DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA (2020)

DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le Domeniche III, IV, V, e VI dopo l’Epifania hanno il medesimo Introito, Graduale, Offertorio e Communio, che ci manifestano che Gesù è Dio, che opera prodigi, e che bisogna adorarlo. La Chiesa continua, infatti, in questo tempo dopo l’Epifania, a dichiarare la divinità di Cristo e quindi la sua regalità su tutti gli uomini. E il Re dei Giudei, è il Re dei Gentili. Così la Chiesa sceglie in San Matteo un Vangelo nel quale Gesù opera un doppio miracolo per provare agli uni e agli altri d’essere veramente il Figlio di Dio. – Il primo miracolo è per un lebbroso, il secondo per un centurione. Il lebbroso appartiene al popolo di Dio, e deve sottostare alla legge di Mosè. Il centurione, invece, non è della razza d’Israele, a testimonianza del Salvatore. Una parola di Gesù purifica il lebbroso, e la sua guarigione sarà constatata ufficialmente dal Sacerdote, perché sia loro testimonianza della divinità di Gesù (Vang.). Quanto al centurione, questi attesta con le sue parole umili e confidenti che la Chiesa mette ogni giorno sulle nostre labbra alla Messa, che Cristo è Dio. Lo dichiara anche con la sua argomentazione tratta dalla carica che egli ricopre: Gesù non ha che da dare un ordine, perché la malattia gli obbedisca. E la sua fede ottiene il grande miracolo che implora. Tutti i popoli prenderanno dunque parte al banchetto celeste nel quale la divinità sarà il cibo delle loro anime. E come nella sala di un festino tutto è luce e calore, le pene dell’inferno, castigo a quelli che avranno negato la divinità di Cristo, sono figurate con il freddo e la notte che regnano al di fuori, da queste « tenebre esteriori » che sono in contrasto con lo splendore della sala delle nozze. Alla fine del discorso sulla montagna « che riempi gli uomini d’ammirazione » S. Matteo pone i due miracoli dei quali ci parla il Vangelo. Essi stanno dunque a confermare che veramente « dalla bocca di un Dio viene questa dottrina che aveva già suscitato l’ammirazione » nella Sinagoga di Nazaret (Com.). –Facciamo atti di fede nella divinità di Gesù, e, per entrare nel suo regno, accumuliamo, con la nostra carità, sul capo di quelli die ci odiano dei carboni di fuoco (Ep.), cioè sentimenti di confusione che loro verranno dalla nostra magnanimità, che non daranno ad essi riposo finché non avranno espiato i loro torti. Cosi realizzeremo in noi il mistero dell’Epifania che è il mistero della regalità di Gesù su tutti gli uomini. Uniti dalla fede in Cristo, devono quindi tutti amarsi come fratelli. « La grazia della fede in Gesù opera la carità » dice S. Agostino (2° Notturno).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI: 7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.
[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

IL BUON ESEMPIO

“Fratelli: Non vogliate essere sapienti ai vostri propri occhi: non rendete a nessuno male per male. Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini. Non fatevi giustizia da voi stessi, o carissimi, ma rimettetevi all’ira divina, poiché sta scritto: A me la vendetta; ripagherò io », dice il Signore. Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Non lasciarti vincere dal male; al contrario vinci il male con il bene”. (Romani XII, 16-21).

L’Epistola di quest’oggi è tolta dalla lettera ai Romani. L’Apostolo, premesso che non dobbiamo stimar tanto noi stessi da credere di non aver bisogno dell’insegnamento degli altri, ci invita a tenere una condotta tale che sia di edificazione al prossimo. Soprattutto dobbiamo avere lo spirito di mansuetudine e di tolleranza. Così facendo, dei nostri nemici ci faremo degli amici, guadagnandoli a Dio. Il brano riportato ci suggerisce di parlare del buon esempio che è una scuola:

1. A cui tutti possono apprendere,

2. Che tutti possono fare,

3. Che riesce molto efficace.

1.

Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini.

Con queste parole l’Apostolo ci insegna « ad aver davanti agli occhi i beni futuri, affinché si facciano quelle cose, le quali, compiute che siano, non possano venir riprese, ma, anzi, venir lodate e da Dio e dagli uomini», (Ambrosiaster, in h. 1). Le nostre opere devono essere lodate dagli uomini, non perché vi trovi pascolo la nostra vanagloria; ma perché il prossimo ne resti edificato, e ne renda gloria a Dio. Se le nostre opere saranno incensurabili presso Dio e presso gli uomini, noi compiremo un vero apostolato, tanto più sapiente, quanto più è spoglio d’ogni apparato della scienza e della coltura. – L’insegnamento che viene dal buon esempio può essere compreso da tutti. A questa scuola possono imparare grandi e piccoli, senza limiti di età, senza condizione di studi precedentemente fatti. Non attestati, non prove subite, non raccomandazioni. Nonostante l’istruzione obbligatoria, vediamo che i maestri non possono far entrare il loro ragionamento in teste di capacità limitata. Ci sono quelli, che ogni anno passano normalmente da una classe all’altra: ci sono quelli che avanzano un po’ zoppicando, un anno si, un anno no. Ci sono pure quelli che rimangono al medesimo posto per una buona fila d’anni. Tutte le cognizioni e tutta l’abilità del maestro non possono trovare la via per arrivare all’intelligenza di certi scolari. L’insegnamento del buon esempio è facilmente inteso anche da costoro. È  una scuola a cui possono apprendere qualche cosa anche coloro che tengono cattedra agli altri. Negli studi, ogni nuova cognizione che s’acquista ci persuade che siamo dei veri ignoranti; perché ci fa constatare che quello che abbiamo imparato è ben poco di fronte a quello, che ogni giorno ci rimane da imparare. Così, l’esempio buono che viene dagli altri ci insegna che qualche cosa manca sempre alla nostra perfezione. Oggi scopriamo nel prossimo una virtù che manca a noi, domani impariamo a far meglio ciò che credevamo di compiere con esattezza.

2.

Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini.

S. Paolo viene a parlare dell’esercizio della carità tra i Cristiani, e inculca subito la pace. Noi non dobbiamo porre, da parte nostra, nessun ostacolo alla pace. Anzi, se c’è un ostacolo, dobbiamo mettere ogni impegno per toglierlo. Ma delle volte può darsi che, con tutto il nostro sforzo, non si possa avere la pace per colpa di chi non vuol assolutamente saperne di vivere in pace con noi. Delle volte, con tutta la nostra buona volontà di pace, ci sentiamo fermati da un dovere. Dovremmo acconsentire a delle ingiustizie, approvare una condotta riprovevole, ecc. È impossibile stringere una pace a queste condizioni. Perciò l’Apostolo dice: se è possibile. Se non sempre è possibile essere in pace col nostro prossimo, è sempre possibile amarlo, dimostragli il nostro amore con la preghiera e soprattutto col buon esempio. È ciò che S. Ignazio raccomandava caldamente agli Efesi. « Pregate incessantemente anche per gli altri. Poiché c’è speranza che anch’essi si pentano, e giungano a Dio. Ammaestrateli, almeno, coi vostri esempi » (S. Ignazio M. Ad Ephes. 10, 1). Tutti possiamo ammaestrare il nostro prossimo, almeno con gli esempi. Non si richiede un’alta condizione sociale. Un operaio, una persona di servizio, un garzone di bottega, un contadino possono dare, in fatto di vita cristiana, insegnamenti altissimi. Nella loro vita cercano di ricopiare gli esempi di Gesù Cristo: possono quindi dire con la loro condotta «Siate miei imitatori come io di Cristo». (I Cor. IV, 10). Non si richiede una coltura speciale. La storia della Chiesa ci addita fari luminosi di santità in persone digiune affatto di lettere. Neppure c’è da darsi attorno per dei preparativi speciali. Non fa bisogno di diramare inviti, d’affiggere manifesti, di scegliere l’ora e il tempo più propizio, di inchinarsi a Tizio e a Caio per avere un locale adatto. Qualunque persona, che ti si presenti o che incontri inaspettatamente, o semplicemente ti veda, può essere ammaestrata dal tuo esempio. Gli oratori di cartello fanno le loro prediche nelle solennità, nelle ricorrenze speciali. Ma, se tu vuoi, ogni ora, ogni giorno, ogni momento puoi fare la tua predica. Senza muovere un passo, senza incomodare nessuno puoi esercitare l’opera tua in casa, nei campi, nella bottega, nello stabilimento, nell’ufficio, in strada, in treno. Puoi essere un maestro, senza salire in cattedra; un predicatore senza salire sul pulpito, un apostolo senza traversare i mari. Basta che tu viva da buon Cristiano, poiché chi ben vive, ben predica.E dal momento che è possibile a tutti, è anche obbligatorio per tutti. Se siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre, dobbiamo tutti essere interessati a controbilanciare il male, che reca offesa al nostro Padre, e che è così diffuso nel mondo. E il modo migliore di controbilanciare il male è sempre il buon esempio, che edifica ove il cattivo esempio distrugge. «Ciascuno di voi — ammonisce l’Apostolo — si renda grato al prossimo nel bene per edificazione». (Rom. XV, 2).

3.

Se il tuo amico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere: perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Cioè, il tuo nemico sarà scosso dalla tua beneficenza inaspettata e nel suo cuore si accenderà il fuoco della riconoscenza e della carità. Secondo S. Agostino sono pure dei carboni ardenti quelli che con il loro esempio, ci spingono a mutar vita. «Chi ieri era ubriacone, oggi è sobrio; chi ieri era adultero, oggi è casto; chi ieri era ladro, oggi è benefico. Tutti questi sono dei carboni ardenti» (En. in Ps. CXXXIX, 14).Difatti, i buoni esempi accendono i cuori, e li spingono, sotto l’impulso della grazia, a propositi efficaci. La parola è una fiaccola che illumina la mente, l’esempio è una forza che scuote la volontà. Un capitano che con parole sonanti invita i suoi soldati a uscire dalla trincea per attaccare una posizione, ben difficilmente scuoterà l’animo dei suoi uomini Se si avanza egli coraggiosamente pel primo, sarà seguito. I genitori, i superiori, gli insegnanti, non saranno mai educatori se alla parola non aggiungono l’esempio. Le loro norme non faranno forte impressione, se non sono accompagnate dai fatti. Tutte le loro osservazioni, invece d’essere un fuoco che suscita, sono una doccia che raffredda.« Niente — dice il Crisostomo è più freddo di un dottore che ragiona solamente con la parole» (in Act. Hom. 1, 2). Son buone le ammonizioni, gli avvisi, ma gli esempi sono più efficaci. Ben dire val molto, ben fare passa tutto. «E’ cosa buona l’insegnare, se chi parla fa ciò che insegna» (S. Ignazio M. ad Ephes. 15, 1). Perciò S. Paolo nell’indicare a Tito quello che deve insegnare aggiunge: «In ogni cosa mostrati modello di buone opere» (Tit. II, 7).Gli abitanti di Janaguchi, uno dei luoghi evangelizzati dal Zaverio, rimasti molti anni senza Sacerdoti e senza ministero ecclesiastico, così si esprimono in una loro supplica al Visitatore e Vice provinciale dei Gesuiti:« Noi siamo le primizie dei Cristiani del Giappone… Da venticinque anni viviamo sotto un re tirannico, e questo piccolo gregge di Cristiani, stretto tutt’intorno dal paganesimo, è senza Sacramenti, senza Messa, senza l’aiuto dei Padri e dei Fratelli, che ci mancano da lunghi anni. Al loro posto Dio ci aveva lasciato due Cristiani di forte fede e di grande virtù, la cui dottrina e il cui esempio ci hanno sostenuti finora. Per completare la nostra disgrazia sono morti entrambi nello spazio di un mese. Perciò, umilmente e con le lagrime preghiamo Vossignoria Reverendissima di ricordarsi del nostro abbandono, affinché non vadano perdute questo anime, che sono costatetanto al Redentore del mondo » (Scmurhammer, Janaguchi, in Die Katholiscen Missionem, 1927, p. 365.). Due semplici Cristiani, che. con l’esempio aggiunto alla parola, sostengono per lunghi anni, in paese pagano, sotto un governo tirannico, una Cristianità insidiata, rimasta senza sacerdoti e senza l’esercizio del culto divino, ci dicono, più di qualunque lungo trattato, quale sia l’efficacia del buon esempio.Davanti al buon esempio, si piega la testa che non si è mai piegata davanti ai ragionamenti, alle discussioni, alle dispute. Davanti al buon esempio si tiene alta la fronte con perseveranza in faccia a difficoltà e ostacoli d’ogni genere. Volesse il cielo, che nel giorno del rendiconto potessimo avere al nostro attivo qualche anima convertita o resa costante dal nostro esempio.

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua
[V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt VIII: 1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre. Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis.
Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE VIII.

 “In quel tempo, sceso che fu Gesù dal monte, lo seguirono molte turbe. Quand’ecco un lebbroso accostatosegli lo adorava, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mondarmi. E Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: Lo voglio; sii mondato. E fu subito fu mondato dalla sua lebbra. E Gesù gli disse: Guardati di dirlo a nessuno; ma va a mostrarti al sacerdote, e offerisci il dono prescritto da Mose in testimonianza per essi. Ed entrato che fu in Capharnaum, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosegli, e dicendo: Signore, il mio servo giace in letto malato di paralisi nella mia casa, ed è malamente tormentato. E Gesù gli disse: Io verrò, e lo guarirò. Ma il centurione rispondendo, disse: Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; ma di’ solamente una parola, e il mio servo sarà guarito. Imperocché io sono un uomo subordinato ad altri, e ho sotto di me dei soldati: e dico ad uno: Va ed egli va; e all’altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servitore: Fa la tal cosa, ed ei la fa. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e disse a coloro che lo seguivano : In verità, in verità vi dico, che non ho trovato fede sì grande in Israele. E Io vi dico, che molti verranno dall’oriente e dall’occidente, e sederanno con Abramo, e Isacco, e Giacobbe uel regno de’ cieli: ma i figliuoli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora Gesù disse al centurione: Va, e ti sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito”. (Matt. VIII, 1-13).

Spesse volte il divin Redentore per istruire gli Apostoli e le moltitudini andava ad assidersi sopra una delle colline, che costeggiano il bel Lago di Genezaret. Ivi gli Apostoli e le turbe si aggruppavano dintorno a Lui, ed egli alla frescura dell’ombra degli alberi, tra l’incanto della natura feconda e profumata, innalzava le menti ed i cuori de’ suoi uditori insino a Colui che fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi. Uno di questi discorsi è rimasto celebre sopra ogni altro, perché in esso Gesù Cristo diede i principali precetti della morale cristiana, e si chiama per eccellenza: Il discorso del monte. Fra le tante altre cose dette in tale discorso, Gesù Cristo aveva pure raccomandato di chiedere a Dio tutte le grazie, che ci abbisognano, assicurando l’efficacia della preghiera. « Chiedete, aveva detto, e otterrete; cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto » (Matth. VII, 7). Or bene, terminato che ebbe questo discorso, e sceso che fu dal monte, ecco che gli si presentò subito l’occasione di confermare con due stupendi fatti la verità di quel che aveva detto. E sono questi due fatti, che il Vangelo di questa domenica propone alla nostra considerazione.

1. Essendo adunque Gesù disceso dal monte, seguito da tutta quella turba, che con grande attenzione e meraviglia aveva ascoltato il suo sermone, ecco farglisi incontro un uomo tutto coperto di lebbra, il quale si avvicina, si prostra innanzi a Gesù Cristo, e colla più intera fiducia gli dice: Signore, se voi volete, potete mondarmi: Domine, si vis, potes me mundare. Gesù stende la mano, lo tocca e gli dice: Lo voglio; sii mondato: Volo mundare. E nello stesso istante la lebbra che lordava il corpo di quell’infelice scomparve, ei fu miracolosamente guarito: Confestim mundata est lepra ejus ». Immaginate la gioia, da cui fu invaso quel povero uomo così repentinamente guarito da una malattia tanto schifosa, e che lo segregava dal consorzio degli uomini. Egli adunque fuori di sé per la contentezza, pieno di gratitudine pel divin Redentore, già stava per ripetere ed esaltare a gran voce il Nome di chi lo aveva sanato. Ma Gesù, volendo darci esempio di umiltà e farci conoscere quanto davvero fuggisse le lodi degli uomini, disse al lebbroso: Guardati di dirlo a nessuno; ma vanne, mostrati al sacerdote: ostende te sacerdoti; ed offerisci il dono prescritto da Mosè in testimonianza per essi. Così ordinò Gesù a questo lebbroso, mostrando grande rispetto per le leggi, secondo le quali apparteneva ai soli sacerdoti il giudicare se un lebbroso era purificato dalla sua sozzura, o se ne era tuttora infetto. E quelli, che essi dichiaravano guariti e sanati da ogni corruzione, liberi in avvenire di mescolarsi colla società degli uomini, dovevano presentare un’offerta, se ricchi, di due agnelli, una pecora, tre misure di farina ed una di olio, se poveri di un agnello, due tortore o due colombi, ed una misura di farina ed una d’olio. – Ora, o miei cari, in questo primo fatto del Santo Vangelo d’oggi, Gesù Cristo ci adombra meravigliosamente la grande guarigione dal peccato, che opera in noi il Sacramento della Penitenza. Voi non ignorate come la lebbra sia del peccato una esatta figura. La lebbra cominciava ad avvizzire una parte del corpo, quindi stendeva a poco a poco i crudeli suoi guasti, e finiva di corrompere tutta la massa del sangue. Parimente il peccato, penetrando la sostanza dell’anima, non ne vizia subito tutte le facoltà; da principio lascia ancora sussistere un certo qual desiderio del bene, ragione per cui l’anima, rea di colpa mortale, prova tosto dei cocenti rimorsi. Ma se ella resiste a questi vivi rimproveri della coscienza, ricadrà nel peccato con piacere, ne contrarrà l’abitudine, e si sentirà quasi irresistibilmente trascinata a commetterlo con una spaventevole frequenza. In questo stato la vergognosa lebbra del peccato infetterà tutto il suo essere, la sua intelligenza, la sua immaginazione, la sua memoria, il suo cuore, la sua volontà, per cui non curando più, né Dio, né anima, né eternità, non penserà più ad altro che a contentare le sue immonde brame. Inoltre come la malattia della lebbra costringeva coloro che ne erano affetti a vivere separati dal consorzio umano, così la lebbra del peccato produce in coloro, che ne sono divenuti schiavi, la più deplorevole separazione, perciocché a cagione di questa lebbra restano separati da Dio, che non può risiedere in un cuore soggetto alla colpa; restano separati dall’amicizia degli Angeli, che non possono soffrire la vicinanza del peccatore; restano separati dalla Comunione dei Santi, i cui meriti non possono essere loro partecipati se non in un modo assai imperfetto. Ora, o miei cari, poiché chi si è ricoperto della lebbra del peccato è caduto in tanta miseria, non potrà più, quando efficacemente il voglia, uscire da questo stato infelice e guarire interamente dal suo male? Sì, senza alcun dubbio, per mezzo del sacramento della misericordia, per mezzo della Penitenza, nella quale è bensì Gesù Cristo con la sua grazia quegli, che opera in noi la grande guarigione dalla colpa e ci ridona la sanità dell’anima, ma a patto però che noi pratichiamo la legge da Lui stesso stabilita di presentarci al suo Sacerdote e di mostrargli la nostra coscienza, confessando tutte le colpe mortali, che si ebbe la disgrazia di commettere, senza nulla mascherare, senza nulla diminuire, senza nulla tacere volontariamente, e di offrire dinnanzi a lui quel sacrifizio, che Davide chiama sacrifizio dello spirito tribolato, del cuore contrito ed umiliato. Or ecco la ragione principale, per cui molti nel Sacramento della Penitenza non guariscono dai loro peccati, si macchiano anzi di nuove gravissime colpe: non praticano in esso le leggi da Gesù Cristo stabilite; tacciono volontariamente dei peccati gravi, non sentono dei medesimi un vero dolore. Ed oh Dio volesse che fosse scarso il numero di questi infelici! Ma purtroppo l’Inferno, come ebbe a veder S. Teresa, va tuttodì riempiendosi di anime innumerevoli, che vi precipitano per le confessioni malfatte. Quasi tutti i Cristiani, che si dannano, si può dire che vanno dannati per questo. Difatti, quasi tutti prima di morire hanno la grazia di confessarsi. Ma molti, avvezzi a confessarsi male in vita, si confessano male anche in morte, e così la confessione in quegli estremi momenti non è per i miseri che un passaporto per l’Inferno. Questo ci deve incutere un salutare timore, ed impegnarci a star ben in guardia, onde non succeda anche a noi una sì tremenda sciagura; epperò quando andiamo a confessarci preghiamo ferventemente il Signore, la Madonna, i nostri Angeli Custodi, specialmente perché ci diano tutta la forza necessaria per procedere col nostro confessore con tutta la sincerità ed apertura di cuore, svelandogli tutte le nostre piaghe, anche più segrete e vergognose. Usiamo poi il massimo impegno per concepire un vivo dolore e fermo proponimento, che non sia solo di semplice apparenza, ricordandoci che con Dio non si scherza e che Egli non si contenta delle belle parole, ma guarda il cuore. Allora possiamo ben avere la morale certezza che nelle nostre confessioni saremo anche noi mondati dalla lebbra del peccato.

2. Il Vangelo d’oggi ci fa poscia conoscere un’altra guarigione miracolosamente operata dal nostro divin Salvatore. Nell’entrar che faceva in Cafarnao, gli si accostò un centurione. Al pari del lebbroso diresse una prece a Colui, che da padrone comandava alle malattie ed alla morte. Ma non è per sé, che il centurione implora la bontà di Gesù Cristo: Signore, dice egli, ho in mia casa un servo che patisce assai; la malattia gli toglie l’uso delle membra: Puer meus iacet in domo paralitìcus, et male torquetur. Gesù Cristo risponde a quel padrone così compassionevole: verrò in vostra casa, e guarirò quel paralitico: Ego veniam et curabo eum. – Al pensiero che riceverà in sua casa quel visitatore divino, il centurione è confuso. Egli non ha domandato un tale onore; non merita questo incomparabile favore. Signore, esclama, io non son degno che voi entriate nella mia abitazione, ma proferite soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito, imperciocché io che sono costituito in dignità, io che ho dei soldati sotto i miei ordini, non ho che a pronunziare una parola per essere all’istante obbedito; dico all’uno: Va’, ed egli va; dico ad un’altro: Vieni, e viene; dico al mio servo: Fa’ questo, e lo fa. Ora, voi comandate a tutta la natura con autorità assai maggiore ch’io non comandi ai miei soldati. Potevasi mai riconoscere e confessare più energicamente la Divinità di Gesù Cristo? Potevasi avere in Lui una fede più viva, più umile, più ferma? Lo stesso Salvatore si mostra ammirato all’udire questa professione di fede: Audiens autem Jesus, miratus est. E volgendosi a coloro che lo seguivano, disse: In verità, ve lo dichiaro, non ho trovato fede sì grande in Israele. E quindi ricompensando tanta fede, voltosi al centurione disse: Va, e sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito. Or questo ammirabile esempio del centurione è quello, che noi dobbiamo fedelmente seguire allora che, più fortunati di lui non solo possiamo accostarci a Gesù per domandargli delle grazie, ma possiamo riceverlo dentro ai nostri cuori nella Santa Comunione. Sì, o miei cari, per ricevere Gesù nella S. Comunione è grandemente necessaria una fede, che sia viva come quella del centurione. Essendo la fede il primo movimento dell’anima verso Dio, è necessaria sommamente in tutti i misteri divini; ma è più che mai necessaria in questo, che per sua propria eccellenza s’intitola: Mistero di fede; imperocché Iddio non si è mai altrove tanto nascosto, quanto in questo. Nel mondo si nasconde Egli in vero ai sensi, i quali non vedono se non la superfice delle cose, ma si manifesta agli occhi della ragione, la quale mira Dio nelle creature, come nello specchio si mira il sole. Ma questo non può dirsi dell’Eucaristia, perché quivi, oltre al nascondersi ai sensi, si nasconde alla medesima ragione naturale, che da sé sola non può trapassar quei veli, per cui la divinità si rimane celata nell’umanità del Salvatore, e l’umanità si rimane nascosta sotto la sembianza del pane. Ravvivate dunque la fede, o miei cari, prima di accostarvi alla sacra mensa, onde possiate cibarvi con profitto di quelle carni santissime. Sforzatevi di concepire un’alta stima della maestà di quel Dio, che avete ad alloggiare nel vostro cuore, onde possiate riceverlo con gran rispetto e venerazione. Abbiate fede che ricevete quel Dio cosi grande, che, se guarda la terra la fa tremare, se tocca i monti li scioglie in nembi di fumo, e se chiama le stelle, queste, senza frapporre alcuna dimora, gli si presentano tutte luminose davanti, pronte ad eseguire ogni suo cenno… Abbiate fede che ricevete quel Dio così potente, che comanda alle onde del mare, che raffrena la furia dei venti e che domina tutta la natura… Abbiate fede che ricevete quel Dio così sublime, che abita una luce inaccessibile, ed innanzi a cui gli Angeli stessi se ne stanno col capo velato in contrassegno di gran rispetto all’infinita sua maestà… Abbiate fede che ricevete quel Dio, che né gli ampi spazi della terra, né gli abissi profondi del mare, né gli augusti tabernacoli del cielo possono contenere… Abbiate fede che ricevete il Dio d’ogni bontà e di ogni consolazione. Ma questa fede non sia solamente speculativa, bensì pratica, cioè tale che facendovi riconoscere la grandezza di Dio e la miseria vostra, vi induca al sentimento di una profonda umiltà e a dire di tutto cuore col Centurione e colla Chiesa, che si serve appunto delle sue parole: Signore, io non son degno che voi entriate in questa mia vilissima abitazione. S. Girolamo, gran dottore della Chiesa, essendo moribondo chiese il santo Viatico. Avvicinandosi alla sua stanza la santissima Eucaristia, egli si fece deporre sulla nuda terra, e poi raccolti quei pochi spiriti, che gli erano rimasti in quegli estremi, si alzò ginocchioni sul pavimento, e chinandosi profondamente e percuotendosi il petto, ricevé le carni sacratissime del divin Redentore. S. Guglielmo arcivescovo, dell’Ordine Cistercense, stando vicino a morire, domandò con grande istanza la santissima Eucaristia; e benché si trovasse sì estenuato di forze che non poteva volgersi da un fianco all’altro, anzi neppure ingoiare una stilla d’acqua, pure all’arrivo di Gesù Sacramentato balzò improvvisamente dal letto con stupore dei circostanti, ed a guisa di una fiamma languente, che in un lampo di luce subito si ravviva, andò incontro al suo Signore; più volte s’inginocchiò, più volte si chinò profondamente per adorarlo; e tra questi atti di viva fede e di umilissima riverenza lo ricevette. Riflettete infine che la fede per ricevere Gesù Cristo nella santissima Eucaristia, oltre ad essere umile, deve essere, come fu ancora la fede del Centurione, una fede ferma, sicché escluda ogni ombra di esitazione sopra sì gran mistero. Credete alla realtà di chi andate a ricevere con maggior fermezza, che se vedeste cogli occhi propri, e toccaste colle vostre stesse mani quelle carni gloriose. Quest’era la fede che aveva verso questo divinissimo Sacramento S. Luigi re di Francia. Celebrandosi Messa nella cappella reale, accadde, che nell’elevazione dell’ostia consacrata, apparve sugli occhi di tutto il popolo, ivi radunato, Gesù Cristo in forma di splendido e vago bambinello. Fu pregato il sacerdote a non ritirare le mani finché fosse avvisato il re del prodigioso avvenimento, onde avesse anch’egli la consolazione di trovarsi presente ad un sì giocondo spettacolo; e subito corsero i cortigiani alle stanze di lui per renderlo consapevole. Il santo re rispose loro così: Vada pure a mirare tali prodigi chi non crede trovarsi presente Gesù Cristo nell’ostia sacra, che io credo più che se lo vedessi cogli occhi miei; né volle partire dal suo gabinetto. Abbiate anche voi una simil fede, e non dubitate che come il Centurione ebbe per essa guarito il suo caro servo, così ancor voi dalla Santa Comunione ricaverete ammirabili effetti di santità.

3. Ma il Divin Redentore non contento di aver celebrata la fede del Centurione, volle ancora istituire un confronto tra i gentili, ai quali il Centurione apparteneva, così arrendevoli a credergli, e gli Ebrei così ostinati nel negargli fede. Epperò soggiunse: Ed io vi dico che verranno molti dall’Oriente e dall’Occidente, e sederanno nel regno con Àbramo, Isacco e Giacobbe, ma i figliuoli del regno verranno rigettati nelle tenebre esteriori; ivi sarà pianto e stridor di denti. Così adunque Gesù annunziava ai suoi Apostoli la vocazione dei gentili, e la punizione degli Ebrei ostinati. I Pagani dovevano un giorno credere alla Divinità di Gesù Cristo, come il centurione, e così meritare d’entrar nel regno de’ cieli. Molti Giudei all’opposto avrebbero ricusato di riconoscer il Messia nel re pacifico, dolce ed umile di cuore, ch’era venuto a chiamare tutti gli uomini alla cognizione del vero Dio e che dapprima aveva voluto aprire la via della salute ai figliuoli d’Israele, e ne sarebbero stati gravissimamente puniti. E qui, o miei cari, conviene riflettere come le terribili parole di Gesù Cristo si avverino purtroppo anche per molti Cristiani ai tempi nostri, i quali sembrano per tal modo prendere il posto dei Giudei. Di fatti dall’oriente all’occidente gli Apostoli di Gesù Cristo, i valorosi missionari a forza di tanti stenti, di tanti rischi, di tante pene vanno spargendo la luce del Vangelo in mezzo alle nazioni ed ai popoli più barbari e selvaggi. Eppure alla loro predicazione quegli uomini, che sembravano più indomabili, più sfrenati e più feroci delle fiere, col diventar Cristiani si sono cambiati e si cambiano tuttora in uomini celesti, in angeli terreni. Basta leggere gli annali della propagazione della fede, le relazioni dei missionari per conoscere la vivezza di fede, la purezza di vita, l’ardore di pietà, da cui quei nuovi Cristiani sono animati. E intanto mentre in quei lontani paesi avvengono questi mirabili mutamenti e si vive così cristianamente, che succede nei nostri? Ciò che succedeva fra i Giudei ai tempi di Gesù Cristo. Ormai l’indifferenza pratica per le cose di Dio, la sollecitudine continua di acquistare i beni temporali, la dimenticanza di quelli eterni, la smania degli onori, il furore dei godimenti sensibili, ha strappato da moltissimi giovani e Cristiani persino le tracce del Cristianesimo. Molti sono arrivati al punto da non curare più né culto di Dio, né Messa, né digiuni, né sacramenti, né pratiche di pietà, né divozione, né nulla che riguardi i doveri Cristiani. E così, mentre i selvaggi lontani abbracciando la fede e vivendo conforme alla stessa si guadagnano il regno di Dio, molti Cristiani di qui, dove pure avrebbero tante comodità per farsi santi, si preparano da se stessi quella terribile sentenza, per cui un giorno saranno gettati nelle tenebre esteriori, dove è pianto e stridore di denti. – Or bene, o miei cari, non ci sarà tra di noi alcuno che si trovi già nel numero di questi sventurati Cristiani, o che al meno loro si accosti? Esaminiamoci bene, e mentre siamo in tempo, con una vita tutta conforme alla fede, che Dio ci ha data, assicuriamoci un posto tra coloro che un giorno siederanno con Abramo, con Isacco, con Giacobbe, con tutti i santi nel regno dei cieli.

ALTRA OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i doveri reciproci dei padroni e dei servi

“Domine, puer meus iacet in domo paralyticus et male torquetur”.

Matth. VIII.

Ammiriamo, fratelli miei, la pietosa carità di quel centurione, di cui fa menzione l’odierno vangelo. Ha in sua casa un servo travagliato da paralisi, che lo mette fuori di stato di rendergli i suoi servigi: invece di licenziarlo come fanno oggi giorno assai padroni, che si disfanno di un servo che la malattia rende loro inutile, presso di sé lo ritiene; e siccome a nulla hanno servito i rimedi tutti che ha impiegati per guarirlo, informato del sommo potere di Gesù Cristo sulle malattie dei corpi a lui s’indirizza con la confidenza ispirata da una viva fede. Signore, gli dice, io ho un servo in mia casa crudelmente tormentato da paralisi: Domine, puer meus ec. Notiamo di passaggio la gran fede di quest’uomo: non chiede a Gesù Cristo di venire in sua casa, per guarire il suo servo, persuaso che la sua possanza non è annessa alla sua presenza, che ben può dal luogo ove è operare il miracolo: gli dice anzi di non venirvi; perché si riconosce indegno di riceverlo. Perciò la sua preghiera ebbe tutto l’effetto che ne attendeva: Gesù Cristo risanò il servo del centurione e fece elogi alla fede di quello straniero, dicendo che non avevane ritrovata una sì grande in Israello: Non inveni tantum fidem in Israel. Ma se la fede del centurione fu degna di elogio, la carità pel suo servo non ne merita meno, e ci fornisce nella sua persona il modello di un buon padrone. Si può dire ancora che il servo per cui egli s’interessa presso di Gesù Cristo meritato aveva con la sua fedeltà e con i suoi servizi una tale benevolenza dalla parte del suo padrone. E perciò, fratelli miei, nel disegno che ho d’istruire i padroni e i servi dei loro doveri reciproci a riguardo gli uni degli altri, ho creduto dover a loro proporre questi esempi del Vangelo per animarli ad adempiere le loro obbligazioni, ciascuno nel suo stato. Quali sono adunque i doveri dei padroni verso i servi? Ciò farà il primo punto. Quali sono i doveri dei servi verso i padroni? Ciò farà il secondo.

I . Punto. Bisogna che i padroni contratto abbiano di grandi obbligazioni verso i loro servi, poiché l’Apostolo s. Paolo non ha difficoltà alcuna di dire che chi non ha cura dei suoi, e particolarmente de domestici, ha rinnegata la fede ed è peggior di un infedele. Si quis suorum, et maxime domesticorum, curam non habet, fidem negavit et est infideli deterior (1 Tim. V). Quali sono dunque questi doveri dei padroni verso i loro servi? Adempier debbono a loro riguardo i doveri di giustizia, i doveri di carità, i doveri di pietà: doveri di giustizia per dar loro il dovuto alimento e salario; doveri di carità per soccorrerli nei loro bisogni e sopportarne i difetti; doveri di pietà per condurli a servir Dio ed aver cura della salute della loro anima. Tale è, padroni e padrone; l’estensione dei vostri obblighi: per compierli Iddio vi ha rivestiti della sua autorità e vi ha stabiliti capi delle vostre famiglie. Che obbligati siano i padroni per giustizia ad alimentare e pagare i loro servi, è una massima universalmente ricevuta anche nel mondo profano. Infatti, se i servi che si pongono al servizio di un padrone contraggono un obbligo stretto di servirlo in coscienza, il padrone scambievolmente si obbliga per lo stesso contratto ad alimentarli e pagar loro un conveniente stipendio. – I servi sacrificano per lo servigio del padrone la loro libertà, il loro riposo, la loro sanità, il loro tempo, i loro lavori: non è egli giusto che i padroni li nutriscono e li ricompensino a proporzione del servigio che ne ricevono? Ricusar dunque loro l’alimento o il salario non solo è peccare contro la carità, ma eziandio contro la giustizia, la quale non obbliga meno alla restituzione i padroni che fan qualche torto su questo punto ai loro servi, che se s’impadronissero dalla roba altrui. Di qual peccato non si rendono dunque colpevoli quei padroni duri e crudeli che negano gli alimenti ai loro servi o li nutriscono male, e cui rincresce vederli mangiare quel poco pane che loro danno; nel mentre che d’altra parte li opprimono di fatiche, non dando loro riposo alcuno né giorno né notte; e li trattano con più durezza che non farebbero con vili animali? Quale ingiustizia dal canto di quelli che non pagano ai loro servi gli stipendi convenuti, che ritengono la mercede degli operai che hanno per essi lavorato! E questo un peccato che domanda vendetta in cielo, dice lo Spirito Santo, siccome il sangue di Abele la domandava contro la crudeltà di Caino che assassinato lo aveva: Ecce merces operariorum, qui messuerunt regiones vestras, clamat in aures Dei (Jac. V). Non si trovano, è vero, comunemente padroni che ricusino assolutamente gli stipendi ai servi: convengono che è giusto di pagarli. Ma quanti ve n’ha che li fanno languire, ritardando loro la mercede con queste ingiuste dilazioni portando loro un pregiudizio considerabile, e privandoli di certi profitti che pur farebbero se fossero a tempo pagati! Riconoscete, padroni e padrone, l’indegnità della vostra condotta ed arrossite della vostra crudeltà; voi trascurate di pagare a quella povera gente ciò che per tanti titoli le dovete, mentre nulla ricusate a voi medesimi e fate servire ai vostri piaceri, ai vostri interessi un denaro che loro per diritto appartiene. Quanti vi ha ancora padroni ingiusti che ritengono ai servi una parte dello stipendio sotto il falso pretesto che non hanno ben servito, o con la scusa di qualche danno che loro imputano senza ragione, facendosi di tal guisa giudici in causa propria, senza volere ascoltare giustificazione alcuna dalla parte di quei meschini! Quanti che li licenziano prima del tempo per qualche legger mancamento od anche senza averselo meritato! Il che è un’ingiustizia tanto più grande, quanto che, dopo aver profittato dell’opera loro durante una stagione gravosa, li rimandano sovente in un tempo in cui trovar non possono da guadagnarsi il vitto; eccettuato per altro il caso in cui convenuto si fosse di non mantenerli che un certo tempo. È altresì un ingiustizia non voler pagar un servo, perché si parte prima del tempo fissato dall’uso o dall’accordo; fuorché se ne risentisse un danno che non si possa in altro modo riparare: poiché dev’egli essere pagato a proporzione del tempo che ha servito; il che deve anche intendersi nella circostanza che il suo partire vi cagionasse qualche danno, se egli ha giusti motivi di lasciarvi, perché obbligato non si è di servirvi a suo pregiudizio, massime con pregiudizio della salute dell’anima sua. Che però nei differenti casi di giustizia che accader possono tra i padroni e servi consultar conviene un direttore savio ed illuminato. Veniamo ora ai doveri di carità che i padroni esercitar debbono verso i loro servi. Questa carità li obbliga a sopportarli nelle loro debolezze, trattarli con bontà e dolcezza. Ed invero, se siamo obbligati a soccorrere il mendico, da cui non abbiamo ricevuto servigio alcuno, con quanto più forte ragione prestar ci dobbiamo alle miserie di un povero servo che ha sacrificata la sua sanità al nostro servigio, ed ha per noi sofferto fatiche e travagli che l’hanno logorato! Non è forse giusto, e la gratitudine non ci obbliga a dargli i soccorsi che non si ricusano neppur agli animali che ci appartengono? Se dunque questi servi ridotti sono ad uno stato di povertà, o di malattia, non dovete voi porger loro una mano caritatevole per cavarneli? Tanto più quando questo servo ha perduta la sua sanità, o perché rifiutati gli avete i necessari alimenti o perché l’avete aggravato di soverchie fatiche; allora non la carità soltanto, ma la giustizia ancora vi obbliga in tal caso a dargli soccorso. – Io so che la maggior parte dei padroni sono molto caritatevoli per soccorrere un servo nella sua malattia: ma quanto è raro che la carità non si raffreddi quando il male dura un qualche tempo! Cercasi ben tosto di disfarsene, come di un peso insopportabile, di una persona divenuta inutile. Ma quanto diversamente operereste, fratelli miei, se la vostra carità rassomigliasse a quella del Centurione del Vangelo, che teneva in propria casa il suo servo, benché paralitico: iacet in domo mea paralyticus! Quanto diversamente operereste, se riguardaste il servo come una persona di cui Dio vi ha confidata la cura, e se consideraste le grandi ricompense che Dio promette ad una carità la quale non ha altri limiti che il potere di colui che la fa! Questa carità vi obbliga ancora a sopportare i vostri servi nei loro difetti, a trattarli con bontà e dolcezza. Convien confessarlo, fratelli miei, è molto da compatire la condizione dei padroni con certi servi; gli uni sono lenti e poltroni e fanno a stento quanto loro si comanda; gli altri sono pronti e violenti e montano in collera per una parola che loro si dica; questi non hanno attenzione alcuna pei vostri interessi, quelli nessuna inclinazione per lo servizio di Dio. I più vi mancano di rispetto o vi lacerano con le loro maldicenze; ben pochi v’ha che vi servano con affetto e da cui non abbiate qualche sgarbatezza, qualche maniera spiacevole a sopportare. Ma che partito prendere? Congedarli quando lo meritano, la prudenza l’insegna, e la religione anche lo comanda in certe occasioni, come dirollo in appresso: ma cangiar sempre servitori egli è un cadere in inconvenienti talvolta maggiori di quelli che vogliamo evitare. È dunque necessaria la carità per sopportare i difetti, le imperfezioni di quelle persone da cui attender non dovete l’educazione tutta che potreste aver voi. Voi che siete spirituali, dice s. Paolo, che siete ragionevoli, date loro avvertimenti con spirito di dolcezza, considerando voi medesimi nelle loro infermità, in cui potete voi come essi cadere; sopportate con pazienza e con umiltà quei che non potete schivare, e con ciò adempirete la legge di Gesù Cristo: et sic adimplebitis legem Cliristi (Gal. VI). Voi corregger potete i vostri servi, siete anzi in ciò obbligati; ma guardatevi bene dal servirvi di quelle parole dure ed ingiuriose di cui si servono certi padroni che trattano i loro servi come schiavi, cui essi credono troppo felici di essere al loro servigio, che vorrebbero umiliarli sotto di sé come vermi della terra; che, non parlando mai loro se non con isdegno ed in un modo fiero ed orgoglioso, li caricano di maledizioni, d’imprecazioni; che su di essi affettano un imperio tirannico, di cui fan loro sentir il rigore coi cattivi trattamenti; che sfogano anche sovente (dirollo?) con furore sopra i poveri servi la stizza che loro cagiona una disgrazia, il cattivo esito di un affare, una perdita che han fatta nel giuoco o altrimenti, come se i loro servi ne fossero la cagione. Bisogna poi meravigliarsi se questi padroni sono sì mal serviti, sì spesso screditati, e se tener non possano alcun servo? Ricordatevi, padroni e padrone, che quantunque elevati voi siate per la vostra condizione al di sopra dei vostri servi, essi sono vostri fratelli Cristiani, hanno lo stesso Dio per padre, la stessa Chiesa per madre, lo stesso cielo per retaggio. Voi dunque dovete amarli, sopportarne i difetti., perdonar loro i mancamenti di fragilità. Il vostro grado vi dà diritto di comandar loro con autorità, ma non già d’insultarli con orgoglio. Voi non dovete addomesticarvi con essi, ma neppur dovete disprezzarli. Amateli come vostri figliuoli, date loro segni di una carità benefica: vi troverete il vostro proprio vantaggio, perché ne sarete meglio serviti. Ma voi dovete operare per un motivo ancora più nobile e più eccellente; Iddio medesimo deve essere il vostro fine, e se voi la amate per Dio, li impegnerete a servirlo, procurerete loro il più grande di tutti i beni, la salute dell’anima; ecco il dovere della pietà cristiana che devo ancora spiegarvi. No, non è solamente per esser serviti dai vostri servi che Dio vi ha data su di essi l’autorità, voi dovete inoltre valervi di quest’autorità per obbligarli a servir Dio, il primo di tutti i padroni. Impiegar voi dovete le vostre cure tutte per procurare la salute della loro anima poiché se si perdono per colpa vostra, voi ne risponderete avanti a Dio; è l’Apostolo s. Paolo che lo insegna, allorché, ammaestrando gli inferiori dei loro obblighi verso i superiori, raccomanda loro di ubbidirli come persone che vegliar devono su di essi e render conto a Dio delle loro anime: Obedite præpositis vestris; ipsi enim pervigìlant, quasi rationem prò animabus vestris reddituri (Heb. XIII). Ora come debbono i padroni adoperarsi alla salute dei loro servi? di quali mezzi debbono a ciò valersi? Questi mezzi sono l’istruzione, la correzione ed il buon esempio. Voi dovete, padroni e padrone, considerare i servi quali vostri figliuoli; è un’opera stessa istruire così quelli come questi. Voi potete, dice s. Agostino, dare miglior pane materiale a questi che a quelli; ma dar dovete agli uni e agli altri lo stesso pane spirituale, che è l’istruzione; dovete riguardarvi come gli Apostoli e i pastori delle vostre case, per fare ivi render a Dio il culto ed il servigio a Lui dovuti. Ora come mai i vostri servi sapranno servir Dio, se non sono istruiti? Convien dunque loro, insegnare il modo di pregarlo ed obbligarli a ciò fare mattina e sera, bisogna altresì istruirli dei misteri della nostra santa Religione; e se voi capaci non siete di far loro queste istruzioni, mandarli a quelle che si fanno in chiesa o da persone che possan loro farle. È una carità tanto più grande istruire i poveri servi quanto che la maggior parte vive in una grande ignoranza anche dei primi elementi della nostra santa Religione. Sono talvolta figliuoli abbandonati dai loro padri e madri sin dalla loro tenera età, che hanno errato da un luogo all’altro, senza trovar alcuno che prendesse cura di loro. Oh quanto ben impiegati sono i momenti che si spendono nell’istruirli! Molti ve ne avanzano che impiegare almen potreste in un’opera si buona, principalmente nelle stagioni in cui non si lavora, la sera insegnar loro il catechismo o farlo da essi recitare, è un’opera di misericordia molto più grata a Dio che dare del pane ad un povero che ve lo chieda alla porta. Sono questi altrettanti poveri di spirito che vi domandano e che hanno bisogno del pane della parola. Distribuite loro dunque questo pane celeste per nutrirli nella loro fame, per dissipar le tenebre dell’ignoranza in cui sono involti. Ma non vi contentate delle istruzioni che loro farete: voi far dovete in guisa che assistano alla Messa, massime i giorni di festa, agli uffizi, alle prediche, al catechismo, che frequentino i Sacramenti nelle feste solenni, e principalmente che non manchino al precetto pasquale. Perciocché se qualcheduno ne avete sì poco di religioso che non voglia ad un tal obbligo soddisfare, voi non dovete tenerlo. Io intendo, dovete loro dire, non avere che buoni Cristiani al mio servigio, non gente senza Religione, gente viziosa e dissoluta; e perciò unir conviene la correzione all’istruzione per reprimere i loro disordini allorché ve vengono osservati. Non tollerate loro dunque alcuna parola disonesta, alcuna canzone profana, alcuna bestemmia, alcuna mormorazione: vegliate affinché non frequentino cattive compagnie, non abbiano alcuna confidenza peccaminosa né tra essi né con persone estranee, non si trattengano ad ore indebite per involarsi alla vostra vigilanza: vegliate principalmente affinché non vi sia tra i vostri servi e i vostri figliuoli alcuna di quelle amicizie, di quelle compiacenze e di quelle familiarità che degenerano spesse volte in libertinaggio: una troppo grande confidenza tra i figliuoli e i servi è ordinariamente lo scoglio fatale dell’innocenza degli uni e degli altri. Un lupo in un ovile non fa tanto danno, come un cattivo servo in una casa: la ragione è evidente; i figliuoli sono più sovente coi servi che coi loro genitori; non si mettono in soggezione alla loro presenza ed hanno con essi più familiarità; onde ne viene che un servo dissoluto, impudico, bestemmiatore, collerico comunica ordinariamente i suoi vizi ai figliuoli. Perciò convien ben guardarsi dal ricevere al suo servizio certi servi vagabondi, i quali errando, da un luogo all’altro, v’hanno appreso tutto ciò che era di cattivo e di contagioso, e quindi lo comunicano dappertutto dove si trovano. Informatevi dunque, padri e madri, donde vengono cotali servi, dalle persone che hanno servito, affine di non ricevere di quelli che siano bestemmiatori, disonesti, rapaci, dissoluti. Che se malgrado le vostre più esatte ricerche ingannati vi siete, o se questi servi si pervertiscono in casa vostra, se si lasciano uscir di bocca parole libere; in breve, se non si diportano come debbono, convien riprenderli severamente, minacciar loro di cacciarli, se non si correggono; e se malgrado le vostre correzioni, e le vostre minacce persistono nei cattivi abiti, bisogna licenziarli, e chiuder loro l’entrata delle vostre case, dicendo ad essi che non volete al vostro servizio cattivi Cristiani. Ed è tanto più importante per voi avere servi savi e virtuosi, quanto che trarranno su di voi le benedizioni del Signore, come Labano diceva a Giacobbe: Conosco che Dio benedice la mia casa dappoi che tu sei meco. Questi buoni servi guideranno i vostri figliuoli alla virtù col buon esempio: laddove i cattivi servi, oltre lo scandalo che daranno ai vostri figliuoli, trarranno su di voi la maledizione del Signore. Nulla dunque risparmiate, padroni e padrone, per aver buoni servi o per render buoni quelli che avete. Impiegate a questo effetto non solamente l’istruzione, la correzione, ma più ancora il buon esempio; mentre questa è la voce la più forte per persuadere la virtù. Fate voi i primi ciò che volete facciano i vostri servi, cioè vivete da buoni Cristiani, ed essi faranno volentieri quanto comanderete per la loro salute. Come mai persuaderete loro l’assiduità all’orazione, ai divini uffizi, l’uso frequente dei Sacramenti, se voi medesimi trascurate questi pii esercizi? Come li correggerete dei loro vizi, essendo voi medesimi viziosi e forse più ancora di essi? Risponderanno alle vostre riprensioni ciò che dicesi comunemente: medico, comincia dal guarire te medesimo, medice, cura te ipsum. Laddove, se voi sostenete le vostre correzioni col buon esempio, esse diverranno loro profittevoli, e voi ne farete dei santi e virtuosi servi. Da questi principi, su cui abbiamo stabilito la cura, che i padroni prendere devono della salute dei propri servi, qual funesta conseguenza ne viene contro quelli che non si mettono in pena della loro salute più che se non avessero anima. Purché siano ben serviti, non s’informano se i servi loro servono Dio: che dico? non li distolgono fors’anche dal servizio di Dio, non lasciando loro neppure il tempo di far orazione, di ascoltare una Messa, di frequentare i Sacramenti, d’assistere ad una predica, ad un’istruzione, dove si lamentano sempre che vi siano di troppo trattenuti? Non si trovano anche di quei padroni senza Religione che impiegano i propri servi in opere servili nei giorni di festa, senza lasciar loro alcun tempo per adempiere ai doveri di Cristiano? Sappiate, o padroni e padrone, metter limiti al vostro potere: il tempo dei vostri servi è vostro, è vero, ma Dio, che è il primo padrone, esser deve servito pel primo. Quanti altri padroni indolenti sopra la salute dei propri servi, che non li correggono dei loro difetti? Si affliggeranno, si adireranno contro un servo che abbia mancato di puntualità a servirli o a mensa o in qualche altro bisogno, che abbia trascurato un uccello od altro animale favorito, o che sia caduto nella minima incongruità, e non diranno pur una parola sulle loro frequenti cadute nel peccato, sulle loro bestemmie, sulle loro dissolutezze, sulla loro infedeltà nel servizio di Dio. Tollereranno, perdoneranno tutto ad un servo, quantunque vizioso, perché, dicono essi, è necessario, accorto, cortese; non sarà forse altresì perché è l’oggetto di una passione peccaminosa? Ma qual più funesta conseguenza ancora qui si presenta contro quei padroni che non solo trascurano la salute dei loro servi, ma li precipitano nell’abisso di una dannazione eterna, dando loro cattivi consigli, impegnandoli in occasioni di peccato, rendendoli complici dei propri disordini, servendosi dell’autorità che hanno su di essi per fare ingiustizie al prossimo, per mantenere una pratica, un intrigo, o anche rendendo quei poveri servi vittima delle loro passioni peccaminose, cui li fanno soccombere con preghiere, con sollecitazioni, con minacce, (dirollo?) con violenza e cattivi trattamenti! Ah! poveri genitori, che credete mettere i vostri figliuoli in luogo di sicurezza, confidarli a padroni virtuosi, sarebbe meglio tenerveli in casa che abbandonarli in tal modo al furore di lupi rapaci. Quanto a voi, padroni scellerati, che invece di contribuire alla salute dei vostri servi, li strascinate nel precipizio, qual conto non renderete a Dio delle anime loro ch’egli vi ha affidate per salvarle? Come? vi dirà il Signore, voi avete prese tutte le precauzioni per farvi ben servire dai vostri servi, e nessuna cura preso vi siete per farmi rendere da essi il culto che mi era dovuto? Al contrario voi allontanati li avete dal mio servigio per impegnarli nelle vie dell’iniquità coi vostri perniciosi esempi, con le vostre sollecitazioni peccaminose: rendetemi conto di queste anime da voi perdute.

Pratiche. Temete, padroni e padrone, procurate di risparmiarvi sì terribili rimproveri; giacché la vostra salute dipende in qualche modo da quella dai vostri servi, impiegatevi tutte le vostre cure. Non vi contentate di provveder ai bisogni del corpo con l’alimento e col salario che date loro; non vi contentate di soccorrerli nelle loro necessità, di sopportarli nei loro difetti; ma provvedete ancora ai loro bisogni spirituali con l’istruzione, con la correzione, con il buon esempio; abbiate cura che facciano la loro preghiera mattina e sera, fatela lor fare con voi in comune: questa preghiera sia seguita dalla lettura spirituale: è bene le feste e le domeniche di leggere o far loro leggere un articolo del catechismo: abbiate cura che assistano agli uffizi, alle istruzioni, che frequentino i Sacramenti, le adunanze di pietà; riprendeteli dei loro difetti; non tollerate le loro libertà o conversazioni pericolose; in una parola, fate in guisa che si diportino da buoni Cristiani. Salvando i vostri servi, salverete voi medesimi, ed avrete per ricompensa la gloria eterna. Veniamo ora ai doveri dei servi verso i loro padroni.

II. Punto. Tre qualità sono necessarie ad un buon servo: il rispetto, l’ubbidienza e la fedeltà. La ragione ne è evidente. I padroni rappresentano nella loro famiglia la persona di Dio, ne tengono le veci, convien dunque che siano rispettati dai loro servi. I padroni non prendono servi né li alimentano né danno loro stipendi che a patto d’esserne serviti; è dunque necessario che questi servi facciano la volontà dei padroni e li ubbidiscano in tutto ciò che loro comandano. Finalmente i padroni affidano le loro case e i loro beni ai servi: bisogna dunque che questi siano fedelissimi. Tali sono, o servi, gli obblighi del vostro stato; istruitevene per adempierli. Voi dovete rispettar i vostri padroni perché tengono le veci di Dio, che loro ha dato autorità sopra di voi. É l’Apostolo s. Paolo che ve lo dice, avvisandovi di riguardare piuttosto Dio vostri padroni che gli uomini: Sicut Domino, et non hominibus (Eph. VI). Benché poveri, benché viziosi siano i vostri padroni, bastivi sapere che rappresentano la Persona di Dio, che la loro condizione li innalza al di sopra di voi e che la vostra vi mette in uno stato di dipendenza dalla loro autorità per render loro ogni vostro rispetto; se voi gliene mancate, a Dio stesso mancate, di cui tengono le veci. – Lungi dunque quei servi fieri ed orgogliosi, i quali sotto il pretesto che i loro servigi siano grandemente necessari in una casa, trattano i propri padroni non solamente come se fossero loro uguali, ma come loro inferiori, giungendo talvolta a tal segno d’insolenza di disprezzarli, beffarsi, dei loro difetti, dir loro delle ingiurie: lungi quei servi superbi, i quali credendosi più perfetti dei loro padroni, soffrir non possono d’esser dai medesimi ripresi dei propri difetti, si beffano di quanto loro si dice, far non vogliono se non ciò che loro piace, rispondono con baldanza ad un padrone, ad una padrona che li avvertono dei toro doveri, che essi sanno benissimo quel che han a fare, che ciascuno deve pensare a sé. Quante volte non li avete intesi farvi queste repliche temerarie, che son un effetto della loro superbia, indocilità e irreligione? – Che diremo altresì di quelle serve altere e sfrontate, le quali prevalendosi dei lunghi servigi che renduti hanno in una casa o della rea condiscendenza dei padroni che ne fanno l’oggetto delle loro passioni, trattano una padrona con l’ultimo disprezzo, la opprimono d’ingiurie, o non possono né vederla né soffrirla? Ah! non meritano forse di essere trattate con più di rigore che l’insolente Agar serva di Abramo, che si burlava di Sara sua padrona, e che per questo motivo fu vergognosamente cacciata, costretta di andar in un bosco col suo figliuolo Ismaele, dove provò i rigori di una trista sorte, della fame, della sete e della più dura indigenza? Sarebbe questa la minima pena che meriterebbero queste serve orgogliose: felici ancora, se dopo aver imitato Agar nella sua condotta, l’imitassero nella sua penitenza, riconoscendo, come ella l’autorità delle loro padrone, rendendo loro il dovuto rispetto e correggendosi dei propri difetti. Apprendete, o servi, chiunque voi siate, per quanto abili, per quanto utili e necessari esser vi crediate in una casa, che voi siete sempre in uno stato di dipendenza e conseguentemente che dovete sempre rispettare i vostri padroni come Dio medesimo, che dovete loro dare in ogni occasione sia nelle vostre parole, sia nella vostra condotta, segni della vostra venerazione. Ma voi dovete principalmente dimostrare questo rispetto con una intera e perfetta ubbidienza in quel che comandano, purché i loro ordini non siano contrari alla legge di Dio. È sempre l’Apostolo s. Paolo che v’istruisce. Servi, dice egli, obbedite ai vostri padroni secondo la carne, di qualsivoglia qualità e condizione siano; fossero ben anche pagani, voi siete obbligati ubbidir loro: Servi obedite Dominis carnalibus (Eph. V). Ma come dovete ubbidire? Imparatelo dal medesimo Apostolo. Ubbidite loro con timore e con semplicità di cuore, come a Gesù Cristo, non servendoli solamente quando hanno gli occhi sopra di voi, come se non pensaste che a piacere agli uomini, non ad oculum servientes, quasi hominibus placentes (Eph. VI); ma fate di buon cuore, come i servi di Gesù Cristo, quanto Dio da voi richiede, serviteli con affetto, non considerando gli uomini, ma il Signore, che renderà a ciascuno la ricompensa di tutto il bene che avrà fatto. E sempre la dottrina del grande Apostolo; il quale abbassandosi a dare istruzioni alle persone del vostro stato, non l’ha già riguardato come incompatibile con la salute; al contrario lo reputa come uno stato in cui potete santificarvi, purché ne adempiate i doveri, cioè siate rispettosi, sommessi, ubbidienti ai vostri padroni, e di una ubbidienza pronta, volontaria, disinteressata, puntuale, poiché se non ubbidite che brontolando, mormorando, per forza, se non obbedite che per mire d’interesse, senza alcun riflesso a Dio, la vostra ubbidienza non gli è gradita, essa perde avanti a Lui tutto il suo merito.Ah! poveri servi, apprendete quivi il segreto di santificarvi e di diventar anche gran santi, benché non facciate gran cose. Il vostro stato è penoso, umiliante, ne convengo; costa molto l’ubbidire a padroni che operano talvolta per bizzarria e per capriccio, che sebben superiori, non sono ragionevoli; costa molto il sopportare non meritati rimproveri, far delle cose contro la propria inclinazione, in una parola, soggettare la sua all’altrui volontà: ma in questo appunto voi provate molte occasioni di meritar il cielo e di meritarlo a meno costo e in una maniera più sicura che in uno stato più alto. Voi siete primieramente nella vostra sfera meno esposti ad offender Dio, non avendo tutti gli scogli delle tentazioni che si trovano nella condizione di quelli che dominano sopra gli altri; voi non correte rischio di perdere la vostra anima pel cattivo uso dei beni, poiché avete appena il necessario; né di perdere la vostra innocenza pei piaceri, poiché non provate spesso che rigori e croci. Si tratta dunque per la vostra salute di soffrire per amor di Dio le pene annesse al vostro stato, di fare la volontà dei vostri padroni come quella di Dio. voi siete molto più sicuri di fare la volontà di Dio ubbidendo che comandando; non si comanda sempre secondo l’ordine di Dio; ma quando si ubbidisce, purché non sia in cose contrarie alla buona salute, si fa sempre quel che Dio vuole, perciocché se i vostri padroni fossero scellerati per comandarvi cose vietate, voi non dovete loro ubbidire, come se vi comandassero l’ingiustizia, la vendetta, se vi sollecitassero a qualche azione indegna di un Cristiano. Allora conviene dir loro, che avete un Padrone cui dovete prima che ad essi ubbidire: che amate meglio incorrere la disgrazia degli uomini che quella del vostro Dio; e che, per piacere agli uomini, cessar non volete di esser servi di Gesù Cristo: Si hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. 1). Oltre il rispetto e l’ubbidienza, debbono i servi ai loro padroni ancor la fedeltà. É questa una delle più belle qualità di un servo; poiché lo Spirito Santo ci assicura che quando si trovi un servo fedele, bisogna riguardarlo come un fratello, come un altro sé stesso. Ora questa fedeltà rinchiude molte cose : 1.° deve un servo dimostrare la sua fedeltà nella ritenutezza a favellare; vale a dire, rapportar non deve ciò che accade nella casa del suo padrone, per non rivelare i suoi difetti, né quelli dei figliuoli, né farecattivi rapporti che sono la cagione ordinaria dei contrasti, delle inimicizie coi congiunti e coi vicini. L’uomo non ha nemico più crudele che i suoi servi, allora quando sono sì indiscreti da tradire i segreti del padrone, dire quanto si passa in una casa. Felice il servo che ha posto un freno alla sua lingua e che sa osservar il silenzio! Egli è stimato da Dio e dagli uomini. Vi sono nondimeno certe occasioni in cui è opportuno ed anche necessario che un servo parli dei disordini che accadono in una famiglia. Ma a chi? A quelli che devono rimediarvi. Allorché, per esempio, i figliuoli prendono cattiva piega, frequentano cattive compagnie, e i padri e le madri l’ignorano, è bene informarli; come altresì dei disordini che accadono tra gli altri servi: ma usar conviene molta prudenza in queste occasioni; bisogna essere sicurissimi dei fatti, e guardarsi dall’operar per passione, per prevenzione, per gelosia; il che è cosa ordinaria nei servi; l’uno, per farsi ragione, dirà che l’altro fa contro di lui falsi rapporti, procurerà di menomarlo nella stima del suo padrone, il che cagiona talvolta grave pregiudizio. Dare devono ancora prova della loro fedeltà con la sobrietà, non appagando la propria golosità con vivande di cui i padroni non hanno loro permesso l’uso: questa fedeltà li obbliga ad invigilare alla conservazione dei beni dei loro padroni, ed avvertirli quando si fa loro danno: esser devono diligenti per nulla perdere di quanto spetta ai loro padroni, ed esatti a non disporne contro la loro volontà e senza il loro consenso. Finalmente deve la loro fedeltà risplendere principalmente dell’amministrazione dei beni a loro dati, sì che niente ritengano per sé sotto pretesto dell’industria che hanno avuta nel farli vendere, di un buon mercato che avranno fatto, oppure sotto pretesto di compensazione del salario che sufficiente non credono e proporzionato al loro servire. Quando un servo ha scapito, chieder può qualche cosa di più o provvedersi di una condizione migliore, ma non già farsi da se stesso giustizia. Finalmente i servi devono esser fedeli nel loro lavorio, e lo stesso dir bisogna di tutti gli operai che sono al servizio di un padrone: vale a dire, impiegar devono nel lavoro il tempo che la ragione ed il salario richiedono, lavorare con ugual fedeltà in assenza del padrone come in sua presenza. Imperciocché se un servo o un operaio perde un tempo considerabile in frivoli trattenimenti, in conversazioni inutili, e non si occupa come deve; se un artefice non fa un lavoro della natura e qualità di che è convenuto col padrone, gli uni e gli altri non possono in coscienza farsi pagare, come se avessero ben lavorato; e se lo fanno, obbligati sono alla restituzione a proporzione del tempo perduto e del difetto del lavoro: il che esser deve dalla prudenza regolato.

Pratiche. Finisco, fratelli miei, esortandovi con l’Spostolo s. Paolo a diportarvi in un modo degno di Dio nello stato a cui vi ha chiamati. Avete voi servi cui comandare? Riguardateli come vostri fratelli e non come schiavi; date loro tutti gli aiuti che la giustizia e la carità da voi richiedono, sia alimentandoli, pagando loro lo stipendio, sia soccorrendoli nei loro bisogni e nelle loro malattie e sopportando con pazienza i loro difetti: rendete loro il giogo che portano soave e leggiero con una bontà compassionevole: abbiate cura principalmente della salute della loro anima, che Dio vi ha confidata: istruiteli, correggeteli e date loro buon esempio. Siete voi servi? servite fedelmente i vostri padroni; abbiate per essi il rispetto, l’ubbidienza, la fedeltà che Dio da voi domanda, è questo il mezzo di santificarvi nel vostro stato. Evvi un Padrone che voi servir dovete a preferenza di tutti; di modo che, se i padroni della terra vi domandano qualche cosa che incompatibile sia col servizio del Padrone del cielo, la volontà di Dio sia l’unica vostra regola. Se vi sollecitano a qualche azione vietata dalla legge del vostro Dio, dite come il casto Giuseppe: Come potrò io essere infedele al mio Signore? Quomodo possum peccare in Dominum meum (Gen. XXXIX)? Se nella condizione in cui siete compier non potete i doveri di Cristiano; se questa condizione è per voi occasione di peccato e di dannazione, sebbene sia altronde per Voi vantaggiosa, foste anche nel caso di farvi la più brillante fortuna, bisogna lasciarla e sacrificar tutto alla vostra salute; la vostra anima esser vi deve più cara di tutto il restante. È meglio esser povero e miserabile in questo mondo per esser eternamente felice in cielo, che esser felice sopra la terra per esser eternamente riprovato nell’inferno. Voi poi che non siete nello stato dei padroni né dei servi ricordatevi che avete un gran padrone a servire un Dio da glorificare un inferno da evitare, un paradiso da guadagnare. Io vel desidero. Così sia.

 Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps CXVII: 16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

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Communio

Luc IV: 22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio

Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (95)

-Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (6)

CAPO VI.

Si prova che il mondo né fu lavoro del caso, né poteva essere.

I. Le fiere, quanto sono più stolide a dar nei lacci, tanto sono più salde a volerli rompere dappoiché vi sono incappate. Ma che? con ciò non fanno altro che strignerli di vantaggio, e non se ne avveggono. Mirate se non è ciò quel che avviene degli ateisti. Danno in falsità strabocchevoli, e per uscirne, sempre poi s’intrigano più: stretti però da maggiori difficoltà, perché vorrebbero scuotere le minori. – Veggendo essi dunque, non potersi da loro senza stoltizia negar che il mondo sia fatto; sia fatto, dicono, ma chi però ci necessita a riconoscere altro fabbro che il caso? Con ciò si salva, che non abbia l’esser dal nulla. Con ciò si salva, che non abbia l’esser da sé. E con ciò salvasi, che né anche abbia l’essere da alcun Dio; mentre il caso è bastevole a fare il tutto.

I.

II. Ed ecco (chi ‘l crederebbe)? ecco che vago di mantenere il credito a questo cieco esce fino in campo un Democrito, tanto pazzo, che rideva sempre, e solo in ciò savio, se arrivava anche a ridere di se stesso. Io non mi dolgo tanto di lui, quanto di chi gli die titolo di filosofo, mentre non si meritava né anche quel di poeta, fingendo egli non pure l’inveriosimile ad essere intervenuto, ma fino l’impossibile a intervenire. Si divisava costui, che prima di questo mondo sino ab eterno, non vi fosse altro, che un infinito popolo di corpicciuoli volanti, ma sì piccini, che a schierare mille di loro potrebbe facilmente servir di piazza la minuta punta di un ago. Questo numero senza numero di corpuzzi, quanto impercettibili nella mole, tanto impareggiabili nella forza, aggirandosi casualmente, or qua, or là, per immensi spazi dopo un corso d’infinite combinazioni spropositate, finalmente abbatteronsi a dar nel segno: perché concorrendo accidentalmente a congiungersi in modo bello, formarono questa fabbrica sì stupenda, chiamata mondo. Ed eccovi i materiali di tanta

macchina, gli atomi; eccovi i lavoranti, il moto; eccovi l’ingegnere , il caso. Parve ridicoloso ad un Aristotile ( L . 2 . phys. c. 6. et 9) l’affaticarsi in mostrare che il mondo non fu operazione fortuita, ma intesa dalla natura, cioè da un’arte sommamente avveduta ne’ suoi lavori: onde sarebbe più spediente trattar Democrito come lo trattarono i suoi cittadini, i quali invece di mettersi a rifiutare con le risposte de’ saggi queste sciocchezze di lui, diedero anzi a curar lui stesso ad Ippocrate con l’elleboro, come si curano i matti. Nondimeno, perché le larve trovano spesso più passionati amatori, di quelli che ne ritrovi la verità, mi farò lecito, a vostro preservamento, di avvilir la ragione fino a tal uso di riprovare i deliri.

II.

III. Ditemi dunque, se voi date loro adito nel cuor vostro: chi fè questi corpuscoli, chi gli schiuse, e sotto qual macina si stritolò questa farina volatile, di cui sono impastate tutte le cose? Si fecero forse gli atomi da se stessi? Se così è, operarono dunque prima che fossero e comunicarono l’essere a se medesimi innanzi di possederlo. Furono prodotti da qualche cagione estrinseca? Ma da quale? Converrà pure confessare una volta, malgrado vostro, questo fattore sovrano, cioè questo fattore, che non sia fatto: e converrà prostrarsi al trono di lui, dopo di avere follemente tentato di atterrarlo con queste baliste di nebbia (L’atomo, quale lo intende il fisico, non gode di una vera e reale esistenza in natura, essendoché egli ammette la divisibilità della materia all’infinito, epperò l’atomo, essendo indivisibile (come suona l’etimologia stessa del vocabolo, ma oggi abbiamo pure le particelle subatomiche, i protoni, i neutroni, gli elettroni, i muoni, leptoni, i quanta etc. etc. … che guazzabuglio!) non è materia. Come adunque potranno gli atomi aver dato origine ai corpi della natura, secondo le pretese di Democrito e dei materialisti?).

IV. No, ripiglia Democrito, timoroso che voi qui vi diate per vinto; sono increati questi atomi, sono eterni, ed hanno da se medesimi tutto l’essere. Adunque a questi minimi corpicciuoli, che appena sono, competerà, per sentenza degli ateisti, il più bel fregio che inghirlandi la fronte di un Dio regnante, che è il non conoscere cagione alcuna di sé, e il dovere solamente a sé la sua essenza, la sua esistenza; cosa, che, come abbiamo veduto, non può competere neppure all’istesso universo. – Questo sarebbe annullare un Dio per introdurre, lui per dir, tanti Dei, quanti sono quei corpuzzi di cui si forma la macchina mondiale. Senzaché, quale occupazione ebbero mai questi atomi sì felici per tutta l’eternità? Sono iti sempre vagando? Dunque avranno fatte altre volte in questo gran teatro altre congiunzioni, altre comparse, altre scene ammirabilissime, ed avranno intrecciandosi fatti nascere verisimilmente altri mondi, poscia iti in fumo. Hanno dunque sempre posato a guisa di languidi? Ma chi die’ loro pertanto la prima mossa? qual tamburo, qual tromba risvegliò quell’esercito addormentato? quale fu il sergente che lo ripartì a schiere a schiere? e quale il capitano che il precedette in così belle ordinanze? L’esperienza dimostraci che i corpi

non viventi non sono capaci di produrre da sé fuor che un moto solo: dalla circonferenza al centro, se sono gravi, e dal centro alla circonferenza, se hanno qualche principio di leggerezza (Bella osservazione contro la generazione spontanea.). Qual motore adunque fu quello che loro impresse quei movimenti sì vari, senza cui non poteva risultare tanta diversità di manifatture? dacché, non differendo gli atomi l’un dall’altro, senonché nella figura, non possono avere in sé quelle inclinazioni sì opposte che vi vorrebbero ad accozzarsi in sì differenti miscugli. Basilio imperadore di Oriente, avendo in una battaglia disfatti i Bulgari, usò con quindicimila di loro prigioni di guerra questa insolita crudeltà di cavarne a ciascuno gli occhi. Ma che? a tanta crudeltà mescolò questa lieve misericordia, di lasciare ad ogni cento di loro uno con un sol occhio, che servisse agli altri di guida nel ricondursi alla patria (Tursell. Epit.). Non così al certo Democrito e i suoi seguaci. Questi, molto più crudi, ad un esercito innumerabile di atomi per sé ciechi, non assegnano neppure una guida sola veggente, che gl’indirizzi, ma vogliono che a tante falangi immense di ciechi faccia la scorta nei viaggi un più cieco di tutti loro; la faccia il caso. Ecco però che vuol dire essere ateista! Vuol dire, non credere una verità sommamente bella, per credere infinite menzogne ridicolose. E voi prezzerete una sì misera libertà, quale han questi, dal vincolo della fede? Veramente sono essi liberi, non vel niego: ma liberi, come resta un vascello in mare, quando scosse le gomene, con cui l’ancora il tenea fermo, non altro può conseguire fra le tempeste, che rompere al primo scoglio. Veggiamo però se la ragione fosse bastante a rimetterli in miglior senno.

III.

V. Ma prima di ogni altra cosa, conviene che tra noi stabiliscasi unitamente ciò che sia caso, perché da ciò si vedrà se mai sia stato possibile che egli fosse l’ingegnere dell’universo. Caso non è altro che una cagione accidentale di qualche effetto, il quale avviene di rado; e quando avviene, è sempre fuori di ciò che dall’operante intendevasi, o antivedevasi (Arist. 1. 1. phys. c. 7). Eccone pronto l’esempio. Avicenna, medico illustre, dopo avere più anni letti e riletti tutti i volumi di sottilità metafisiche, noti a lui, determinò di abbandonare lo studio di detta scienza, tanto gli parve superiore alla propria capacità. Quando giunto un dì su la piazza per sue faccende, vi trovò un rivendugliolo, che dava libri vecchi a prezzo vilissimo. Allettato da tanta facilità, diede Avicenna tre giuli, ed ebbe per essi un volume insigne, di cui non aveva contezza, che era la filosofia commentata da Albumasarre. Lessela, e quindi ricavò tanta luce, che a divenir metafisico sublimissimo non ebbe bisogno più di altro direttore (Theat. Vet. v. 21. 1. 4). Questo incontro sì favorevole è caso, perché rarissimo, non solendo avvenire comunemente, che dal portarsi ad una piazza procedano tali acquisti: ed è caso perché impensato, mentre Avicenna non andava alla piazza per comperare de’ libri, vi andava per comperarsi da desinare. Or quale mai di queste due condizioni voi mi addurrete nella costituzione dell’universo, por dimostrarmi che sia prodotto dal caso? E quivi non vediamo risultare un effetto, cui la natura non abbia posto il suo mezzo per ottenerlo, e mezzo diretto. E quivi non vediamo che da tal mezzo risulti quell’effetto una volta o un’altra: vediamo che ne risulta ordinariamente. Se però queste non sono opere d’arte, quali saranno? Piuttosto su i due principii, pur ora da me additativi, come su due salde basi, abbiamo ad innalzar tali macchine contra il caso, che cada giù sprofondato. Comincisi dalla prima

(Il vocabolo caso è negazione di intelligenza e di ordine, o sinonimo di ignoranza per parte nostra, giacché noi lo adoperiamo tuttavolta che non ci riesce di conoscere la cagione di un avvenimento. Il pronunciare adunque, che l’universo è opera del caso, è un dire un bel nulla, è un coprire con un vocabolo la nostra ignoranza, giacché in sostanza si viene ad affermare sol questo, che noi ignoriamo l’origine dell’universo. Imperò il fatalismo non è una dottrina, ma una negazione).