovella eternamente, formato dalla colomba e dal corvo, i due Principii del Bene e del Male. – In un altro senso, la Fenice è ancora, e principalmente, l’Angelo del fuoco che esce dalle sue fiamme infernali per rinnovellarsi, incarnarsi e vivere di nuovo nei suoi adepti. Essa si rivela come Tredicesima ai suoi fedeli adoratori, dopo che furono trovati degni di essere ammessi nel piccolo numero dei dodici scelti e privilegiati. E in ultimo l’emblema della natura, quando alla fine del mondo essa sarà perfezionata, « conformemente alla teoria cabalistica, e sottomessa al potere senza limiti del Principe di questo mondo, avente in fronte la Corona che gli avranno offerta i suoi adepti, i suoi schiavi disgraziati. Solamente, i Cristiani lo sanno, allora il Signore medesimo distrarrà col fuoco il mondo divenuto indegno di esistere: Dio stesso verrà per la seconda volta a giudicare i vivi e i morti; e gli dirà: Ecce nova facio omnia; « Ecco che io rinnovello tutte le cose! (Apocal. XXI, 5) » – Non entriamo adunque nel labirinto della magia nera di cui il 32° grado ci ha aperto la porta. Ma, per confermare ciò che abbiam detto, citiamo un altro passo del Rituale: Dopo aver presentato al neofito una spada, « l’arma di cui servivasi un tempo Goffredo di Buglione contro i nemici della fede, » il Grande Commendatore gli dà un anello, dicendo: « Ricevete questo pegno della nostra unione…. » Qui il manoscritto aggiunge la nota (8): « Se conferendo questo grado, non si consideri che come un gradino per arrivare alla massoneria ermetica, non si dà anello al recipiendario che nol riceve che ottenendo un nuovo grado (Ragon, Rituels du 31° et 32° degrè, p. 46). » – Con quella nota si apprende l’esistenza di un’altra massoneria divisa in gradi e rilegata ai 33 gradi per l’intermediario del 32°. – Noi impegniamo Leo Taxil a procurarsi e a pubblicare ciò che è ancora un segreto al mondo. Restiamo in compagnia col volgare dei Principi del Reale Secreto e tentiamo ora di comprendere questo Campamento di cui gli Ebrei danno la « spiegazione, » che non è una spiegazione. Ecco in primo luogo il « Quadro del Campo dei Principi: » « il mezzo è una croce di cinque bracci; essa è avvolta da un circolo, il quale è in un triangolo equilaterale; questo triangolo è, alla sua volta, in un pentagono che rinchiude un ottagono, rinchiuso esso pure in un ennagono; tutto questo è in rilievo come un abbozzo di architettura, con figure emblematiche, stendardi, orifiamme, tende, ciò significa il campamento della frammassoneria intera, ripartita e aggruppata in gradi. » (P. 443). Se ciò fosse, « i secreti massonici non sarebbero impenetrabilmente nascosti sotto dei simboli.» Penetriamo adunque sino al fondo di questo Campo, per ben conoscere i veri secreti che vi si nascondono. Sentiamo in primo luogo la Spiegazione ufficiale riprodotta dal Fr. Ragon (p. 32). – « Il Triangolo che voi vedete in mezzo del Quadro rappresenta il centro dell’armata e designa il posto che devono occupare i Cavalieri di Malta ammessi ai nostri misteri e uniti ai Cavalieri Kadosch, per dividere con essi la sorveglianza del tesoro sotto gli ordini dei Prodi Principi del Reale Secreto. Il corpo formato da quella riunione è comandato da cinque Prodi Principi che ricevono direttamente dal Sovrano dei Sovrani l’ordine che essi fanno eseguire, ed essi hanno i loro vessilli fissati agli angoli del pentagono e designati dalle lettere  T E N G U.

« 1° Il vessillo del padiglione T, che è quello dei Grandi Pontefici, è porpora; esso porta l’Arca d’Alleanza avvicinata da due fiaccole ardenti e sormontato da due palme in circolo. Al di sopra dell’Arca è scritto: Laus Deo.

« 2° Il vessillo E, che è quello dei Cavalieri del Sole, è azzurro. Esso porta un Leon d’oro che tiene in bocca una chiave d’oro, ed ha un collare d’oro su cui è scolpito il numero 515. In alto è scritto: Ad majorem Dei gloriam,!

« 3° Il vessillo N, che è quello dell’Arco Reale, è d’argento. Esso porta un Cuore infiammato sostenuto da due ali di sabbia di color nero e coronato di lauro semplice (fresco).

« 4.° Il vessillo G, che è quello dei Grandi Maestri della Chiave, è verde chiaro. Esso porta un’Aquila a due teste, coronata, avente una collana d’oro, e una spada nell’artiglio destro, e un cuore sanguinante nel sinistro.

« 5.° Il vessillo U, che è quello dei grandi Patriarchi, è oro e porta, un Bue di sabbia (color nero). Vedi questi cinque vessilli in un quadro:

QUADRO DEI CINQUE VESSILLI ….

(1) Ragon dice Reale Arco, il 13° grado, che non è rappresentato nelle Tende dell’enneagono. Noi crediamo dover mettere Ascia Reale, per completare gli alti gradi degli antichi 25 gradi. Quell’armata è sotto la direzione dell’antico 24° grado. Cavaliere Commendatore dell’Aquila bianca e nera; il 25° ed ultimo grado era intitolato: « Illustrissimo Sovrano, Principe della Massoneria, Grande Cavaliere Sublime Commendatore del Reale Secreto.

–  –  –  –  –

L’ennagono che forma la pianta esteriore del Quadro, designa il luogo che occupavano nell’armata i Principi di Gerusalemme, i Cavalieri d’ Oriente e d’Occidente, i Cavalieri Rosa-Croce e tutti gli altri massoni di grado inferiore a questo, da cui i capi ricevevano gli ordini dei cinque Principi del pentagono. Le fiamme sono notate con cifre; e le tende sono designate con lettere disposte da destra a sinistra, nell’ ordine seguente: I. N. O. N. X. I. L. A. S., e che, lette nell’ordine inverso, formano le due prime parole sacre (Salix Noni). Queste nove tende sono quelle della milizia della massoneria, ripartita come qui sopra: « Noi mettiamo la descrizione in un quadro, per essere compresi più facilmente. »

QUADRO DELLE NOVE TENDE E PADIGLIONI (….)

È inutile cercare una spiegazione delle tre parole sacre, altra che quella già data. Ragon ne dà sei o sette, più o meno cercate e forzate (p. 45). Non è luogo di occuparsi di queste invenzioni destinate a distrarre i curiosi Salix (latino) ricorda i salici di Babilonia e la prima schiavitù degli Israeliti, Noni (latino), la data della distruzione del Tempio, la seconda schiavitù e la dispersione degli Ebrei, Tenga (imperativo passivo dal greco tengo) esorta il Fratello a intenerirsi e a piangere. – Vediamo piuttosto la vera interpretazione cabalistica del Campo dei Prìncipi. L’abbiamo cercata lungamente; il cuore alato ci disviava sempre. Ma i tre animali l’Aquila, il Leone e il Bue, ci misero sulla traccia della grande visione del profeta Ezechiele, di cui la Cabala ebrea fa tanto caso. Mettiamo per il Cuore un Uomo, e tronchiamo all’Aquila una delle sue teste; allora la dottrina massonico-giudea, impenetrabilmente nascosta sotto i suoi simboli », ci sarà svelata. – Sentiamo, alla loro volta, Ezechiele e la Cabala. Ezechiele dice nel primo capitolo della sua profezia: « Ecco la visione che mi fu rappresentata: Un turbine di vento veniva da settentrione e una nube grande, e un fuoco che in lei s’immergeva e una luce intorno ad essa; e nel centro, cioè in mezzo al fuoco, eravi una specie di metallo brillantissimo. E nel mezzo di questo medesimo fuoco si vedeva l’apparenza di quattro animali che era tale: vi si vedeva la rassomiglianza di un Uomo. Ciascuno aveva quattro facce e quattro ali; i loro piedi erano diritti, la pianta dei loro piedi era come la pianta del piede d’un vitello (Osservate i piedi del Baphomet!), e uscivano da essi delle scintille come fa al vedersi un fulgido acciaio. Vi erano delle mani d’uomini sotto le loro ali ai quattro lati e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali.  Le ali dell’uno erano unite alle ali dell’altro. Non andavano indietro quando camminavano, ma ciascuno andava innanzi. Quanto alla figura dei loro volti, avevano tutti e quattro una faccia d’uomo, tutti e quattro a destra una faccia di leone, tutti e quattro a sinistra una faccia di bue, e tutti e quattro al di sopra una faccia d’ aquila…. Sopra le teste degli animali, si vedeva un firmamento che appariva come un cristallo scintillante e terribile a vedersi, che era steso sopra le loro teste…. E in questo firmamento che era sopra le loro teste, si vedeva come un trono di zaffiro, e appariva come un Uomo seduto su quel trono. Io vidi come un metallo brillantissimo e simile al fuoco, tanto dentro che all’intorno. Dai suoi lombi all’insù, e dai lombi di lui sino all’infime parti, io vidi come un fuoco che risplendeva all’intorno. E come 1’arco che apparisce in cielo in una nube in un giorno di pioggia tal’era 1’aspetto del fuoco che risplendeva all’intorno (Ezechiele, cap. I ). »

« I dieci Séphiroth, per cui, secondo la Cabala, l’Essere infinito Ensoph, si fa conoscere dapprima, non sono altro che attributi i quali, per sé, non hanno alcuna realtà sostanziale; in ciascuno di questi attributi, la sostanza divina è presente tutta intera, e nel loro insieme consiste la prima, la più completa e la più elevata di tutte le manifestazioni divine. Essa chiamasi l’Uomo primitivo o celeste; è questa la figura che domina il carro misterioso di Ezechiele e di cui l’uomo terreno non è che una pallida immagine (Franck, p. 133.). » – « La forma dell’uomo, dice Simone ben Jochai ai suoi discepoli, rinchiude tutto ciò che è nel cielo e sulla terra, gli esseri superiori come gli esseri inferiori; per questo l’Antico degli Antichi l’ha scelta per sua…. È di essa che si vuol parlare quando si dice che vedevasi al di sopra del carro come la figura di un Uomo (Franck. p. 133). » – Il ravvicinamento di queste tre Tende del Rituale del 32.° grado, della profezia di Ezechiele e della dottrina della Cabala, bastano per dare al Campo dei Principi, l’interpretazione cabalistica seguente.- L’Ensoph è rappresentato dal circolo; i tre Séphiroh superiori, dal Triangolo; gli altri Séphirot, cioè il Santo Re e la Matrona dalla Croce in cinque bracci; tutto l’Uomo celeste, dal Triangolo e il suo contenuto; la rivelazione dell’Uomo Celeste sul Carro misterioso, dai quattro emblemi; la sua scelta del popolo d’Israele, dal quinto emblema, l’Arca d’alleanza; la fertilità del Santo Re e della Matrona fuori del cielo, dal pentagono dei cinque emblemi, i sette re d’Edom, dall’ ottagono che non porta emblemi, perché questi re scomparvero; e finalmente il mondo attuale, dal triplice triangolo o le nove tende; queste servono in pari tempo a rappresentare il popolo d’Israele e la sua storia. I bisogni della frammassoneria manichea le hanno fatto aggiungere all’aquila d’Ezechiele una seconda testa; il profeta era tuttavia ben lungi dal credere al dualismo di un Buono e di un Cattivo Principio. Finalmente il progresso delle rivelazioni cabalistiche esigeva che al penultimo grado della terza serie di undici, corrispondente alla Sephirah Corona, un simbolo qualsiasi indicasse quella prima figura celeste: si è adunque incoronato il mostro filosofico, l’aquila a due teste! Ecco ora l’interpretazione del numero mistico 515 sul collare del Leon d’oro: « I dieci Séphiroth, dice lo Sepher Jetzirah, sono come le dita della mano, in numero di dieci e cinque contro cinque ma in mezzo ad esse è l’alleanza dell’unità (Franck. p. 109) ». – Il piano generale della frammassoneria comprende: l° la distruzione dell’ordine attuale del mondo, 2° lo stabilimento di un’Impero universale giudaico e massonico, e 3° la conquista dell’Universo per Lucifero trionfante su Dio. Bisogna saper legger tra le linee e interpretare le interpretazioni dei veri iniziati per rendersi conto del vero carattere della frammassoneria, Sentiamo il Maestro Ragon sui tre uccelli.

1° « Il Corvo (dice egli, p. 41 del suo Rituale), emblema alchimico, indica col suo colore nero la prima parte della grande Opera: la decomposizione dei misti, il caos ». Da ciò il motto dei 33: Ordo ab chao.

2° La bianchezza della Colomba è il secondo colore dell’Opera, indicando che si è arrivati dall’elisir al bianco, dall’argento vivo, simboleggiato dalla luna, emblema d’Isis, la cui iniziale I adorna la nostra prima colonna simbolica, posta di fronte a queir astro delle Notti, » al nord della Loggia. Da ciò la purificazione dei 33° nell’argento vivo sul fuoco.

3° « Il colore della Fenice che esce dalle fiamme è il terzo colore dell’ Opera compiuta, il rosso, simboleggiato dalle fiamme, emblema del sole, o d’Osiris, la cui iniziale del suo soprannome, Bacchus, figura sulla nostra seconda colonna, posta di fronte a questo re degli astri, » al sud della Loggia. Chi non vede in queste fiamme e nell’ultimo fine della frammassoneria la coda del vecchio Serpente? Oh! si, egli vuole avere dei compagni nel suo paradiso di fuoco! Sentite i Principi del Campo pregare Lucifero: « Solo e vero principio di tutti i lumi, Fuoco Sacro, che fecondi e conservi 1’universo, Essere potente che non si concepisce e non si può definire, infiamma i nostri cuori dell’amore delle virtù,…. benedici l’intrapresa che non abbiamo formata che per la tua gloria e pel bene dell’ umanità. Amen (5 volte) ». I cinque viaggi dell’armata massonica mettono capo alle porte di Napoli, di Malta, di Rodi, di Cipro e di Giaffa. Giunti là, i Principi contemplano un quadro rappresentante la città di Gerusalemme, la « terra per sempre consacrata da tante preziose memorie ». « Possiam noi, dice il Grande Commendatore, renderti il tuo antico splendore e riedificare il tempio che il più sapiente dei re aveva innalzato alla gloria del monarca dei cieli! Amen (5 volte). » – Per terminare la cerimonia della recezione di un nuovo Principe, si bruciano ancora alcuni grani d’incenso sull’altare dei profumi, e si conchiude con una preghiera commovente al Dio massonico, Lucifero.

INTELLIGENTI, PAUCA.

Chi può capire capisca, chi non può preghi lo Spirito Santo, terza Persona della Santissima Trinità, il vero unico Dio!


LO SCUDO DELLA FEDE (100)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (10)

CAPO X.

I cieli predicano le glorie del loro Fattore.

I. Interrogato Anassagora, a che fosse venuto l’uomo, rispose, a guardare il cielo (L’uomo fu appunto denominato dai Greci andropos. che vuol dire alto-veggente, perché la sua posizione diretta e perpendicolare, lo distingue dai bruti chini al suolo.). Non fu egli sì stolido, che stimasse nulla esservi sopra il cielo di più ammirabile, come di lui sentì chi dannollo per tal risposta di mentecatto (Lact. Inst. 1. 3. c. 9). Anzi se si deve credere ad Aristotile (L. 1. metaph. C. 4), fu egli il primo fra gli antichi filosofi, a riconoscere il vero autor delle cose, attribuendole all’intelletto divino, da cui fece anche derivar tutto l’ordine tanto saldo da lor tenuto. Dunque disse egli ciò, perché, vago di astronomia, giudicò non avere i nostri occhi oggetto più abile ad introdurci nella cognizione di Dio, che il cielo netto da nubi. Però, se del cielo noi non curassimo altro che quanto noi rimiriamo ad un guardo esterno, come fan le aquile, sarebbe quasi vedere un bel libro aperto, ma non vi leggere. Conviene passar oltre col guardo interno a quello di più che gli astronomi fan sapercene, massimamente addì nostri, quando i moderni hanno conseguite di quella mole contezze tanto più esatte di quelle che ne corressero fra gli antichi da me seguiti altre volte. Voglio però, che voi, su tale specula sollevato a mirare il cielo, consideriate come egli mostraci i principali attributi del suo Fattore: con la vastità, la potenza; coi moti, la sapienza; e con gli influssi benefici, la bontà. Ed appunto a questi tre capi possiamo dire che riducasi il confluito di sì gran libro.

I.

II. Quello che a prima giunta dà più nell’occhio, è la vastità della mole. E intorno a questa per non confondere il vero col verisimile, favelliamo prima di ciò che par meno incerto, poi di ciò, che solo si tiene per congettura. Le seste, dirò così, di cui si vaglion gli astronomi in queste sì gran misure, sono le paratasse. Ma perché esse di là de’ pianeti sono insensibili, noi ci fermeremo di qua. Né poco dovrà sembrarci il poggiar tant’alto con sicurezza, sicché un uomo di pochi palmi possa arrivare a farsi una scala che giunga dalla terra sino a Saturno, la più lontana di tutte le stelle erranti. Quei campi poi sì vasti che di là restano, fino all’ultimo cielo, non han misure: Si mensurari potuerint cœli sursum. Ma questo medesimo fu ordinato con arte, ad insinuarci che in rintracciare della potenza divina, allora siamo da cupo, quando credevamo di esser giunti al termine. Pertanto frenando i guardi facciamo così. Né gli arrestiamo nella luna, assai nota, né li portiamo a Saturno, poco osservabile. Fissiamoli in faccia al sole, che sta nel mezzo.

III. Il sole però, che sembra dimorare in cielo fra tante stelle, come il re coronato dai suoi baroni, quantunque agli occhi nostri ingannati appaia sì piccolo, che ci divisiamo di chiuderlo in uno specchio, è egli un gigante di corporatura sì smisurata, che il suo diametro da un capo all’altro, è di miglia dugento settantatremila, cento settanquattro; e la circonferenza è di miglia ottocento settantasettemila, quattrocento sessantotto: maggiore però trentottomila seicento volte, che non è tutto il globo a lui suddito della terra (V. Ricciol. in Almag. 1. 3. c. 11.,). Non vi sembra pertanto che questa opera sola potrebbe coll’ampiezza del suo lavoro bastare a rappresentarci la immensità di chi creolla? Or che sarà, se ci faremo a misurare oltre a ciò l’ampiezza del cielo, ove questo sole si aggira, come in una reggia, spargendo a piena mano sopra tutte le creature inferiori i tesori della sua luce? La massima circonferenza di questo cielo è di cento novantasette milioni di miglia, novecento dieci mila, quattrocento ventiquattro. E di verità, se il sole che è un mondo di splendore, contuttociò nel concavo del suo cielo non comparisce quasi più che una lampana sospesa dalla sua volta, convien pure che siano sterminatissimi quegli spazi, de’ quali egli occupa, secondo l’apparenza, sì poco sito.

IV. Che se da questi spazi, che come io dissi, ci è dato di misurar con più sicurezza, noi vogliamo farci la strada ad argomentare l’eccesso dello altre stelle superiori, io ne uscirò con poco, dicendo che tale eccesso (massimamente se parlasi delle fìsse), è noto solo a quel divino maestro che lavorò sì gran corpi con l’impero della sua voce, per saggio di quel più che può senza termine fabbricare ad ogni momento: né noi possiamo discorrerne senza far da indovinatori: Homo ad immortalium cognitionem nimis mortali est, diceva Seneca (De vita beata c. 32.): nè ciò soltanto a cagion di quel poco che egli intende  dietro la scorta de’ sensi. Si tiene (Ricciol. 1. 6. c. 1) che una delle minime stelle da noi vedute con occhio libero, che sono quelle dette di sesta grandezza, contenga la medesima terra cinquemila trecento cinquantacinque volte, tutto che appaiano quasi minute facelle: tanta è la smisurata distanza del firmamento, lontano dal centro del nostro basso mondo quattrocento trentottomila, settecento trentaquattro milioni, quattrocento trentottomila, settecento trentaquattro miglia; di tal maniera, che se un corriere , emulo a quei di Alessandro (i quali facevano, per attestato di Solino, cento cinquanta miglia di strada il giorno), fosse per sorte in obbligo di compire tutto quel tratto, il qual è dalla terra al cielo stellato, converrebbe a compirlo che v’impiegasse cento cinquantottomila anni, settecento novantaquattro; sicché qualor egli si fosse messo in via dal dì primo che il mondo nacque, non sarebbe ancor giunto a trascorrere interamente la ventesima parte del suo cammino.

V. Questo è ciò che n’è parso ad astronomi peritissimi dei dì nostri, dopo lunghi computi, e dopo lungo commercio che tennero con le stelle. Eppure chi sa che questi ancora non diano di sotto al segno, come vi diedero quelli dei tempi andati, e che anch’essi non ci dipingano quella macchina eccelsa minor del vero? Chi sa, che la sfera delle stelle non sia parimente maggiore senza paragone; sicché quelle stelle le quali appaiono sì minori dell’ altre, non siano veramente meno vaste, ma più remote? Chi sa, che siccome coll’uso del cannocchiale abbiamo scoperti di quaggiù tanti lumi che prima non comparivano; così se potessimo ascendere fin lassù, dove sono i pianeti altissimi, ed indi come da tante torri valerci di un somigliante strumento, quasi di spia, non ci riuscisse con esso di rinvenire altre innumerevoli novità finora ignorate, per quella gran lontananza che non permette arrivar sin là niuna mai delle umane tracce? Certo che di qualunque maniera ci figuriamo noi essere quegli spazi, non possono ai nostri sensi riuscire meno di una piccola immensità, mentre al confronto di quelle sfere, il pianeta della, peraltro sì corpulento, svanisce a un tratto, e non fa più figura maggior d’un punto: dando con ciò luogo a quel famoso rimprovero che fé’ Seneca a tanti sciocchi mortali, intenti ad aggrandire i loro confini, a litigare, a lottare in sì angusto campo, mentre là sopra avrebbero tanto più dove dilatarsi: Punctum est, in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna dìsponitis, punctum est(Sen. nat. q. 1. ).

II.

VI. Ora tornando a moli sì smisurate, non sarebbe una grande impresa, se si arrivasse in molti anni, non dico a volgerle, ma solo a farle un tantino mutare di sito? Fu Creduta una gloria meravigliosa di Michel Angiolo il dirsi che in virtù delle macchine da lui divisate col suo cervello si poté poi da meno di mille uomini alzare sulla piazza vaticana quell’obelisco, intorno a cui i re d’Egitto ne avevano adoprati da trenta mila (Boz. de sign. eccl. 1. 6. sign. 24). A terra, o pensieri umani, per fare ossequio alla sublimità del primo motore! Il sole (corpo sì vasto) nell’equatore corre in qualunque ora sette milioni, ottocento ottantottomila, novecento trentaquattro miglia: ed in qualunque minuto secondo che è la sessantesima parte di un minuto primo, corre duemila centonovanta miglia, o per meglio dire non le corre, ma le divora, tanto si muove egli rapido. Non vi pare che il pensiero medesimo sia già lasso a tenergli dietro? Si fa ragione che quel viaggio il quale si compisce dal sole in un solo giorno che è di cento ottantanove milioni, trecento trentaquattro mila, quattrocento sedici miglia, appena si compirebbe da una palla d’artiglieria, portata egualmente sulle ale del fuoco, nel termine di cento venti anni interi.

VII. Ma non logorate di modo i vostri stupori, che non ve ne rimanga una buona parte per ciò che segue. Non è già il sole tra’ pianeti il più celere. Mercurio posto nella sua massima altezza, giunge in un’ora a scorrere molto più di undici miglia. Venere più di tredici, Marte più di ventidue, Giove più di cinquantuno, Saturno più di novantasette (V. Al. mag. 1. 7. c. 7). E se col vero non vi è grave di ammettere il verisimile, tra le stelle del firmamento ve ne ha di molte, poste nell’equinoziale, che in un’ora corrono senza stancarsi lo spazio di duemila dugento settantaquattro milioni, trecento ottantamila, cinquecento miglia: e in un secondo corrono lo spazio di miglia seicento trentunmila, ottocento ottantasette. Aveva ben dunque ragione colui di asserire che la vista del cielo era sufficiente a formare un grand’uomo saggio: Intuere cœlum et philosophare. Non ha mente chi non ravvisa nelle meraviglie dell’opere la sapienza del suo fattore. E chi tuttora voglia pertinace ridurre ad azion fortuita l’architettare macchine di grandezza sì esorbitante, e ridurle a concordia con tanta legge e a sospingerle al corso con tanta lena, sicuramente si merita andare prigione nello spedale de’ pazzi, come già privo di quel senno che ei dona al caso. Convien di necessità confessar ciò che vide Seneca al puro lume ch’ei n’ebbe tra i suoi buiori, ed è: Non sine aliquo custode tantum opus stare: nec hunc siderum certum discursum fortuiti impetus esse, sei hanc inoffensam velocitatem procedere aeternæ legis imperio (Seneca 1. 1. de prov. o. 1). Questi sono indizi troppo manifesti di mente governatrice: e chi né anche dalla sommità delle sfere sa ai nostri dì spiccare un volo a conoscerla, può dissi non curare l’ali a lui date dalla ragione, e però non altro dovergli, che andar carpone per terra come un giumento.

VIII. Che sarebbe poi, se fosse lecito al guardo osservare per minuto la proporziono di questi giri celesti, e la consonanza, e le cagioni, ed i fini di così vari, ma regolati andamenti? Noi che rimaniamo stupiti al concerto di un ballo che duri un’ora, da qual estasi di meraviglia non rimarremmo sorpresi a quella stabile danza che può tenere attonite le menti stesse delle intelligenze motrici? Ma checché di noi fosse allora, quel medesimo nulla, che or ne sappiamo, ci predica ad alta voce che vi ha un Dio, sovrano ingegnere di queste moli inaudite, e di quelle incredibili loro ruote, su cui si aggirano con tanta facilità. Che però del cielo possiamo dire più particolarmente ciò che del mondo tutto disse Agostino (De civ. Dei), pulchierrima specie, et factum se esse, et non nisi a Deo, ineffabiliter atque invisibiliter magno, et ineffabiliter atque? invisibiliter pulcro, fieri potuisse proclamat. E sue voci sono in prima la puntualità, se così vogliamo chiamarla, e la costanza inviolabile di questi gran movimenti; giacché dappoiché i cieli furono creati, non hanno variato mai da quella prima regola che fu loro prescritta al volgersi: onde fondati sull’apparente irregolarità di giri così diversi, possiam pubblicare i calcoli e le effemeridi; e possiam predire le congiunzioni e le ecclissi tanto tempo innanzi che avvengano. Ora se qualunque oracolo, affinché non erri, ricerca di necessità un artefice che il lavori con grande ingegno, che ad ora ad ora il rivegga, lo ripulisca, lo tenga in tuono; in quale animo potrà mai cadere che i cieli, cioè quegli appunto che danno coi loro moti la regola all’oriuolo, potessero aver dal caso i loro principii, dal caso i loro progressi, fino a durar già vicino a sessanta secoli di un tenore tanto uniforme?

IX. Dirassi provenir ciò dalla natura dei cieli, che così porta. Ma no: perché ogni moto proprio di un mobile non è indirizzato dalla natura di lui se non in vantaggio del medesimo mobile, il quale se ne va quasi peregrinando, affine di trovare altrove quel bene che in casa mancagli (S. Th. 1. p. q. 9. a. 1 in c.). Là dove muoversi puramente per muoversi è a lungo andare sì contrario alla propensione di ciascun essere, che i poeti nel loro inferno non seppero inventare pena più strana che il girar sempre, come l’infelice Issione, sopra una ruota, senza cavare mai maggior prò da quell’interminabile velgimento, che seguire ad un’ora, e fuggire » se stesso: Volvitur Ixion, et se sequiturque fugitque (Ovid.). Quel gran moto dunque de’ cieli, quel rotarsi che sempre fanno su’ nostri capi, quel camminar con tanta costanza, quel correre con tanta celerità, e ciò non per altro mai che per nostro bene, non può procedere dalla loro natura particolare: sì perché il loro moto, essendo circolare, non ha termine ove riguardi, e però non può essere a verun di loro appetibile per se stesso; sì perché non appare qual nuovo pregio si giunga a conseguir mai da verun de’ cieli co’ suoi viaggi incessanti. Anzi, mentre il primo cielo muovesi in se medesimo, se si movesse in grazia sua, cercherebbe la sua perfezione dentro di se, e così moverebbesi a ritrovare quel bene che già possiede: come uno stolto che si dimenasse con ansia per rinvenir quell’anello che tiene in dito. Rimane pertanto che quell’effetto il quale non può derivare dalla natura particolare delle sfere celesti, derivi da una cagione universalissima, che qual padrona del tutto, abbia a cuore il bene di altre creature più nobili, cui fa che le sfere servono ne’ loro moti.

X. Che se la vastità dei corpi celesti dichiaraci la potenza del loro artefice, e i moti ne dichiarano la sapienza, non sarà meno eloquente la ridondanza degl’influssi benefici a dimostrarcene la bontà. Basti dire che se i cieli posassero mai qualche poco, una tal quiete sarebbe l’ultimo eccidio della natura inferiore, priva però di vigore ad un tratto e di vita, non men di quello che ne rimangono prive tutte le membra al posare che faccia il moto del cuore. E di fatto quei danni che risultano nel nostro mondo dalle ecclissi de’ luminari superiori, dimostrano chiaramente la dipendenza somma che abbiam dal cielo, e quanto ogni piccolo impedimento che si attraversi alle loro assidue influenze ci riesca di scomodo e di sconcerto. Ma per favellare di cose anche più evidenti, non ci allontaniamo dal sole, tolto da noi per termine luminoso della nostra contemplazione.

XI. Gli antichi savi d’Egitto lo intitolavano figliuolo visibile del Dio invisibile ; e nel vero dissero troppo; se non che poté loro valer di scusa quell’eccessivo splendore che gli accecò. Il sole non figliuolo, ma è ritratto del primo Essere, che  volle in lui quasi adombrar se medesimo, e guidarci con questa face alla cognizione della sua natura divina, disponendo però che egli fosse insieme unico, insieme moltiplicato: unico nella natura, e moltiplicato nella beneficenza, sicché non vi sia creatura, la quale non riconosca il sole per padre, mentre, dove egli non giunge con la presenza, arriva con la virtù. Il sole adunque come primo ministro nel regno della natura ci va distribuendo ad ogni ora quanto abbiamo di vita, di salute, di spiriti, di piacere, secondo gli ordini che ne ricevè da principio dal suo sovrano. Dissi secondo gli ordini ricevuti, perché il viaggiò obliquo che egli fa in cielo mostra evidentemente l’arte divina che tenne la cagion prima in volerlo tale: a segno che l’intendere questa medesima obliquità è l’intender la cifra di tutti gli avvenimenti naturali mal conosciuti. Così ne parve anche a Plinio: Obliguitatem eius intellexisse, est rerum fores aperuisse(PI. 1. 2. c. 8). Conciossiachè è cosa certa che questo mondo aveva necessità di varie stagioni per mantenere la sua virtù. L’avea del verno, ad unire il calor natio, che. quando fosse assediato da brina ostile, sarebbesi ritirato tanto più addentro per sua difesa, gettando in tal concentramenlo più valide le radici, e provvedendosi di più copioso alimento. L’aveva della primavera, por uscir quasi in campo con buona ordinanza in nuove frondi, in nuovi fiori, in nuovi virgulti. L’aveva della state, per combattere e superare l’umor superfluo, estenuando ciò che no’ corpi è di esuberanza, e concedendo ciò ch’ovvi di crudità. E finalmente più l’aveva dall’autunno, per trionfare con la dovizia de’ frutti, di cui colma allora ogni seno. Ora tutto questo opera il sole col puro divertir che egli fa, ora verso l’aquilone, ora verso l’austro, fino a ventitre gradi e mezzo nella sua maggiore distanza dall’equatore. E quello che più è da stimarsi, opera tutto ciò con una mutazione quasi insensibile. Imperciocché se dai rigori vernali si passasse immediatamente alle vampe estive, o dallo vampe estive ai rigori vernali, quanto s’incomoderebbero i nostri corpi a quel subito cambiamento, e quanto risentirebbesi la natura? Ora il sole, torcendo a passo a passo con discretezza per la sua via, frammette tra gli estremi del sommo freddo e del sommo caldo la primavera, o tra gli estremi del sommo caldo e del sommo freddo l’autunno, e con pari soavità va temperando le fatiche cui ci obbliga, e va perfezionando le grazie che ci riparte. Ciò che altresì fassi da lui giara al mente nella giusta divisione delle ore diurne e delle notturne, assegnando un tempo al lavoro, un altro al riposo, ed ora allungando i giorni, ove sia d’uopo accrescere il calore alla terra; ora allungando le notti, ove per contrario sia d’uopo diminuirlo: ed ora pareggiando la notte al dì, quando il meglio sia che si agguaglino le partite. Chi però non iscorge che riuscendo i viaggi del sole, e proporzionalmente delle altre sfere, tutti in benefizio dell’uomo, tutti a legge, tutti a libra, tutti a misura, convien di necessità che siano quelli consiglio di una gran mente, la quale intenda il fine con sommo sapere e somma potenza adatti al tempo medesimo i mezzi al fine? Dall’altra banda il sole, benché sia nominato l’occhio del mondo, è cieco al conoscere questo fine, e all’adattar questi mezzi; ed è affatto insensibile a riscaldarsi nel nostro bene: e cieco parimente e insensibile affatto è il cielo con tutti i lumi delle sue stelle benefiche. Conviene adunque che tutto ciò sia opera di un artefice, il quale nella vastità delle sfere, nella velocità de’ moti, nella molteplicità delle influenze propizie abbia formato un ritratto del suo braccio, della sua mente, e del suo cuore divino, da motterci innanzi agli occhi. Sarebbe però troppo gran vergogna dell’uomo, se egli, che per l’orme lasciate da una fiera nel bosco sa riconoscerla, sa rintracciarla, sa arrivare infino a trovarla nel suo covile, non sapesse poi per le vestigia sì manifeste di onnipotenza, di sapienza, di bontà, stampate ne’ cieli, riconoscere, rintracciare, e giungere anche a trovar Dio nel suo trono, ed a venerarlo.

SALMI BIBLICI: ” BENEDIC, ANIMA MEA, DOMINO, … ET OMNIA” (CII)

SALMO 102:“BENEDIC, ANIMA MEA, DOMINO, … et omnia”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 102

Ipsi David.

[1] Benedic, anima mea, Domino, et omnia

quæ intra me sunt nomini sancto ejus.

[2] Benedic, anima mea, Domino, et noli oblivisci omnes retributiones ejus;

[3] qui propitiatur omnibus iniquitatibus tuis, qui sanat omnes infirmitates tuas;

[4] qui redimit de interitu vitam tuam, qui coronat te in misericordia et miserationibus;

[5] qui replet in bonis desiderium tuum: renovabitur ut aquilæ juventus tua.

[6] Faciens misericordias Dominus, et judicium omnibus injuriam patientibus.

[7] Notas fecit vias suas Moysi, filiis Israel voluntates suas.

[8] Miserator et misericors Dominus, longanimis, et multum misericors.

[9] Non in perpetuum irascetur, neque in aeternum comminabitur.

[10] Non secundum peccata nostra fecit nobis, neque secundum iniquitates nostras retribuit nobis.

[11] Quoniam secundum altitudinem cœli a terra, corroboravit misericordiam suam super timentes se;

[12] quantum distat ortus ab occidente, longe fecit a nobis iniquitates nostras.

[13] Quomodo miseretur pater filiorum, misertus est Dominus timentibus se.

[14] Quoniam ipse cognovit figmentum nostrum; recordatus est quoniam pulvis sumus.

[15] Homo, sicut fænum dies ejus; tamquam flos agri, sic efflorebit:

[16] quoniam spiritus pertransibit in illo, et non subsistet: et non cognoscet amplius locum suum.

[17] Misericordia autem Domini ab œterno, et usque in aeternum super timentes eum. Et justitia illius in filios filiorum,

[18] his qui servant testamentum ejus, et memores sunt mandatorum ipsius ad faciendum ea.

[19] Dominus in cælo paravit sedem suam, et regnum ipsius omnibus dominabitur.

[20] Benedicite Domino, omnes angeli ejus, potentes virtute, facientes verbum illius, ad audiendam vocem sermonum ejus.

[21] Benedicite Domino, omnes virtutes ejus, ministri ejus, qui facitis voluntatem ejus.

[22] Benedicite Domino, omnia opera ejus, in omni loco dominationis ejus. Benedic, anima mea, Domino.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CII.

Gli ineffabili beneficii di Dio (opera di sua misericordia) con quei che lo temono; beneficii che qui cominciano, e in cielo si compiono. Impotente il profeta a ringraziarne Dio, invita a lodarlo e ringraziarlo gli angioli e le creature tutte.

Dello stesso David.

1.Benedici, o anima mia, il Signore, e tutte le mie interiora (benedicano) il nome santo di lui; e non volere scordarti di alcuno de’ suoi benefizi.

3. Egli che perdona tutte le tue iniquità, che tutte sana le tue infermità.

4. Che riscatta la tua vita da morte ; e di misericordia ti circonda e di grazie.

5. Che sazia co’ beni suoi il tuo desiderio: si rinnovellerà come aquila la tua giovinezza. (1)

6. Il Signore fa misericordia, e fa ragione a tutti que’ che soffrono ingiuria;

7. Fe’ conoscere le sue vie a Mosè, le sue volontadi ai figliuoli d’Israele.

8. Il Signore misericordioso e benigno; paziente e misericordioso grandemente.

9. Non sarà irato per sempre, e non minaccerà eternamente.

10. Non ha fatto a noi secondo i nostri peccati, ne ci ha dato retribuzione secondo le nostre iniquità.

11. Imperocché, quanto è alto il cielo dalla terra, tanto egli ha fatta grande la sua misericordia verso di quei che lo temono.

12.Quanto è lontano l’Oriente dall’Occidente, tanto egli ha rimosso da noi i nostri peccati.

13. Come un padre ha compassione de’ figliuoli, cosi il Signore ha avuto compassione di quei che lo temono, perché egli conosce di che siamo formati.

14. Si è ricordato che noi siam polvere; i giorni dell’uomo son come l’erba; egli sboccerà come il fiore del campo.

15. Imperocché lo spirito sarà in lui di passaggio, ed ei più non sarà; e non discernerà più il luogo dov’era.

16. Ma la misericordia del Signore ab eterno, e fino in eterno sopra coloro che lo temono.

17. E la giustizia di lui sopra i figliuoli de’ figliuoli di quelli che mantengono la sua alleanza.

18. E dei comandamenti di lui si ricordano per adempirli.

19. Il Signore ha preparato in cielo il suo trono, e al regno di lui tutti saranno soggetti.

20. Benedite il Signore voi tutti, o Angeli di lui, possenti in virtù, esecutori di sua parola, obbedienti alla voce de’ suoi comandi.

21. Benedite il Signore, voi schiere di lui tutte quante; ministri di lui, che fate la sua volontà.

22. Voi opere di Dio, quante siete in qualunque luogo del suo impero, benedite il Signore; benedici il Signore, o anima mia.

(1). La giovinezza del popolo è il tempo della sua uscita dall’Egitto; al ritorno della seconda cattività, esso riprenderà forza e vigore come all’uscita dalla prima. – Con giustezza lo stato di natura nel quale l’uomo è privato della grazia soprannaturale, è comparato ai tempi della muta dell’aquila; così come lo stato soprannaturale dell’uomo rigenerato, è paragonato ai tempi in cui l’aquila riprende le sue piume, (Isai. XL, 31); e ci si esprime alla stessa maniera: con coloro che sperano in Jehovah, ringiovaniscono le loro risorse, rinnovano le loro piume come l’aquila (D’Alliom.).

Sommario analitico

Questo salmo, uno dei più belli, è per eccellenza il cantico delle misericordie del Signore. Esso svolge un’unzione deliziosa che ritempra l’anima della sua virtù e la rinnova con la sua gioia. Il Profeta, mettendo in luce le due grandi grazie della giustificazione e della glorificazione dei peccatori, si eccita alla lode, a ringraziare Dio per un sì grande beneficio (La composizione di questo salmo, secondo i moderni esegeti, deve essere ricondotta ai tempi che seguirono il ritorno dall’esilio; essi ne danno come indicazione e come prova i numerosi caldeismi (vv. 3, 4, 5), e le locuzioni che appartengono evidentemente ad uno stile più moderno. Soltanto – essi dicono – questo salmo è stato composto ad imitazione di quelli di Davide, di cui contengono numerosi frammenti – vv. 8, 10. È in tal senso che occorre spiegare l’iscrizione ebraica che l’attribuisce a Davide.

I. – Il salmista invita la sua anima a benedire il Signore, dal quale derivano, come dalla loro sorgente, queste due grazie; occorre far appello a tutte le potenze della propria anima, ed in particolare alla memoria, perché essi non dimentichino mai i benefici di Dio (1, 2)

II. – Egli, per eccitare maggiormente la sua riconoscenza, espone la grandezza dei beni ricevuti:

1° nella giustificazione: – a) il perdono di tutti i propri peccati; – b) la guarigione di tutte le proprie infermità (3); – c) la grazia della perseveranza, che gli impedisce di ripiombare nel peccato e nella morte (4);

2° nella glorificazione, di cui enumera i tre principali effetti: – a) la corona eterna che dà il giusto Giudice, ma che dobbiamo alle grazie che ci attira la sua misericordia; – b) il compimento di tutti i miei desideri; – c) le qualità gloriose che rinnoveranno i nostri corpi (5).

III. – Il Profeta indica le due sorgenti di questi benefici:

1° L’una che viene da Dio, cioè la sua misericordia, – a) che protegge i giusti nell’afflizione (6); – b) li illumina e li guida sulla via della salvezza, come ha guidato Mosè conducendo gli Israeliti nella terra promessa (7); – c) si esercita non una volta soltanto, ma in ogni circostanza, con una grande pazienza ed una grande longanimità (8); – d) appaga la giusta ira eccitata dai nostri peccati (9); e) che anche quando punisce, lo fa con bontà molto maggiore di quanto non meritino i nostri peccati;

2° L’altra che viene da noi, cioè il timore di Dio, e che è la seconda sorgente delle grazie divine: – a) all’inizio della conversione, essa rischiara i peccatori con una luce celeste  e mette in fuga le tenebre del peccato (11, 12); – b) proseguendo la conversione, Dio preserva con la sua misericordia paterna da ogni ricaduta i peccatori convertiti che ne temono; misericordia questa, loro necessaria: 1° a causa della natura dei nostri corpi composti di fango (13); 2) perché questo corpo che si corrompe, appesantisce l’anima (14, 15). – c) Alla fine Dio sostiene con la sua misericordia coloro che lo temono, per renderli eternamente felici (16), così come i loro discendenti se restano fedeli osservanti della sua legge (17, 18).

IV – Il Profeta, considerandosi incapace di rendere a Dio delle degne azioni di grazie, invita tutte le creature a supplire ciò che a lui manca:

1° Egli ammira e riverisce il Signore come un re la cui opera è al di sopra di ogni altra opera (19).

2° Invita gli Angeli a lodarlo, a benedirlo, a) a causa della potenza di cui li ha rivestiti (20), b) perché sono suoi ambasciatori e ministri (21);

3° Eccita tutte le creature ad associarsi alle sue lodi (22).

Spiegazioni e Considerazioni

ff. 1, 2. – Quante verità sono racchiuse in questi due primi versetti! Noi dobbiamo benedire e lodare Dio, perché è il nostro Signore e sovrano Padrone, ed a causa della sua santità. È la nostre anima che deve compiere questo dovere, e noi dobbiamo applicarci con tutte le nostre facoltà: l’intelligenza, la volontà, la memoria senza dimenticare mai alcuno dei suoi benefici. – « Dio è spirito, e coloro che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità. » (Giov. IV, 23). – Il Profeta non si rivolge a ciò che è dentro il nostro corpo; io non penso che egli inviti le parti interne della nostra carne a fare udire la propria voce per benedire il Signore … i suoni della voce esteriore non si rivolgono che alle orecchie degli uomini. Dio ha delle orecchie ed il nostro cuore la sua voce. L’uomo si rivolge alle potenze interne del suo cuore perché benedicano il Signore, e dice loro: « Tutto ciò che è dentro di me, benedica il suo santo Nome. » Chiedetevi cosa c’è dentro di voi? È la vostra anima. Ciò che ha detto il Profeta: « O anima mia, benedici il Signore », è dunque la stessa cosa di quanto segue: « e che tutto ciò che è dentro di me benedica il suo santo Nome. » Il verbo benedire è sottinteso nel testo. Fate dunque sentire la vostra voce, se è un uomo che vi ascolta; quanto alla parola della vostra anima, essa non può mai mancare di essere ascoltata. Così mentre parole di benedizione escono dalla nostra bocca, noi cantiamo questo versetto del salmo: « Anima mia, benedici il Signore, e ciò che è in me benedica il suo santo Nome. » Noi abbiamo cantato anche per tutto il tempo conveniente  e abbiamo taciuto; dopo questo momento l’interno della nostra anima ha dovuto tacere e cessare di lodare il Signore? Che la nostra voce taccia o canti alternativamente secondo i momenti, ma che la parola della nostra anima non sia mai interrotta. Quando vi riunite nella chiesa per cantarvi degli inni, la vostra voce fa sentire le voci di Dio; voi li avete celebrati secondo il vostro potere, e vi siete ritirati; che la vostra anima faccia risuonare le lodi di Dio. Voi vi occupate di qualche affare, che la vostra anima lodi il Signore, voi prendete i vostri pasti, ascoltate ciò che dice l’Apostolo: « sia che mangiate, sia che beviate, fate tutto a gloria del Signore » (I Cor. X, 31). Io oso dirlo: quando dormite, che la vostra anima benedica il Signore. Non siate risvegliati al pensiero del male; non siate risvegliati da qualche patto di corruzione. La vostra innocenza, anche quando dormite, è la voce della vostra anima. – « La mia anima benedica il Signore, e tutto ciò che è in me, benedica il suo santo Nome » . Chi è colui che può così comandare alle sue facoltà interiori di benedire il Nome del Signore, se non colui che comanda da padrone ai pensieri che escono dall’intimo del suo spirito? Tra questi pensieri, gli uni sono cattivi, gli altri sono buoni. Colui dunque le cui facoltà interiori sono prossime a benedire il santo Nome di Dio, può in tutta confidenza invitare la sua anima a rendere a Dio le sue azioni di grazie.  (S. BAS., in Is. proph., cap. XXVI.). – Per benedire sempre il Signore, non dimenticate tutto ciò che vi ha reso. Se voi lo dimenticate, resterete silenzioso davanti a Lui. Ma voi non potete avere davanti agli occhi tutto ciò che il Signore vi ha reso quando vi fossero anche dei peccati. Non abbiate quindi davanti agli occhi il piacere che vi ha procurato il vostro peccato passato, bensì la condanna meritata a causa di questo peccato. La condanna viene da voi, la remissione viene da Dio. « Non dimenticate mai, dice il Profeta, tutto ciò che vi ha reso », non dato, ma “ reso”. Ogni altra cosa vi era dovuta ed il Signore vi ha reso ciò che non vi era dovuto. Ecco perché il Profeta dice: « Cosa renderò al Signore per tutto ciò che mi ha reso ? » (Ps. CXV, 12). Egli non dice « per ciò che mi ha dato , ma « per ciò che mi ha reso ». Voi gli avete reso il male per il bene; egli vi ha reso il bene per il male (S. Agost.).

II. — 3-5.

ff. 3, 4. – « È Lui che guarisce tutti i vostri languori. » Dopo la remissione dei vostri peccati, ecco un corpo portate pieno di infermità; è inevitabile che i desideri della carne che si levano in voi, ed i piaceri illeciti che vi suggeriscono vengono dal vostro stato di languore. Perché in voi si trascina ancora la debolezza della carne; la morte non è ancora assorbita nella vittoria; ciò che c’è in voi di corruttibile non è stato ancora rivestita di incorruttibilità (I Cor. XV, 53, 54). La vostra anima stessa, dopo che il peccato è stato rimesso, è ancora agitata da certe turbe; essa è ancora circondata dai pericoli delle tentazioni; ci sono ancora suggestioni dalle quali essa è attratta come ve ne sono delle altre che sono per essa senza attrazione, e talvolta dà il consenso a qualche suggestione che gli piace e si lascia sorprendere,. È là lo stato di languore, ma « … Dio guarisce tutti i languori. » Quando tutti i languori saranno guariti, siate senza timore. Essi sono grandi, voi direte; ma il Medico è più grande di esse. Per un Medico onnipotente, non ci sono languori incurabili; lasciate voi solo guarire, non respingete la mano del Medico; Egli sa cosa deve fare. Non vi rallegrate solo quando vi parla dolcemente, ma sopportatelo quando opera con il ferro in mano, sopportate il dolore del rimedio pensando alla salute che vi renderà. Vedete, fratelli, quali dolori sopportano gli uomini nelle malattie del corpo, per prolungare la loro vita di qualche giorno e poi morire, ed ancora questi pochi giorni sono incerti? … voi almeno, non soffrite per un incerto risultato: Colui che vi ha promesso la salute non può ingannarsi. Talvolta il medico si sbaglia, promettendo al malato la salute del corpo. Perché si sbaglia? Perché egli non ha creato questo corpo che cura. Ma Dio ha fatto il vostro corpo, Dio ha fatto la vostra anima: Egli sa come creare di nuovo ciò che ha già creato una volta, Egli sa come rifare ciò che ha fatto. Affidatevi  solo alle mani di questo Medico celeste, perché Egli odia colui che respinge il suo soccorso (S. Agost.). – Il peccato produce sei funesti effetti nella nostra anima: 1° ci rende nemici di Dio; 2° indebolisce e debilita tutte le forze della nostra anima; 3° rende l’uomo schiavo del demonio e della morte; 4° priva della corona del cielo; 5° lo spoglia di tutte le virtù e di tutti i beni della grazia; 6° per l’effetto deplorevole di abitudini colpevoli ed inveterate, riduce il peccatore ad una vecchiaia prematura. Ora, Dio, ispirando al peccatore i sentimenti di una vera penitenza, fa sparire tutti questi effetti del peccato: 1° lo riconcilia con Lui e lo reintegra nella sua amicizia; 2° guarisce tutte le sue piaghe, e lo riveste di una forza divina; 3° lo riscatta con il suo sangue dalla tirannia del demonio e dalla schiavitù del peccato e della morte; 4° gli rende i suoi diritti alla corona incorruttibile della gloria dei cieli; 5° gli rende tutte le ricchezze spirituali e fa rivivere tutti i meriti che aveva perso, pegno dei beni eterni che gli riserva; 6° lo trasforma in un uomo nuovo tanto in questa vita che nell’altra. – « … è Lui che guarisce ogni languore ». Quanti peccati abbiamo commesso, tanti languori ed infermità attaccano l’anima (S. Gir.). Quali sono questi languori? Sono le cupidigie malvagie, i desideri carnali, l’attaccamento a tutte le vanità del mondo; questi sono i languori che la misericordia di Dio guarisce in voi facendo di questo corpo di morte un corpo di vita, che Egli corona nelle sue bontà e nella sua misericordia. (S. Prosper). –  Non soltanto Dio ci rimette i nostri peccati, ma guarisce anche queste malattie dell’anima, questi mortali e perniciosi languori, queste concupiscenze dell’orgoglio, della carne e degli occhi, che sono restate in noi come la radice del peccato, infermità morali che Dio guarisce successivamente su questa terra, ma che non spariranno mai se non nell’altra vita. (S. Girol., S. Prosper.) – Il medico di tutte queste infermità è Gesù, Medico che ci ama: « Io guarirò le loro ferite, perché Io lo amo di vero amore, » (Osea, XIV, 5); Medico pieno di sollecitudine, che è sceso fino a noi, si è reso infermo per assicurare la nostra guarigione; Medico generoso che non risparmia nessun rimedio utile a guarirci; Medico paziente che sopporta i capricci, le imperfezioni, le infermità dei suoi malati (Isai. LIII, 4); Medico potente: tutto ciò che gli fa pietà lo salva; tutto ciò che si lamenta, lo guarisce: « Guaritemi, Signore, ed io sarò guarito per sempre; liberateci ed io sarò salvato » (Gerem. XVII, 14); Medico prudente e, quando necessario, severo; infine Medico universale. Qual peccato, noi pensiamo, non potrà essere rimesso, dacché il Signore è propizio in tutte le nostre iniquità? Quale languore, quale infermità non potrà Egli guarire, dacché il Signore guarisce tutti i nostri languori? Bisogna quindi rimandare a Caino colui che oserà dire: le mia iniquità è troppo grande perché possa essere rimessa; le mie infermità ed i miei languori troppo forti perché possano essere guariti (S. Fulgenzio, Ep. 7).

ff. 5. – Davide passa dai benefici della grazia a quelli della gloria. È Dio che, con Gesù Cristo, ci ha riscattato dalla morte dell’anima, dal peccato; dalla morte del corpo che è la sequela e la punizione del peccato, per trasportarci con Lui nella vita eterna. – Dio ci corona in questa vita con la vittoria che ci dà sul mondo, la carne e il demonio, secondo le parole di San Paolo: « Grazie a Dio che ci fa sempre trionfare in Gesù-Cristo » (II Cor. II, 14). – Egli ci corona ancora rendendo le nostre anime sue figlie, sue spose, eredi del suo regno eterno. « Voi siete – dice San Pietro – una razza scelta, sacerdozio regale. » (1 Piet. II). – L’anima riconciliata può dire con il Profeta Isaia: « Io mi rallegro nel Signore, la mia anima sarà rapita dalla gioia, il mio Dio mi ha preparato degli abiti di salvezza. Mi ha preparato la giustizia come sposa abbellita dalla sua corona, come sposa brillante di pietre. » (Is. LI, 10). – Egli ci corona soprattutto con una corona di gloria in cielo, corona che è nello stesso tempo corona di misericordia e corona di giustizia; corona di giustizia perché è data ai meriti; corona di misericordia perché non c’è alcun merito possibile senza la grazia, e che sia la prima grazia, quella della vocazione, quella della giustificazione, sia l’ultima grazia, quella della perseveranza finale, sono l’opera della sovrana misericordia di Dio. San Paolo la chiama una corona di giustizia che gli sarà resa dal giusto Giudice, (I Tim., IV, 8); ma egli riconosce che è pire una corona di misericordia quando proclama ad alta voce  che non è lui che fa il bene, ma la grazia di Dio con lui (I Cor., XV, 10). – Voi lottate, questo è evidente, e sarete coronati perché sarete vincitori; ma vedete chi per primo ha riportato la vittoria, e vi rende vincitore dopo di Lui: « Io ho vinto il mondo, dice il Signore, abbiate fiducia. » (Giov. XVI, 33). Quale ragione c’è di non aver fiducia, dacché Egli ha vinto il mondo? E non lo avremmo vinto noi stessi? Si, noi lo abbiamo vinto: vinto in noi stessi, noi trionfiamo il Lui. Egli vi corona dunque, perché Egli corona i suoi stessi doni e non i vostri meriti. (S. Agost.). – Ora voi sentite parlare di beni, e aspirate ad essi; voi sentite parlare di beni, e poi li sospirate e forse, quando peccate, siete ingannati dalla vostra alacrità nello scegliere tra questi beni; voi vi rendete colpevoli per non ascoltare il buon consiglio di Dio su ciò che dovete disprezzare o scegliere, e forse anche negligere di sapere, se non vi siate ingannati nella scelta del bene. Tutte le volte che peccate, voi cercate una sorta di bene, cercate una sorta di refezione interiore. Le cose che cercate sono forse buone, ma diverranno cattive per voi se abbandonate Colui che le ha fatte buone. O anima, cercate il vostro bene. Il bene di un altro è diverso dal vostro, e tutte le creature hanno un bene che le è proprio, nella conservazione della loro integrità e nella perfezione della loro natura; importa a tutti gli esseri imperfetti acquisire ciò che sia necessario alla propria perfezione. O anima, cercate il vostro bene. Ora, « nessuno è buono se non Dio. » (Matth. XIX, 17). Il Bene sovrano è il vostro bene. Che manca dunque a colui il cui sovrano Bene è il bene? Ci sono beni inferiori che sono buoni per altri esseri …sono tutti là i beni che cercate? Voi che siete legati al Cristo, qual piacere trovate ad essere compagno degli animali? Levate la vostra speranza fino a Colui che è il Bene dei beni (S. Agost.). – La comparazione del rinnovamento dell’uomo giustificato, e a maggior ragione glorificato, con il rinnovamento della giovinezza dell’aquila, è fondata sul fatto che l’aquila, tra tutti gli uccelli, ha gli occhi più penetranti, che costruisce il suo nido sui luoghi più elevati, che nel suo volo tiene sempre una direzione retta, che ha grande cura dei suoi piccoli, e che è l’immagine imperfetta dei giusti che, con gli occhi della fede, penetrano fino in cielo, vi stabiliscono fin da ora la loro dimora, hanno sempre un nuovo vigore, si levano sulle ali, come l’aquila, nel più alto dei cieli volano e non cadono mai nella debolezza. Come si rinnovano queste aquile? Con il rinnovo delle loro piumaggio, dice san Girolamo, affilando le loro unghie smusse, limando contro la pietra la lunghezza troppo grande del loro becco che impedisce di mangiare – dice S. Agostino – fissando i loro occhi sul sole per dare loro nuova forza. È a questa santa novità di vita alla quale ci invita fin da ora il grande Apostolo in più passi delle sue epistole: « Rinnovatevi all’interno dell’anima vostra. » (Ephes. IV, 23). « Benché in noi l’uomo esteriore si distrugga, nondimeno l’interiore si rinnova di giorno in giorni » (I Cor., IV, 16). « Spogliatevi dell’uomo vecchio e delle sue opere, e rivestitevi di questo uomo nuovo che per la conoscenza della verità, si rinnova secondo l’immagine di Colui che lo ha creato. » (Coloss., III, 9, 4). – « Se dunque alcuno è di Cristo, è una creatura nuova; il passato non è più, tutto è divenuto nuova creatura. » (II Cor., V, 47). –  È quel rinnovamento di vigore e di forza che predice il profeta Isaia: « … Colui che dà il vigore alle braccia indebolite, che riempie di forza i malati, ». L’adolescenza si consuma nei lavori, la giovinezza ha i suoi languori; ma coloro che sperano nel Signore avranno sempre un nuovo vigore; essi si leveranno sulle ali, come l’aquila; essi corrono e non cadranno mai affaticati (Isai. XL, 29-31). –  Nell’annunciarci che la nostra giovinezza si rinnoverà come quella dell’aquila, il Salmista ha profetizzato la grazia del Battesimo. L’aquila ringiovanisce in questo senso che, spogliandosi delle sue vecchie piume, si prepara delle penne nuove come di un rivestimento di gioventù, e sembra in effetti allora una giovane aquila, perché le sue ali, ancora inabili e senza esperienza, devono nuovamente, poco a poco, esercitarsi a volare. Allo stesso modo i nostri neofiti, quando si presentano al Battesimo, si spogliano della vetustà del peccato, e si rivestono di una santità nuova; essi sembrano rivivere ricevendo la grazia dell’immortalità. Come l’aquila ridiventa aquilotto, i neofiti ridiventano bambini … tuttavia notiamo che il Salmista non dice: la vostra giovinezza si rinnoverà come quelle delle aquile, ma come quella dell’aquila, perché non si tratta che di una sola aquila, quella la cui giovinezza si rinnova in noi, Gesù-Cristo Nostro Signore che, in effetti si è ringiovanito come l’aquila, nel giorno glorioso della sua Resurrezione (S. Ambr., Serm. in alb.). – In Gesù-Cristo solo noi possiamo ritrovare una giovinezza immortale, e Lui solo anche può donare alla nostra giovinezza l’appoggio e la forza di cui ha bisogno. Similmente all’aquila che, secondo la comparazione della Scrittura (Deut. XXXII, 11), spinge i suoi piccoli a volare, vola sopra di essi, stende su di essi le sue ali e li trasporta sulle sue spalle; Gesù vola sopra di noi, ricordandoci i suoi insegnamenti e le virtù sublimi; stende su di noi le sue ali quando fa sentire al nostro cuore il dolce calore del suo amore, e ci trasporta sulle sue spalle divine quando appoggiandoci su di esse, andremo a riposare nel soggiorno della gloria.    

III. — 6-18.

ff. 6, 7. – Fonte di tutti questi beni, sono la misericordia di Dio e non i nostri meriti. Non succede sempre che Dio in questa vita faccia giustizia a coloro che sono oppressi e punisca coloro che li opprimono; Egli tempera solo la violenza che si scatena contro di essi, attendendo che si faccia piena giustizia nell’ultimo giorno. – Questo è un effetto della misericordia di Dio e della protezione sui giusti di questa vita quando gli piace: Mosè ed i figli di Israele liberati dalle mani del faraone. (Dug.)

ff. 8-12. – « I Signore è pieno di tenerezza, etc. » Questi diversi nomi dati qui a Dio e con tanta verità, devono ispirare a coloro che hanno il cuore retto, una viva fiducia in Dio; la parola ebraica tradotta con “miserator”, che significa amare teneramente con il fondo delle viscere, esprime che Dio ha per noi un sentimento di tenerezza tutta paterna; la parola tradotta con “misericors” esprime la liberalità di Dio e l’abbondanza dei beni dei quali ci ricolma; la parola tradotta con “longanimis” esprime questa pazienza di Dio nel sopportarci, pazienza più grande di quella dei padri e delle madri nel sopportare i difetti, le mancanze e l’ingratitudine dei loro figli; la parola “multum misericors” significa questa suprema misericordia che ci chiama ad essere uguali agli Angeli e divenire figli di Dio, vedendolo come essi lo vedono, con la visione intuitiva (Bellarm.). – « Il Signore è pieno di longanimità, di estrema misericordia. » (Ps. CII, 8). Dove trovare tanta longanimità? Dove trovare tale abbondante misericordia? L’uomo pecca e non finisce di vivere; i suoi peccati si accumulano e la sua vita si prolunga. Tutti i giorni il Nome di Dio è bestemmiato, e Dio fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. (Matth., V, 45). Da ogni canto ci richiama ad una vita migliore; da ogni parte ci richiama alla penitenza: Egli ci richiama con i benefici della creazione, ci richiama lasciandoci in vita, ci richiama con colui che legge le Scritture, con il predicatore che le spiega, ci richiama con i nostri pensieri interiori, ci richiama con i suoi “reprimenda” ed i suoi castighi, ci richiama con la dolcezza delle sue consolazioni, « Egli è pieno di longanimità e di misericordia. », ma badate bene di non abusare della longanimità e della misericordia divina, di ammassare su di voi, come dice l’Apostolo, un tesoro di collera per il giorno dell’ira (S. Agost.). – La collera e le minacce di Dio non sono eterne nei riguardi di coloro che Egli ama e che l’onorano essi stessi con un sentimento di filiale tenerezza; è lo sviluppo del primo attributo di Dio, di cui il Profeta ha parlato nel versetto precedente. – Sono quegli stessi termini con i quali Dio diceva al suo popolo per bocca del profeta Isaia: « Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore. » – Nei tre seguenti versetti, egli sviluppa il secondo Nome dato a Dio, il Nome di misericordioso. Invece di darci ciò che meritano i nostri peccati – e cosa merita il peccato se non la morte? (Rom. VIII) – invece del castigo Egli ci ha fatto dei doni: quelli della vita della grazia e la promessa dell’eternità. Il salmista ci mostra quanto questa misericordia sia reale nei benefici di cui ci ricolma e nei mali che allontana da noi, comparandola  a ciò che c’è di più reale e di più grande, la distanza che separa il cielo e la terra, e quella che separa l’Occidente dall’Oriente; misericordia tanto più elevata al di sopra dei nostri pensieri quanto più il cielo è elevato al di sopra della terra; ma questa misericordia non è che per coloro che lo temono. (Bellarm.). – 1° Il Salmista ci fa vedere qui la grandezza della misericordia divina: « Quanto i cieli sono elevati sopra la terra, etc. ». La misericordia di Dio è come i suoi pensieri: « I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie, dice il Signore. » – « Quanto i cieli sono elevati sopra la terra, tanto le mie vie ed i miei pensieri sono sopra i vostri pensieri. » (Isai. LV, 8, 9.). L’influenza della misericordia di Dio su di noi è qui comparata alla benigna influenza dei cieli sulla terra: come il cielo copre la terra e diffonde sull’uomo, nel tempo favorevole, i benefici di cui ha bisogno, tanto irrorando la terra con piogge fecondanti, sia elargendo una stagione dolce e benigna, sia temperando e purificando l’aria con dei venti favorevoli, così la misericordia del Signore sa proporzionare i suoi benefici ai bisogni della nostra fragilità. (Cassiod. In hunc Psalm.). – 2° La misericordia di Dio è forte, costante e stabile: « Egli ha fortificato, affermato la sua misericordia su coloro che lo temono. » – 3° La misericordia di Dio è nello stesso tempo pura e purificante: « Egli ha allontanato da noi le nostre iniquità. » « Chi è simile a Voi, o Dio che odiate l’iniquità, e che dimenticate i peccati del resto della vostra eredità? » (Michea, VII, 18). – 4° La misericordia di Dio è equanime, costante e stabile e si stabilisce su coloro che temono Dio. – Dio ci governa con amore; se punisce, questo avviene dopo tradimenti ripetuti, ed allora anche la sua giustizia mutua i tratti della sua misericordia, al punto che possiamo appena distinguere il castigo dall’amore. Egli perdona con una facilità senza eguali, fino a compromettere, per così dire la sua dignità reale con l’uso liberale con cui fa la sua prerogativa di grazia; il suo perdono non raggiunge i rigori dell’inchiesta o l’onta della convinzione, Egli accorda senza dirlo, senza farne mostra, senza avvertircene, senza riservarsi il merito dell’indulgenza, senza anche, come nel Battesimo e per i peccati dimenticati, che noi abbiamo coscienza della nostra colpevolezza; spesso Egli perdona prima che l’offesa sia completa; noi pecchiamo a metà, sicuri che saremo perdonati; … non ci tratta Egli secondo quanto meritano i nostri peccati, non ci ha reso secondo le nostre iniquità (FABER, Le Créât, et la créât., 168.)

ff. 13. – Dio è nostro padre, e noi siamo i suoi figli prediletti; figli pigri e prodighi, indegni di essere ancora chiamati suoi figli, e tuttavia suoi eredi, sempre oggetti della tenerezza paterna più prodiga. Quale madre ha mai vegliato sulla culla il suo primogenito con la sollecitudine che Egli ha per noi? Qual padre ha mai condiviso le pene dei suoi figli come ha fatto Dio, ed ha con loro abbondato dei suoi tesori senza imporre il minimo carico alla loro riconoscenza? Qual amore paterno resta un vero amore, punendo raramente con una mano tanto leggera ed una così forte ripugnanza? L’amore divino può forse giustificarsi con l’averci viziato con la sua indulgenza? Mai l’affezione di un padre ha forzato i suoi figli a piangere le proprie colpe lasciando loro vedere il danno che ne provocavano e raddoppiando le prove della sua tenerezza con la pazienza con la quale Dio ha cercato di toccare i nostri cuori induriti e a ricondurci umiliati, più di un amante, ai suoi piedi. Anche il rigore dei suoi castighi ci diventano cari, tanto li accompagna di favori e di nuove invenzioni del suo amore. O qual padre è Padre come Dio! (FABER, Le Créât, el la créât., 171). – Egli fa il duro quanto vuole, Egli è padre; ma Egli ci ha castigati, ci ha afflitto, ci ha annientati, Egli è padre … Figlio, se piangete, piangete con sottomissione a vostro padre; non lo fate con collera, non lo fate con il gonfiarvi di orgoglio. Questa sofferenza che vi fa piangere è un rimedio, non una pena; è una correzione e non una condanna (S. Agost.). – L’estraneo si limita ad una compassione tutta esteriore, tutta di parole, riguardo a colui che soffre; il nostro prossimo talvolta aggiungerà a questa compassione verbale quella che viene dal cuore; un amico non si contenterà di questa doppia compassione sterile, vi aggiungerà dei soccorsi affettivi; colui che ci è legato da legami di sangue, giungerà pure ad aiutarci di persona; ma un padre manifesta tutta insieme la tenera compassione con le sue parole, i suoi sentimenti, i suoi atti, considera le sofferenze di suo figlio come proprie, vorrebbe redimerle con il proprio sangue se non potesse liberalo che a questo prezzo. È ciò che letteralmente fa Dio col mistero dell’Incarnazione e della Redenzione (Valentia).

ff. 14-16. – Noi non siamo soltanto limo, fango, perché il limo e il fango hanno ancora una certa consistenza che li fa resistere agli sforzi del vento, ma noi siamo più fragili, più inconsistenti del fango della strada, siamo una polvere lieve che il vento più leggero solleva e disperde. – Dio si è ricordato nella sua misericordia che l’uomo non è che polvere, e l’uomo non vuole ricordarsene. – Dio sa che, essendo stato tratto dal niente, noi tendiamo sempre verso il niente; e l’uomo non sa, o non vuol sapere, questa bassezza della sua origine. – Dio sa e vuole che noi sappiamo che questo corpo, formato di fango e di polvere, asservisce, appesantisce la nostra anima ed impedisce ad essa di elevarsi verso il cielo, e noi non cessiamo di aggiungerne altro, con una vita molle e sensuale, a questo sudditanza, a questa oppressione della nostra anima. – Dio sa infine e vuole che noi sappiamo che appassiamo come i fiori dei campi, non facciamo alcuna attenzione a questa brevità dei nostri giorni, e viviamo come se dovessimo essere eterni su questa terra. – Qual grande insegnamento ha voluto darci la divina Sapienza, stendendo ogni anno sotto i nostri passi queste praterie verdi e fiorite che non hanno mai cessato, fin dal giorno della creazione, di mostrare ai nostri occhi il loro tappeto erboso ed i mille piccoli fiori che lo tempestano? È questa – risponde S. Ambrogio – una immagine della vita umana ed un simbolo suggestivo della condizione della nostra natura. Essa figura la bellezza della carne. Lo splendore di questa bellezza appare sublime agli occhi carnali, e come il tappeto delle nostre praterie, non è tuttavia che una piccola erba; fiorisce presto, e sfiorisce ancora più rapidamente. Essa presenta tutte le apparenze di una vegetazione lussureggiante e piena di vita, ma è senza durata e non porta alcun frutto (S. Ambr. Hex. I). – Si può comparare al fiore, tutto lo splendore umano: ricchezza, potenza, onore, bellezza. Una casa, una famiglia intera si diffonde come il fiore. Quanto dura questo splendore? Molti anni, voi dite. Questo tempo vi sembra lungo, ma è breve davanti a Dio. Lo splendore dell’uomo passa come il fiore del fieno (S. Agost.). –  c’è là una perdita assoluta, c’è una morte completa. Ecco l’uomo che si gonfia di orgoglio, ecco l’uomo tutto pieno di vanità, ecco l’uomo che si eleva con tutta la sua fierezza! « Un soffio passerà su di lui e non se ne conoscerà più il luogo ove era ». Vedete morire ogni giorno qualcuno di questi superbi: ecco tutto ciò che sarà di essi, ecco quale sarà la loro fine. (S. Agost.). – « Quando un soffio passerà su essa, essa non sussisterà più ». Si riconosce ancor meglio il luogo che hanno occupato i fiori e le erbe della campagna di quanto si conosca il soggiorno in cui hanno abitato la maggior parte degli uomini. I fiori e le erbe gettano la loro semenza nello stesso luogo, ed al ritorno della primavera, li si vede in qualche modo rinascere. Se vi sono delle montagne, delle praterie, delle campagne che sono abitate nello stesso stato, almeno dopo il diluvio, ci si può assicurare che le stesse erbe e le stesse piante vi si sono perpetuate. Ma chi può dire ciò che siano divenuti gli antichi popoli? Chi può assicurare che i Persiani, i Greci ed i Romani di oggi discendano dalle nazioni che altre volte hanno portato questo nome? Non si sa che si sono fatti rimescolii senza numero? Chi può mostrare i palazzi che hanno abitato i padroni del mondo da tremila anni? Dove sono le spoglie mortali di questi uomini così potenti? Si conservano le tombe di alcuni che sono vissuti nei secoli meno lontani da noi; ma se le si aprono cosa si troverà? Forse della cenere, o qualche resto di ornamenti di metalli più duraturi di essi. Non è dunque il soffio dell’eternità dell’Altissimo che è passato su questi dei della terra, e che li ha resi come un nulla? O uomo – esclamava Sant’Agostino – spiegando questo versetto, pensate dunque a voi, abbassate il vostro orgoglio, meditate sulla vostra polvere. Se sperate qualcosa di meglio, voi non l’otterrete che per la grazia di Colui che, essendo il Verbo di Dio, ha preso la vostra carne, per dare consistenza a questo fiore passeggero del quale vi glorificate sì malamente. (Berthier).

ff. 17, 18. – A questa nativa fragilità dell’uomo, a questa brevità, a questo niente dei suoi giorni, il Salmista oppone l’estensione della misericordia di Dio, che comincia nell’eternità con la predestinazione e si perpetua per tutta l’eternità con la gloria dei cieli. Dio, che non ha bisogno di noi, ci ama tanto per chiamarci dalla polvere, che è la nostra origine, ad una felicità eterna che non è altro che il possesso di Lui stesso. – Ed è molto una riconoscenza eterna per un tale beneficio? (Bellarm.). – Notate che queste parole sono ripetute tre volte in sei versetti: « Su coloro che lo temono. » Voi che non lo temete e che non siete che fieno, sarete gettato con il fieno e bruciati con il fieno. (S. Agost.). – Pura misericordia è che Dio, con la sua bontà, voglia chiamare una giustizia a nostro riguardo con la promessa che ha fatto ai suoi servi, verso i quali è voluto divenire come il debitore. « E chi si ricorda dei suoi precetti per compierli ». Già siete disposto ad elevarvi e forse a recitarmi il Salterio che non conosco a memoria, ed anche a ripetermi tutta la legge a memoria. Sicuramente voi potete avere più memoria di me, più memoria di un tal altro giusto, se il giusto non conosce la legge parola per parola. Ma iniziate prima a osservarne i precetti. Come dovete osservarli? Nella vostra vita e non nella vostra memoria. « Coloro che conservano nella loro memoria i suoi Comandamenti, non per recitarli, ma per praticarli. » (S. Agost.). – Colui che sa ciò che deve fare e non lo fa, è colpevole di peccato. » (Giac. IV, 17). – E si diceva, come paragone: prendere degli alimenti e non digerirli, è una cosa pericolosa. Gli alimenti non digeriti generano cattivi umori, e corrompono il corpo invece di nutrirlo. È così che una grande scienza, gettata nello stomaco dell’anima, che è la memoria, non digerita dal fuoco della carità, non porta e non diffonde succhi vivificanti in tutte le membra dell’anima, cioè in tutte le sue facoltà e nella condotta esteriore della vita. (S. BERN., Serm. XXXVI, in Cant.). – I santi Padri hanno moltiplicato le comparazioni per mostrare che la conoscenza delle Scritture, della legge di Dio, non serve assolutamente a niente, senza la fedeltà nell’osservarne i suoi precetti. È un tesoro inutile, è una sorgente ove non vi abbeverate, è una officina da cui non prendete nessuno dei rimedi che vi sono offerti (S. Chrys.); è una tavola carica di pietanze da cui non prendete nulla (Orig.); è un giardino magnifico dal quale non cogliete alcun fiore (S. Chrys.); è un campo di una fecondità ammirevole dal quale non raccogliete nessun frutto. (Cassiod.).

IV. — 19-22.

ff. 19-22. – Chi ha preparato il suo trono nel cielo se non il Cristo? Colui che è disceso sulla terra e che è risalito in cielo, che è morto e resuscitato, e che ha elevato al cielo l’uomo che Egli ha preso, il Cristo ha preparato il suo trono in cielo. Il cielo è la sede del Giudice; voi che mi ascoltate, notate che Egli ha preparato il suo trono nel cielo. Che ciascuno faccia sulla terra ciò che vorrà, il peccato non resterà impunito, la giustizia non sarà senza frutto, perché il Signore, che è stato esposto agli insulti davanti al tribunale di un uomo che lo giudicava, ha preparato il suo trono nel cielo (S. Agost.). – Angeli del Signore, che siete potenti per forza, e che obbedite alla sua parola; armate del Signore, voi che siete suoi ministri ed eseguite le sue volontà, a voi, a voi sta di benedire il Signore. – In effetti tutti coloro che vivono male, anche quando la loro lingua osserva il silenzio, maledicono il Signore con il disordine della loro vita. A che serve che la vostra lingua canti un inno, se la vostra vita esala il sacrilegio? Vivendo male, voi avete eccitato alla bestemmia un gran numero di lingue. La vostra lingua non canta alcun inno, ma le lingue di coloro che vi vedono, proferiscono bestemmie. Se dunque volete benedire il Signore, praticate la sua parola, praticate la sua volontà (S. Agost.). –  Il Profeta invita tutte le potenze del cielo, tutte le opere di Dio, cioè il firmamento e tutti gli immensi globi che racchiude, a benedire il Signore ed annunziare le sue grandezze. Ma queste creature non possono nulla senza di noi; prive di ragione e di sentimento, esse non hanno cuore per amare Dio, né intelligenza per comprenderlo: esse eseguono i suoi ordini senza conoscenza e libertà. L’uomo solo, nell’universo, può ammirare ed esaltare la saggezza che regna in queste magnifiche opere, prestare una voce a tutte queste opere di Dio e, come profetizza Daniele, riunirle in un immenso concerto per benedire l’Onnipotente (Dan. III, 57-90).

PROFEZIA DEL BEATO DI LIEBANA

PROFEZIA DEL BEATO DI LIEBANA

Uno dei più grandi Santi di lingua spagnola, contemporaneo di San Carlo Magno, e spesso soprannominato « Il Sant’Ilario di Spagna », ha profetizzato, più di dodici secoli orsono, la situazione attuale della Chiesa, sulla base del commentario dell’Apocalisse. Il suo testo  è sorprendentemente simile e conferma l’invalidità del clero conciliare, i cui falsi sacerdoti sono ordinati da falsi vescovi pseudo-consacrati nel rito invalido del 1968: « …sulla terra vi sono vescovi, sacerdoti ed una falsa religione che, sotto la maschera della santità, sembrano lavorare tranquillamente, senza clamore, spacciandosi per ministri della Chiesa e non essendolo … ». (Beato di Liebana).

      La recente scoperta di un commentario dell’Apocalisse redatto all’epoca di Carlo Magno dal Beato di Liebana, ricalca in modo spettacolare le pubblicazioni del Comitato Internazionale « Rore Sanctifica », intitolate « Invalidità del rito di Consacrazione episcopale del Pontificalis Romani, promulgato il 18 giugno 1968 da G. B. Montini – Paolo VI » (Ed. Saint-Remi). (Si vedano pure: i numeri 1-7 di: 18 giugno 1968 del blog:

https://www.exsurgatdeus.org/2016/09/26/18-giugno-1968-1/ 

https://www.exsurgatdeus.org/2016/09/28/18-giugno-1968-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2016/09/30/18-giugno-1968-3/

https://www.exsurgatdeus.org/2016/10/04/18-giugno-1968-4/

https://www.exsurgatdeus.org/2016/10/12/18-giugno-1968-5/

https://www.exsurgatdeus.org/2016/10/16/18-giugno-1968-6/

https://www.exsurgatdeus.org/2016/10/18/18-giugno-1968-7/)

      I due testi dichiarano, l’uno sulla base del testo rivelato dell’Apocalisse di San Giovanni, e l’altro sulla base del nuovo rito di consacrazione episcopale promulgato nel “fasullo, invalido e sacrilego” « Pontificalis Romani » da G. B. Montini (l’omosessuale sedicente Paolo VI) il 18 giugno del 1968, l’invalidità della gerarchia conciliare che ha preso l’apparenza del clero cattolico ma che non lo è affatto, ridotto com’è ad essere un pseudo-clero neo-anglicano interamente sprovvisto di ogni potere sacrificale e sacramentale (Potestas ordinis).

Estratto del Commentario dell’Apocalisse del Beato di Liebana antecedente all’anno 798:

« … Si vedono al presente dei nemici nella Chiesa (…), un tempo sarebbe stata una bestemmia dire che  essi si trovino in seno alla Chiesa e che sono essi che la perseguitano »

(+ Beato de Liebana, morto nel 798, Œuvres complètes, Commentaire de l’Apocalypse de Saint Jean, Ed. B.A.C., Madrid, 1995, p.485).

« Il serpente ha dato il suo potere alla Bestia, avendo dei falsi fratelli nella Chiesa, che sembrano farne parte, ma che invece le si oppongono. È attraverso di essi che il diavolo compie le sue azioni contro coloro che pretende di sedurre e che appartengono alla Chiesa (…), colui che, simulando la santità, sembra appartenere alla Chiesa ma in realtà non le appartiene; il diavolo ha inventato questa soperchieria per poter meglio pervenire ad imporla ai religiosi in nome della Religione. (…) Egli tiene nella Chiesa tutti coloro che, travestiti da pecore, appaiono virtuosi, ma dentro sono lupi famelici. Per questo motivo non vengono scoperti come gli altri uomini che sono assolutamente malvagi, ma sono addirittura considerati santi; cointeressati alla stessa trama, sono tenuti dal diavolo nella Chiesa, tra la moltitudine, sotto un’apparente santità. (Ibid. p. 487).

“Tuttavia io ho detto che a torto sono stati accusati perché non hanno parlato apertamente contro la Chiesa alla quale pretendono di essere uniti, affermando di essere figli di Dio, e tendono trappole ai figli di Dio (…) non pronunciando apertamente imprecazioni contro la Chiesa, ma sono tuttavia parte del mistero dell’iniquità, sotto il colore della santità. Nonostante ciò, quando verrà il momento in cui l’Anticristo si manifesterà, quando avverrà la dispersione, cioè quando la disintegrazione della Chiesa sarà chiaramente visibile, quando l’uomo del peccato si sarà manifestato al mondo intero, solo allora tutti coloro che prima, sotto la pretesa della religione, nascondevano sotto imprecazioni occulte parole contro Dio, saranno individuati, scoperti, compresi e riconosciuti, ma ora parlano come la Chiesa cattolica (ibid. p. 489).

“… È lo stesso Anticristo che ora sottilmente regna nella Chiesa attraverso falsi sacerdoti e che poi distruggerà la Chiesa senza travestimento” (ibid. p. 507).

 « Il mare è il mondo fondamentalmente malvagio; la terra sono i vescovi, i sacerdoti e la falsa religione che, sotto la maschera della santità, sembrano lavorare tranquillamente senza agitarsi, facendosi passare per ministri della Chiesa senza esserlo … » (Ibid. p. 507) – (Ibid. p. 403)

« …facendosi passare per agnelli, per meglio inoculare furtivamente il veleno del serpente. Ora finge di essere un agnello, per divorare l’agnello in modo più sicuro; parlando di Dio, con l’intenzione di condurre coloro che cercano Dio. lontano dal sentiero della Verità. Ecco perché Nostro Signore, avvertendo la Sua Chiesa, dice: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci » (Mt VII, 15)” (ibid. p. 495).

«… La canna è la misura della fede. Nessuno adora davanti al sacro altare se non colui che confessa questa fede: perché non tutti coloro che Lo accompagnano lo adorano, come è scritto: IL SAGRATO ESTERNO DEL TEMPIO NON LO MISURA, È STATO ABBANDONATO ALLE NAZIONI. Il sagrato sembra appartenere al Tempio; non è il Tempio però, non facendo parte del “Santo dei Santi”; questi sono coloro che sembrano far parte della Chiesa e non lo sono. Il cortile si chiama quadrato, uno spazio vuoto tra le mura. A questi, essendo inutili, si ordina che siano espulsi dalla Chiesa. PERCHÉ IL SAGRATO È STATO ABBANDONATO AI GENTILI, ESSI CALPESTERANNO LA CITTÀ SANTA PER QUARANTADUE MESI. Coloro che sono stati esclusi e tutti gli altri, cioè i malvagi di questo mondo, calpesteranno la Chiesa” (Commento all’Apocalisse, Opere complete, p. 453).

« UN’ALTRA BESTIA SORGE DALLA TERRA. Sorgere dalla terra significa essere pieni di sé e della gloria terrena. Com’è la Bestia del mare, tale è la Bestia della terra. La parola ALTRO si riferisce alla missione, ma essa è sempre la stessa. Il mare fa alcune cose, la terra ne fa altre; il mare si agita, la terra è quieta; per mare si intende la moltitudine che è francamente malvagia; la terra sono i vescovi, i sacerdoti e la falsa religione che, sotto un’apparenza di santità, non sembra agitare il mondo, ma lavora tranquillamente fingendo di essere la Chiesa senza essendolo …”. (Commento all’Apocalisse, Opere complete, p. 493) .»

« Beatus de Liébana era un monaco spagnolo del monastero di San Martín de Turieno (oggi Santo Toribio de Liébana, nella comarca di Liébana) nei Picos de Europa (Regione Cantabria), morto nel 798, autore, tra l’altro, di un Commento all’Apocalisse che fu una delle opere più famose dell’Alto Medioevo spagnolo, per la sua dimensione teologica ma anche politica. »

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (8)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (8)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

TERZA PARTE

L’INABITAZIONE DIVINA PER MEZZO DELLA GRAZIA NON È LA PROPRIETÀ PERSONALE DELLO SPIRITO-SANTO, MA IL PATRIMONIO COMUNE DI TUTTA LA SANTA TRINITÀ. — ESSA È APPANNAGGIO DI TUTTI I GIUSTI, TANTO DELL’ANTICO CHE DEL NUOVO TESTAMENTO.

CAPITOLO II

L‘abitazione di Dio nelle anime non è esclusivo appannaggio dei Santi della nuova alleanza, ma la dote comune dei giusti di tutti i tempi.

I.

Ma questa unione delle nostre anime con Dio è propria dei santi della Nuova Alleanza, o comune a tutti i giusti? Anche in questo caso, ci scontriamo con una singolare opinione di Petau, che vedeva nella dimora dello Spirito Santo, mediante la grazia, un privilegio della legge evangelica. Questo, inoltre, era solo una conseguenza e un corollario della sua dottrina sulla causa formale della nostra adozione come figli di Dio. Distinguendo, seguendo Lessius, la santità o la giustificazione per la grazia, dalla filiazione adottiva, al punto che, secondo lui, l’una possa separarsi dall’altra, e che l’uomo possa essere giusto, di una giustizia soprannaturale, senza essere figlio di Dio, Petau sostiene che la vera causa, la ragione formale della nostra adozione divina, non è la grazia santificante, ma la sostanza stessa dello Spirito Santo applicata alla nostra anima. Infatti, come la causa formale della filiazione naturale non è altro che la comunicazione, per generazione, di una natura simile a quella del Generatore; così la vera causa della filiazione soprannaturale e adottiva è la natura divina stessa, identificandosi con la Persona dello Spirito Santo, liberamente comunicata all’uomo.  Così, secondo l’eminente gesuita, la partecipazione alla natura divina che ci rende giusti e figli di Dio non consiste, come i teologi cattolici hanno sempre creduto e insegnato, nel dono creato della grazia santificante, ma nella Persona stessa dello Spirito Santo, unendosi direttamente e senza intermediari con le nostre anime e divinizzandole con l’applicazione della propria sostanza (Petav., de Trin., 1. VIII, c. VI, n. 3). Per comprenderlo, la grazia e la carità accompagnano, è vero, nell’economia attuale, il dono increato, come una sorta di legame tra la divinità e noi, come disposizione preliminare e mezzo di unione; ma sono in definitiva solo un magnifico accessorio, in nessun modo necessario alla nostra rigenerazione spirituale, a tal segno che, anche quando nessuna qualità creata fosse riversata nelle nostre anime, la sola presenza dello Spirito Santo sarebbe pienamente sufficiente a divinizzarci e a farci santi e figli di Dio (Ibid.). Al contrario, sotto l’Antica Legge, chiamata dall’Apostolo legge del timore e della schiavitù, producendo solo schiavi, in servitutem generans (Gal. IV, 24), lo Spirito Santo, che è Spirito di adozione e di amore, non era ancora stato dato. Gli uomini erano allora giustificati da un dono creato che li purificava dai loro peccati, li rendeva graditi a Dio e degni della vita eterna; essi possedevano, come noi, la giustizia inerente, la grazia santificante, che li rendeva giusti e santi, ma non conferiva loro né il titolo né la qualità di figli di Dio; perché lo Spirito Santo era in loro solo per la sua operazione ed i suoi effetti, e non per la sua sostanza, essendo questo dono di Dio per eccellenza riservato ad un’economia migliore e più perfetta.  « Se qualcuno – dice Petau – vuole prendersi la briga di considerare attentamente i passi degli antichi che abbiamo citato, si convincerà, e non ho dubbi, che, secondo i Padri, dopo la venuta e la morte di Cristo, ci sia stata, secondo il parere dei Padri, una particolare comunicazione dello Spirito Santo, come mai aveva avuto luogo. Secondo loro, questo nuovo modo di comunicare risale al giorno in cui lo Spirito Santo discese sugli Apostoli sotto forma di lingue di fuoco. Fino ad allora, questo Spirito divino era nei santi solo attraverso la sua operazione, operazione tenuta [operatione tenus] da quel giorno in poi, in cui venne in Persona, substantialiter (Petav., de Trin., 1. VIII, c. VII, n. 1). – Parlando in un altro brano sulla presenza sostanziale dello Spirito Santo nelle anime, lo stesso autore aggiunge: « Secondo alcuni Padri, è solo dopo il compimento del mistero dell’incarnazione, dopo la discesa del Figlio di Dio sulla terra per la salvezza del mondo, che un beneficio così grande e sorprendente, frutto della venuta, dei meriti e del sangue di Gesù Cristo, sia stato concesso agli uomini. I giusti dell’Antica Alleanza non erano stati onorati con tale favore, perché, secondo la parola di San Giovanni Evangelista (VII 39), lo Spirito Santo non era stato ancora dato loro, perché Gesù non era ancora stato glorificato: Nondum erat Spiritus datus, quia Jesus nondum fuerat glorificatus. »  (Petav., de Trin., 1. VIII, c. IV, n. 5).

II.

Negando la presenza sostanziale dello Spirito Santo nei patriarchi, nonché attribuendogli una presenza propria e personale nei santi della nuova Legge, il dottore gesuita ha un bell’appellarsi all’antichità e all’autorità delle Scritture per stabilire il suo sentimento, anzi si pone in evidente opposizione con loro. Infatti, se si eccettua San Cirillo d’Alessandria, il cui vero pensiero può essere oggetto di contestazione, i Santi Padri insegnano di comune accordo che, se c’era, in relazione all’abitazione divina per mezzo della grazia, una differenza tra i Santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, era una semplice differenza di grado, di misura e di manifestazione esterna. – Ascoltiamo san Leone Magno: « Quando, nel giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo riempì i discepoli del Signore, non fu la prima comunicazione di una tale benedizione, ma un’effusione più abbondante: Non fuit inchoatio muneris, sed adjectio largitatis, poiché i Patriarchi, i Profeti, i Sacerdoti e tutti i santi di un tempo erano stati vivificati e santificati da questo stesso Spirito. La virtù dei doni divini era sempre stata la stessa, solo la misura della loro collazione variava (S. Léo M., de Pentec, sermo II, c . 3.). Sant’Atanasio – da parte sua – dice: “È uno stesso e medesimo Spirito che, oggi come allora (secondo la vecchia Legge), santifica e consola coloro che lo ricevono; così come è uno e medesimo Verbo che, anche allora, chiamava all’adozione divina coloro che ne fossero degni. Perché sotto l’antica Alleanza c’erano figli che erano debitori della loro adozione al Figlio e non ad altri. » (S. Athan., Orat. 5, contra Arian. N. 25-26). – Non meno esplicita dei Padri, la Scrittura ci parla di personaggi santi appartenenti all’Antico Testamento e tuttavia pieni di Spirito Santo. Così si dice di San Giovanni Battista che sarebbe stato grande davanti a Dio e pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre: Erit magnas magnas coram Domino….. e Spiritu sancto replebitur adhuc ex utero matris suæ (Luc. I, 16). Il giorno in cui ricevette la visita di Maria, anche Elisabetta era piena di Spirito Santo: et repleta est Spiritu sancto Elisabeth (Luc. I, 41). Infine, l’evangelista san Luca riferisce anche, del vecchio Simeone, che lo Spirito Santo era in lui: Et Spiritus sanctus erat in eo (Luc. II, 25). E tutto questo accadeva molto prima della Pentecoste. Pertanto, sulla base dell’incrollabile fondamento della rivelazione, il Romano Pontefice dichiara « senza dubbio che lo Spirito Santo ha abitato per grazia nei giusti che hanno preceduto Cristo, come è scritto dei Profeti, di Zaccaria, di Giovanni Battista, di Simeone ed Anna. Certum quidem est, in ipsis etiam hominibus justis qui ante Christum fuerunt, insedisse per gratiam Spiritum sanctum, quemadmodum de prophetis, de Zacharia, de Joanne Baptista, de Simeone et Anna scriptum accepimus. » (Enc. Divinum illud munus). – Che cosa significa allora la parola di San Giovanni quando dice che prima della glorificazione di Gesù Cristo, lo Spirito Santo non era ancora stato dato? Nondum erat Spiritus datus, quia Jésus nondum erat glorificatus (Giov. VII, 39). Significa, nel giudizio di sant’Agostino, di san Girolamo, i sant’Atanasio, che, « dopo la glorificazione di Cristo, ci doveva essere una certa donazione dello Spirito Santo tale che mai aveva ancora avuto luogo fino ad allora. Non che questo Spirito divino non fosse stato dato realmente prima di questa epoca, ma che non era stato dato nello stesso modo. In effetti, se non fosse stato dato, di quale Spirito erano ripieni i Profeti quando parlavano? Perché la Scrittura dice apertamente, e mostra in molti luoghi, che è per mezzo dello Spirito Santo che essi hanno parlato » (S. Aug., de Trin., 1. IV, c. XX, n. 29). San Tommaso spiega nello stesso senso il testo evangelico: « Quando si dice che lo Spirito Santo non era ancora stato dato, queste parole non vanno intese nel senso che nessuno, prima della risurrezione di Cristo, avesse ricevuto lo Spirito santificante, ma nel senso che, da quel momento in poi, il dono di quello Spirito divino era più abbondante e più comune » (S. Th., in Rom., c. 1, lect. 3.); e aggiunge altrove: « … E accompagnato da segni visibili, come avvenne nel giorno di Pentecoste » S. Th., Summa Theol., I, q. XLIII, a. 6, ad 1.). Petau può distinguere un doppio modo secondo il quale questo Spirito divino possa essere presente nelle anime sante; prima con la sua operazione, e con i suoi effetti, κατ’ἐνέργειαν [=katenergheian], ciò che egli concede ai giusti anziani; poi con la sua sostanza, οὐσιωδῶς [=usiodos], quello che, a suo parere, sarebbe il privilegio della nuova Legge: Sant’Agostino non conosce affatto questa distinzione; al contrario, egli insegna, molto esplicitamente, che lo Spirito Santo era stato dato prima dell’Incarnazione, così come lo è stato da allora; tuttavia, secondo la legge della grazia, la missione dello Spirito Santo doveva avere una proprietà che gli mancava sotto l’economia mosaica: esso doveva essere accompagnata da una missione visibile, segno e indicazione di quella che si compiva invisibilmente nel profondo delle anime. In nessun luogo, infatti, come osserva il grande Vescovo di Ippona, leggiamo, a proposito dei personaggi dell’Antico Testamento, che, a seguito della visita dello Spirito Santo, abbiano cominciato a parlare un linguaggio nuovo e sconosciuto ad essi (S. Aug., de Trin., l. IV, c. XX, n. 29); in nessun luogo c’è indizio di una missione visibile, non avendo, le teofanie dell’Antica Legge – a giudizio di San Tommaso – le caratteristiche di una vera missione. (S. Th., Somma Theo., I, q. XLIII, a. 7, ad 6.)

III.

Così, quando, affrontando ex professo la questione delle missioni divine, l’angelico Dottore si chiede se la missione invisibile dello Spirito Santo sia la parte di tutti coloro che sono in stato di grazia, e quindi di tutti i giusti senza eccezione, in qualsiasi momento essi abbiano vissuto: Utrum missio invisibilis fiât ad omnes qui sunt participes gratiæ, la risposta è risolutamente affermativa (S. Th., Summa Theol, I, q. XLIII, a. 6.). Così –  egli conclude – i Patriarchi dell’Antico Testamento furono favoriti anch’essi da una missione invisibile di questo Spirito divino. Ergo dicendum quod quod missio invisibilis est facta e patres veteris Testarnenti (Ibid. ad 1). Un facile ragionamento ci dimostrerà la legittimità di questa conclusione. La missione invisibile è ordinata alla santificazione delle creature ragionevoli, e si svolge ad ogni collazione o incremento della grazia santificante, ogni volta, in una parola, che la carità, inseparabile dalla grazia, faccia di qualcuno un amico di Dio, e che, unita al dono della sapienza, gli permetta di raggiungere e possedere il bene sovrano attraverso la conoscenza e l’amore. Ora, gli Giusti erano, come noi, amici di Dio; la Scrittura lo dice formalmente di Abramo: Credidit Abramo Deo, et reputatum est illi ad justitiam, e amicus Dei appellatus est (Jac. III, 23), come noi, erano capaci di unirsi alla Divinità attraverso le operazioni della loro intelligenza e volontà. Non mancava nulla loro perché fossero veramente il tempio e la dimora dello Spirito Santo. Questa conclusione non ci sorprenderà affatto se si considera che i Patriarchi dell’antichità possedevano lo stesso tipo di santità del Cristiano; la grazia che li giustificava, li rendeva come essi santi, figli di Dio ed eredi della vita eterna. Infatti, secondo l’insegnamento del Concilio di Trento, « la giustificazione consiste non solo nella remissione dei peccati, ma anche nella santificazione e nel rinnovamento dell’uomo interiore attraverso la ricezione volontaria della grazia e dei doni, in modo che l’uomo diventi giusto, da ingiusto che era; da nemico, diventi amico ed erede nella speranza della vita eterna”. Essi hanno ricevuto, quindi, al momento della loro giustificazione, il perdono dei loro peccati, la grazia santificante e tutta quel meraviglioso corteggio di virtù e doni soprannaturali che la accompagnano e, con la grazia, lo Spirito Santo. Ma, secondo l’osservazione dei santi Dottori, questo dono reale e invisibile dello Spirito Santo non avrebbe dovuto poi essere accompagnato da una missione visibile, inopportuna in questo momento; perché la missione visibile del Figlio doveva precedere quella dello Spirito Santo (S. Th., Summa TheoL, I, q. XLIII, a. 7, ad 6.). Era infatti opportuno, prima che la terza Persona della Santissima Trinità si manifestasse esteriormente e si facesse chiaramente notare, che la pienezza dei tempi, segnata nei consigli divini dall’incarnazione del Verbo e la sua apparizione tra gli uomini, fosse arrivata.  Inoltre, prima di proporre ad un popolo incline all’idolatria, come il popolo ebraico, il dogma della Trinità, era necessario inculcarlo in anticipo e incidere con forza nel suo spirito la verità fondamentale dell’unità di Dio. L’unità di Dio, in contrapposizione al politeismo, è il dogma ricordato ovunque nell’Antico Testamento. « Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è uno solo. Audi, Israele, Dominus Deus noster, Dominus unus est » (Deut. VI, 4). Solo poche velate allusioni alla Trinità delle Persone; se a volte è in questione il Verbo di Dio e del suo Spirito, vi è fatta  menzione in termini così vaghi che è un problema difficile da risolvere, per noi, sapere se i maestri ebrei li conoscessero come Persone distinte. Secondo la nuova Legge, al contrario, dopo che il Verbo fatto carne si è degnato di mostrare se stesso agli uomini e dimorare in mezzo a loro, il mistero della Santissima Trinità è loro rivelato e annunciato apertamente, è una verità che tutti devono conoscere e professare. Alla luce fioca dell’Antico Testamento, proporzionata alla debolezza di un popolo ancora puerile, si è sostituito il pieno meriggio della rivelazione cristiana; il tempo è dunque propizio per una manifestazione esterna e distinta delle Persone divine. Da qui questa giudiziosa osservazione di San Gregorio di Nazianze: « Dopo l’apparizione del Figlio di Dio nella carne, era opportuno che anche lo Spirito Santo si mostrasse in modo sensibile: Decebat enim, postquam Filius corporaliter nobiscum versatus est, etiam illum (Spiritum sanctum) apparere corporaliter. » [S. Greg. Naz., orat. 41(al. 44), n. 11].

IV.

Ciò che emerge da tutto ciò che abbiamo detto finora, quanto si evince dallo studio dei Libri Santi e dei Padri fatto senza spirito di parte e senza alcuna preoccupazione sistematica, ciò in cui i dottori più autorizzati si accordano nell’insegnare è che ogni anima giusta, in qualsiasi età nel mondo si trovasse, a prescindere dal grado di santità nel quale si trovasse, che avesse già raggiunto l’apice della perfezione o fosse ancora agli inizi della carriera della giustizia, che si trattasse dell’anima di un adulto o di un bambino, ogni anima in stato di grazia possedeva in essa l’Ospite divino: Quilibet sanctus Deo unitur per gratiam (S. Th., Summa TheoL, IIL q. n, a. 10, obj. 3). L’Unione, è vero, può essere più o meno perfetta; i suoi gradi possono variare all’infinito, ma la profondità del mistero è la stessa ovunque. Il lettore è ora in grado di apprezzare l’opinione di Petau riservante ai santi della Legge nuova, la qualità dei figli di Dio e dei templi dello Spirito Santo, che negava ai giusti dell’Antico Testamento, stabilendo così una sorta di dualismo nell’opera della santificazione umana. Indubbiamente, qui come in precedenza, quando si trattava della abitazione personale dello Spirito Santo, il dotto gesuita fa appello all’autorità dei Padri; ma non è necessario, per spiegare il loro linguaggio, ricorrere a questa strana teoria, basta ricordare la doppia differenza che essi stabiliscono tra la missione dello Spirito Santo prima e dopo l’Incarnazione. Prima della comparsa sulla terra del Verbo fatto carne, lo Spirito Santo era stato realmente inviato e donato alle anime sante; ma questa missione invisibile non era mai stata accompagnata dalla missione esteriore e visibile così frequente in seguito, specialmente nei primi secoli della Chiesa, quando i fedeli avevano bisogno di essere rafforzati nella fede nel mistero della Santissima Trinità. Inoltre, se lo Spirito Santo era presente negli antichi giusti, non solo con la sua operazione, ma anche con la sua sostanza, non era con questa pienezza, questa abbondanza, questo tipo di profusione, che si formava il carattere distintivo della Legge evangelica.  – Ciò che può essere concesso a Petau è che l’inabitazione divina mediante la grazia e la filiazione adottiva, sebbene reale sotto l’economia sinaitica (Rom., IX, 4), non appartenesse tuttavia ai figli di Israele, come ora ai Cristiani, in virtù della loro stessa legge, vi legis, ma per fede nel futuro Messia e per una applicazione anticipata dei suoi meriti futuri. La natura delle due leggi spiega sufficientemente questa differenza. La legge mosaica era essenzialmente una legge figurativa e provvisoria « Hæc omnia in figura contingebant illis. » (1 Cor., X, 11); una legge imperfetta e inefficace in sé, che non conduceva affatto alla perfezione (Hebr., VII, 19.); essa prefigurava, annunciava la grazia futura, ma non la dava; formulava precetti, imponeva divieti, faceva conoscere il peccato (Rom. III, 20), ma non era in grado di cancellarlo (Hebr. X, 4). La santificazione che operava era una santificazione esterna e carnale, emundatio carnis (Ibid. IX, 13), che rendeva l’uomo capace di partecipare al culto divino, senza tuttavia cambiarlo e rinnovarlo interiormente. – È vero che esisteva allora, oltre alla giustizia legale, una vera e propria giustizia interiore che purificava l’uomo dai suoi peccati e lo rendeva gradito agli occhi di Dio; ma questa giustizia soprannaturale non veniva dalla legge stessa, essa veniva accordata non alle opere di quella legge, ma alla fede e ai meriti di Cristo a venire (Gal. II, 16). La vera santità, quella che cancella il peccato e trasforma l’uomo in una creatura divina, doveva essere effetto e proprietà della legge evangelica, chiamata perciò la legge di grazia. Pertanto, San Tommaso non ha difficoltà a dire che i giusti dell’Antico Testamento che possedevano la carità e la grazia dello Spirito Santo, e che, non soddisfatti delle promesse terrene legate alla pratica fedele delle osservanze legali, attendevano principalmente le promesse spirituali ed eterne, appartenenti, sotto questo aspetto, alla nuova Legge (Summa Theol., q. CVII, a 1, ad 2). Tuttavia, pur possedendo una giustizia ed una santità della stessa nostra natura, pur essendo, come noi, figli di Dio adottati per grazia, essi non vivevano nella condizione e nello stato di figli, ma piuttosto come servi (Encycl. Divinum illud munus.): simili in questo, secondo il paragone dell’Apostolo, a quei figli di nobile estrazione che, pur essendo i veri eredi della ricchezza paterna ed i veri padroni di tutto, non differiscono dai servi, e sono sottoposti a dei tutori e a dei curatori fino al tempo stabilito dal padre. Incapaci di entrare in possesso dell’eredità celeste, essi furono soggetti alle mille pratiche di schiavitù della legge, che servì loro da precettore per condurli a Cristo (Gal. III, 24). Ma quando arrivò la pienezza dei tempi, quando venne l’ora segnata dai decreti eterni, Dio mandò suo Figlio per liberarci dal giogo e dalla schiavitù della legge, e per comunicarci in modo perfetto la qualità e la condizione dei figli adottivi (Gal. IV, 4-5). E poiché siamo suoi figli, Egli ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre, (Ibid. V). La pienezza della missione divina doveva quindi essere il privilegio della legge evangelica.

V.

Ciò significa forse che i giusti dell’Antica Alleanza, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e Giosuè, Davide e Geremia, e tanti altri la cui fede, zelo, fedeltà, dolcezza e altre virtù sono celebrate in termini così magnifici nella Scrittura, fossero inferiori in santità ai giusti della Nuova Legge, e non possedessero nella stessa misura né la grazia né lo Spirito Santo?  – Parlando in generale, sembra che sia stato così, perché i mezzi di santificazione messi a disposizione del genere umano prima dell’incarnazione del Verbo erano incomparabilmente meno potenti dei nostri. Puramente figurativi, i vecchi sacrifici si ripetevano perennemente, perché non avevano virtù proprie capaci di perfezionare coloro in favore dei quali erano offerti, e di purificare la loro coscienza (Hebr. X, 1-2), mentre Gesù Cristo, con un’oblazione unica, ha reso perfetti per sempre coloro che ha santificato (Ibid. 14); i sacramenti della legge mosaica, invece di essere, come quelli della Legge nuova, delle cause efficaci della grazia, non erano egualmente che segni e simboli; essi prefiguravano la grazia che doveva essere prodotta dalla passione di Cristo, ma non la producevano (Conc. Florent., ex decreto pro Armenis). Per questo l’Apostolo li chiama « degli elementi indifesi e vuoti, infirma et egena elementa » (Gal. IV, 9); « impotenti – dice san Tommaso – perché erano vuoti e non contenevano la grazia » (Summa Theol. Ia-Ilæ, q. CIII, a. 2.). Un’altra considerazione dell’angelico Dottore, che sarà poi ripresa dal Concilio di Trento (Trid. sess. VI, cap.VII.), ci aiuta a capire perché, secondo la legge evangelica, il livello di santità è generalmente superiore a quello della Legge antica: colui che è meglio preparato alla grazia la riceve con più abbondanza. Illi qui magis sunt parati ad perceptionem gratiæ, pleniorem gratiam consequuntur (S. Th., in I Sent., dist. XV, q. V, a. 2.). Ora, dall’avvento del Salvatore, e come risultato di questo avvento, l’intera razza umana era meglio disposta e più capace di prima di ricevere doni divini; sia perché il prezzo del nostro riscatto era stato pagato e il diavolo sconfitto, sia perché, grazie alla dottrina di Cristo, le cose divine sono a noi più note (ibid.). Il Santo Dottore aggiunge, in un altro passaggio, che, prima dell’Incarnazione, i meriti e le soddisfazioni del Redentore non esistevano ancora realmente, la grazia era ripartita con meno abbondanza che dopo il compimento di questo mistero (De verit., q. XXIX, a. 4. ad 10.). E poiché la missione invisibile dello Spirito Santo non va senza la prima collazione o l’aumento della grazia, si può quindi affermare che questa missione si è fatta generalmente con maggiore pienezza di prima dopo l’Incarnazione. Et ideo, loquendo communiter, plenior facta est missio post Incarnationem quam ante (S. Th., in I Sent, dist. XV, q. V, a. 2).  – Ma se, invece di considerare lo stato generale dell’umanità, riflettiamo sulle particolari condizioni in cui si sono trovati alcuni personaggi antichi, presi singolarmente, nulla ci impedisce di credere che essi abbiano ricevuto la missione dello Spirito Santo con tale pienezza da elevarsi alla perfezione della virtù (Ibid.). E se confrontiamo la grazia personale dei Santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere con san Tommaso che, per la fede nel Mediatore, molti dei giusti antichi furono altrettanto bene provvisti, alcuni addirittura meglio dotati di molti Cristiani (Ibid. ad 2).  Ma c’è una grazia dietro la quale i patriarchi prima del Messia hanno dovuto sospirare a lungo senza poterla ottenere sotto l’economia mosaica; questa è la missione invisibile dello Spirito Santo che era riservata al tempo della Nuova Alleanza: era la grazia di essere ammessi alla visione di Dio, era la missione piena e consumata che si fa all’ingresso dei giusti nella gloria.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/25/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-9/

CHI APPARTIENE AL CORPO MISTICO DI CRISTO … E CHI NO!

Alla CHIESA CATTOLICA appartiene colui che, lasciata qualsiasi setta eretica e scismatica, sia battezzato ed abbia esplicito desiderio di appartenervi, pur non potendolo materialmente.

Lettera del Santo-Officio all’arcivescovo di Boston, 8 agosto 1949.

[Ed: AmER 127 (1952, Oct.) 308ss.]

De necessitate Ecclesiæ ad salutem

[La necessità della Chiesa per le salvezza.]

3866 …. Inter ea autem, quæ semper Ecclesia prædicavit et prædicare numquam desinet illud quoque infallibile effatum continetur, quo edocemur « extra Ecclesiam nullam esse salutem ». Est tamen hoc dogma intelligendum eo sensu, quo id intelligit Ecclesia ipsa. Non enim privatis iudiciis explicanda dedit Salvator noster ea, quæ in fidei deposito continentur, sed ecclesiastico magisterio.

3867 – Et primum quidem Ecclesia docet, hac in re agi de severissimo præcepto Iesu Christi. Ipse enim expressis verbis Apostolis suis imposuit, ut docerent omnes gentes, servare omnia quæ ipse mandaverat. Inter mandata autem Christi non minimum locum illud occupat, quo baptismo iubemur incorporari in Corpus mysticum Christi, quod est Ecclesia, et adhærere Christo eiusque vicario, per quem ipse in terra modo visibili gubernat Ecclesiam. Quare nemo salvabitur, qui sciens Ecclesiam a Christo divinitus fuisse institutam, tamen Ecclesiæ sese subiicere renuit vel Romano Pontifici, Christi in terris vicario denegat obœdientiam.

3868 Neque enim in præcepto tantummodo dedit Salvator, ut omnes  gentes intrarent Ecclesiam, sed statuit quoque Ecclesiam medium esse salutis, sine quo nemo intrare valeat regnum gloriæ caelestis.

3869Infinita sua misericordia Deus voluit, ut illorum auxiliorum salutis,  quæ divina sola institutione, non vero intrinseca necessitate, ad finem ultimum ordinantur, tunc quoque certis in adiunctis effectus ad salutem necessarii obtineri valeant, ubi voto solummodo vel desiderio adhibeantur. Quod in sacrosancto Tridentino Concilio claris verbis enuntiatum videmus tum de sacramento regenerationis tum de sacramento pænitentiæ [*1524 1543].

3870 Idem autem suo modo dici debet de Ecclesia, quatenus generale ipsa  auxilium salutis est. Quandoquidem ut quis æternam obtineat salutem, non semper exigitur, ut reapse Ecclesiæ tamquam membrum incorporetur, sed id saltem requiritur, ut eidem voto et desiderio adhæreat. Hoc tamen votum non semper explicitum sit oportet, prout accidit in catechumenis, sed ubi homo invincibili ignorantia laborat, Deus quoque implicitum votum acceptat, tali nomine nuncupatum, quia illud in eà bona animae dispositione continetur, qua homo voluntatem suam Dei voluntati conformem velit.

3871 Quæ dare docentur in [Pii XII Litt. encycl.] . . . De mystico Iesu Christi Corpore. In iisdem enim Summus Pontifex nitide distinguit inter eos, qui re Ecclesiæ tamquam membra incorporantur, atque eos, qui voto tantum modo Ecclesiæ adhærent …. « In Ecclesiæ autem membris reapse ii soli adnumerandi sunt, qui regenerationis lavacrum receperunt veramque fidem profitentur neque a Corporis compage semet ipsos misere separaverunt vel, ob gravissima admissa, a legitima auctoritate seiuncti sunt » [*3802]. Circa finem autem earundem Litterarum encyclicarum, amantissimo animo eos ad unitatem invitans, qui ad Ecclesiæ catholicæ compagem non pertinent, illos commemorat, « qui inscio quodam desiderio ac voto ad Mysticum Redemptoris Corpus ordinentur », quos minime a salute æterna excludit, ex altera tamen parte in tali statu versari asserit, « in quo de sempiterna cuiusque propria salute securi esse non possunt… quandoquidem tot tantisque cælestibus muneribus adiumentis carent, quibus in catholica solummodo Ecclesia fruì licet » [*3821].

3872 – Quibus verbis providentibus tam eos reprobat, qui omnes solo voto  implicito Ecclesiæ adhærentes a salute æterna excludunt, quam eos, qui falso asserunt, homines in omni religione aequaliter salvari posse [cf. *2806 2865]. Neque etiam putandum est, quodcumque votum ecclesiæ ingrediendæ sufficere, ut homo salvetur. Requiritur enim, ut votum, quo quis ad Ecclesiam ordinetur, perfecta caritate informetur; nec votum implicitum effectum habere potest, nisi homo fidem habeat supernaturalem [Alìegatur Hebr XI, 6 et Conc. Trid., sess. VI c. 8: *I532].

——

3866 – …. Or tra le cose che la Chiesa ha sempre predicato e non cesserà mai di predicare, si trova ugualmente questa affermazione infallibile che ci insegna che « Fuor dalla Chiesa, non c’è salvezza ». Questo dogma deve tuttavia essere compreso nel senso in cui la Chiesa stesso lo comprende. In effetti non è al giudizio privato che il Signore ha affidato la spiegazione delle cose contenute nel deposito della fede, ma al Magistero della Chiesa.

3867 – In primo luogo, la Chiesa insegna che in tal questione non si tratta di un comandamento in senso stretto di Gesù Cristo. Egli ha, in effetti, imposto espressamente ai suoi Apostoli di insegnare a tutte le Nazioni ad osservare tutto quel che aveva ordinato. Tra i comandamenti del Cristo, ed esso non è il minore, c’è quello che ci ordina di essere incorporati con il Battesimo nel Corpo mistico del Cristo, che è la Chiesa, e di restar uniti al Cristo ed al suo Vicario attraverso il quale governa Egli stesso in modo visibile la sua Chiesa sulla terra. Ecco perché, nessuno sarà salvato se, sapendo che la Chiesa sia stata divinamente istituita dal Cristo, non accetti tuttavia di sottomettersi alla Chiesa, o rifiuti l’obbedienza al Pontefice Romano, vicario di Cristo sulla terra.

3868 – Ora il Salvatore non ha solamente ordinato che tutti i popoli entrino nella Chiesa, ma ha deciso anche che la Chiesa fosse il mezzo di salvezza, senza il quale nessuno possa entrare nel Regno della gloria celeste.

3869 – Nella sua infinita Misericordia, Dio ha voluto che gli effetti necessari per essere salvati, di questi mezzi di salvezza che sono ordinati al fine ultimo dell’uomo, non per necessità intrinseca ma unicamente per istituzione divina, possano essere ottenuti in certe circostanze, quando questi mezzi non siano messi in opera che per desiderio o voto. Noi vediamo questo chiaramente enunciato nel Sacrosanto Concilio di Trento rispetto sia al Sacramento della Rigenerazione, sia al Sacramento della Penitenza. (D. 1524, 1543)

3870 – Lo stesso va detto, a suo modo, della Chiesa come mezzo generale di salvezza. Infatti perché qualcuno ottenga la salvezza eterna, non sempre è necessario che uno sia effettivamente incorporato nella Chiesa come membro, ma è almeno necessario che sia unito a lei con il voto e il desiderio. Tuttavia, non è sempre necessario che questo voto sia esplicito, come avviene tra i catecumeni, ma quando l’uomo è vittima di un’invincibile ignoranza, Dio accetta anche un voto implicito, così chiamato perché è incluso nella buona disposizione d’animo con cui l’uomo vuole conformare la sua volontà alla volontà di Dio.

3871 – Questo è il chiaro insegnamento dell’enciclica di Pio XII (Mystici corporis) sul Corpo Mistico di Gesù Cristo. In essa il Sommo Pontefice distingue chiaramente tra coloro che sono veramente incorporati nella Chiesa come suoi membri e coloro che sono uniti alla Chiesa solo dal voto… « … Ma solo coloro che hanno ricevuto il battesimo della rigenerazione e professino la vera fede, e che, d’altra parte, non si siano miseramente auto-separati dall’insieme del Corpo, o non ne siano stati tagliati fuori per gravissime colpe dalla legittima autorità, (per eresia, scisma, apostasia) sono veramente membri della Chiesa » (D. S. 3802). Verso la fine della stessa Enciclica, però, invitando molto affettuosamente all’unità coloro che non appartengono al Corpo della Chiesa cattolica, egli menziona « coloro che, per un certo inconscio desiderio e voto, si trovano ordinati al Corpo mistico del Redentore », che non esclude in alcun modo dalla salvezza eterna, ma di cui, d’altra parte, dice di essere in uno stato « in cui nessuno può essere sicuro della sua salvezza eterna…. poiché sono privati di così tanti e di così grandi e celesti aiuti e favori, di cui si può godere solo nella Chiesa cattolica » (D. S. 3821).

3872 – Con queste sagge parole egli condanna sia coloro che escludono dalla salvezza eterna tutti gli uomini che sono uniti alla Chiesa dal solo voto implicito, sia coloro che affermano falsamente che gli uomini possono essere salvati anche in una qualsiasi religione (2865).

Né si deve pensare che qualsiasi tipo di desiderio di entrare nella Chiesa sia sufficiente per essere salvati. Perché è necessario che il voto che ordina qualcuno alla Chiesa sia animato da una perfetta carità. Il voto implicito può avere effetto solo se l’uomo ha una fede soprannaturale. (Ebrei XI: 6; Concilio di Trento, VI\VIII ss. Cap. 8).

Questo documento Ecclesiastico irreformabile ed infallibile (come tutto il Magistero Ordinario ed Universale della Chiesa, al quale siamo obbligati a dare il nostro assenso, pena scomunica, secondo la lettera Enciclica « Satis Cognitum » di S. S. Leone XIII), giunge a conferma della dottrina tomistica di San Tommaso d’Aquino sulla grazia fornita dallo Spirito Santo a coloro che, pur non avendo la possibilità di accedere a veri Sacramenti, o al Santo Sacrificio validamente celebrato da Sacerdoti canonicamente consacrati, siano battezzati osservanti la Dottrina Cattolica, in unità con il “vero” Sommo Pontefice, unica condizione – una volta lasciata la setta di appartenenza – per ottenere l’eterna salvezza.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/14/una-cum-famulo-tuo-papa-nostro/


 Fuori dalla Chiesa Cattolica, cioè fuori dalla salvezza eterna, vi sono quindi:

1- Tutte le sette protestanti: luterane, anglicane, calviniste, ortodosse sec. Fozio, monotelite, monofisite, etc. …

2- La setta degli eretici e scismatici modernisti del Novus Ordo dell’attuale colle Vaticano – la “sinagoga di satana” inneggiante al signore dell’universo, il baphomet-lucifero delle logge massoniche – conformi alle eresie del conciliabolo c. d. Vaticano II (Concilio scomunicato con largo anticipo dalla bolla Execrabilis di Papa Pio II, Piccolomini);  sono qui compresi i secolari e tutti i religiosi degli ordini un tempo Cattolici, oggi “novusordisti”.

3 – I sedicenti tradizionalisti, supporter eretici del papa eretico – a loro dire -, la setta paramassonica-kadosh dei falsi chierici invalidi e sacrileghi, i c. d. lienart-lefebvriani di Ecône-Sion;

4- Tutte le sette pseudo-tradizionaliste degli eretici e scismatici sedevacantisti di Occidente e d’Oriente, parto distocico dell’ultima ora di satana che cominciava a capire che qualcosa non aveva funzionato nei suoi piani vacillanti e scricchiolanti, ed ha cercato di metterci una “pezza a colore”. .. ma si sa che il diavolo fa le pentole ma dimentica – per fortuna dei “veri” Cattolici – i coperchi … Questo documento sia dunque per loro, monito onde abbandonare senza indugi la setta infernale di appartenenza e confluire in massa, almeno con desiderio o voto esplicito, nella Chiesa Cattolica guidata dal suo Sommo Pontefice Romano, ovunque si trovi, prigioniero o nascosto! (Il Cristo ce lo ha promesso – solennemente – con noi fino all’ultimo giorno! … e pure la Pastor Aeternus).

SALMI BIBLICI: “DOMINE EXAUDI ORATIONEM MEAM, ET CLAMOR MEUS” – (CI)

SALMO 101: “DOMINE, EXAUDI ORATIÓNEM MEAM, ET CLAMOR MEUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 101

Oratio pauperis, cum anxius fuerit, et in conspectu Domini effuderit precem suam.

[1] Domine, exaudi orationem meam, et clamor meus ad te veniat.

[2] Non avertas faciem tuam a me; in quacumque die tribulor, inclina ad me aurem tuam; in quacumque die invocavero te, velociter exaudi me. Quia defecerunt sicut fumus dies mei, et ossa mea sicut cremium aruerunt.

[3] Percussus sum ut fœnum, et aruit cor meum, quia oblitus sum comedere panem meum.

[4] A voce gemitus mei adhæsit os meum carni meæ.

[5] Similis factus sum pellicano solitudinis; factus sum sicut nycticorax in domicilio.

[6] Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto.

[7] Tota die exprobrabant mihi inimici mei, et qui laudabant me adversum me jurabant:

[8] quia cinerem tamquam panem manducabam, et potum meum cum fletu miscebam;

[9] a facie iræ et indignationis tuæ, quia elevans allisisti me.

[10] Dies mei sicut umbra declinaverunt, et ego sicut fœnum arui.

[11] Tu autem, Domine, in æternum permanes, et memoriale tuum in generationem et generationem.

[12] Tu exsurgens misereberis Sion, quia tempus miserendi ejus, quia venit tempus;

[13] quoniam placuerunt servis tuis lapides ejus, et terræ ejus miserebuntur.

[14] Et timebunt gentes nomen tuum, Domine, et omnes reges terræ gloriam tuam;

[15] quia ædificavit Dominus Sion, et videbitur in gloria sua.

[16] Respexit in orationem humilium et non sprevit precem eorum.

[17] Scribantur hæc in generatione altera, et populus qui creabitur laudabit Dominum.

[18] Quia prospexit de excelso sancto suo, Dominus de caelo in terram aspexit;

[19] ut audiret gemitus compeditorum, ut solveret filios interemptorum;

[20] ut annuntient in Sion nomen Domini, et laudem ejus in Jerusalem,

[21] in conveniendo populos in unum, et reges ut serviant Domino.

[22] Respondit ei in via virtutis suae: Paucitatem dierum meorum nuntia mihi:

[23] ne revoces me in dimidio dierum meorum, in generationem et generationem anni tui.

[24] Initio tu, Domine, terram fundasti, et opera manuum tuarum sunt cœli.

[25] Ipsi peribunt, tu autem permanes; et omnes sicut vestimentum veterascent.

[26]Et sicut opertorium mutabis eos, et mutabuntur;

[27] tu autem idem ipse es, et anni tui non deficient.

[28] Filii servorum tuorum habitabunt; et semen eorum in sæculum dirigetur.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CI

Orazione che deve usare il povero angosciato, principalmente pei commessi peccati, che formano la maggior miseria, e che debbe effondersi al cospetto di Dio, supremo giudice e padre di tutti. É salmo penitenziale.

Orazione del povero che è in tribolazione, e spande la sua tribolazione dinanzi al Signore.

1. Signore, esaudisci la mia orazione, e a te giungano le mie grida.

2. Non rivolger da me la tua faccia: in ogni giorno di mia tribolazione dà udienza alle mie parole. In qualunque giorno io t’invochi, tu esaudiscimi prontamente.

3. Imperocché i giorni miei quasi fumo sono svaniti; e le ossa mie si sono inaridite come legno combustibile.

4. Sono appassito com’erba, e il mio cuore si è inaridito: perché mi sono scordato di mangiare il mio pane. (1)

5. Pel gridare e pel sospirare mi è rimasta attaccata alle ossa la mia carne.

6. Son divenuto simile al pellicano del deserto; son divenuto simile al corvo notturno nel suo tristo albergo.

7. Passai senza sonno le notti, e fui simile all’uccello, che solo si sta sopra i tetti.

8. Tutto dì mi facevan rimproveri i miei nemici; e quei che già mi lodavano, congiuravano contro di me.

9. Perché in luogo di pane da mangiare, io ebbi la cenere, e la mia bevanda mescolai colle lacrime, (2)

10. Al veder l’ira tua e la tua indignazione; perocché tu, innalzandomi, mi gettasti per terra. (3)

11. I miei giorni son passati com’ombra, e io come erba seccai.

12. Ma tu, o Signore, duri in eterno, e di generazione in generazione va la ricordanza di te.

13. Tu svegliato avrai pietà di Sionne. Perché il tempo di averne pietà, il tempo è venuto.

14. Imperocché le rovine di lei sono care ai tuoi servi e la polvere di lei ameranno. (4)

15. E le genti temeranno il nome tuo, o Signore, la tua gloria tutti i re della terra. (5)

16. Imperocché il Signore edificherà Sionne, ed ivi sarà veduto nella sua gloria.

17. Egli ha avuto riguardo all’orazione degli umili, e non ha disprezzata la loro preghiera.

18. Scrivansi queste cose per la generazione futura; e il popolo, che sarà creato, darà lode al Signore;

19. Perché egli ha mirato dal suo santo cielo: il Signore dal cielo ha mirato sopra la terra,

20. Per udire i gemiti di quo’ che sono nei ceppi, per dar libertà a’ figliuoli degli uccisi.

21. Affinché predichino il nome del Signore in Sionne e le lodi di lui in Gerusalemme,

22. Quando i popoli si riuniranno insieme, e i re, per servire al Signore.

23. Disse a lui l’uomo nel corso di sua vegeta età: Fammi inteso del piccol numero de’ miei giorni.

24. Non non mi richiamare alla metà de’ miei giorni. Gli anni tuoi sono eterni.

25. Tu da principio, o Signore, fondasti la terra, e opera delle mani tue sono i cieli.

26. Eglino periranno, ma tu sei immutabile; ed essi invecchieranno tutti come un vestito.

27. E come un mantello li cangerai, e saranno cangiati; ma tu sei quell’istesso, e gli anni tuoi non verran meno.

28. I figliuoli de’ servi tuoi avran ferma sede, e la loro posterità sarà stabilita pei secoli.

(1) In ebraico, la parola tradotta con cremium, significa « luogo in cui brilla qualcosa », il focolare, o la pietra del focolare. – Noi preferiamo, con San Girolamo e Columella, intendere rami secchi o facili da bruciare, di cui ci si serve per accendere il forno.

(2) La particella “quia” non ha rapporto con ciò che precede e la si può prendere per idea. – Cahen pensa che si tratti qui della cenere che dalla testa del Profeta cadeva sul pane. Ma si può dire con verosimiglianza che la cenere è intesa qui per “lutto”, perché nel lutto, si dimorava seduti sulla cenere.

(3) Voi mi avete elevato per precipitarmi dall’alto con una caduta più crudele.

(4) I vostri servi amino finanche le rovine, le pietre, la polvere nelle quali è ridotta una città a loro sì cara.

(5) Per la comprensione di questo versetto e dei seguenti bisogna ricordare che il ritorno dalla cattività è considerato come precursore della venuta del Messia, e la conversione di tutti i popoli al culto del vero Dio.

Sommario analitico

Questo salmo può essere considerato come una preghiera che Davide penitente indirizza al Cristo a nome del popolo giudaico, o che questo popolo, prigioniero a Babilonia, indirizza al Verbo, conduttore particolare del popolo di Dio, per ottenere il ristabilirsi di Gerusalemme (1)

 [(1) Secondo qualche esegeta moderno questo salmo potrebbe essere stato composto alla fine della cattività di Babilonia, perché l’autore suppone che Gerusalemme sia distrutta (vv. 15, 18, 21, 22), ed il tempo fissato dal ritorno dalla cattività secondo Geremia, prossimo ad arrivare (v. 14). Tuttavia lo stile risente della decadenza della lingua; esso è poco elevato, il parallelismo ricade sulle parole (vv. 18-20) (Le Hir.). Nulla c’è di più malinconico di questo salmo, tutte le immagini e le metafore traspirano tristezza e lutto. In effetti si tratta delle rovine di Sion, delle pietre disperse di Gerusalemme, dei dolori e dell’esilio del popolo prigioniero, del sangue dei martiri non vendicato, dei loro figli proscritti, dell’asservimento della patria, della gloria di Dio eclissata tra le nazioni, di questa gloria eclissata tra le nazioni, di questa gloria che i re stranieri devono adorare, che i barbari devono temere, di questa gloria i cui amati sono eterni. –  Questi pianti sublimi, questi slanci di speranza, queste suppliche piene di pentimento ed amore, hanno fatto annoverare questo salmo tra i salmi penitenziali].

I. – Il salmista chiede a Dio:

1° che sia esaudito e che la sua preghiera abbia accesso fino a Lui nei cieli (1).

2° Che Dio getti su di lui uno sguardo favorevole (2) .

3° Che sia prontamente esaudito in qualunque giorno preghi.

II.- Come motivo gli espone il triste stato in cui è ridotto:

1° la brevità della sua vita;

2° la mancanza assoluta di forza e di grazie (3, 4);

3° l’abbandono e la solitudine in cui si trova (6, 7);

4° l’odio degli uomini, sia dei nemici che degli amici (8, 9);

5° la giusta ira di Dio contro di lui (8, 10);

6° la sua morte vicina (11).

III. – Coltiva la speranza che Dio verrà in suo soccorso, perché Egli è eterno e fedele alle sue promesse (12), e vede in estasi il compiersi di questa promessa con l’incarnazione in cui Dio fa apparire:

1° della sua misericordia, discendendo dal suo trono sulla terra, ai tempi annunciati dai Profeti (13, 14);

2° della sua gloria che brilla negli omaggi che hanno reso a Gesù-Cristo i re ed i popoli (15);

3° della sua potenza nell’edificazione della Chiesa, lo splendore dei miracoli e la conversione dei popoli (10);

4° della sua bontà, nell’accoglienza favorevole fatta alla preghiera degli umili (17).

IV. – Mostra la gratitudine del popolo cristiano verso Gesù-Cristo, e la gloria di cui ricolma i suoi eletti nel cielo:

1° Davide desidera che l’Incarnazione di Gesù-Cristo e le meraviglie di cui è la sorgente, siano scritte dai Profeti e dagli Evangelisti; – a) egli fa vedere il frutto di questa predizione scritta, la gloria di Dio e di Gesù-Cristo per mezzo dei Cristiani (18); – b) la materia di questa lode, è la bontà di Dio, che getta una sguardo favorevole sugli infelici figli di Adamo (19), – presta orecchio ai loro lamenti, – li libera dai loro lacci (20), – li eccita a lodare il nome del Signore (21), – li riunisce in un santo concerto per servire Dio (22). 

2° Il profeta introduce il popolo, parlando egli stesso a Dio: – a) chiede a Dio di conoscere il termine così breve della vita umana (23); – b) chiede il tempo sufficiente per fare penitenza dei propri peccati (24).

3° Egli loda Dio a motivo della sua immutabilità e della sua eternità, che fa risaltare in opposizione con la mutabilità e la mortalità delle creature:  – a) Dio le ha tratti dal nulla per dare loro l’essere (25); – b) esse sono sottomesse all’alterazione, al cambiamento (20); – c) Dio, al contrario, resta eternamente lo stesso (27); – d) Dio rende i suoi servi partecipi della sua immutabilità e della sua felicità (28). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. —1, 2.

ff. 1, 2. – Tutte le qualità della preghiera sono racchiuse in questi due versetti: 1° la necessità: l’uomo senza il soccorso di Dio, non può uscire dalla schiavitù del peccato e per le vie ordinarie della Provvidenza, il soccorso celeste non è accordato che alla preghiera; 2° l’umiltà, l’uomo peccatore sente la sua miseria e si presenta così davanti a Dio come un povero spoglio di ogni risorsa se Dio non lo rimira con occhio favorevole: 3° il fervore: le istanze che fa il profeta o coloro in nome dei quali parla, sono vive, reiterate più volte, e messe sotto tutti i giorni più propri a toccare il cuore di Dio; 4° la costanza: egli si impegna a pregare durante tutto il corso delle tribolazioni, e, in questa vita, la morte solo è il termine delle nostre miserie; 5° la confidenza: egli osa chiedere a Dio di rendersi attento, di non voltare il suo sguardo, di accelerare il momento della sua visita (Berthier). –  Queste istanze così pressanti sono naturali nella bocca di un uomo infelice, che vede il tempo sfuggitigli e che teme di cadere per sempre nell’abisso, se non viene prontamente soccorso (Bellarm.). – Le preghiere sono più toccanti ancora quando si elevano dal seno di una nazione che si sente deperire. – I ritardi sono funesti per noi: tutti i momenti costano la vita a diversi tra noi, e tutti coloro che periscono, periscono senza risorse. La maledizione che abbiamo preferito alla salvezza che ci veniva offerta, consuma e divora tutto il nostro popolo. Aspettate che non vi lasci né germe né speranza per farla cessare? Odiatela o vedrete dopo la nostra perdita. (Duguet).

II. — 3-11.

ff. 3. – Che significa: « In qualunque giorno sono nella tribolazione? » Non è presentemente nella tribolazione? Egli parla così come rappresentante dell’unità del corpo della Chiesa; se un solo membro soffre, tutti i membri sono partecipi delle sue sofferenze (I Cor. XII, 26). Voi soffrite oggi, io soffro come voi; un altro è afflitto domani, io sono afflitto con lui domani; dopo questa generazione, i discendenti dei discendenti sono nella tribolazione; io la condivido con essi, fino alla fine dei secoli; qual siano coloro che soffrono nel mio corpo, io sono con essi nella tribolazione (S. Agost.). 

ff. 4, 5. – « I miei giorni sono dissipati come il fumo. » Quali giorni? Se si possono chiamare dei giorni; perché parlando di giorni, si intende parlare di luce, mentre i miei giorni sono dissipati come il fumo. “I miei giorni”, la successione dei tempi. Perché “come il fumo”, « se non rappresentare gli slanci dell’orgoglio. » Vedete il fumo, immagine del fumo, immagine dell’orgoglio: esso sale, si gonfia e svanisce, si dissipa dunque e non dura. (S. Agost.). –  Questi giorni che rendevo i miei giorni, quelli delle mie passioni, passandoli nel peccato, sottraendoli alla volontà di Dio, sono svaniti come il fumo; sono trascorsi neri e tenebrosi come esso, senza lasciare traccia se non in un crudele e pungente rimorso. (Bellarm.) – Le potenze dell’anima che lo sostengono, come le ossa sostengono il corpo, perdono il loro vigore e l’unzione di grazia, bruciate come sono dall’ardore della concupiscenza. (Dug.). – « Io sono battuto come il fieno. » Gesù-Cristo ci ha detto che il fieno dei prati brilla al mattino e la sera non è buono se non per essere gettato nella fornace. » Ma se la tempesta dal mattino si è abbattuta sul prato, se la grandine ha distrutto lo stelo che sosteneva il fiore, se il fieno è stato colpito, non durerà neanche dal mattino fino a sera. – Diverse sono le cause di questa siccità che il profeta compara al fieno esposto agli ardori del sole: 1° i falsi piaceri, che gettano nel languore e nella siccità delle cose divine e degli esercizi di pietà; 2° la privazione del cuore delle acque celesti della grazia, che provengono dalla preghiera e dalla parola divina; 3° l’allontanamento dalla divina Eucaristia, che è ancor più particolarmente il pane dell’anima che si dimentica di ricevere, e alla quale ci si avvicina senza le disposizioni dovute (Dug.). – « Perché ho dimenticato di mangiare il mio pane. » Un tale oblio si incontra ben raramente nel mondo fisico;  è invece ordinario nel mondo morale. Il vero pane dell’anima, è la verità, la verità che viene dal cielo e che tende al cielo. Ove sono coloro che cercano questo pane con un vero desiderio di trovarlo? Colui che l’avversità prova, che è obbligato a dedicarsi ai suoi penosi e continui lavori per sopperire ai bisogni propri e della famiglia, troppo spesso, in luogo di portare la propria croce con coraggio, fa della sua situazione un argomento contro la Religione (Rendu). – Dio, la sostanza per eccellenza, è il solo vero nutrimento della creatura ragionevole; così il peccatore che si allontana da Lui con la sua disobbedienza, cade nell’infermità, e non potendo prendere più questo nutrimento che doveva fare la sua gioia, lo si ascolta gridare: il mio cuore è stato come l’erba dei campi che si taglia: esso si è disseccato, perché io ho dimenticato di mangiare il mio nutrimento. (S. Agost.  De natur. et grat., c. XII). – E perfino nella prosperità, bisogna che il cuore umano sia ben al riparo sotto l’ombra delle ali di Dio, e ben umettato dalla rugiada divina della grazia, per non disseccare come l’erba dei campi e respingere come insipido il pane del cielo (Bellarm.). – Quante anime vediamo tutti i giorni indebolirsi per strada, lasciarsi andare alla disperazione ed a tutte le sue conseguenze più orribili, perché esse non hanno conosciuto questo principio di forza soprannaturale di cui il Cristiano dispone tutti i giorni nella divina Eucaristia! Quante anime deboli si trascinano nelle vuote ombre di un languore morale, perché avendo conosciuto il dono di Dio, se ne sono allontanate; esse hanno dimenticato di mangiare il loro pane, come dice il Profeta, e la loro anima è cadente, come il corpo dell’uomo che da molto tempo dimentica di assumere il proprio nutrimento (Mgr. Landriot- Euch., 3a Conf.). O uomo! Nutriti nuovamente del pane che avevi obliato! Dio stesso, che è il pane vivente, è disceso dal cielo. Mangia questo pane e vivrai (S. Aug.). – Divina Eucarestia, io medito ai vostri piedi queste belle parole del Santo Dottore; non è infatti che quando ho dimenticato di nutrirmi di Voi, che io sono stato colpito come il fieno ed il mio cuore si è disseccato? Io ho avuto la sventura di affidarmi alla vita presente come ad una gloria e ad una bellezza durevole, ed ho follemente pensato  che i piani o i sogni dell’orgoglio impedissero al fiore di svanire. Riconosco di essermi ingannato: solo la carne del Salvatore può ravvivare la mia, che si consuma ogni giorno, perché essa solo ha il segreto della resurrezione della vita. – O santa Eucarestia, io torno a voi con felicità, non dimenticherò più questo celeste alimento. Esso riparerà le mie forze, e farà circolare nel mio cuore una linfa immortale, ed il fieno disseccato dalla mia vita rifiorirà per l’eternità. (Mgr DE LA BOUILLERIE, Symbolisme, 459). – Alla voce dei miei gemiti, « le mie ossa si sono attaccate alla mia carne. » Alla voce che io comprendo, alla voce che io conosco, « alla voce dei miei gemiti e non alla voce dei gemiti di coloro verso i quali ho compassione; perché molti gemono, ed anche io gemo di ciò che essi gemono per una cattiva causa. Un uomo ha perso dei soldi ed egli geme; un altro ha perso la fede e non si lamenta. Ma io discerno tra essi il denaro e la fede, e gemo su colui che malamente geme a proposito. » Un uomo commette una frode e se ne rallegra. Dov’è il suo guadagno? Ove la sua perdita? Egli ha guadagnato del danaro, ed ha perso la giustizia. Ecco ciò che fa gemere colui che geme giustamente; ecco ciò che fa gemere colui che si avvicina al Cristo, nostro Capo, e che si attacca con rettitudine al Corpo di Cristo. Ma questo non è ciò che fa gemere gli uomini carnali, ed anche se non gemono, essi fanno sì che noi gemiamo su di essi; perché noi tutti non possiamo che disprezzarli, sia che non si lamentino, sia che si lamentino per una cattiva causa. (S. Agost.).

ff. 6-10. « Io sono divenuto simile al pellicano che abita in solitudine, come il gufo che si rifugia nei tuguri. Io ho vegliato ed ero come il passero solitario sui tetti. » Questi tre uccelli raffigurano le tre grandi categorie di penitenti: alcuni cercano la solitudine assoluta, come Santa Maddalena, Santa Maria Egiziaca, San Paolo primo eremita, Sant’Antonio, S. Ilarione, ed essi possono dire con il salmista: « Io mi sono allontanato, sono fuggito ed ho dimorato in solitudine. » (Ps. LIV). Là, in questi luoghi solitari, simili al pellicano che distrugge gli animali pericolosi e soprattutto i serpenti del deserto, si nutrono delle loro continue vittorie sul demonio. – Altri restano nel seno delle città, ma si rinchiudono in strette celle, come il gufo nel suo muro in rovina; essi riempiono la solitudine delle notte con il grido della loro penitenza, di questo grido che li sottrae al timore dei giudizi di Dio, ed essi ne santificano la durata con la successione dei loro cantici e dei loro inni spirituali. – Altri, forzati dai loro beni a restare in seno alla loro famiglia, o ai loro impieghi pubblici, abitano sui tetti come l’uccello solitario; vale a dire che oltrepassano il livello nel quale essi vivono, le folle e gli abitanti delle città. Essi sono nel mondo senza essere del mondo; essi si sottomettono agli affari, agli onori, alle ricchezze, ma non sono loro sottomessi, li dominano, ne dispongono, li distribuiscono, non permettono loro di prendere su di essi il minimo potere, conservando il cuore solitario e libero per il cielo. La missione di questi ultimi, è di vegliare e predicare sui tetti. Di vegliare sui pericoli loro e di chi li circonda, e nello stesso tempo di edificarli e parlare loro con le parole e con gli esempi. (Bellarm.). – Il passero vegliante e solitario sulla sommità dei tetti, è immagine dell’anima che si allontana fuggendo per stabilirsi nella solitudine. Esso ha fissato la sua dimora sul tetto, « al di sopra della dimora degli uomini », cioè al di sopra delle loro passioni e delle criminali cupidigie, ed avendo scelto questo rifugio, non lo lascia più, fedele all’avviso del Signore: « … colui che è sui tetti non scenda a prendere ciò che è nella casa. » Là, l’anima in alto e solitaria, aspira a Voi, o mio Dio! Di notte, essa vi desidera, ed al mattino veglia ancora attendendo l’ora della quale è scritto: (Matth. XXIV, 17) « Beato il servo che veglia, pronto a ricevere il suo padrone al momento del suo arrivo. » (Mgr DE LA BOUILL. Symb. II, 158). – Non vi meravigliate dunque se ho detto che il primo istinto che avverte un uomo toccato da Dio, sia quello di ritirarsi dal mondo. La stessa voce che ci chiama alla penitenza, ci chiama anche al deserto, cioè al silenzio, alla solitudine, al ritiro. Ascoltate questo santo penitente: « io sono – egli dice – simile al pellicano dei deserti, o un gufo dei luoghi solitari e rovinosi, io ho trascorso la notte vegliando, e mi trovo come un passero tutto solo sul tetto di una casa. » In luogo di questa aria sempre compiacente che il mondo ci ispira, lo spirito di penitenza ci mette nel cuore un non so che di rozzo e di selvaggio. Non è più quest’uomo dolce e galante che legava tutte le parti; non è più questa donna accomodante e compiacente, troppo abile mediatrice ed amica troppo affettuosa, che facilitava le sue segrete corrispondenze; non sono più questi espedienti, queste aperture, queste facilitazioni; si apprende un altro linguaggio, si apprende a dire no; a dire io non posso più; a ripagare il mondo con risposte negative, asciutte e vigorose! Non si può vivere più come gli altri, né con gli altri; non ci si vuole più avvicinare, non si vuol piacere, compiacere se stesso. Un peccatore che comincia ad avvertire il suo male, è disgustato contemporaneamente e dal mondo che lo ha deluso e da se stessi che si è lasciato prendere da un’esca sì grossolana.  Egli si ricorda ahimè dei tanti crimini commessi con malvagia compiacenza; egli non cerca più che di sottrarsi da questo sottile contagio che si respira con l’aria del mondo, nelle sue conversazioni, nei suoi costumi. Lontano dal mondo, lontano dalle compagnie, non ha più che Dio davanti ai suoi occhi per affliggersi in sua presenza, per dirgli dal fondo del cuore: « … io ho peccato contro di Voi, e nei vostri confronti soltanto », e voglio affliggermi alla vostra sola presenza; solo ed invisibile testimone dei miei singhiozzi e dei miei rimpianti, ascoltate la voce delle mie lacrime (BOSSUET, pour le 4me D. de l’Avent). – Il gufo nascosto nei recessi oscuri degli edifici è pure una delle immagini di cui si serve la filosofia di San Tommaso per aiutarci a concepire lo spirito umano nei suoi rapporti con la verità: esso è, rispetto alla verità, come l’uccello di notte davanti ad una luce molto viva. Questo è vero soprattutto dello spirito piombato nell’ombra della morte che avvolge i peccatori e, a questo titolo, questa spiegazione si riporta al nostro soggetto. Il vero Cristiano, illuminato dalla doppia luce della fede e della grazia, è il solo uomo della luce, il solo che, camminando nella grande luce della verità rivelata, giudica sanamente il valore delle cose, avanza senza mai deviare dal suo scopo, e profitta pienamente dei benefici del sole che lo illumina. E il peccatore, al contrario, ci sembra piuttosto simile alla civetta che « aprendo i suoi grandi occhi glauchi – ci dice Sant’Ambrogio – non avverte l’orrore delle tenebre e sembra non cominciare a vivere che nella notte più oscura. Appena si fa giorno, i suoi occhi abbagliati si offuscano e non vedono più nulla. » (Mgr DE LA BOUILL., Symb. II, 184). «… ah, continua lo stesso Padre, io parlo soprattutto degli occhi del cuore, che i sapienti del mondo aprono per non vedere, essi che fuggono lontano dalla luce, e brancolano nel buio, brancolano nella notte dei demoni, ed immaginano di aver contemplato tutte le altezza quando, con la loro bussola, hanno descritto dei cerchi del pianeta o misurato l’estensione dell’orizzonte. Ma ahimè! Privi della fede e colpiti da una cecità che ignorano, passano nella loro vita in un giorno splendente di Vangelo sotto i raggi luminosi della Chiesa, e non vedono nulla. Essi dilatano la loro bocca come se sapessero tutto; ma il loro occhio non è aperto se non per la vanità e si offusca davanti all’eternità. Le loro interminabili dispute non fanno, il più sovente, che tradire la loro ignoranza, e se cercano di prendere il loro volo in discorsi sottili, come il gufo, cadono e spariscono alla luce del giorno. »    (S . AMB., Hex. v., 24. de noct. avib., n° 86). –  « I miei nemici mi fanno ogni giorno continui rimproveri, e coloro che mi facevano delle lodi imprecavano contro di me. » È l’opposizione, il sollevamento del mondo sensuale ed egoista contro la vita di rinuncia, di abnegazione, di penitenza. – Mai questa legge di rinunzie, di mortificazione, di penitenza fu più misconosciuta che ai giorni nostri; mai si videro tanti uomini, tanti Cristiani che S. Paolo chiamava ai suoi tempi gemendo, « i nemici della croce di Gesù-Cristo », tanti uomini – aggiungeva – il cui ventre è loro dio, e per ventre non bisogna solamente intendere, dice un eloquente Vescovo dei nostri tempi (Mgr. Pie), il vizio odioso della golosità, agli eccessi del quale molti sanno sottrarsi, né tutti quegli appetiti grossolanamente bestiali che alcuni sanno moderare fino ad un certo punto, ma in generale, la vita molle e sensuale. L’attaccamento a tutto ciò che è piacevole alla carne, a tutto ciò che la Scrittura chiama “le delizie di questa vita” e, di conseguenza, la ricerca famelica di tutti i vantaggi temporali che procurano queste delizie. – Seguite questo torrente del secolo, datevi alla gioia ed ai piaceri, camminate nella via larga, passerete nel mondo per un uomo onesto, sarete lodato, stimato, applaudito; ma se cambiate vita, per tenere una condotta più regolare, per abbracciare la santa austerità della vita cristiana, sarete fatto oggetto di continui rimproveri, e coloro che vi davano lodi un tempo, saranno i primi a sommergervi con i loro insulti ed invettive, ad accusarvi – come diceva S. Agostino – di corrompere tutte le regole e pervertire i costumi del genere umano. – La preghiera, il digiuno, la vita austera, sono tre cose che il mondo non può soffrire, perché condannano il loro oblio di Dio, la loro sensualità, la loro mollezza. (Duguet). – Si pratica questa austerità per lenire la collera e l’indignazione di Dio. –  Dio aveva cominciato con l’elevare l’uomo ad una meravigliosa altezza, facendolo a sua immagine. L’uomo si è rivoltato contro il suo Creatore ed ha meritato di essere cacciato. Dio si è degnato di riparare a questa grande rovina; ha stabilito l’uomo in una condizione ancora più alta della precedente, rendendolo partecipe della natura divina. – Se dopo tali testimonianze di bontà, torniamo ad essere nuovamente ingrati, è la nostra stessa elevazione che ci abbaglia, e dimenticando la mano divina che ci sostiene, cadiamo da questa altezza e ci infrangiamo. « … Voi non mi avete elevato che per precipitarmi ed infrangermi. » Voi dunque, benché la vostra dignità sia elevata, non lasciatevi gonfiare dall’orgoglio, ma tremate ed umiliatevi sotto la mano potente che distrugge, quando gli piace, la testa dei grandi e dei suoi servi. Temete di gettare troppo tardi questo grido lamentevole: « … La vostra collera e la vostra indignazione mi hanno elevato per distruggermi. » È il posto più elevato che vi è toccato, ed esso non è il più sicuro; è il più glorioso ma non è il meno esposto.  (S. BERN. Epist. 238, ad Eug. n° 4). – Quanto grande è la sventura di un’anima che si separa da Dio! Quando si lascia rompere un vaso facendolo cadere, esso perde tutto, talmente che non gli resta nulla, né forma, né valore alcuno. Così è per colui che ha perso la grazia di Dio.

ff. 7-11. – « I miei giorni sono declinati come l’ombra. » I miei giorni, comparati all’ombra, non gli somiglino se non perché diventano più deboli, più languidi, fino a che non spariscono affatto. Le ombre crescono a misura che il sole discende all’orizzonte; ma esse si indeboliscono sempre più, di modo tale che quando quest’astro tramonta, non si riesce più a distinguerle. Ecco l’immagine del declino dei nostri giorni. La loro ombra decresce come l’ombra diminuisce di forza e di apparenza, e si spengono interamente al momento della morte. (Berthier). – Non attendete la morte per dire, con il movimento forzato da un inutile pentimento: « I miei giorni sono svaniti come l’ombra, » ma già da ora dite spesso a voi stesso: tutte le cose passeranno e svaniranno come l’ombra. Che cos’è dunque questa vita per la quale si ha tanto amore, per la quale solo si lavora? (Duguet). – I vostri giorni sembreranno non aver declino, se voi stessi non vi siete allontanato dal giorno vero; se voi ve ne siete allontanato, allora i vostri giorni sono declinati. Cosa c’è da meravigliarsi se i vostri giorni sono divenuti simili a voi? I vostri giorni son declinati, perché avete deviato dalla retta via, siete divenuti simili al fumo perché vi siete gonfiato d’orgoglio. In effetti, il profeta aveva detto più in alto: « I miei giorni sono svaniti come il fumo; » ed ora dice: « … i miei giorni sono declinati come l’ombra. » Da mezzo a quest’ombra, bisogna riconoscere il giorno; dal centro di quest’ombra bisogna percepire la luce, per non dire poi nei rimpianti tardivi di una infruttuosa penitenza: « A cosa è servito il nostro orgoglio? Ci ha portato queste ricchezze che sono per noi sì vane? Tutte queste cose son passate come un’ombra. » (Sap. X, 8, 9). Dite oggi: tutte queste cose passeranno come un’ombra affinché voi stessi non passiate come un’ombra. « I miei giorni son passati come un’ombra, ed io mi son seccato come il fieno. » Già il profeta aveva detto: « il mio cuore è stato colpito come il fieno, esso si è disseccato. » Ma il fieno rinverdirà, arrossato dal sangue del Signore. « Io mi sono disseccato come il fieno, » io, uomo, per aver violato la vostra legge, e per un giusto giudizio da parte vostra.  (S. Agost.)

III. – 12 – 17

ff. 12-15. – Ma di Voi, Signore, che dire? « I miei giorni hanno declinato come l’ombra, ma Voi, Signore, dimorate in eterno . » Che l’eterno si degni di salvare colui che non deve durare che un tempo! Perché se sono decaduto, Voi non mi avete svegliato; Voi avete tutta la vostra forza per liberarmi, come l’avete avuta per umiliarmi. Ma Voi, Signore, dimorate in eterno, e la vostra memoria passerà da generazione in generazione. » La vostra memoria, perché Voi non dimenticate; dalla generazione, non in una sola generazione, ma « da generazione in generazione; » perché noi abbiamo ricevuta la promessa della vita presente e quella della vita futura. (S. Agost.). – Ogni grandezza umana si cancella, il mondo passa, la vita svanisce. Dio solo è eterno ed immutabile, ed il solo la cui memoria passerà a tutte le età. A chi dunque attaccarsi, ad una grandezza che sparisce in un momento? Ad un mondo che passa come un lampo, ad una vita che svanisce come l’ombra? No, a Colui che solo sussiste eternamente e le cui ricompense, non più della memoria, non passeranno mai (Duguet). – Indubbiamente noi non conosciamo i momenti fissati nei disegni di Dio, e per non avere pure misura certa da applicare ai tempi che Dio si è riservato, è inutile lavoro ed una curiosità condannevole gettarci nelle supposizioni di cui Egli ci nasconde i principi. Ma, qualunque sia l’intervallo tra la promessa ed il tempo in cui Dio la realizzerà, per quanto sconosciuto, non siamo meno certi che questo tempo sia demarcato nei suoi decreti in maniera fissa e precisa; questo tempo gli è sempre presente e niente potrà ritardarlo. – Questo tempo che Dio rende presente allo spirito del Profeta è quello dell’Apostolo che ha detto: « … Quando è giunta la pienezza dei tempi, Dio ha inviato suo Figlio. » ora è il tempo della pazienza di Dio, dell’orgoglio, dell’ingiustizia dei malvagi, delle sofferenze e delle umiliazioni dei giusti.  Ci sarà un altro tempo che Dio solo ha fissato, nel quale l’ingiustizia sarà distrutta ed i giusti sottratti all’oppressione. (Dug.). – In altri salmi, il Profeta, a nome del suo popolo, provato dai suoi nemici, aveva eccitato Dio a levarsi, a dissipare i suoi nemici, a metterli in fuga davanti al suo volto. Egli era andato anche più lontano: lo aveva interpellato e, in qualche modo rimproverato di non levarsi, che sembrasse dormire abbandonando il suo popolo fino alla fine (Ps. XLIII, 23). Ora, questo non è più l’accento del rimprovero, e neanche quello dell’apprensione e del dolore: è il tono dell’assicurazione, ed il linguaggio dell’affermazione: « Voi state per levarvi, Signore, abbiate pietà di Sion, perché è il tempo di averne pietà, sì, questo tempo è venuto. » Tutte le fasi dell’antico popolo di Dio figuravano, profetizzandoli, i destini del popolo cristiano. Nel camminare attraverso i secoli, c’è un giorno, un’ora in cui la Chiesa di Gesù-Cristo si ritrova posta in condizioni analoghe a tutte quelle attraversate dall’antico Israele. Ed è questa analogia, questa identità di situazioni che chiama oggi sulle nostre labbra il versetto quattordicesimo del salmo CI. Si, il tempo è arrivato, Signore, di aver pietà di Sion; questo tempo è giunto perché la crisi subirà dalla società cristiana sembra arrivata nel suo periodo più elevato; questo tempo è giunto, perché il rimedio proposto dagli empirici del quarto d’ora avrebbe per risultare di annientare le ultime risorse e le ultime possibilità di guarigione. (Mgr. Pie, t. VIII, p. 9). – « Perché le sue pietre sono state gradite ai vostri servi. » Quale pietre, le pietre di Sion!  Ma non c’è in Sion chi non sia una pietra. A chi appartengono coloro che non sono pietre? Che risponde il Profeta? « … Essi avranno pietà della sua polvere. » Riconosciamo dunque in Sion delle pietre, e riconosciamo in Sion della polvere. Il profeta non dice: essi avranno pietà delle sue pietre, ma: « i vostri servi si sono compiaciuti delle pietre, ed avranno pietà della sua polvere. » Le pietre di Sion sono i Profeti, sono gli Apostoli che dopo aver abbandonato le cure del secolo, si sono interamente dedicati a fondare la Chiesa. Ma i prevaricatori che si sono allontanati dal Signore e che hanno offeso il loro Creatore con azioni malvagie, sono tornati nella terra donde erano stati tratti; essi sono divenuti polvere, sono divenuti degli empi. Ma attendete, Signore, sopportateli, Signore, abbiate pazienza: che il vento non si alzi più e non spazzi questa polvere dalla faccia della terra. Che vengano i vostri servi, che vengano, che riconoscano le vostre parole nelle pietre di Sion; che abbiano pietà della sua polvere e che l’uomo sia formato a vostra immagine (S. Agost.). – I grande edificio della Chiesa cristiana, opera della mano di Dio, non può mai essere rovinato, ma più pietre possono separarsene. Coloro che restano sempre attaccati come pietre viventi di questo edificio, devono amare con una carità compiacente queste rovine e queste pietre morte, gemere per esse, ed avere una vera compassione per molti altri che, pur restando esteriormente uniti alla Chiesa con il carattere di Cristiano, ne sono separati dalla corruzione dei loro costumi. (Dug.). – Non è vero che se, per caso impossibile, gli uomini giungano a dimenticare, vengano a perdere il Vangelo portato da Gesù-Cristo sulla terra, le pietre che restano sul nostro suolo ce ne renderanno ancora tutta la sostanza? « Se questi tacciono, le pietre stesse grideranno (Luc. XIX, 40). È a questo titolo che lo studio dei monumenti o anche delle loro rovine cessa d’essere una passione di entusiasmo, una fantasia da uomo disoccupato, e diviene uno studio serio, pratico e religioso. Il salmista ci dice che se il tempio rovina, i servitori di Dio ne amino ameno le pietre: « Le sue pietre e le sue rovine sono state gradite ai vostri servi. » Si, c’è un odore di vita, un profumo di fede e di virtù, che esala da questi detriti. (Mgr PIE, Discours, etc., p. 167).

ff. 16, 17. – « E le nazioni temeranno il vostro Nome, Signore, e tutti i re della terra la vostra Gloria. » Il Compimento perfetto di queste parole era riservato alla venuta del Cristo; allora, nel momento in cui si è elevata la nuova Sion, i popoli della terra sono stati colpiti da un timore salutare, ed hanno onorato il Nome del Signore; nello stesso tempo, tutti i re hanno riconosciuto il Re dei re ed adorato la sua maestà. (Bellarm.). La costruzione della santa Sion è l’opera di tutti i secoli che sono trascorsi dopo Gesù-Cristo, e che trascorreranno fino alla fine del mondo. Questo edificio non sarà terminato che nell’ultimo giorno. Nell’attesa ciascuno di noi deve contribuirvi a porre la sua pietra come diceva Sant’Agostino. Non sarà più tempo di lavorare quando Gesù-Cristo verrà a fare la separazione delle pietre vive dalle pietre di scarto, e verrà in tutta la sua gloria per dare l’ultima mano a questo tempio eterno (Berthier). « Egli ha posto uno sguardo favorevole sulla preghiera degli umili. » È quanto si compie ora nella costruzione di Sion: coloro che la costruiscono pregano e gemono … se c’è qualcuno che abbia ancora altri sentimenti, se qualcuno avesse ancora fino al presente, altri pensieri, mangi cenere come pane. E mescoli la sua  bevanda con le proprie lacrime. Egli ancora è in tempo, finché Sion si elevi, finché ora le pietre si raccolgono nella sua costruzione. Quando l’edificio sarà definitivamente completato, quando la casa sarà dedicata, a cosa servirà accorrere, cercare un posto troppo tardi, pregare invano, battere inutilmente alla porta? (S. Agost.).  

IV. — 18-28.

ff. 18-22. – « Che questo sia scritto per le generazioni future, il popolo che sarà creato, celebrerà il Signore. » Affinché i Giudei non possano più rivendicare unicamente per essi il diritto di queste promesse, ed applicarle esclusivamente alla fine della cattività ed alla ricostruzione di Gerusalemme, lo Spirito Santo scriveva in termini eloquenti ciò che San Pietro, più tardi interpreterà in questi termini: « I Profeti hanno predetto la grazia che dovete ricevere. Fu loro rivelato che ciò non era per essi stessi, ma per voi, essi erano dispensatori di misteri che i predicatori del Vangelo vi hanno annunciato » (I Pietr. I) – Possa questa profezia compiersi per la generazione futura della nostra patria, di questa Francia sì crudelmente provata. Ah! Senza dubbio agli occhi dell’osservatore attento si manifestano segni certi di dissoluzione e di rovina prossima; ma anche segni più consolanti, presagi di resurrezione nelle opere sante che dopo più di mezzo secolo elevano sul suolo della Francia il loro florido stelo. Quali benedizioni non attireranno sulla Francia queste istituzioni di carità che qui è impossibile enumerare, come si è detto, e che hanno messo il dito sulle ombre stesse del bisogno, moltiplicato le mani per curare le cicatrici e le piaghe. Si, chiediamo che la generazione che cresce sia questo popolo nuovo creato per lodare il Signore, una nuova generazione di veri Cristiani e di veri francesi che riporterà la nostra nazione al primo posto tra tutti i popoli della terra. – Questo popolo che sarà creato, loderà il Signore che ha guardato la nostra valle di lacrime dall’alto del suo trono, non con sguardo inutile, ma discendendo tra noi, facendosi piccolo, conversando in mezzo a noi. Perché si è umiliato scendendo tra noi? Per ascoltare  da vicino le grida di coloro che il principe di questo mondo teneva prigionieri, e liberarli. Voi sapete quali sono coloro che sono stati uccisi e sapete quali sono i loro figli. La Chiesa è stata dapprima oppressa. Quando si tenevano prigionieri i Cristiani e li si mettevano a morte, ma, dopo questa persecuzione, il Nome del Signore è stato annunziato con una grande libertà in Sion, cioè nella Chiesa. (S. Agost.). – Quando Dio guarda dall’alto della sua santa dimora, i suoi occhi si abbassano con una compiacenza particolare sui figli di coloro che sono stati incatenati o massacrati per causa sua – e quando spiega la lunghezza del suo braccio – è per benedire e proteggere i figli di coloro che sono uccisi. I tempi giungeranno in cui coloro che la grazia avrà liberato, cominceranno a servire il Signore, e sarà allora che tutti i popoli, fino ad allora divisi, si fonderanno in un unico corpo, non avranno più che un solo Dio, un solo spirito, una sola fede, un solo Battesimo, un solo cuore ed una sola anima, e che gli stessi re si uniranno a questo coro unico della Chiesa, per farne parte. (Bellarm.). – « I popoli ed i re si assembleranno e si uniranno per servire l’Eterno. » Beato il popolo in cui il re e la nazione hanno uno stesso simbolo, una stessa dottrina, una stessa fede! Il Monarca e la Nazione si uniscono allora in un sublime concerto al servizio del Signore. In questo religioso abbraccio della potenza reale e della potenza popolare, la guerra civile è soffocata, i litigi domestici spenti, la questione del potere non è più una questione. Uniti davanti a Dio, il capo ed i soggetti restano strettamente abbracciati tra loro, e fanno regnare le felicità e la pace al seguito della Religione. (Mgr PIE, Discours, etc., I, 65). – Lo scopo per il quale Dio salva i prigionieri ed i figli di coloro che sono stati messi a morte, è alfine che essi annuncino il nome del Signore (Bellarm.). – Ed in effetti l’uso più santo della libertà si acquista con l’affrancamento dalla servitù del peccato e dalla dominazione del principe delle tenebre, è annunciare e far conoscere il Nome e la potenza di Dio nella vera Sion, che è la Chiesa, e rendere pubbliche le sue lodi in questa nuova Gerusalemme (Duguet).

ff. 23, 24. – « Fatemi conoscere il piccolo numero dei miei giorni. » È la Chiesa che risponde qui al Signore nella via della sua forza. Ha trovato risposta in se stessa? Ma cosa poteva esservi in essa, o quale voce essa aveva e per essa, se non la sola voce del peccato, la sola voce dell’iniquità? Ma quando è stata giustificata « … Essa gli ha risposto, » non per i suoi meriti, ma per la potenza di Dio. Ed in qual modo ha risposto: « Nella via della sua forza. » Questa via è il Cristo stesso … Cosa domanda essa a Dio? « Fatemi conoscere il piccolo numero dei miei giorni. » Che significano queste parole che mormorano contro me ed io non so quali uomini si sono separati da me? Essi osano dire che io sono stato e non sono più: « Annunciatemi il piccolo numero dei miei giorni. » Io non parlo di giorni eterni, che sono senza fine ed io vi sarò; no! io parlo dei giorni temporali; annunciatemi i miei giorni temporali e non l’eternità dei miei giorni; annunciatemi il tempo in cui sarò in questo mondo a causa di coloro che dicono: essa è stata, essa non è più. Il Signore glielo ha in effetti annunziato, e questa parola non è rimasta senza risposta. E chi me lo ha annunziato, se non la mia Via stessa? E come me lo ha annunziato? « … Ecco Io sono con voi fino alla consumazione dei secoli. » (Matth. XXVIII, 20), (S. Agost.). – È anche la via del profeta; rispondendo a Dio che gli aveva ordinato di vivere per la generazione futura gli diceva nel fiore e nella pienezza dell’età: Fatemi conoscere il piccolo numero dei miei giorni; fate che io sia ben persuaso della rapidità dei miei giorni, affinché, non essendo deviato dalla mia giovinezza e sorpreso dalla morte, io non sia più estromesso da questo popolo che sarà creato e vi loderà eternamente in Gerusalemme (Bellarm.). Grande grazia di Dio, è il ben considerare la brevità di questa vita, composta da un piccolissimo numero di giorni alfine di utilizzare tutti i momenti per l’eternità. – Non c’è nessuna disgrazia più funesta, pur tuttavia comune, che quella di essere tolto dal mondo a metà dei giorni che ci si riprometteva, in mezzo ad una vita leggera, dissipata, indifferente, criminosa, e senza aver fatto nessuna penitenza. – Cadere in questo stato nelle mani di Dio, qual cosa orribile, e chi potrebbe comprenderlo! Noi siamo perduti se Egli non ci richiami prima di essersi riconciliato con noi; non abbiamo alcuna speranza se pone termine ai nostri giorni prima che i giorni cattivi della vita passata siano espiati e riparati (Dug.). – Domandiamo a Dio di perdonarci il passato; domandiamogli soprattutto di proteggere l’avvenire, di moltiplicare nei nostri giorni l’occasione di opere buone, di non toglierci nel mezzo della nostra corsa, di essere immagine vivente di questo Dio eterno nella sua durata, di farci vivere per cancellare il male, per amarlo, per servirlo, per essere suo figlio sottomesso e fedele, per rendere ai nostri fratelli il bene che Egli ci ha fatto. – « I vostri anni si estendano in tutte le generazioni. »

ff. 25-28. – « In principio avete fondato la terra e i cieli sono l’opera delle vostre mani. » Ciò che conosciamo di più durevole in questo mondo è il cielo e la terra. Fin dalla creazione perseverano nello stesso stato; non cessano di spandere su di noi i beni che la Provvidenza ha messo nel loro seno. Tuttavia, questi grandi corpi, sì fedeli alle leggi che Dio ha loro imposto, invecchieranno, come dice il Profeta, cesseranno di essere ciò che sono, e la gloria di essere immutabile ed inalterabile, resterà in Dio solo, perché Lui solo è eterno. (Berthier). Tutto invecchia, uomini e cose; tutto anche cambia, si deforma, si rinnova, come aggiunge il Profeta, « mutabuntur,» il tempo dispone così per la sua opera la distruzione di una doppia potenza: cambia, poi ricostruisce sulle rovine cancellando fino all’ultima vestigia delle cose che sono state … Il tempo distrugge con la mano sinistra e costruisce con la mano destra, egualmente nemici nei due casi, poiché l’edificio che eleva non fa che spingere più avanti l’edificio che rovescia, e se fonda, è per distruggere ancora. (Lacordaire). «Tutti invecchieranno come un vestito, o Dio, Voi lo cambierete come ci si cambia di abito, e saranno cambiati; ma Voi resterete sempre lo stesso, I vostri anni non finiranno. » – Quand’anche l’uomo vivesse un gran numero di anni, non resterebbe mai un solo giorno nello stesso stato, perché ha la sua condizione mortale di essere continuamente soggetto alla legge del cambiamento, triste mutevolezza di cui Giobbe diceva: «  come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e non resta mai nel medesimo stato. » (Giob. XIV, 2). Dio al contrario, che è il solo veramente eterno, veramente immortale, resta eternamente ciò che è, perché non c’è nulla in Lui di transitorio, niente che sia soggetto al cambiamento, niente che sia opposto alla sua eterna divinità (S. GRÉG., in hunc psalm.). « Ma Voi resterete sempre lo stesso. » Voi siete il solo sul quale il tempo non possa nulla, perché solo Voi siete l’eterno. E cosa fate per disfarvi dei vostri potenti avversari? Una sola cosa, il tempo. « … essi periranno, Voi resterete sempre lo stesso. » La tomba è il segno più vero, il più infallibile marchio per discernere ciò che è umano da ciò che è divino. – « La figura di questo mondo passa (I Cor. VII). Le cose che passano sono temporali, quelle che non passano sono eterne. » Noi vediamo la terra coperta di alberi, popolata di animali, abbellita da edifici; noi vediamo le acque scorrere e spesso diventare turbinose nel loro corso; vediamo l’atmosfera a volta brillante, a volte oscura; vediamo gli astri in continuo movimento: tutto questo passa ed avrà fine. « Noi aspettiamo nuovi cieli ed una terra nuova, secondo la promessa, dice S. Pietro (2 Ep. III). I cieli saranno cambiati quanto alla forma esteriore, Voi toglierete la loro immagine attuale per darne loro una nuova, così come l’uomo lascia un vecchio mantello per prenderne uno nuovo. Ma Voi, non cambierete mai, qualunque sia la durate del tempo. » (Bellarm.). –  Voi sentite parlare di vestiti, di mantello, e pensate che sia diverso per i corpi? Speriamo dunque che i nostri corpi siano cambiati, ma per Colui che era prima di noi e che sussiste dopo di noi, di cui riteniamo ciò che siamo e che saremo quando saremo cambiati: Egli stesso ci cambia e non è cambiato, ci fa e non è fatto, ci conduce e rimane. E come la carne ed il sangue comprenderanno questa parola: « Io sono colui che sono »? – « Ma Voi siete sempre lo stesso, ed i vostri anni non finiranno. » Ma noi, nei confronti di questi anni di Dio, cosa siamo, con i nostri anni strapazzati? Che sono questi brandelli di anni? Noi tuttavia non dobbiamo disperare, perché nella sua Maestà e nell’eccellenza della sua saggezza, Dio aveva detto: « Io sono colui che sono », e tuttavia per consolarci ci ha pure detto: « Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. » (Es. III, 15). E noi siamo razza di Abramo (Gal. II, 29); e malgrado la nostra bassezza, benché siamo terra e cenere, noi speriamo in Dio. Noi siamo schiavi, ma nostro Signore si è degnato di prendere per noi la forma di uno schiavo (Filip., XVII, 7); noi mortali, Egli immortale, ha voluto morire e ci ha mostrato l’esempio della Resurrezione. Speriamo dunque di pervenire a questi anni stabili, nei quali non c’è il corso del sole che forma il giorno, ma nei quali tutto resta com’è, perché solo questo sarà veramente. (S. Agost.). – « I figli dei vostri servi vi abiteranno. » E dove? Se non negli anni che non finiranno mai. « E la loro razza sarà stabile per i secoli dei secoli, per il secolo eterno, per il secolo che sarà per sempre. » Il Profeta dice: « I figli dei vostri servi. » Non dobbiamo noi temere di non essere i servi di Dio e che i nostri figli non abitino il cielo, senza che noi stessi vi abitiamo? Ma se siamo al contrario i figli dei servi di Dio, i figli degli Apostoli, che diremo? Figli degli Apostoli, nati dopo di loro e gloriosi per essere loro successi, avremo la colpevole audacia di dire: Noi vi abiteremo e gli Apostoli non vi abiteranno? Lungi dalla nostra pietà filiale un tale pensiero! Lungi dalla fede dei figli! Lungi dall’intelligenza degli uomini fatti! (S. Agost.) – I servi di Dio, gli Apostoli, i loro figli, cioè i semplici fedeli e tutti coloro che saranno nati alla fede e che avranno perseverato nella grazia, perverranno alla felice immortalità della vita futura.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (7)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (7)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

TERZA PARTE

L’INABITAZIONE DIVINA PER MEZZO DELLA GRAZIA NON È LA PROPRIETÀ PERSONALE DELLO SPIRITO-SANTO, MA IL PATRIMONIO COMUNE DI TUTTA LA SANTA TRINITÀ. — ESSA È APPANNAGGIO DI TUTTI I GIUSTI, TANTO DELL’ANTICO CHE DEL NUOVO TESTAMENTO.

CAPITOLO PRIMO

Benché attribuita ordinariamente allo Spirito Santo, l’inabitazione divina per mezzo della grazia non gli è esclusivamente propria, ma comune alle tre Persone.

Finora abbiamo parlato indistintamente della dimora dello Spirito Santo o della Santissima Trinità nelle anime in stato di grazia, conformandoci così al linguaggio stesso della Scrittura, che attribuisce all’una o all’altra Persona divina il soggiorno che Dio si degna di fare nei giusti. Così, lo stesso Apostolo che aveva scritto ai fedeli di Corinto: « Non sapete di essere il tempio di Dio e l’abitacolo dello Spirito Santo? » (1 Cor. III, 16), insegnò agli Efesini « … che Cristo abita in noi per fede » (Efes., III, 17). E lo stesso Nostro Signore disse ai suoi discepoli: « Se qualcuno mi ama, egli osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e stabiliremo in lui la nostra dimora. » (Giov. XIV, 23). Tuttavia, non si può ignorare che è lo Spirito Santo che viene più spesso designato come l’ospite delle nostre anime. Mentre, solo una volta appena, il testo sacro menziona la presenza in noi del Padre e del Figlio, parla spesso della venuta e della dimora dello Spirito Santo nei nostri cuori. La Scrittura lo rappresenta come il dono di Dio per eccellenza, donum Dei (Act. VIII, 20), il dono principe di tutti i doni, la fonte della vita soprannaturale, l’Autore della nostra santificazione, il pegno della beatitudine celeste (2 Cor. I, 21-22). È Lui che riversa la grazia e la carità nei nostri cuori (Rom. V, 5), che ci rende figli di Dio (Rom. VIII, 15) e che distribuisce i doni divini a suo piacimento (1 Cor. XII, 11). Come maestro interiore, illumina le intelligenze, insegnando loro tutta la verità (Giov. XIV, 13); Egli tocca e ammorbidisce i cuori, inclinandoli dolcemente e fortemente alla fedele osservanza dei comandamenti divini (Ezech. XXXV I, 27). È Lui che ci consola nei nostri dolori, ci consiglia nelle nostre incertezze, ci insegna a pregare, a chiedere ciò che è opportuno per la salvezza, formulando le nostre richieste Egli stesso con inenarrabili gemiti (Rom. VIII, 26); è Colui che ci risveglia dalla nostra sonnolenza, ci spinge al bene (Rom.VIII, 14), ci guida per le nostre vie e infine ci introduce nella vera terra promessa, dove regna la perfetta rettitudine (Ps. CXLII, 10). I Santi Padri non parlano con altro linguaggio. Anche per loro lo Spirito Santo è il grande dono di Dio, l’ostia interiore che, donando se stesso, ci comunica allo stesso modo una partecipazione della natura divina, e ci rende figli di Dio, esseri divini, (S. Basil, Contr. Eunom., 1. V) uomini spirituali e santi. (S. Basil., de Spir. Sanct.,c. IX). A loro piace quindi designarlo come lo Spirito santificatore, principio della vita celeste e divina (S. Basil., Contr. Eunom., l.V). Alcuni addirittura lo chiamano la forma della nostra santità (S. Basil, de Spir. Sanct., c. XXVI), l’anima della nostra anima, il legame che ci unisce al Padre e al Figlio, Colui attraverso il quale queste Persone divine dimorano in noi. Tale insistenza nell’attribuire l’inabitazione per mezzo della grazia e l’opera della nostra santificazione e della figliolanza adottiva alla terza Persona dell’augusta Trinità non sarebbe un indizio, un segno, una prova che lo Spirito Santo abbia rapporti speciali con le nostre anime, un modo di unione che è unico e proprio a Lui e che non condivide con altre Persone? Perché, infine, se risiede in noi come il Padre e il Figlio, perché rappresentarlo incessantemente, di preferenza rispetto alle altre Persone, come ospite delle nostre anime, e attribuirgli costantemente una presenza e un’azione che, in realtà, sarebbe comune a tutta la Trinità? Da qui è nato il sistema dell’inabitazione propria dello Spirito Santo. Secondo alcuni teologi, lo stato di grazia porterebbe all’unione diretta e immediata delle nostre anime con questo Spirito divino e, attraverso di Lui, con il Padre e il Figlio, in virtù dell’inseparabilità delle Persone divine. Questa è la famosa teoria che aveva, se non come autore, ma come principale mecenate e difensore, un uomo di grande erudizione, uno dei più illustri rappresentanti della teologia positiva del XVII secolo, Denis Petau, della Compagnia di Gesù. Ma la stragrande maggioranza dei dottori, qualunque sia la loro scuola di appartenenza, sono sempre stati resistenti e ostili a questo insegnamento; e convinti, a buon diritto, che la “legge di appropriazione” è pienamente sufficiente a spiegare i testi della Scrittura e dei Padri che sembrano fare della speciale presenza di Dio nel giusto la prerogativa dello Spirito Santo, ed hanno costantemente sostenuto che la Trinità tutta intera abiti in noi per mezzo della grazia, e che non c’è una unione più reale e immediata con la terza Persona rispetto al Padre e il Figlio; tuttavia, sebbene comune a tutte e tre le Persone, l’inabitazione divina per grazia è appropriata allo Spirito Santo per il suo carattere personale e per la natura stessa dell’unione tra Dio e l’uomo, che è frutto della santa carità. La questione sembrava quindi risolta, quando nuovi tentativi fatti all’epoca nostra, con l’obiettivo di far risorgere un’opinione che sembrava definitivamente giudicata e condannata, sono venute a rimettere tutto in discussione e a risvegliare una disputa che si poteva credere oramai risolta. Di fronte a questa levata di scudi, ci è sembrato che gli interessi della santa dottrina richiedano che la questione non fosse passata completamente sotto silenzio ma trattata almeno sommariamente; è ciò che stiamo per fare con l’aiuto di Dio.

I.

Il problema da risolvere è questo: quando la Scrittura e i Padri ci parlano dell’inabitazione dello Spirito Santo nei nostri cuori, senza menzionare le altre Persone, dovremmo prendere alla lettera questa formula e credere che lo Spirito Santo si unisca con le nostre anime in un’unione che gli è propria e gli appartiene in una particolare veste? O, al contrario, dovremmo considerare questa unione come comune alle tre Persone dell’adorabile Trinità e semplicemente appropriata ad una di loro? Petau, Ramière, Scheeben, altri ancora tengono per la prima interpretazione; i teologi scolastici, San Tommaso, San Bonaventura, Alberto Magno, Suarez, i teologi di Salamanca, ed attualmente anche gli eminenti cardinali Franzelin e Mazzella, i Rev. Pp.- Kleutgen, Pesch, Tepe, S. J., ecc. ecc. adottano il secondo. Qualunque sia l’opinione che si abbracci sulla maniera con cui lo Spirito Santo è unito all’anima giusta, il dogma cattolico richiede che in esso sia ammessa anche una vera presenza del Padre e del Figlio. Le Persone divine, in effetti, avendo una sola e medesima natura individuale, sono necessariamente inseparabili. « Lo Spirito Santo – dice San Giovanni Crisostomo – non può essere presente da nessuna parte senza la presenza di Cristo, perché dove c’è una Persona divina, la Trinità è presente nella sua interezza (S. Joan. Chrys., in Epist. ad Rom.., VIII, 9).  Sant’Agostino si esprime allo stesso modo: « Chi oserebbe pensare, se non ignorando completamente l’inseparabilità delle Persone divine, che il Padre e il Figlio possano abitare dove lo Spirito Santo non abiti, e che lo Spirito Santo abiti da qualche parte senza il Padre e il Figlio » (S. Aug., 1. de Præsentia Dei, cap. V, n. 16.). – Pertanto, i teologi concordano con san Tommaso che le due Persone divine, in ragione della loro eterna processione, possono essere inviate e date alla creatura ragionevole per santificarla, e non lo sono mai l’una senza l’altra; mai il Figlio viene ad illuminare l’intelligenza senza che lo Spirito Santo venga ad accendere la volontà; le loro missioni invisibili, anche se distinte, considerando gli effetti particolari secondo i quali vengono compiute e il modo di origine delle Persone, sono tuttavia unite da una radice comune, la grazia santificante, che non permette che l’una abbia luogo senza l’altra. (S. Th., Samm. Theol., I, q. XLIII» a. 5, ad 3.) Quanto al Padre, anch’Egli è presente in virtù della circumincessio; e se non è inviato, perché non procede da nessuno, viene tuttavia da se stesso, si dona all’anima giusta e vi abita con il Figlio e lo Spirito Santo, per santificarla di concerto con loro. Pur ammettendo questa presenza vera e sostanziale delle tre Persone divine, che non avrebbe potuto, peraltro, contestarsi senza opporsi manifestamente all’insegnamento unanime dei Padri e dei Dottori, e senza distruggere l’economia del mistero della Trinità, Petau sostiene che lo Spirito Santo abiti in modo speciale nell’anima giusta, che possiede con essa una modalità di unione che gli è personale e che non condivide con il Padre e il Figlio. Secondo lui, la terza Persona risiederebbe in noi da solo, direttamente e immediatamente; le altre due Persone risiederebbero in noi solo indirettamente, simultaneamente, in virtù della comunità di natura che li rende inseparabili.  – E, per spiegare il suo pensiero, dà un esempio di ciò che accade nel mistero dell’incarnazione. “Il Padre e lo Spirito Santo – egli dice – dimorano in Cristo non meno dello stesso Verbo; ma il modo di unione è diverso. Infatti, oltre all’unione che gli è comune con le altre Persone, il Verbo ne possiede una speciale, che gli appartiene a pieno titolo, poiché Egli è come la forma che fa di Cristo un uomo divino, o meglio un Dio, e il Figlio di Dio. È così che abitano le tre Persone, è vero, tutte nel giusto; ma lo Spirito Santo è solo come la forma che lo santifica e lo rende figlio adottivo di Dio comunicando la propria sostanza. « Riprendiamo a leggere – aggiunge – tutte le testimonianze degli antichi Padri che abbiamo descritto sopra, o, meglio ancora, leggiamo i passi della Scrittura che parlano o semplicemente dell’unione di Dio con i giusti, o in particolare della dimora del Figlio in essi, e troverete che la maggior parte di essi attesta che è per mezzo dello Spirito Santo che ciò avviene, come per sua causa successiva e, per così dire, formale. »  (PETAV.. de Trin., l. VIII, c. VI, n. 8.). Lo Spirito Santo è dunque, secondo Petau, unito ai giusti da una propria unione, che, senza essere ipostatica, è tuttavia analoga a quella del Verbo con la natura umana, in Gesù Cristo. Nel Verbo fatto carne, la natura umana è unita direttamente alla Persona del Figlio, e attraverso di Lui alla divinità e alle altre due Persone della intera Trinità. La Persona del Verbo è dunque il punto di congiunzione delle due nature, divina e umana, così come è il legame che unisce l’umanità di Cristo alle Persone del Padre e dello Spirito Santo. Allo stesso modo, Lo Spirito Santo è dunque, secondo Petau, unito ai giusti in una propria unione, che, senza essere ipostatica, è tuttavia analoga a quella del Verbo con la natura umana, e Gesù Cristo. Nel Verbo fatto carne, la natura umana è unita direttamente alla persona del Figlio, e attraverso di lui alla divinità e alle altre due persone della Principale Trinità. La persona del Verbo è dunque il punto di congiunzione delle due nature, divina e umana, così come è il legame che unisce l’umanità di Cristo alle Persone del Padre e dello Spirito Santo. Allo stesso modo, nell’opera della nostra divinizzazione per mezzo della grazia, è la Persona dello Spirito Santo che è il termine diretto ed immediato della nostra unione con Dio, è Ella che ci mette in contatto con il Padre e il Figlio e serve come una sorta di legame tra loro e noi. Il celebre gesuita sostiene che questo sia il sentimento dell’antichità, e chiede anche ai Libri Santi di stabilire e corroborare la sua opinione. Cosa bisogna pensare di queste affermazioni?

II.

Se ci rapportiamo ad un giudice competente, lungi dall’essere l’espressione fedele della verità rivelata, la dottrina dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nel giusto è, al contrario, in palese opposizione all’insegnamento tradizionale, e si basa solo su un’errata interpretazione della Scrittura e dei Padri. Questo giudice, la cui imparzialità non può essere sospettata e la cui sentenza non può essere contestata, è l’immenso esercito di dottori che, nonostante la diversità delle loro tendenze e il loro antagonismo scolastico, si sono comunque trovati d’accordo su questo punto. I più eminenti teologi della Compagnia di Gesù, antichi e moderni, si incontrano qui con i fratelli ed i discepoli del Dottore Angelico; e sebbene fosse coinvolto uno dei loro, essi – siamo felici di rendere loro questa testimonianza – non sono stati né gli ultimi né i meno ardenti a combatterla. Ed effettivamente la lotta era davvero necessaria. Infatti, attribuire alla Persona dello Spirito Santo nell’opera della nostra santificazione, il ruolo del Verbo nell’incarnazione, era porsi in contraddizione con i principi teologici più incontestabili, di introdurre una novità, ed affermare, volenti o nolenti, tra lo Spirito Santo e ciascuna delle anime giuste, una sorta di unione ipostatica contraria a tutti i dati della fede. Per convincersi di questo, basti ricordare che in Dio, tutto è comune alle tre Persone, la natura, gli attributi, le operazioni esterne, le relazioni che ne derivano, tutto, tranne le relazioni d’origine opposte che costituiscono e distinguono le Persone e ciò che, dall’esterno, può essere qualificato come funzione ipostatica. (Ex. Conc. Florent. Decretum pro Jacobitis.). Invano, per sostenere la sua opinione, Petau fa appello all’antichità e cerca di stabilire che, se lo Spirito Santo non viene da solo nei nostri cuori, almeno Egli solo è il termine diretto ed immediato dell’unione (Petav., de Trin.,1. VIII. c. VI, n. 6.); L’antichità gli risponde, attraverso l’organo di San Tommaso, che, contrariamente a quanto accade nel mistero dell’Incarnazione, dove l’incontro delle due nature, la divina e l’umana, sebbene realizzato da tutta la Trinità, si realizza nell’unica Persona del Verbo, l’unione stabilita dalla grazia tra Dio e l’uomo è comune alle tre Persone, non solo nel suo principio effettivo, ma anche nel suo termine (S. Th., III, q. III, a. 4, ad 3.); e tutta la Scuola aggiunge, per bocca dei suoi più eminenti Dottori, che nessuna vera unione della Divinità con le creature può appartenere in sé ad una sola Persona divina senza essere di  fatto un’unione ipostatica. Perché di due cose l’una: o l’unione si fa direttamente con l’Essenza comune, e in questo caso appartiene ugualmente alle tre Persone; oppure si fa in ciò che è proprio di una di esse, nella sua ipostasi, ed allora essa è ipostatica. Tuttavia, la dottrina cattolica non conosce, nei fatti, altra unione ipostatica tra Dio e la creatura che quella del Verbo con l’umanità nella Persona di Gesù Cristo. Indubbiamente, lo Spirito Santo avrebbe potuto incarnarsi, anche Egli, avrebbe potuto unirsi personalmente a tutte le anime adornate di grazia, ma allora i giusti non solo sarebbero stati spiritualizzati e divinizzati, sarebbero stati essi stessi Dio, sarebbero stati cioè lo Spirito Santo. Concludiamo dunque con san Tommaso che la venuta o l’inabitatzione di Dio nella nostra anima, invece che essere prerogativa esclusiva, proprietà della terza Persona, è, al contrario, patrimonio comune della Trinità tutta intera. Et ideo adventus vel inhabitatio convenit toti Trinitati (S. Th., Sent., 1. I, dist. XV, q. II, a. 1, ad 4). – Se è così, perché la Scrittura e i Padri attribuiscono quasi costantemente la presenza di Dio in noi allo Spirito Santo? Perché si riferiscono a questo Spirito divino, di preferenza alle altre Persone, come l’ospite delle nostre anime? Questo è in virtù della “legge di appropriazione”.

III.

Che cos’è l’appropriazione? È l’attribuzione fatta ad una Persona divina di una perfezione o di un’operazione comune alle tre Persone. Ne abbiamo un esempio nelle seguenti parole del Simbolo: « Credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra », dove attribuiamo alla prima Persona della Santissima Trinità l’onnipotenza e la creazione, che appartengono tuttavia a tutti e tre. È anche per appropriazione che attribuiamo allo Spirito Santo la concezione di Gesù Cristo nel seno della Beata Vergine Maria dicendo: « Credo in Gesù Cristo, Figlio unico di Dio, nostro Signore, che è stato concepito dallo Spirito Santo. » Perché questo tipo di attribuzione, che si incontra frequentemente nella Scrittura, nei Padri, nei Simboli, nella liturgia? Per la manifestazione della fede: Ad manifestationem fidei risponde San Tommaso. (S. Th., I, q. XXXIX, A. 7). È, infatti, opportuno – aggiunge il Santo Dottore – appropriare alle Persone divine degli attributi essenziali per istruire i fedeli e portarli, per mezzo di queste verità naturalmente accessibili alla ragione, alla conoscenza di ciò che l’Apostolo chiama la profondità di Dio, profunda Dei (1 Cor. II, 10), cioè del mistero della sua vita intima e dei caratteri distintivi delle Persone. Indubbiamente, la Trinità è una verità così lontana dalla nostra portata, che è impossibile raggiungerla e dimostrarla solo con le forze del nostro spirito; e anche dopo che Dio si sia degnato di rivelarla a noi, essa rimane coperta da un velo impenetrabile e avvolta nell’oscurità, finché camminiamo lontani dal Signore.  Tuttavia, utilizzando le verità già acquisite, possiamo proiettare sui dati della fede come un fascio di luce che, illuminandoli di più, ci permetta di ottenere una maggiore comprensione e un’intelligenza molto fruttuosa. Per raggiungere questo risultato, non c’è niente di meglio che ricorrere o alle lontane somiglianze della Santissima Trinità che il Creatore ha impresso nelle sue opere sotto forma di vestigia o immagini, o all’analogia che esiste tra le proprietà particolari di questa o quella Persona e gli attributi essenziali che gli sono propri. (Conc. Vatic, Const. Dei Filius, c. IV.). Così, per far conoscere il Padre, gli attribuiamo la potenza, l’eternità, l’unità (S. Th., I, q. XXXIX, a. 8), perché queste perfezioni, sebbene comuni alle tre Persone, offrono una certa somiglianza con le proprietà personali del Padre. La potenza, infatti, essendo un principio, una fonte di operazione, si addice alla prima Persona della Trinità, che è essa stessa il principio, l’origine, la fonte dell’Essere divino. Essa gli si addice ancora di più sotto un altro aspetto, cioè per farci capire che, a differenza di quanto sta accadendo qui sulla terra, dove i nostri padri della terra perdono le forze man mano che invecchiano, il Padre celeste rimane eternamente onnipotente. L’eternità è anche giustamente appropriata al Padre, perché è come Lui senza principio. Quanto all’unità, che si riferisce ad un’entità assoluta e che non presuppone nulla, essa conviene parimenti a quella delle Persone divine, che non presuppongono nulla a loro volta, perché non procedono da null’altro. La saggezza, la bellezza, l’eguaglianza, sono proprie del Figlio (S. Th., I, q. XXXIX, a. 8): la sapienza, perché, procedendo per intelligenza come termine della conoscenza paterna, Egli stesso è la sapienza generata; la bellezza perché con la sua processione è l’immagine perfetta del Padre e lo splendore della sua sostanza; l’uguaglianza, infine, perché, come Verbo, Egli è consustanziale al Padre, essendo l’espressione adeguata della sua scienza. – Allo Spirito Santo attribuiamo l’amore, la bontà, la gioia (Ibid.): l’amore, perché lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio per mezzo dell’amore, come termine sussistente della loro reciproca dilezione; la bontà, perché questa perfezione, essendo la ragione e l’oggetto dell’amore, offre una sorprendente analogia con il carattere proprio della terza Persona; la gioia, perché, essendo, in virtù della sua stessa processione, frutto dell’amore unico ed infinito che il Padre e il Figlio si scambiano l’un l’altro come Bene  sovrano, Egli è loro gioia e loro felicità. – Quanto appena detto circa gli attributi essenziali vale anche per le opere esterne di Dio – operibus ad extra, come dice la Scuola – che, pur appartenendo allo stesso titolo alle tre Persone, in quanto provenienti da una potenza comune a loro per natura, sono tuttavia attribuite a volte all’una, a volte all’altra di loro, con lo scopo di farla conoscere meglio, grazie alla somiglianza che esiste tra tale operazione e il carattere distintivo di tale Persona. Così noi appropriamo al Padre la creazione e tutto ciò che porta l’impronta della potenza o le vestigia del Principio primo, al Figlio l’illuminazione delle intelligenze e tutto ciò che è primizia della sapienza; allo Spirito Santo le opere della bontà e dell’amore, le ispirazioni, i buoni sentimenti, la vita della grazia, i buoni movimenti spirituali, la vita della grazia, i doni spirituali, la remissione dei peccati, la santificazione delle anime, la filiazione adottiva, l’unabitazione di Dio in noi.  – « È molto a proposito – nota Leone XIII – che la Chiesa è accostumata ad attribuire al Padre le opere divine in cui risplende la potenza, al Figlio quelle in cui risplende la sapienza, allo Spirito Santo quelle in cui domina l’amore. Non che tutte i perfezionamenti e tutte le opere esterne non siano comuni alle tre Persone, perché le opere della Trinità sono indivisibili come l’essenza stessa della Trinità, essendo l’azione delle Persone divine inseparabili come la loro essenza (S. Aug„ de Trin., 1. I, c. IV e V); ma perché, in virtù di un certo confronto, e per così dire di un’affinità che si nota tra le opere e le proprietà delle persone, tale opera è attribuita o, come si dice, appropriata a tale Persona piuttosto che a tal’altra ». (Encicl. Divunum illud munus, Papa Leone XIII).

IV.

Sarebbe quindi sbagliato affermare che una perfezione, una funzione, un’operazione sia specifica dell’una o dell’altra Persona divina, con il pretesto specioso che gli venga costantemente attribuita nelle Lettere sante o negli scritti dei Padri. Spetta ai teologi discernere ciò che sia veramente proprio e personale, e ciò che sia semplicemente appropriato, sulla base degli insegnamenti della fede e dei principi teologici relativi all’unità dell’Essenza divina e alla distinzione delle Persone. Ora, con poche eccezioni, tutti i dottori concordano sul fatto che l’abitazione per mezzo della grazia e l’unione speciale di Dio con i giusti come oggetto della loro conoscenza e del loro amore, non sia una proprietà dello Spirito Santo, ma un’opera comune alle tre Persone e appropriata per giusti motivi ad una di esse (S. Th., qq. disp., De verit, q. XXVII, a. 2, ad 3.) Perché appartenga alla terza Persona, dovrebbe essere, ad esclusione delle altre due, o la causa efficiente della grazia e della carità, o almeno il termine diretto e immediato della conoscenza sperimentale e dell’amore di godimento da cui i Santi sono gratificati, in modo perfetto in cielo, e incoativamente quaggiù. Questo è cosa facile da stabilire.  Poiché la presenza di Dio negli esseri creati si basa, come abbiamo dimostrato in precedenza (cap. I), sulla sua operazione, è concepibile che se lo Spirito Santo esercitasse da qualche parte un’azione indipendente e personale; se, ad esempio, gli atti di carità prodotti dai giusti fossero la sua particolare opera, Esso esisterebbe in essi, come agente, in un modo che gli apparterrebbe in proprio. Lo stesso varrebbe se la grazia e la carità, sebbene prodotte da tutta la Trinità, ci unissero in modo speciale alla Persona dello Spirito Santo, come nostro fine, all’oggetto particolare della nostra conoscenza e del nostro amore. – Ma nessuna di queste ipotesi può essere sostenuta: la prima, perché va direttamente contro un principio universalmente accettato in teologia e più volte citato dai Concili, cioè che le opere esterne sono comuni a tutte e tre le Persone: Opera ad extra sunt tribes personis communia (Ex. Symb. fidei Conc. Tolet., XI.); il secondo, perché lo stato di grazia quaggiù, non più della gloria del cielo, non ha l’effetto di unirci particolarmente con l’una o l’altra delle Persone divine, ma con Dio considerato nell’unità della tua essenza e della Trinità delle sue Persone. Non è lo Spirito Santo come Persona distinta, bensì è l’Essenza divina che è il nostro ultimo fine, l’oggetto il cui vero, ma oscuro possesso, costituisce in questa vita l’anticipazione della nostra felicità, e la cui chiara visione deve un giorno renderci perfettamente beati e realizzati. Sia che si consideri nella sua causa efficiente, o si consideri nei suoi effetti, cioè nei rapporti di intima unione che stabilisce, come perfetta amicizia, tra Dio e l’anima, la grazia o la carità non trova un rapporto speciale tra lo Spirito Santo e noi; e l’unione di cui è il principio, appartiene ugualmente alle tre Persone. Tuttavia, sebbene comune a tutta la Trinità, l’inabitazione divina, essendo opera d’amore, conseguenza e frutto d’amore, è naturalmente attribuita a quella delle Persone che è in Dio l’Amore sussistente, come ben spiega il Catechismo del Concilio di Trento, « Anche se tutte le opere esterne – esso dice – siano comuni alle tre Persone, molte di esse sono attribuite come proprie dello Spirito Santo, per farci comprendere che esse provengono dall’immensa carità di Dio verso di noi. Infatti, poiché lo Spirito Santo procede dalla volontà divina infiammata d’amore, possiamo così riconoscere che gli effetti a Lui appropriati abbiano la loro fonte nell’amore sovrano di Dio verso di noi. » (Ex Catech. Rom., p. I, a. VIII, n. 8.) – Quando, dunque, la Scrittura o i Padri ci rappresentano lo Spirito Santo come l’Autore della grazia e della carità, e ospite delle nostre anime, invece di voler trovare in queste espressioni il segno manifesto di una causalità propria di questo Spirito divino, o l’indicazione di un’unione diretta e immediata con le nostre anime, che sarebbe personale con Lui, dovremmo vedere solo un’appropriazione basata sul rapporto di analogia che esiste tra i doni della grazia e la caratteristica dello Spirito Santo. È, infatti, del tutto naturale attribuire gli effetti dell’amore, come la grazia, la carità, l’inabitazione divina, a quella delle Persone divine che procede nella capacità di amare. Indubbiamente, è da tutta la Trinità che la virtù della carità proviene, come causa efficiente; senza dubbio, l’esemplare primordiale a cui ci assimila è, soprattutto, l’amore essenziale comune alle tre Persone; in altre parole, è Dio come carità assoluta; tuttavia, se consideriamo il carattere proprio di ciascuna delle Persone divine, è indiscutibile che la carità offre una maggiore analogia, una somiglianza più evidente con lo Spirito Santo che con il Padre e il Figlio. Che cos’è, infatti, la carità, se non un legame dolce e forte che ci unisce a Dio, un’inclinazione abituale che ci conduce a Lui, e quindi un’imitazione espressiva di quella tra le Persone divine che è, in virtù della sua stessa processione, l’amore del Padre e del Figlio, il nodo che li allaccia? Questo è ciò che l’Apostolo san Paolo ha voluto chiarire quando ha detto che « la carità è riversata nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci è stato dato: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum sanctum, qui datas est nobis. » (ROM. V, 5). – Tutta questa dottrina è stata mirabilmente riassunta da san Tommaso in poche e sostanziali frasi che meritano di essere menzionate: « È necessario sapere – egli dice – che i beni che ci vengono da Dio si riferiscono a Lui come causa efficiente ed esemplare: come causa efficiente, in quanto effetti della potenza divina; come causa esemplare, in quanto imitano, in una certa misura, le perfezioni che sono in Dio. Poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno una sola potenza e una sola essenza, ne consegue che tutto ciò che Dio opera in noi proviene in realtà dalle tre Persone come sua causa efficiente; tuttavia, la consapevolezza che Dio ci dà di Sé anche attraverso il dono della sapienza è una giusta rappresentazione del Figlio; allo stesso modo, l’amore con cui amiamo Dio rappresenta lo Spirito Santo in particolare. Così, anche se la carità che è in noi, sia l’opera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, si dice tuttavia che essa sia stata riversata in modo particolare nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo. (Rom. V, 5) » (S. Th., Contr. Gent., 1. IV, c. XXI.) – Questo è l’insegnamento di tutti gli scolastici, tale l’interpretazione che hanno costantemente dato ai testi i sostenitori dell’inabitazione propria dello Spirito Santo. Tutti dichiarano formalmente che non ci sia unione reale e immediata con la terza Persona della Santissima Trinità più che con il Padre e il Figlio. E, unendo la propria voce a quella dei rappresentanti più autorevoli della scienza teologica, il Sommo Pontefice Leone XIII canonizzava in un qualche modo, adottandolo, l’insegnamento comune della Scuola. Ecco, in effetti, come ha spiegato il punto controverso nella sua Enciclica Divinum illud munus: « Questa mirabile unione, chiamata col suo vero nome inabitazione, sebbene prodotta veramente da tutta la Trinità presente nell’anima, è tuttavia attribuita allo Spirito Santo, come se gli appartenesse in modo particolare, de Spiritu Sancto tamquam peculiaris prædicatur. Non è quindi specifico o personale, ma solo appropriato: tanquam peculiaris prædicatur è il termine consacrato per semplice appropriazione. Sarebbe quindi temerarietà in questo momento sostenere ulteriormente che l’inabitazione divina, di cui i Libri Santi parlano così spesso, sia proprietà della terza Persona, e non sia patrimonio comune di tutta la Santissima Trinità.

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