LO SCUDO DELLA FEDE (94)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (5)

CAPO V.

Il mondo non poté essere da se stesso.

I. A voler corre la rosa, convien procedere sempre con tal destrezza, che non si punga al tempo stesso la mano tra mille spine noiose che la circondano. Dacché però, a voler conseguire la verità da cercarsi in questo capitolo, non si possono tutte schivare appieno quelle contenzioni scolastiche che sono le più spinose, vediamo almanco di trattarle di modo che non ci pungano, come ci avran forse punti nel precedente.

I.

II. Ditemi dunque (prima che diamo un urto al mondo, e il gettiamo a forza di ragion viva giù da quel trono in cui l’han collocato i suoi stolidi adulatori, qual nume sommo), chi ha detto a voi che il mondo non avesse incominciamento? Aristotile, fra quei problemi dialettici che dan luogo di tenzonare verisimilmente per l’una e per l’altra parte, ripose questo, dell’essere, o non essere il mondo eterno (Qui giova distinguere due questioni, che l’autore sembra abbia insieme confuse. Altro è il domandare, se il inondo esista da tutta l’eternità per virtù propria, ed altro il chiudere, se non possa essere stato creato da Dio da tutta l’eternità, anziché aver cominciato ad esistere nel tempo. L’autore non vide, che fra queste due proposizioni, 1° il mondo esiste ab eterno per virtù sua propria, 2° il mondo cominciò ad esistere nel tempo, intermedia quest’altra: il mondo fu creato da Dio fin dall’eternità): Utrum mundus sit æternus (L. 1. Top. c. 9 ). E sebbene egli mostrò di tenero tale, tuttavia, dove ne trattò di professione, provò bensì non sussistere quelle vie che gli antichi filosofi avean battute a dargli principio, ma non ne scoperse delle sussistenti a negarglielo (S. Th. 1. p. q. 46. art. 1. in c.). Piuttosto confessò dappertutto, che il parere universale degli uomini favoriva la produzione del mondo in tempo: Omnes quidem mundum generant (De cœlo 1. 1. text. 10): tanto ella è più conforme al giudizio della ragione.

III. E vaglia la verità: quanto di violenza conviene che vi facciate a stimar piuttosto che il mondo non cominciasse? Se fosse eterno, par pure che egli non avrebbe dovuto indugiar tanti secoli a farsi dotto. Gli arabi vantano di essere stati i primi fra tutti i popoli ad osservare i movimenti do’ cieli. Gli Egiziani i primi a insegnare la medicina. I Greci i primi a introdurre la marinaresca, i Cartaginesi i primi a trovar la mercatanzia (V. Polib. Virg.) . E i tempi a noi men remoti non ci hanno parimente donato l’uso della calamita, degli archibugi, delle artiglierie, e della stampa, sì ignote per lungo tratto a’ nostri antenati ‘i Rerum natura sacra sua non simul tradit, diceva Seneca (Natur. q. 1. ult.). Se il mondo però fosse stato eterno, sarebbe pure preceduto negli uomini un eterno studio ed un’eterna esperienza. E però, come può credersi, che non fosse bastata un’eternità a rinvenir quelle industrie, per cui è bastato lo spazio di seimila anni? Forsa il mondo è stato sempre fanciullo, e solamente da pochi secoli in qua egli è pervenuto all’età della discrezione?

II.

IV. Direte per avventura, che tutte queste arti fiorirono a un tempo al mondo, ma che a poco a poco declinarono tanto, che se ne venne anche a perdere la perizia. Sia ciò che dite. Ma come almanco non ne venne a restare la rimembranza? Questo è ciò che non può credersi senza stento. Conciossiachè quale lima possiamo noi divisare nella natura, la quale giungesse a radere mai dagli animi sì altamente ogni sentore di ciò che giovava tanto al comun genere umano? Miriamo che gli uomini hanno innestato nel cuore un desiderio di gloria insaziabilissimo. Onde non solo le Provincie più illustri, ma infino le più volgari vanno ostentando ciò che tra loro abbia vanto di singolare: e per mezzo o di pitture, o di intagli, o d’iscrizioni, o di libri, o almen della voce viva, sogliono tramandar di padre in figliuolo ciò che fu per loro inventato di memorabile. E pure non abbiamo memoria alcuna di questa eternità posseduta da veruna arte, per inclita che ella sia: né i secoli più vetusti hanno mai trasmessa ai novelli alcuna contezza di quelle scienze, di cui noi gli abbiam sempre stimati privi. 1 più antico storico di cui ragioni la fama, fu Beroso Caldeo (Joseph contra Apionem 1. 1). E pure egli non seppe ordire le sue narrazioni da altro, che dal diluvio sì celebre di Noè. E le più antiche poesie sono gli eccidi, o di Troia, o di Tebe, città notissime, non solo per la morte di ambedue loro, ma per i natali (Lucretius l. 5). – Se dunque il mondo è sì vecchio, che è sino eterno, come sono sì giovani i suoi scrittori?

V. So che voi qui ricorrete agli iterati diluvi che, ad ora ad ora sommergendo la terra, abbiano, con le vite degli uomini, estinta ancora ogni ricordanza delle loro imprese più belle. Ma vi ricorrerete a piacere. Nella natura non v’è questa forza immensa di sopraffar tutti i monti con piene tali, che allaghino l’universo: attesoché non ha ella altri pozzi onde attingere l’acque che di poi versa su la terra e sul mare, che i seni stessi della terra e del mare su cui la versa; che però il diluvio di Noè, che poc’anzi io rammemorai, fu per virtù della giustizia divina montata in ira, non fu per congiungimento di costellazioni piovose che allor corressero, potendo bensì queste eccitare qualche diluvio particolare, quale fu quello che sotto Deucalione allagò tutta la Tessaglia, ma non potendo eccitarne (come il Filosofo mostra), un universale.

VI. Oltre a ciò passo ad interrogarvi : O noi poniamo, che per tali diluvi, replicati ogni volta che le stelle concorressero in un tal posto determinato, venissero a perir sempre tutti i viventi, o che ne campasse qualcuno: si qualcuno ne scampò, come dunque non lasciò egli a’ suoi posteri questo sì grande avviso del mondo naufrago; in quella guisa che chi campò per sorte fortunatissima nella rotta di qualche famoso esercito fatto in pezzi, ne reca ad altri la funesta novella, ed ama di comparir tanto più felice nella comune felicità, quanto fu più solo? Se poi si ponga che tutti i viventi rimanessero morti, chi dunque tornò a generarli di nuovo? chi gli allattò? chi gli allevò, chi li provvide di necessario ristoro su quei primi anni? chi insegnò loro il ben vivere, noto a niuno, se non lo apprende? Dopo il diluvio particolare di Ogige che affogò l’Attica, sappiamo che dugento anni stette quella provincia a riabitarsi (Perer. in Gen. t. 1.1. 2. dis. 14). Che non avrebbero dunque operato di danno al mondo questi iterati diluvi sì universali, ove non fossero favole? Se dopo quel di Noè la terra in breve tempo restò abitabile da’ figliuoli di lui, salvati nell’arca, noi diciamo che ciò seguì a forza di quel vento miracoloso che Dio svegliò a disseccarla fuor di ogni legge. Ma qual miracolo può mai vantare ancor egli chi neghi Dio? La natura può ben talora operare sotto la sua virtù, con produrre i mostri; ma sopra la sua virtù non

può mai far nulla: tanto da sé è limitata.

III.

VII. Piuttosto dunque da quei diluvi piccoli, ma veraci, che sovente accadono al mondo, io dietro l’orme di più uomini dotti, vi argomento contra, e vi pruovo ch’è fatto in tempo. Noi da un lato veggiamo nella natura una tal cagione, che a poco a poco va ognora più diminuendoci i monti (Cabeus 1. 1. Meteorol. text. 72). E questa è la pioggia rovinosa che cala dalle loro sommità, sempre torbida e sempre terrea, per lo mescolamento di quel terreno che porta seco, quasi di rapina, alle valli. E dall’altro lato non veggiamo nella stessa natura cagion veruna, la qual faccia mai la dovuta restituzione, con riportare e riporre il terren caduto sulle medesime sommità. Adunque i monti non sono stati ab æterno; altrimenti a quest’ora sarebbonsi già appianati infinite volte, non che abbassati. Però conviene di necessità agli ateisti, o confessare che il mondo fu fatto in tempo, come io dicevo; o quando vogliano mantener con perfidia che egli fu eterno, convien che trovino una cagion più possente nell’operare, di quel che sia la natura, la quale abbia di tempo in tempo rialzate queste gran moli, per la  lunghezza degli anni prostese al suolo: da che il ricorrere che fanno alcuni a’ tremuoti, per ripararsi dal colpo di questa ragion sì forte, non è bastevole, mentre per quanti tremuoti abbiano finora scossa la terra con forza orribile, sappiamo bone, essersi profondato molte città, ma non sappiamo essersi eretto né anche un piccolo colle, non che un argine invitto di monti simili agli Appennini ed all’Alpi. E se è così, le tante piogge non favolose, ma certe, venute al mondo, dimostrano ch’egli nacque a un parto col tempo, e che per conseguente ebbe artefice che il cavò dal seno del nulla.

IV.

VIII. Poi, scendendo anche più dall’universale al particolare, convien che io chieggavi, che intendiate per mondo, quando mi state a dire che egli fu eterno? Intendete voi le generazioni degli uomini? No di certo, perchè, come abbiamo veduto, queste dovevano a forza sortir principio. E però né anche potete intender per mondo le generazioni de’ bruti, nascenti all’istessa guisa. Conviene adunque, che voi per mondo vi riduciate ad intendere, non gli abitanti, ma solo l’abitazione, cioè il globo celeste che n’è la volta, ed il terrestre che n’è come il suolo, circondato dall’acque, e adorno in terra ferma di piante, di pietre, di metalli, e di tanti diversi misti che l’abbelliscono a meraviglia (L’autore piglia qui il vocabolo mondo in senso troppo ristretto, mentre va adoperato a significare il complesso di tutti gli esseri, siano terreni o celesti, corporali o spirituali, di cui nessuno ha la sua ragion di essere in se medesimo. Di che si inferisce, che il mondo per ciò appunto che è contingente nel suo insieme, non può essere eterno. In quella vece preso il mondo nel senso ristretto dell’autore, quand’anche dimostrato temporaneo, rimarrebbe pur sempre di provare, che anche gli altri esseri mondiali hanno tutti avuto un principio).

IX. Ma piano un poco, perché è manifestissimo a tutti i saggi, che la fabbrica mondiale èfatta unicamente in grazia dell’uomo, il quale, se ben si pondera è quegli che ne raccoglie un frutto incomparabilmente maggiore di quel che traggane qualunque altro vivente, valendosi egli di tutte le creature, o per cibo, o por difesa, o per diporto, o per medicina, o se non altro per quello che è proprio suo, che è per acquisto di scienza. A che avrebbe dunque servito così gran fabbrica, se, come in casa vacante, fossero preceduti infiniti secoli ad introdurvi quel nobile abitatore per cui fu fatta ? Forse doveva sì gran palazzo concedersi ai bruti soli? Ma primieramente di questi non mi potete più far menzione: altrimenti di nuovo io vi chiederei, come nascessero i bruti per via di continuate generazioni fino ab æterno, se da voi si pone, che manchi la cagion prima? Di poi soggiungo, come poteva la natura amarli di tanto, mentre non sono essi capaci di verace amicizia, la quale consiste nella scambievole corrispondenza degli animi, e comunicazion degli arcani, propria delle pure creature intellettuali? E poi quante opere belle sarebbero per una eternità state inutili senza l’uomo? A che produrre tanta varietà di fragranze delicatissime, se non v’era chi ne potesse godere un saggio? Le bestie altro odoro non curano, che quell’uno il quale le scorge ai due loro diletti sommi, appartenenti al pascersi e al propagarsi. A che l’armonia di tanti uccelli canori, se non v’erano orecchie di lei curanti? A che le scene de’ boschi, de’ prati, delle pianure, de’ monti, e quel che è più, di tante stelle che adornano il firmamento, se non v’era occhio capace di vagheggiarle per tutta un’eternità? Senzaché tornerebbe a risorgere l’argomento addotto di sopra. Chi fu il primo a far comparire gli uomini in questo palco, dopo un’eternità (se così vogliamo chiamarla) di scena vuota? Spuntarono forse eglino dalla terra, come ne spuntano i funghi, o nacquero dalla polvere, come i rospi e come i ranocchi: se puro è vero, che i ranocchi stessi e che i rospi non abbiano miglior madre (Questa osservazione vale contro la strana opinione della generazione spontanea, di cui menano tanto scalpore i materialisti dei giorni nostri, senza mai essersi degnati di confortare di una soda ragione la loro asserzione. Quasicché possa darsi un effetto maggiore della sua cagione!) ? Strano intelletto conviene che sia pertanto cotesto vostro, se voi provate minor pena ad ammettere il mondo eterno fra tanti assurdi che vi conviene divorar come se foste uno struzzolo, di quella che senza niuno provereste ad ammetterlo fatto in tempo, cioè fitto quando più piacque al sovrano architetto di fabbricarlo.

V.

X. E ciò sia detto a pura soprabbondanza di verità. Nel rimanente qual necessità ho io di stare a contendere su questo punto con esso voi, quasiché da ciò penda il tutto? Passi per concesso quel che non solamente non è di fatto, ma per mio parere non è né anche possibile, cioè che il mondo sia stato senza principio: per questo gli ateisti han vinta la causa? Lascerò a voi il giudicarlo.

XI. Vorrebbono essi deluderci, se potessero, con porci innanzi, come fece già Totila, uno scudiere travestito da re. Ma quanto vanno ingannati! Diremo all’universo anche noi, come disse a quello scudiere il gran Benedetto, che ponga giù dagli omeri gli ori e gli ostri che non son suoi: Depone, fili, depone quod geris, nam tuum non est. E una maschera il vanto che questi iniqui ti vogliono attribuire di divinità: e il tuo capo, per gonfio che egli si sia, troppo è minore di quell’ampia corona che costoro ti offrono, come a nume: Mundum numen credi par est, æternum, immensum, ncque genitum, ncque interiturum unquam {Pl. 1. 1. c. 2).Furono deliri di filosofia frenetica, non fondata. Veggiamo ciò con chiarezza, spogliando il mondo, quale nume illegittimo, a parte a parte, di ogni suo mentito ornamento.

XII. Questo tutto visibile al guardo umano si può dividere in due ragioni di cose. Alcune son corruttibili, e così nascono e muoiono ad ogni tratto: l’altre sono incorruttibili, e duran sempre. Or quanto alle corruttibili, è indubitato, che hanno la cagion loro, né sono a se medesime la sorgente d’ogni lor essere, mentre han bisogno di mendicarlo di fuori, nascendo dall’altrui morte: Corruptio unius est generatio alterius. Rimane dunque, che possano forse più verisimilmente pretendere una tal gloria le incorruttibili, cioè a dire pretenderla i cieli, pretenderla gli elementi. Ma no: va tutto all’opposjto: queste l’hanno a pretendere ancora meno. Conciossiachè chi può mai persuadersi, che gli elementi, o che i cieli posti nell’infimo grado dell’essere, tutti corporei, e quel ch’è peggio, privi affatto di vita, possano in sé possedere tanto di bene, quanto è non dovere il suo essere a verun altro fuor di sé, che è l’istesso che 1’essere il sommo bene? Il sole che siede in cielo, quasi re nel suo trono eccelso, è nondimeno più imperfetto di una formicola: e questa bcstioluccia  sì vile, se fosse atta ad eleggere, avrebbe in sé tanto senno di non cambiare la sua povera sorte con quel pianeta: e riputerebbe a ragione che l’essere lei capace di sperimentare il suo bene proprio, e di compiacersene, valesse più che non vale tutto quell’oro che la natura ha tanto liberalmente versato in seno al vasto corpo solare privo di senso. Se però da sé  non può essere la formicola, che possiede un grado di essere più perfetto che non ha il sole, molto men dunque potrà essere il sole, che non arriva a tal grado. E se è così, non fu stoltezza, volerlo spacciar per Dio? Troppo male sarebbe collocato questo tesoro della divinità in un fondo sì cupo, dove il padrone non potesse mai giungere a rinvenirlo per la sua cecità: troppo male dimorerebbe il dominio delle cose in un re sempre addormentato, anzi inabile a risvegliarsi; e le redini del governo troppo male starebbono in mano ad uno che in tanta luce non solamente non può conoscere alcuno de’ suoi vassalli, ma neppur sé. Che se il sole non è quel Dio che si cerca, in qual altro de’ cieli egli sarà mai? In Marte, inMercurio, o nelle stelle, che, per alte che sieno sul firmamento, conviene alfine che cedano anch’esse al sole?

VI.

XIII. E pure io non ho dotto il meglio. Chi è da sé, è quale si conviene che sia chi è Dio, cioè tutto per sé medesimo: e siccome egli non ha cagione sufficiente dell’esser proprio, così né anche può avere cagion finale. Conciossiachè l’esser destinato ad un fine, qualunque siasi, dimostra chiaro un essere avventicelo, cioè imprestato da un altro agente maggiore che sopr’intende a quel fine. E pure tutti i cieli hanno un fine notissimo fuor di sé, né son fine di se medesimi, essendo eglino da una parte inabili a dilettarsi di ogni lor bene, e correndo dall’altra incessantemente a benefizio di altrui, senza perfezionarsi mai di vantaggio co’ loro moti, e senza assaporare una stilla di quel profitto o di quel piacere che piovono assiduamente sopra di tante creature inferiori ad essi di sito, ma non di prezio.

XIV. Più. Chi ha l’essere da sé, convien di necessità che sia stato sempre; e se fu sempre, fu egli prima altresì di ogni suo contrario, cioè prima di ogni suo nulla: ond’è che l’ha vinto affatto, tenendolo eternamente da sé lontano. Ma se egli è tale, come può dunque racchiudere alcuna spezie d’imperfezione? Chi ha vinto da se medesimo il maggior nulla, che è quel che si oppone all’essere, molto più debbo aver vinto ancora il minore, che è quello che si oppone al mero ben essere. Pertanto non può capirsi, come chi non è cagionato da verun altro, sia punto limitato in alcun suo vanto: non apparendo possibile, che verun sia cagione a sé di limitare se stesso. Chi ha l’essere da qualche altro, è quale torna bene all’altro che sia: ma chi l’ha da sé, fa d’uopo, che abbialo quale a lui torna meglio: e mentre non riconosce altra necessità che se stesso, sarebbe egli bene uno stolto a farsi lago, mentre può essere mare; a farsi ligio, mentre può esser monarca; e ad occupare quasi una striscia di bene, mentre ne può possedere l’intera pezza, che è interminabile. Ens a se, est ipsum omne, dice Aristotile (De gen. anim. c. 1), epilogandoci il molto in poco.

XV. Rendesi dunque da tutto ciò più che certo, che i cieli e le cose incorruttibili sono immensamente distanti dalla natura divina; onde non si può riconoscere mai per Dio questo nume favoloso del mondo, senza rivoltare il mondo sossopra, cioè senza abbattere il primo Artefice, per sostituirne in suo luogo una morta statua, che neppure esprime la immagine delle fattezze di lui, tanto le ha diverse. Può bene il mondo esser dunque il reame, ma non il re, e se vogliamo ritornare al primiero esempio, può ben essere il servo travestito da principe maestoso, ma non il principe. E posto ciò, replichiamogli unitamente: Depone, fili, depone quod gevis, nam tuum non est: dacché il puro lume naturale medesimo ci dà tanto, di saper discernere un Dio da scena ed un Dio da senno.

XVI. Vero è, che per questo sognato nume del mondo non è gran fatto che voi intendiate l’universo visibile, ma animato da una mente invisibile che lo informi. E se è così, che posso io dunque soggiungervi, senonché voi di ateista, passate, senza avvedervene, in idolatra, variando gli errori, per non deporli? Ma lode al cielo, che almeno voi non pigliate più il senso per unico attestator della verità, e v’inducete a confessare una mente, benché da voi non veduta, la qual vi assista. Chi sa che come la febbre sopravvegnente ha talor consumati quegli umoracci i quali generavano la vertigine, così questo nuovo fallo non vi disponga a fermar l’intelletto da vacillare con tanta instabilità?

XVII. Dunque tra gl’idolatri, Varrone, con quegli altri che furono i meno stolidi, si argomentavano , per testimonianza di un Agostino (De civ. Dei 1. 1. c. 4), che Dio fosse l’anima di questo tutto, cui diamo il nome di mondo (Questa proposizione, Dio è l’anima del mondo, può essere sanamente intesa nel senso, che tutto il creato vive in Dio, come in suo principio efficiente, giusta il detto scritturale: In Deo vivimus, movemur et sumus.); e che però a qualunque parte di esso, come a divina, stessero bene le vittime, lo adorazioni, gli altari e le proprie suppliche. Ma leggier fatica è il confondere questa sì favolosa teologia. Conciossiaché se per Dio ci conviene intendere una suprema cagione, perfettissima in ogni genere, è manifesto, che Egli non può aver l’essere, se non che nella maniera più nobile che vi sia, cioè in se medesimo, e non in altri. Poi: qual bisogno ha Egli di unirsi al mondo? Forse per operare nel mondo, o per far che si operi? Non per operare, mentre dalla materia non può Egli ricevere prò veruno; anzi ha per sua dote propria il poter fare ciò che Egli vuole, da sé, con esenzione pienissima da qualunque altra cagione, anche strumentale, che vi concorra. Non per fare che si operi, mentre a tal fine non ha Egli necessità di starsi unito alle cose, qual parte di alcun composto: basta che sia loro autore. Anzi, se da sé solo egli è il tutto, è di là dal possibile, che sia parte, o che mai divenga (S. Th. contra gentil. 1. 1. c. 18 et 27).

XVIII. Ma di ciò sia detto abbastanza: dacché il mondo è oggimai divenuto sì savio, che si vergogna all’udire rammemorarsi queste così vetuste follie, benché per suo meglio.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.