Domenica II DOPO L’EPIFANIA (2020)

DOMENICA II DOPO EPIFANIA (2020)

Semidoppio – Paramenti verdi.

Fedele alla promessa che aveva fatta ad Abramo ed ai suoi discendenti, Dio inviò il Figlio suo per salvare il suo popolo. E nella sua misericordia, Egli volle anche riscattare tutti i pagani. Gesù è il Re che tutta la terra deve adorare e celebrare come suo Redentore (Intr., Grad.). Morendo sulla croce Gesù è diventato il nostro Re, e col S. Sacrifizio – ricordo del Calvario – applica alle nostre anime i meriti della sua redenzione ed esercita quindi la sua regalità su di noi. Cosi col miracolo delle Nozze di Cana – simbolo dell’Eucaristia – Gesù manifesta per la prima volta in modo aperto ai suoi Apostoli la sua divinità, cioè il suo carattere divino e regale, ed è allora che « i suoi discepoli credono in Lui ». – La trasformazione dell’acqua in vino è il simbolo della transustanziazione, che S. Tommaso chiama il più grande di tutti imiracoli, e in virtù del quale il vino Eucaristico diviene il Sangue dell’Alleanza di Pace (Or.) che Dio ha stabilito con la sua Chiesa. E poiché il Re divino vuole sposare le nostre anime, è con l’Eucaristia che si celebra questo sposalizio mistico, poiché essa aumenta la fede e l’amore che ci fanno membri viventi di Gesù nostro Capo. (« L’unità del corpo mistico è prodotta dal vero corpo ricevuto sacramentalmente » – S. Tommaso). Le nozze di Cana raffigurano anche l’unione del Verbo con la Chiesa sua sposa. « Invitato alle nozze – dice S. Agostino – Gesù vi andò per confermare la castità coniugale e per mostrare che Egli è l’autore del Sacramento del Matrimonio e per rivelarci il significato simbolico di queste nozze, cioè l’unione del Cristo con la sua Chiesa. In tal modo anche quelle anime che hanno votato a Dio la loro verginità, non sono senza nozze, partecipando esse con tutta la Chiesa a quelle nozze in cui lo Sposo è Cristo».

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 4
Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV: 1-2
Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.
[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]


Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.
[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.
[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 6-16
“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes
.”.

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

LA FAMIGLIA PARROCCHIALE

“Fratelli: Noi abbiamo doni differenti a seconda della grazia che ci è stata data. Chi ha la profezia, se ne serva secondo la norma della fede; Chi ha il ministero, attenda al ministero; chi il dono d’insegnare, insegni; chi di esortare, esorti; chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, con sollecitudine; Chi fa opere di misericordia, con ilarità. La carità non sia finta. Aborrite dal male, siate attaccati al bene. Amatevi scambievolmente con amore fraterno. Prevenitevi gli uni con gli altri nel rendervi, onore. Non siate pigri nello zelo; siate ferventi nello spirito; servite al Signore. Siate lieti nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. Prendete parte alle necessità dei santi. Praticate l’ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano; benedite, e non maledite. Rallegratevi con chi gode; piangete con chi piange. Abbiate gli stessi sentimenti gli uni gli altri. Non aspirate a cose alte, ma adattatevi alle cose umili”. (Rom. XII, 6-16).

L’Epistola di quest’oggi è una continuazione del brano della lettera ai Romani, che abbiamo considerato la domenica scorsa. S. Paolo vi discorre dell’uso dei carismi, cioè, doni soprannaturali, di cui il Signore arricchiva abbondantemente i primi Cristiani. Ciascuno deve accontentarsi dei carismi ricevuti, senza invidia per chi ne ha di più, e usarli, secondo il proprio stato, per il bene della comunità. In sostanza, l’Apostolo insegna quale deve essere la vita d’una fervorosa comunità di Cristiani, uniti tra di loro come membri d’una sola famiglia. Anche i Cristiani di quella comunità, o famiglia, che è la parrocchia, dovrebbero stringersi tra di loro attorno al proprio capo, che è il Parroco,

1 Nello zelo,

2 nella preghiera,

3 nel partecipare alle necessità dei fratelli.

1.

Non siate pigri nello zelo; siate ferventi nello spirito, servite al Signore. L’esortazione che l’Apostolo fa alla comunità cristiana di Roma, va intesa anche per le nostre comunità parrocchiali. La comunità cristiana in mezzo ai pagani formava come una famiglia a parte. Oggi le condizioni sono cambiate, ma possiamo benissimo paragonare le singole cristianità dei primi secoli alle nostre parrocchie, che sono formate da una popolazione determinata, sottoposta all’autorità di un sacerdote, che vi esercita l’ufficio di cura d’anime. Per mezzo delle parrocchie, in via ordinaria, i fedeli fanno parte della grande famiglia cristiana che è la Chiesa. «La Chiesa si può paragonare a un grande albero, saldamente piantato nel terreno che allarga i suoi rami su tutta la terra. Gesù è la radice nascosta che elabora il succo prezioso della vita; il tronco che si erge ritto nello spazio, sfidando i venti e le tempeste e che forma una cosa sola con la radice, è il Papato. I rami maestri che si staccano dal tronco principale e s’allargano in tutto il mondo sono le diocesi; i piccoli ramoscelli che si moltiplicano intorno ai rami principali, le parrocchie: le miriadi di foglie che rivestono di verde tutta la pianta, i fedeli» (Mons. Tranquillo Guarneri. La Famiglia parrocchiale, Lettera Pastorale per la Quaresima. Acquapendente, 1923, p. 8). Tra parroco e fedeli, ci deve essere la stessa unione che c’è tra foglie e ramoscelli cioè, unione molto stretta. Il parroco ha degli obblighi speciali verso coloro che compongono la sua parrocchia. Egli è un pastore che deve guidare un gregge particolare a lui affidato; o, se meglio vi piace, egli è un padre. E deve provvedere al miglior andamento spirituale d’una numerosa famiglia. È chiaro che riuscirà a ben poco, se non trova corrispondenza e collaborazione nei membri della famiglia. Ciò che giova a tener desta e viva la fiamma della fede e del buon costume in una parrocchia sono – oggi giorno – quel complesso di istituzioni che vanno sotto il nome di opere parrocchiali. Oltre le Confraternite, che hanno soprattutto scopo di culto, ci sono i Comitati parrocchiali, le Associazioni dei padri e delle madri di famiglia, le associazioni antiblasfemie, della Buona Stampa, della Moralità, della Propagazione della Fede, della Santa Infanzia; gli Oratori pei ragazzi, i Circoli per la Gioventù, ecc. Come possono vivere queste istituzioni, senza elementi che le compongano? Delle volte il parroco riesce a costituirle, ma ben presto gli inscritti non compaiono più che sui registri: rari alle adunanze, assenti dalle pratiche richieste dall’associazione. – Chi, poi, contribuisce alle spese indispensabili per tener in piedi queste istituzioni? Se si dicesse che oggi non si può spender molto, si direbbe cosa, vera solamente in parte. Non si è mai visto spender tanto come oggi nel lusso, nei divertimenti, nelle gite, nelle vacanze frequenti, nei prolungati soggiorni nei luoghi più o meno climatici. Quando si tratta di appoggiare le opere parrocchiali… i tempi non consentono più di spendere un soldo. Si sarebbe più sinceri, se si dicesse che lo spirito frivolo che informa la vita moderna, spegne lo spirito per le cose del Signore, e ci rende pigri nello zelo per le opere parrocchiali. Ascoltiamo attentamente l’ammonimento di S. Paolo: Non siate pigri nello zelo; siate ferventi nello spirito; servite al Signore.

2.

Siate… perseveranti nella preghiera. Questa non è, certamente, la meno importante delle esortazioni che fa l’Apostolo. Chi prega si salva, e chi non prega si danna. Ma praticamente, per tanti Cristiani l’esercizio della preghiera si riduce a ben poco. Scuse non ne mancano mai; scuse magre, s’intende. Chi non ha tempo di recitare, mattino e sera, almeno le orazioni più necessarie? Chi, durante il giorno è impedito d’innalzare la mente a Dio? Quanti, passando davanti alla chiesa, possono benissimo entrarvi, anche per un breve istante, tanto da rivolgere un saluto a Gesù nel Sacramento e non lo fanno! L’esortazione di S. Paolo non va ristretta alla preghiera privata. Evidentemente v’è inclusa la preghiera pubblica, cioè, la partecipazione ai divini uffici. Così l’intesero i Cristiani del tempo degli Apostoli. Di essi infatti leggiamo che « frequentavano con perseveranza l’istruzione degli Apostoli, la comunità, la frazione del pane, la preghiera» (Act. II, 42). Quanto sarebbe consolante vedere per lo meno nei giorni festivi, l’intera popolazione recarsi alla propria chiesa parrocchiale, pregare più del solito, assistere alla santa Messa, ricevere possibilmente i santi Sacramenti, e prender parte col proprio parroco al canto dei salmi e degli inni. Quando tutta la famiglia parrocchiale è radunata in chiesa, nella casa del Padre comune, unita nella partecipazione dei misteri, nella preghiera, nel canto dei salmi e degli inni, come possono venire in mente le piccole miserie, che raffreddano la carità e i rapporti tra vicino e vicino, tra individuo e individuo? Allora l’anima nostra è tranquilla, le passioni si calmano, lo sdegno tace, l’inimicizia si spegne, la concordia è promossa, il demonio non può esercitare il suo potere. «Cercate — scriveva S. Ignazio Martire agli Efesini — di radunarvi in maggior numero per offrire a Dio la vostra Eucaristia e le vostre lodi. Poiché, quando voi vi radunate spesso nello stesso luogo le forze di satana vengono abbattute» (S. Ignazio mart. ad Eph. 13, 1). Allora, più che mai, si comprende la verità contenuta in quel versetto del Salmista: « Oh come è bello, come è soave che i fratelli siano assieme uniti! » (Ps. CXXXII, 1). Eppure ci sono di coloro, che non solamente usano di rado alle funzioni parrocchiali, ma non sanno neppur che cosa siano: non conoscono l’interno della chiesa, non hanno mai sentita la voce del proprio parroco. Il padre Reina, delle Missioni Estere di Milano, dando notizia al suo superiore dell’andamento della missione, parlando degli Europei, scriveva fra l’altro: «Ci sono molti Cattolici fra i marinai di tutte le nazioni, ma non si conoscono alla chiesa: solo negli ospedali e nelle prigioni»; (P. Gerardo Brambilla, Mons. Giuseppe Marinoni ecc., Milano) cioè, dove non era possibile evitare la presenza del Sacerdote, e schivare di parlare con lui. Lasciamo stare le prigioni, ma, senza andare nei grandi centri commerciali dell’Asia, non è difficile trovare anche nelle nostre parrocchie, chi si riduce a udire la voce del proprio pastore quando trovasi inchiodato sul letto del dolore, e non può sottrarsi alla sua presenza. Saranno rari costoro, almeno nelle piccole parrocchie, ma non mancano. Sono molto numerosi, invece, coloro che credono di aver fatto troppo se si sono recati ad ascoltare una Messa bassa; possibilmente senza predica e senza avvisi. Che abbiamo fatto troppo non crediamo. «Certamente si soddisfa al precetto ascoltando una Messa bassa; ma con una Messa bassa non si è che un Cattolico lontano, un solitario, un isolato, un Cattolico forestiero, che non sente mai un discorso, che non riceve nessuna istruzione, che non sa gli avvenimenti della parrocchia, che ignora le istruzioni del Vescovo e le direzioni del Papa; un Cattolico che non fa numero, che non si occupa che di se stesso, che non si cura del bene generale, che non si occupa di edificazione e di Apostolato» (Mgr. Landrieux Evèque de Dijon, La Paroisse, Marseille, 1923, p. 65). Egli si dimentica che se non piace a Dio lo zelo senza semplicità, «neppur piace a Dio la semplicità senza lo zelo», (S. Gregorio M. Hom. 30, 5) la quale tutt’al più, non può giovare che a se stessa.

3.

Prendete parte alle necessità dei santi, cioè, dei fratelli nella fede. È una esortazione di S. Paolo, che sotto diverse espressioni, fa parecchie volte. Le opere di carità formavano infatti come un vincolo che univa strettamente i Cristiani delle varie chiese fondate dagli Apostoli, come deve unire ancora i fedeli d’una stessa parrocchia. «Tutti gli uomini — dice S. Agostino — si devono amare ugualmente; ma siccome non si può giovare a tutti, dobbiamo estendere il nostro amore principalmente a coloro, che, attese le circostanze dei tempi, dei luoghi e di altre simili cose, essendo a noi più congiunti, ci appartengono in modo più particolare» (De Doctr. christ. L. 1, c, 27). I membri d’una stessa parrocchia facilmente conoscono i bisogni reciproci, e si trovano nell’opportunità di aiutarsi a vicenda. Qui c’è da sollevare la miseria di un povero; là c’è da visitare un ammalato: spesso ci sarà bisogno di un assistenza. Alcuni avranno delle prevenzioni in fatto di Sacramenti e di visita del parroco: bisognerà disporli prudentemente. Uno avrà bisogno di un po’ di amore; e tu fa in modo da fargli comprendere che non è abbandonato da tutti. Un altro ha perduto la pace: e tu cerca, secondo la tua possibilità, di far entrare un po’ di tranquillità nell’anima sua. Ci sarà l’indeciso, il dubbioso: e tu sii il raggio di sole che illumina i suoi passi. Non manca chi sfiduciato di tutti e di tutto, non vuol più saperne del compimento del proprio dovere: e tu cerca di sollevare il suo animo al cielo, dove non si pone la fiducia invano. Se non puoi dire con Giobbe: « Feci da padre ai poveri. » Perché le tue condizioni non te lo permettono, possa almeno dire con santo Idumeo: «Fui occhio al cieco. e fui piede allo zoppo » (XXIX, 15-16). Soprattutto diamo il nostro appoggio materiale e morale all’opera, che in questo campo va esplicando il parroco. Una vita parrocchiale veramente cristiana, non può esistere se non si è uniti, come in una sola famiglia, tra sé e col proprio parroco, nello zelo, nella preghiera, nelle opere di carità. E vita parrocchiale veramente cristiana, vuol dire vita veramente cristiana di tutta la società. « Chi sente infatti e vive la vita della Chiesa, chi ne studia la storia, e ne cerea lo spirito; anche nell’agitazione dell’età contemporanea, non può non riconoscere ed ammirare la virtù insita nel primo nucleo vitale nell’organismo sociale della Chiesa che è la Parrocchia, massimamente quando essa rende l’immagine di una Famiglia concorde e unita come a padre al proprio pastore. (Civiltà Cattolica).

Graduale

Ps CVI: 20-21
Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum. [Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]
V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum. 
[V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII: 2
Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.
[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. [Joann II: 1-11]

In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi. Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

OMELIA II

[[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE VII.

“In quel tempo vi fu uno sposalizio in Cana di Galilea. ed era quivi la Madre di Gesù. E fu invitato anche Gesù co’ suoi discepoli alle nozze. Ed essendo venuto a mancare il vino, disse a Gesù la Madre: Ei non hanno più vino. E Gesù le disse: Che ho io da fare con te, o donna? Non è per anco venuta la mia ora. Disse la madre a coloro che servivano: Fate quello che ei vi dirà. Or vi erano sei idrie di pietra preparate per la purificazione giudaica, le quali contenevano ciascheduna due in tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua quelle idrie. Ed essi le empirono fino all’orlo. E Gesù disse loro: Attingete adesso, e portate al maestro di casa. E ne portarono. E appena ebbe fatto il saggio dell’acqua convertita in vino, il maestro di casa, che non sapeva donde questo uscisse (lo sapevano però i servienti, che avevano attinta l’acqua), il maestro di casa chiama lo sposo, e gli dice: Tutti servono da principio il vino di miglior polso; e quando la gente si è esilarata, allora dànno dell’inferiore: ma tu hai serbato il migliore fin ad ora. Così Gesù in Cana di Galilea diede principio a far miracoli; e manifestò la sua gloria, e in lui crederono i suoi discepoli” (Jo. Il).

Nostro Signor Gesù Cristo, entrato nel trentesimo anno di sua età, lasciò Nazaret, si recò sulle rive del Giordano per ricevervi il battesimo dalle mani di S. Giovanni Battista. Quindi fu condotto dallo Spirito Santo nel deserto per esservi tentato dal demonio; e dopo un digiuno di quaranta giorni, abbandonò la solitudine per comparire in pubblico a predicare la buona novella. E sebbene potesse disimpegnare da solo questo ministero divino, tuttavia per facilitarlo e perpetuarlo tra gli uomini, si volle invece associare degli uomini. Ed eccolo perciò cominciare a scegliere e chiamare a sé gli Apostoli. S. Andrea, che, animato da S. Giovanni Battista, gli aveva subito tenuto dietro, gli condusse tosto suo fratello S. Pietro; così pure S. Filippo gli aveva presentato Natanaele, che comunemente si crede lo stesso che S. Bartolomeo. Ora essendo passati tre giorni da questa scelta e da questa vocazione, Gesù insieme colla Madre sua e co’ suoi discepoli intervenne ad un festino e convito di nozze, che celebrossi in Cana di Galilea, dove manifestò subito la sua gloria operando il primo de’ suoi miracoli. Ed ecco il bellissimo fatto, che ci offre a considerare il Vangelo di questo giorno.

1. Secondo l’attestazione di vari scrittori ecclesiastici, lo sposo di queste nozze, che si fecero in Cana di Galilea, era un certo Simone, figliuolo di Alfeo, fratello di S. Giuseppe, epperò nipote della Santissima Vergine e cugino del Salvatore. Il che spiega, perché Maria si trovava di già in quella casa: Et erat mater Jesu ibi; gli sposi l’avevano chiamata come loro parente e forse anche a sopraintendere a quel convito e vegliare per tutto ciò, che potesse abbisognarvi. In riguardo però di Maria fu a questa festa invitato ancora Gesù con i suoi discepoli, che aveva già chiamati a seguirlo. E Gesù, che pure era il Santo per eccellenza, benché si trattasse di una festa assai allegra, come sogliono essere i conviti degli sposi, non ricusò di intervenirvi, non già perché egli desiderasse di deliziarsi in quel lieto banchetto, ma, oltre a vari altri motivi, anche per farci intendere quanto sia gravissimo l’inganno di coloro, i quali pensano, che per vivere da santi, da buoni Cristiani, sia necessario fuggire dal consorzio degli uomini, vivere sempre nella solitudine, evitare assolutamente di ridere, scherzare e stare allegri, ed in quella vece dover star sempre immersi nel silenzio e nella malinconia. Sì, o miei cari, in questa circostanza Gesù volle eziandio farci conoscere questa dolce verità, che si può vivere santamente e pur prendersi oneste soddisfazioni e moderati piaceri, che anzi la stessa vita veramente cristiana, tutt’altro che essere tristezza e malinconia, è per eccellenza vita allegra e felice, essendo l’allegria e la felicità inseparabili dalla virtù e dalla santità. Della qual cosa ce ne assicura in mille luoghi la Sacra Scrittura, col dichiarare, che la giustizia, ossia l’esatto adempimento della legge di Dio, è sempre accompagnata dalla pace dell’anima, da quel delizioso sentimento, che produce una buona coscienza, quindi che la sola virtù può rendere l’uomo felice. Ovunque nella Scrittura si parla della fedeltà nell’osservare la legge di Dio, si parla anche della pace, come inseparabile dalla giustizia. Figlio mio, dice lo Spirito Santo, sii fedele nell’osservanza della mia legge, che avrai una sorgente di pace e di gaudio. Chiunque osserva la legge di Dio, dimorerà nella pace. Questa pace sarà profonda, abbondante e continua; il gaudio vivo e puro; per cui felice chi pone ogni sua affezione nella legge del Signore. Egli sarà come albero, che, piantato sulle rive di cristallino fonte, produce eccellenti frutti e le cui foglie non mai appassiscono. Non meno formale e positiva è la promessa fatta da Gesù Cristo nel Vangelo: chiaramente ne dice, che il suo giogo è dolce, e che il suo peso è soave; che coloro, i quali lo portano, trovano la pace dell’anima. È adunque verità fondata sulla parola di Dio, che la vita cristiana è una vita felice, che nel fedelmente osservare la legge del Signore trovasi la vera contentezza. Questa verità è fondata anche sull’esperienza. S. Agostino prima di sua conversione, aveva menata una vita tutta mondana, sensuale, aveva passati molti anni nell’abbandono di Dio, e in balìa alle passioni. Richiamato alla virtù e convertitosi, nelle sue confessioni esclama: Dio mio, avete rotti i miei lacci; la mia lingua e il mio cuore continuamente vi esaltino, che mi avete fatto ricevere il vostro giogo soave e il legger peso della vostra legge. Quanta dolcezza, qual piacere non sento nell’aver rinunziato ai vani piaceri del mondo! Qual gioia nell’aver abbandonato ciò, che temeva di perdere! Voi il solo vero diletto, capace di riempire un’anima, allontanando da me ogni falso piacere, subentraste in luogo loro, Voi, che siete vera e sovrana dolcezza. S. Agostino confessa adunque, che una vita peccaminosa è dura schiavitù, tormentata da continue sciagure; che una vita virtuosa al contrario è una vita tranquilla e colma di consolazioni. E chiunque fedelmente serve il Signore prova ciò, che provò S. Agostino. Il vero Cristiano ovunque mostra una gioia pura ed innocente, un’ilarità semplice e modesta, un’eguaglianza di carattere, che dappertutto l’accompagna: sulla sua fronte è scolpita la serenità dell’anima, la pace del cuore. E voi, o miei cari, richiamate alla vostra mente quelle circostanze della vita, in cui, tocchi da Dio, vi purificaste d’ogni colpa, vi accostaste alla Santa Comunione con speciale fervore, e dite: Non provaste allora quanto è buono il Signore per chi lo ama? Allora il vostro cuore senza passione alcuna, puro agli occhi di Dio, non gustava che le cose del cielo, non desiderava e non sospirava che Dio! Che pace regnava nel vostro cuore, che dolcezza non gustavate! Confessatelo pure, non mai avete passati momenti sì dolci come quelli: comprendevate allora, che non si è felici, che servendo il Signore, conoscevate la verità delle parole del Profeta: Un sol giorno, o mio Dio, passato in vostro servizio, è preferibile d’assai a molti anni passati in società coi peccatori. E se avete conservati questi sentimenti di pietà, questo prezioso gusto della virtù, beneditene il Signore. Che se al contrario la virtù, altre volte per voi attraente e dolce, vi sembra ora importuna, noiosa, non incolpatene che la negligenza nell’adempimento dei vostri doveri. Poiché non dovete dimenticare, che fino a quando camminerete nella via del Signore, godrete sempre una pace ed una allegria perfetta.

2. Trovandosi adunque il divin Redentore a quel convito nuziale, nel meglio del desinare, viene improvvisamente a mancare il vino, né vi era come e donde all’istante supplirvi. I famigliari si guardano l’un l’altro costernati e confusi: né sanno che cosa fare e a chi rivolgersi. Ma la Santissima Vergine tutta occhi, come è tutta amore per soccorrere tutti, per la prima si accorge di quell’imbarazzo, ed angustiandosene per l’umiliazione, che proveranno i padroni di casa, piena di benignità, di compassione e di tenerezza si rivolge al suo divin Figliuolo e gli dice in segreto: Non hanno più vino: Vinum non habent. Ora che fa Gesù? Che risponde Egli? Mostrando di non interessarsi per nulla alla triste condizione degli sposi e dei commensali, Donna, le dice, che importa ciò a voi ed a me? non è per ancor venuta la mia ora. Questa risposta a prima vista sembra dura ed austera; ma, dice S. Bernardo, il Figliuolo sapeva a chi parlava, e la Madre non ignorava chi era Colui, che le parlava. E Gesù non ha certamente con parole biasimato Colei, che col fatto ha onorata,operando il miracolo, ch’Ella domandava. Sant’Agostino poi ci dà il vero senso della risposta di Gesù, allorché dice che Gesù Cristo, nel quale vi sono due nature, la divina e la umana, ha parlato qui secondo la natura divina. E siccome la natura divina ei non l’ha ricevuta da Maria, così Egli fa qui vedere colle sue parole, che, secondo tale natura, non ha da stare a Lei soggetto.Tuttavia quello è certissimo, dice il venerabile Beda, che Gesù Cristo accompagnò la sua risposta con una tale espressione di misericordia, con un tale accento di pietà, che Maria ben comprese che Gesù se non intendeva di starle soggetto come Dio, voleva non di meno sottomettersi interamente a Lei come uomo, e che perciò era pronto ad operare di fatto il miracolo, che sembrava averle negato con le parole; sicché rivoltasi senz’altro a coloro che servivano disse loro: Fate quello che Egli vi dirà. Di fatti il Divin Redentore non ostante la dichiarazione contraria, senza replicare più nulla, si appresta a compiere la preghiera della sua Santissima Madre. Così adunque, osserva S. Cirillo, la stessa ripugnanza e difficoltà, che da principio mostrò nostro Signore di fare il miracolo, è divenuta una prova della profonda deferenza, che Gesù Cristo ha per i desideri di Maria; una prova del come Maria realmente sia stata da Dio costituita la nostra potentissima avvocata presso al suo divin Figlio. E difatti come a Cana di Galilea ha ottenuto per quegli sposi un delizioso vino che ne salvò l’onore, in tutti i secoli Ella ottiene alle anime cristiane le preziose grazie, che devono salvarle per tutta un’eternità. Ci vuole di più per incoraggiare la fedele nostra devozione verso la Santissima Vergine? Udite S. Bernardo, ei vi dirà che se temete di avvicinarvi al Padre che regna eternamente nel cielo, vi ha dato Gesù Cristo suo Figliuolo per mediatore. Che non può un tal Figlio presso un tal Padre? Ma poi il Santo Dottore soggiunge: E se paventate ancora in quel Figlio lo splendore della maestà divina, avete presso di Lui una dolce e potente avvocata; Ella è sua Madre e sarà esaudita. Miei cari figli, prosegue quel pio servo di Maria, ecco la scala, per cui devono salire i peccatori, onde giungere fino a Dio, ecco la mia grande speranza, poiché quella Vergine innocente ha trovato grazia presso il Signore, e di questa sola grazia noi abbisogniamo per essere salvi. Ma s’egli è vero, o miei cari, che, accordandole il primo suo miracolo, Gesù stabilì pel corso de’ secoli la divozione alla Vergine sua Madre, è vero altresì, che Maria mirabilmente regola la nostra devozione con questa parola: Fate tutto ciò che vi dirà. Ella vuol accettar bensì i nostri omaggi, porger orecchio alla voce della nostra preghiera, perorare la nostra causa, ottenerci le grazie da Dio, ma a patto che noi compiamo dappertutto e sempre la sua santa volontà nell’osservanza fedele dei santi comandamenti, nella pratica esatta delle virtù cristiane. No, non si affidi troppo di ricevere grazie da Maria, chi non vive da buon Cristiano, chi almeno non è risoluto di mettersi con impegno nel cammino della virtù. Ricordiamo che Maria è bensì il rifugio dei peccatori, ma come giustamente dice un Santo, di quei peccatori che si vogliono davvero convertire.

3. Eranvi, prosegue a dire il Vangelo, eranvi nella sala stessa del convito sei idrie (o grandi vasi di pietra) preparate per la purificazione giudaica, le quali contenevano ciascuna due in tre metrete (ossia un secchio e mezzo circa). E Gesù senza più nulla replicare alla Madre sua, ma compiacendola ne’ suoi desideri, disse ai ministri: Empite d’acqua quelle idrie. Ed essi le riempirono fino all’orlo. E Gesù disse loro: Attingete adesso e portate al maestro di casa. E quelli ne portarono. E appena ebbe fatto il saggio dell’acqua convertita in vino il maestro di casa, che non sapeva donde questo uscisse, sapendolo tuttavia i ministri, che avevano attinta l’acqua, chiama lo sposo (credendo essere questa una sorpresa da lui fatta, con lui dolcemente si lagna), e gli dice: Tutti servono da principio il vino di miglior polso e quando la gente si è esilarata, allora danno dell’inferiore; ma tu hai serbato il migliore sino ad ora. Lo sposo allora certamente protestò di non saper nulla. Ed interrogandosi i ministri, che avevano messo l’acqua nelle anfore, questi manifestarono l’accaduto, pubblicando ed attestando a tutti i commensali il miracolo. E qui, o miei cari, è facile immaginare quello che avvenne. La tradizione, presso S. Ambrogio, ci attesta che quanti erano al convito e gustarono di quel vino miracoloso, colpiti dalla vista di sì gran prodigio si cambiarono in tutt’altri uomini, e come all’esterno il Signore cambiò l’acqua in vino, così convertì nell’interno i loro cuori, richiamandoli dalle turpi superstizioni dell’idolatria alla fede santa e preziosa dei veri credenti. Lo stesso Vangelo lo attesta dicendo: Così Gesù in Cana di Galilea diede, principio a far miracoli; e manifestò la sua gloria, e in Lui credettero i suoi discepoli. Così, bellamente osserva S. Pier Crisologo, dovunque Gesù è chiamato, dovunque Egli entra, dovunque è accolto con amore, Egli porta la consolazione, il gaudio, la santificazione.Or bene, o miei cari, non possiamo ancor noi procurarci sì grandi vantaggi coll’accogliere sovente Gesù Cristo nella casa del nostro cuore al banchetto della SS. Comunione? E non desidera forse Gesù Cristo stesso ardentissimamente di venire spesso nell’anima nostra per operare in noi dei salutari mutamenti, per trasformarci in Cristiani più fermi nella fede, più caritatevoli, più umili, più casti, per operare insomma la nostra santificazione? Si narra di S. Luigi re di Francia, che per il desiderio di far del bene a’ suoi sudditi, si vestiva da semplice borghese e, uscito dalla reggia, recavasi senza corteggio sotto un grande albero, ove dava udienza al popolo. Quindi a lui si avvicinavano con facilità e confidenza anche i più miserabili, gli presentavano suppliche, trattavano con lui dei loro dolori e dei loro domestici affari con la più grande soddisfazione del loro cuore. Orbene, Gesù Cristo nell’Eucaristia non solo volle discendere a tanto, ma, se si nascose sotto il mistero Eucaristico, fu specialmente pel desiderio che aveva non solo di star con noi, ma di penetrare nei nostri stessi cuori ed essere il nostro nutrimento spirituale. E perché velarsi sotto le specie di pane? È un mistero questo, che facilmente si può comprendere. Anzi è di una manifesta chiarezza: per indicare cioè che come il pane nutre il corpo, così Egli stesso voleva nutrire l’anima; e come il pane è da noi ricercato ogni giorno, e sebbene l’abbiamo sempre sulle mense, pure non lo rifiutiamo mai, così per avere questo cibo dell’anima, anche ogni giorno dovremmo ricorrere a Lui e di Lui nutrirci, per essere da Luì santificati. Ed in vero chi può dire quanto la SS. Eucaristia abbia di forza per togliere la freddezza, la tiepidezza dei nostri cuori, ed accendervi invece il fuoco del santo amor di Dio? Non è forse la santissima Comunione quella cella vinaria, dove l’anima nostra viene inebriata del vino del divino amore? Non è forse nello stringere al seno il caro Gesù, che l’anima languisce di santa carità? Com’è mai possibile, che quel Gesù, che portò su questa terra il fuoco del divin suo amore per accenderne il cuore degli uomini, non ne infiammi poi quel petto, dov’Egli abita? Ah! i Santi hanno sempre riguardati i sacri altari come tanti troni d’amore divino, donde Gesù Cristo accende ed infiamma le anime sue dilette! Santa Caterina da Siena vide un giorno in mano ad un sacerdote Gesù Sacramentato come una fornace d’amore, per cui si meravigliava poi la Santa, come da tanto incendio non restassero arsi ed inceneriti tutti i cuori degli uomini. Santa Rosa da Lima diceva, che in comunicarsi parevale di ricevere il sole onde mandava tal raggi dal volto, che abbagliavan la vista di chi la rimirava. S. Venceslao re, col solo andare a visitare il Santissimo Sacramento, s’infiammava anche esteriormente di tale e tanto ardore, che il servo che l’accompagnava, solamente col batter le sue pedate, non sentiva il freddo, tutto ché camminasse sulla neve. E voi non faceste mai riflessione all’operazione, che fa il fuoco investendo una tavola, un tronco? Prima lo riscalda, poi l’infuoca, e discacciando tutte le qualità contrarie di freddezza, di umidità, e di durezza, finalmente lo converte nella sua sostanza e lo fa divenire un altro fuoco simile a sé. Così, diceva S. Dionisio Areopagita, opera Gesù Cristo nella santissima Eucaristia. Egli prima riscalda le nostre anime col calor soave del santo amore, poi discacciando a poco a poco le qualità contrarie dei peccati leggieri e degli attacchi terreni, le accende vieppiù di santa carità, le trasforma in se stesso e le rende deiformi. – Accostiamoci adunque sovente e bene ad accogliere Gesù dentro dell’anima nostra, ed anche in noi Egli si degnerà certamente di manifestare la sua gloria.

Altra Omelia

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra il matrimonio

“Nuptiæ factæ sunt in Cana Galilæe, et erat Mater Jesu ibi. Vocatus est autem Jesus et discipuli eius ad nuptias.” Jo. II.

Nozze veramente fortunate furono quelle di cui si fa menzione nell’odierno Vangelo, le quali furono onorate dalla presenza di Gesù Cristo, della santa Vergine sua madre e dei suoi discepoli, vale a dire della più santa e della più augusta compagnia, che fosse al mondo. Bisognava senza dubbio che quei nuovi sposi fossero persone ben care al Salvatore per meritarsi dal canto loro una simile condiscendenza. Perciò di qual abbondanza di benedizioni non fu la loro casa ripiena? Non solamente furono arricchiti dei doni della grazia, che li santificò in quel nuovo stato, ma provarono ancora in un modo sensibile gli effetti della bontà e della possanza del divino ospite che avevano la bella sorte di possedere; mentre essendo mancato il vino nel convito delle nozze, Gesù Cristo, ad istanza della sua santa Madre, fece in favore di quei nuovi sposi il suo primo miracolo, cangiando l’acqua in vino. Fortunati anche, fratelli miei, i matrimoni che vengono fatti secondo Dio come fu quello del nostro Vangelo! – Meritano di possedere Gesù Cristo, se non con la sua presenza corporale, almeno con la sua grazia e col suo amore. Non si contenta di dar loro le grazie necessarie per santificarsi nel loro stato, ma fa loro provare ancora in un modo sensibile le cure di una amabile provvidenza, sempre attenta ai bisogni dei suoi figliuoli. – Perché dunque fratelli miei, vediamo sì poche persone felici e contente nel matrimonio? Perché all’opposto tanti disgraziati che soffrono e si dannano in questo stato? Proviene forse questo male perché il matrimonio incompatibile sia con la salute? No, il matrimonio è uno stato stabilito da Dio, cui chiamate sono molte persone ed in cui possono e debbono salvarsi. Ma il male si è che la maggior parte di quelli che si maritano non si curano punto di chiamar Gesù Cristo alle lor nozze; vale a dire, di prepararsi come si conviene a ricevere questo Sacramento. Sì, a quelli dunque che impegnati non sono ancora nel matrimonio, come a quelli che già vi si trovano, indirizzo in quest’oggi il discorso. Voi che aspirate al matrimonio, ricordatevi di chiamar Gesù Cristo alle vostre nozze, cioè di recarvi sante disposizioni: ecco il soggetto del mio primo punto. Voi che impegnati già siete nel matrimonio, siate fedeli a corrispondere alle grazie che ricevute vi avete, adempiendo gli obblighi che esso v’impone: ecco il soggetto del mio secondo punto. In due parole, come convenga prepararsi al matrimonio, come convenga vivere in esso, è tutto il mio assunto.

I.° Punto. Siccome il matrimonio è uno stato molto comune nel mondo, i più di coloro che prendono al giorno d’oggi questo partito pensano falsamente che necessario non sia prepararvisi, ma che basti volerlo, come se una cosa fosse indifferente e profana, la quale non domandi che poche disposizioni dalla parte di quelli che vi s’impegnano. Nulla di meno, fratelli miei, da qualunque canto si consideri il matrimonio, sia nella sua origine, sia nella sua natura, sia nel suo fine, tutto cospira a farcene conoscere la dignità e l’eccellenza e conseguentemente l’obbligo indispensabile di prepararvisi come si conviene. – Se noi riflettiamo in prima all’origine del matrimonio, noi troveremo che Dio medesimo ne fu l’autore, che ne formò Egli i nodi nel Paradiso terrestre tra i nostri primi genitori allorché erano ancora nello stato d’innocenza. Se noi consideriamo il matrimonio nella sua natura, è, dicono gli autori, una società coniugale tra il marito e la moglie che li obbliga a vivere inseparabilmente l’uno con l’altro, unione, società che Gesù Cristo ha innalzata alla dignità di Sacramento della nuova legge che nella sua significazione ci rappresenta l’union di Gesù Cristo con la sua Chiesa. Tale è la nobile idea che ce ne dà l’Apostolo, quando ci dice che il matrimonio è un gran Sacramento per rapporto a Gesù Cristo e alla sua Chiesa: Sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et Ecclesia (Eph. V). Ed invero, siccome il Figliuolo di Dio si è unito alla Chiesa in due maniere, l’una nel mistero dell’Incarnazione, prendendo la natura umana per non fare con essa che una sola persona; e l’altra comunicando a questa Chiesa la sua grazia ed il suo amore, il che è una unione di carità, così nel Sacramento del matrimonio si contraggono due alleanze. La prima fa che due persone che non avevano per lo innanzi alcuna relazione tra loro divengono, per così dire, una stessa persona: Erunt duo in carne una (Matth. XIX). L’ altra secondo lo spirito è la unione dei cuori, la quale produr deve un amor reciproco l’uno per l’altro. Ora fu per santificare e sostenere questa unione che Gesù Cristo diede al matrimonio della nuova legge una virtù particolare di produrre la grazia in quelli che vi si accostano con sante disposizioni, laddove non era il matrimonio altre fiate che un contratto puramente civile e al più una cerimonia di religione tra gli Ebrei, tiene ora un posto tra i Sacramenti della nuova legge per santificare coloro che lo ricevono e dar le grazie al loro stato convenienti. Tale è, fratelli miei, la natura del matrimonio dei Cristiani. Ma qual n’è il fine? Egli è de’ più nobili e dei più santi. Il matrimonio è stato stabilito da Dio e santificato da Gesù Cristo, non già soltanto per popolare la terra, ma vie più ancora per popolare il cielo, per essere una sorgente feconda di Santi destinati a riempier le sede degli angeli prevaricatori. Quanto non è egli dunque rispettabile questo Sacramento? E quante disposizioni non richiede da quelli che ricever lo vogliono? Quali sono queste disposizioni? Uditele. Per ben prepararvi al matrimonio voi dovete primieramente consultar Dio con ferventi preghiere, meritare i suoi lumi con una regolata condotta; dovete inoltre proporvi fini onesti nel matrimonio, purificare le vostre coscienze da minimi difetti a fine di ricever le grazie a questo Sacramento annesse. Che convenga consultar Dio prima d’impegnarsi nel matrimonio è un obbligo, fratelli miei, che la Religione v’ispira e cui è legato il vostro proprio interesse. Voi siete più di Dio che di voi medesimi; voi non potete per conseguenza disporre di voi medesimi contro la volontà di Dio né impegnarvi nel matrimonio, se non vi siete da Dio chiamati. Al che non solo i figliuoli, ma ancora i padri e le madri far debbono grand’attenzione, per nulla conchiudere in un affare di tanta importanza, senz’aver consultato Iddio: operar diversamente si è far un attentato alla volontà di Dio, il quale ha diritto di disporre delle sue creature; si è recar a se stesso un pregiudizio molto considerabile. Imperciocché, se Dio ha fissato a ciascheduno di noi uno stato in cui gli prepara aiuti particolari per la salute, i quali non gli comparte in un altro stato, non sarebbe una grande temerità impegnarvi nel matrimonio, dove vi sono tanti obbligazioni da adempiere, tanti ostacoli a superare, senz’aver le grazie particolari di quello stato? E come lusingarvi di aver queste grazie per portare un peso sì grave, se voi l’addossate contro la volontà di Dio, che vi destinava ad un altro stato? Perciò quante persone che chiamate non sono al matrimonio miseramente vi si danno, le quali salvate si sarebbero in un altro genere di vita! Apprendete dunque, voi tutti che aspirate a questo stato, che non basta che voi lo vogliate, bisogna che lo voglia Iddio; perciò e d’uopo che il vostro matrimonio si faccia in cielo prima che si faccia sulla terra. Questo è ciò che chieder conviene a  Dio pregandolo, come il più savio dei re, di darvi lo spirito di sapienza che deve condurre i vostri passi. Pregatelo di farvi su di ciò conoscere la sua santa volontà. Dovete altresì pregarlo d’illuminarvi sopra la persona che vi destina. Perciocché i genitori possono bensì dare ricchezze, dice lo Spirito Santo, ma una moglie prudente è un dono del cielo: Divitiæ dantur a parentibus, a Domino autem uxor prudens (Prov. XIX). Lo stesso dir bisogna di un marito savio e regolato. – La vostra felicità in questo mondo e nell’altro dipende dalla buona scelta che farete. Vi sono persone che si convengono meglio le une che le altre; che sono più proprie a mantenere l’unione e la pace nei matrimoni per la somiglianza del carattere e principalmente per la loro saviezza e virtù. Voi opererete la vostra salute con la tal persona che vi conviene; e vi dannerete con quell’altra che non vi conviene: temete dunque per la vostra salute, se la passione ha qualche parte nella scelta che far dovete; fate attenzione che le qualità della persona o della fortuna possono acciecarvi, che queste qualità non sono sempre accompagnate dalle virtù proprie a formare una santa unione, e guardatevi ben bene di lasciarvi condurre dall’amore e dal capriccio in un affare sì importante; ma fatevi presiedere la ragione, la Religione, la volontà di Dio. Ecco le guide che seguir dovete. Cercate la virtù piuttosto che la qualità della persona e i beni di fortuna. – Per essere ancora più sicuri di non ingannarvi, consultate i genitori virtuosi, che condur non si lasciano dalla passione né dall’interesse; per mezzo di essi vi farà Dio conoscere la sua volontà. Ad essi ha dato Iddio i lumi necessari per la direzione delle loro famiglie; sanno essi ciò che conviene ai loro figliuoli meglio che non lo sappiano questi medesimi. La gioventù è per l’ordinario cieca e precipitata, per conseguenza più facile ad ingannarsi nella scelta di uno stabilimento, perché essa sovente altra guida non ha che il senso e la passione, i quali distinguer non sanno ciò che le è più vantaggioso; laddove i genitori che hanno dal canto loro l’esperienza e la ragione, operano ordinariamente con più di maturità e di buon successo. Quindi è che le leggi hanno saggiamente stabilito ed ordinato ai figliuoli di chieder il consenso dei loro genitori, prendendo il partito del matrimonio. Sono queste leggi appoggiate non solo sopra l’interesse dei figliuoli, ma ancora sopra quello dei genitori, a cagione delle nuove alleanze. Quelle persone, quei generi, quelle nuore debbono venir posti nel numero dei figliuoli di casa, entrar a parte dei beni e dell’eredità; convien dunque che siano persone gradite dai genitori, affinché la pace regni tra essi. Non bisogna con tutto ciò che i genitori si abusino della autorità sopra i loro figliuoli per far loro sposare contro la loro inclinazione persone che ad essi non piacciono: si veggono pur troppo i funesti esempi dei matrimoni infelici e sforzati dalla volontà dei genitori, i quali responsabili sono di tutti i disordini che quindi succedono. Lasciar devono ai figliuoli un’onesta libertà di scegliere persone d’inclinazione, le quali loro d’altronde convengano per le buone qualità e condizione. Se non debbono i figliuoli seguire la loro passione per maritarsi contro la volontà dei genitori, neppure devono i genitori lasciarsi guidare dall’interesse o da altro umano motivo per costringere i figliuoli a maritarsi contro la propria inclinazione. Sono questi due estremi due scogli che conviene evitare nel matrimonio, e perciò bisogna che gli uni e gli altri indirizzino al cielo ferventi preghiere per ben riuscire in un affare di tanta importanza. Unite dunque, padri e madri, le vostre preghiere a quelle dei vostri figliuoli, per ottener loro da Dio un felice e santo collocamento; ma ricordatevi, o figliuoli, se volete esser esauditi nelle vostre preghiere, di sostenerle con la regolarità di vostra condotta. Imperciocché invano indirizzereste voti al cielo per domandare un santo matrimonio, se voi non vi preparate adesso con la pratica delle cristiane virtù, vi è molto da temere che non siate ascoltati: se all’opposto voi saviamente vi comportate, ricompenserà Iddio la vostra virtù con un felice matrimonio; è lo Spirito Santo stesso che ve ne assicura, quando vi dice che una moglie virtuosa sarà la ricompensa delle vostre buone azioni: Mulier bona dabitur viro prò factis bonis (Eccli.XXVI). Volete voi, dice s. Agostino, trovarne una che vi convenga? Siate voi medesimo tal qual la desiderate. Volete voi averne una casta? Siatelo voi medesimo: Intactam quæris, intactus esto. Volete voi altresì, o figliuole cristiane, trovar sposi saggi, virtuosi, pazienti, moderati? Meritateli con la vostra buona condotta; siate modeste, sagge, ritirate, fedeli a compier i vostri doveri; senza mettervi in pena di produrvi, di farvi conoscere per trovar un partito, Dio saprà provvedervi come si conviene. Non crediate, gioventù sfrenata, che Dio sia per spargere le sue benedizioni sopra matrimoni che sono stati preceduti dal delitto e dal libertinaggio, per via d’intrighi, di commerci che voi mantenete, di visite ad ore indebite, di libertà vergognose che vi permettete gli uni con gli altri, e per via di dissolutezze che la santità del luogo non mi permette di nominare. Non crediate, o giovani mondane, che voi siate per esser contente in quei collocamenti che vi comprate al prezzo della vostra anima per via di ree compiacenze che voi avete pei libertini che vi fanno belle promesse per sedurvi ed appagare le loro passioni. Ah! non è questo il modo di prepararvi a ricevere la grazia del Sacramento del matrimonio; meglio sarebbe rinunziare ad ogni collocamento che giungervi per strade capaci di trarre sopra di voi le maledizioni del Signore, Quindi quanto poco prosperar si vedono i matrimoni di simile sorta cui preparati si sono col disordine e col peccato! Non si vede all’opposto che quelli che si sono in tal modo vie più frequentati, sono coloro che vivono più male quando sono insieme, che sono i più disgraziati e che si dannano nel matrimonio; sia che queste persone si privino ordinariamente con la loro condotta delle grazie particolari annesse al Sacramento, senza cui è assai difficile di salvarsi; sia perché, cangiandosi la loro inclinazione l’uno a riguardo dell’altro, rompano facilmente l’unione dei cuori che esser deve il fondamento della santità e della felicità dei matrimoni. Prima del matrimonio un giovane, una figliuola servivansi di mille artifizi per farsi conoscere tutt’altro da quel che erano: l’uno pareva affabile, paziente, sobrio, l’altra modesta, docile, graziosa; ma da poi che tolta è la maschera e che non avvi più interesse alcuno ad ingannarsi l’un l’altro, quel giovane è tutto trasformato in un uomo collerico, dissoluto, scialacquatore; quella donna è una superba, una capricciosa, un’appassionata per li piaceri: da ciò ne viene che, dopo esser stata trattata prima del suo matrimonio con molto riguardo, viene poi essa trattata con l’ultimo disprezzo; l’affetto che avuto avevano l’uno per l’altro è per cosi dire tutto consumato, perché non era che un affetto cieco e di passione, il quale si è cangiato in indifferenza, in alienazione ed avversione sì grande che laddove prima saziar non si potevano di vedersi, al presente non possono più soffrirsi: tanto è vero che le conversazioni le più assidue non sono le migliori disposizioni al matrimonio, ma sono per lo contrario di ostacolo alla felicità di esso, principalmente quando sono peccaminose! Egli è vero che non si possono troppo conoscere le persone cui deve uno legarsi, che non conviene operar con fretta per non fare falsi passi di cui si ha tutto il tempo di pentirsi, che il matrimonio chiede molte riflessioni, perché è un affare di conseguenza, in cui è molto pericoloso d’ingannarsi; ma è forse necessario che il peccato ed il libertinaggio gli servano di apparecchio? Veder forse non si possono onestamente alla presenza dei genitori? E quando si conosce un’alleanza convenevole non si dovrà egli prendere precauzione alcuna per evitare l’occasion del peccato? Ma qual fine propor vi dovete in quest’alleanza? Quello che Dio medesimo si è proposto nella sua istituzione. Voi dovete, prendendo il partito del matrimonio, non aver in mira che di glorificarvi Iddio, di farvi la vostra salute, aiutandovi vicendevolmente l’un l’altro a riuscire in questo grande affare, a sopportare le miserie e gl’incomodi della vita, ad allevare i figliuoli, che piacerà al Signore di darvi, per essere suoi adoratori, e gli eredi del suo regno. Tali sono i fini del matrimonio; e su di ciò appunto l’arcangelo S. Raffaele istruiva il giovine Tobia dicendogli: Voi prenderete col timore del Signore Sara per moglie al solo desiderio di averne figliuoli e non di soddisfare la vostra sensualità: Accipies cum timore Domini, amore filiorum magis quam libidine ductus (Tob. VI). Lungi dunque da voi, fratelli miei, qualunque motivo carnale ed interessato, come si trovano nella maggior parte dei matrimoni dei nostri tempi, che chiamare si possono matrimoni d’interesse o di passione. Infatti che cosa cercasi nei matrimoni? Il bene o il piacere sono i due mobili che li fanno agire. Trattasi di conchiudere un matrimonio? Non si cercano informazioni della virtù, del merito dei contraenti; ma si domanda se evvi del bene, e subito che se ne trova, si passa sopra tutto il restante. Il bene dona tutte le virtù, tutto il merito possibile: cioè nel matrimonio non si riguarda, se non ciò che v’è di umano e di temporale, e non ciò che è spirituale e divino. Si fanno i matrimoni come contratti puramente civili, si ha ogni attenzione di farvi mettere tutte le clausole necessarie; ma non se ne ha alcuna alla dignità del Sacramento, con cui nobilitato è questo contratto. Ma qual è l’esito di questo contratto che fassi in un modo del tutto umano e carnale? Voi lo sapete, fratelli miei, per una triste esperienza. Si provano ogni giorno mille disgusti, mille affanni di vedersi frustrati di una speranza di cui lusingati si erano sopra le belle promesse, le quali non si vogliono o non si possono più adempiere, mentre, quanto non costa l’aver quei beni, il far osservare le clausole di un contratto in cui si sono promessi? Quindi è che si fanno tante sollecitazioni, si suscitano tante liti, le quali cagionano la divisione tra le famiglie che erano le meglio unite; di modo che i matrimoni che dovrebbero mantenere tra gli uomini una dolce società, la rompono il più sovente tra quelli che erano i migliori amici. Quale n’è la cagione? L’interesse. Ecco la sorgente funesta delle guerre domestiche che si perpetuano talvolta di generazione in generazione. È vero – dice s. Ambrogio – che non è dalle leggi proibito di cercare il suo vantaggio in uno stabilimento, quando vi si può trovare; ma non conviene di un mezzo farne il fine; considerar si deve più la virtù che il bene ed osservare quanto è possibile l’eguaglianza di condizioni per evitare i rimproveri che uno degli sposi può fare all’altro di avergli dato del bene. Tali sono le regole che la prudenza ispira per rendere felici i matrimoni. – Ma se disgraziati sono i matrimoni d’interesse, quelli che forma la passione non lo sono di meno. Tali sono i matrimoni in cui non si ha in mira che il piacere di appagare le passioni brutali, come fanno gli infedeli che non conoscono Dio, dice l’Apostolo: tale fu la cagione dell’infelice sorte dei sette primi mariti di Sara sposa di Tobia, i quali uccisi furono dal demonio la prima notte delle loro nozze; perché entrando nel matrimonio, allontanato avevano Dio dal loro spirito, dice la Sacra Scrittura, per soddisfare i desideri sregolati dei loro cuori. E perciò l’arcangelo Raffaele, per rassicurare Tobia che temeva la medesima sorte, l’esortò d’innalzare il suo spirito ed il suo cuore a Dio nell’alleanza che andava a contrarre con quella donna, perché, gli disse, il demonio non ha dominio, se non sopra quelli che cercano di appagare la loro sensualità. – Eccovi senza dubbio, fratelli miei, ciò che rende al giorno d’oggi sgraziati un gran numero di matrimoni in cui non si cerca che il piacere del senso. Si rendono vilmente schiavi del demonio; e sotto un tal padrone, qual felicità si può mai sperare? Abbiate dunque gran cura, voi che aspirate a questo stato, di purificare le vostre menti e i vostri cuori da ogni pensiero e affetto contrario alla santità di questo Sacramento, per non proporsi che fini onesti e degni di un Cristiano e per evitare i pericoli cui e esporta la castità coniugale; istruitevi prima nel sacro tribunale di ciò che è permesso o vietato, pregate il vostro confessore di dirvelo, prevenendolo che per un tal fine vi confessate; istruitevi anche degli altri doveri della Religione per mettervi in istato d’istruirne gli altri. – Ma per attirare ancora più efficacemente su di voi la benedizione del Signore, abbiate cura di purificare le vostre coscienze con una buona Confessione che far dovete alcuni giorni prima. È bene di farla generale. Questo è anche necessario quando la vostra condotta non è stata regolata, quando il vostro matrimonio è stato preceduto da conversazioni vietate o da altri peccati, di cui non avete lasciata l’occasione o corretto l’abito. Ed è tanto più importante per voi di essere in istato di grazia per ricevere il Sacramento del matrimonio, che se voi lo ricevete in istato di peccato, vi rendete colpevoli di un doppio sacrilegio, profanando un Sacramento di cui voi siete ad uno stesso tempo, secondo il parere di molti, e i soggetti e i ministri. – Qual torto non vi fareste anche di privarvi delle grazie annesse a quel Sacramento, sì necessario per riempier gli obblighi del vostro stato? Per ottener queste grazie indirizzatevi a Colui che n’è l’Autore, pregate Gesù Cristo, di voler ritrovarsi alle vostre nozze, il che voi gli chiederete particolarmente nella Comunione che dovete fare, in cui l’eleggerete per lo sposo della vostra anima: nel giorno avanti al vostro matrimonio fermatevi qualche tempo ai piedi degli altari e raddoppiate il vostro fervore affinché il Signore benedica la vostra condotta. Abbiate cura principalmente che il giorno si passi nella modestia e nel raccoglimento; se il Signore ne sia il principio, come dice l’Apostolo: Gaudete in Domino. Richiamatevi di tempo in tempo la sua santa presenza per innalzare il vostro cuore a Lui: Dominus prope est. Evitate diligentemente quegli eccessi e quelle dissolutezze che rendono talvolta quei giorni i più peccaminosi della vita. Qual indegnità vedere i matrimoni cristiani passarsi come i baccanali dei gentili; vedere i Cristiani andar a ricevere un Sacramento allo strepito dell’arme, al suono degli strumenti, quindi passar la giornata nella dissipazione, nel ballo, nella crapula ed in mille altri eccessi che attraggono la maledizione di Dio sopra i matrimoni, laddove benedetti ne sarebbero, se tutto si passasse nella modestia e nella pratica delle buone opere, e se, invece di fare tante spese, si facessero alcune limosine ai poveri. Ah quanto sarebbe da desiderare che i matrimoni si facessero come quello di Tobia e di Sara, del quale ci riferisce la Scrittura così belle circostanze! Quanto a bramare sarebbe che i nuovi sposi passassero i primi giorni delle loro nozze, come quei virtuosi Israeliti nell’orazione, nella continenza e nella pratica delle virtù! – Sì felici principi assicurerebbero loro una serie d’anni ripieni delle benedizioni del Signore. – Ma siccome non basta il ben cominciare, vediamo come viver convenga nel matrimonio.

II. PUNTO PER UN II. DISCORSO

Sopra il matrimonio.

Obsecro vos ego vinctus in Domino ut digne ambuletis in vocatione qua vocati esti

Eph. IV

Il buon ordine della vita dipende dalla fedeltà di ciascuno nell’adempiere fedelmente agli obblighi del suo stato. Ciò raccomandava singolarmente l’Apostolo s. Paolo ai primi Cristiani che aveva in Gesù Cristo rigenerati: ed aveva tanto più di ragione di tener loro questo discorso quanto che, essendo egli in prigione per l’amor del suo Dio, dava loro un esempio ben vivo della fedeltà che ciascheduno deve avere nel corrispondere alla grazia della sua vocazione, Obsecro vos ect. La stessa esortazione vengo anche io ad indirizzarvi, fratelli miei, in qualunque stato voi siate. Siete voi nel celibato ed avete virtù bastanti per mantenervi in quello stato? Stimate la vostra sorte come la più felice e la più perfetta, la quale vi preserva da molte inquietudini e più sicuramente vi conduce al porto della salute dimostratene la vostra riconoscenza al Signor con la più esatta fedeltà al divin sposo che scelto vi avete. Siete voi impegnati nel matrimonio? Voi non avete peccato, dice s. Paolo, eleggendo questo stato: non cercate a rompere nodi che Dio medesimo ha formati: ma applicativi a compier fedelmente gli obblighi dello stato che avete eletto. – Or siccome molto più sono le persone impegnate nel matrimonio che quelle che non lo sono, ed è questo stato il più comune nel mondo anche cristiano, così alle persone maritate indirizzo in quest’oggi la parola per indurle a corrispondere alla grazia della loro vocazione: Obsecro vos etc. Il matrimonio, è vero, è uno stato duro e penoso, è un giogo che ha molte amarezze; ed il grande Apostolo aveva ben ragione di dire che coloro i quali vi si impegnano avrebbero molte tribolazioni; ma ciò che rende ancora questo giogo più grave ed insopportabile a molti si è che non sanno mettere a profitto le grazie che Dio loro dà per portarlo. Se ciascuno fosse esatto ad adempiere le sue obbligazioni, questo giogo diverrebbe leggiero, e le sue amarezze si cangerebbero in dolcezze; troverebbero nel matrimonio la sua felicità per questa vita e per l’altra. Di somma importanza dunque è, fratelli miei, apprendere ad adempiere fedelmente i doveri che v’impone il matrimonio. Ecco quanto mi propongo di fare in questa istruzione che alle persone maritate indirizzo.

II. Punto. Considerare si può il matrimonio sotto due qualità che gli obblighi tutti ne racchiudono, cioè come Sacramento e come contratto di società: come Sacramento impone grandi obbligazioni per riguardo a Dio; come contratto di società, grandi obbligazioni impone per riguardo al prossimo. Diamo alcune spiegazioni a questi due capi. Quali sono le obbligazioni che il Sacramento del matrimonio impone per rapporto a Dio? Si può dire primieramente che Egli chiede dal canto delle persone maritate una grande fedeltà nel mettere a profitto la grazia sacramentale che hanno ricevuta per adempiere i disegni di Dio sopra di essi. Ma quel che dire vi devo di particolare si è che il Sacramento esige per un titolo speciale dalla parte di coloro che vivono in questo stato, una castità coniugale, la quale, sebbene meno perfetta della verginità, ha nondimeno il suo merito e le sue difficoltà. Poiché non crediate che, per essere uniti insieme con legami indissolubili, voi cessiate di appartenere al Creatore. Il dominio reciproco che dati vi siete l’uno sopra l’altro non può in niente derogare a quello che il celeste Sposo ha diritto di esercitare sopra i vostri corpi e il vostro spirito. Ora questo Dio di purità vuole che conserviate questi spiriti e questi corpi in una continenza la quale ritenga le vostre passioni nei limiti di quel che vi è soltanto permesso per adempiere il fine del matrimonio. Vuole, dice s. Paolo, che evitiate tutto ciò che può offendere l’onestà: Honorabile connubium in omnibus. Guardatevi dunque bene dall’usar del matrimonio come i pagani, che non conoscono Iddio; ma operate come i Cristiani, che rispettar debbono i loro corpi, come i tempi dello Spirito Santo. Per mettervi a coperto d’ogni rischio, fate spesso, giusta l’avviso dello stesso Apostolo, serie riflessioni sopra la brevità del tempo, sopra la vicinanza della morte, affine di regolarvi nel matrimonio con tanta precauzione e saviezza come se maritati non foste: Qui habent uxores, tanquam non habentes sint. Innalzate i vostri cuori a Dio con frequenti preghiere per ottenere le grazie che necessarie vi sono per trionfare degli assalti del nemico di salute. Ecco quanto dire vi posso dopo s. Paolo sopra una materia le cui particolarità offender potrebbero le orecchie caste, e per cui vi rimando al tribunale delle vostre coscienze e agli avvertimenti dei vostri padri spirituali. Abbiate cura d’istruirvi, se avete qualche dubbio; e non operate giammai contro la vostra coscienza, ma seguite sempre i lumi della vostra Religione. – Veniamo ora ai doveri della società, che il matrimonio impone alle persone che ne sono il soggetto. Se il matrimonio ci rappresenta l’unione che Gesù Cristo ha contratto con la sua Chiesa, si può dire altresì che le persone maritate trovano in questa unione il modello perfetto che imitar debbono per compiere le loro obbligazioni. Tale è quello che loro propone il santo Apostolo nelle istruzioni che ha fatte su questa materia. Ora in che maniera si è unito Gesù Cristo alla sua Chiesa? Quali sono gli effetti di questa unione affatto santa e divina? Gesù Cristo si è unito alla sua Chiesa in un modo inseparabile: Il Verbo divino non lascerà giammai la sua santa umanità; egli ha promesso di essere con la sua Chiesa sino alla consumazione dei secoli: quest’unione è il fondamento di un amor puro e benefico dalla parte del capo, e di una ubbidienza perfetta dalla parte dei membri. Su questo modello, fratelli miei, deve essere formata la vostra società. Deve ella essere sostenuta da una fedeltà inviolabile l’uno per l’altro; deve essere il nodo di una amicizia sincera e rispettosa tra il marito e la moglie, ed ha da stendersi sopra i figliuoli che ne sono il frutto. Tali sono le obbligazioni del contratto di società che fassi nel matrimonio. Non solamente nella legge di grazia il matrimonio è stato riguardato come un legame indissolubile; ma questa qualità gli è stata propria sin dalla sua prima istituzione. Avendo Dio medesimo formata questa alleanza, non era in potere dell’uomo di romperla: Quod Deus conjunxit, homo non separet (Matth. XIX). E certamente ne ha Iddio con ragione in tal maniera disposto; mentre essendo il cuore dell’uomo d’un carattere sì soggetto a cangiarsi e sì facile a disgustarsi anche di ciò che più gli piace, di quanti inconvenienti la rottura dei matrimoni sarebbe mai la sorgente? A quanti disordini non aprirebbe la porta? Si vedrebbero i figliuoli abbandonati, le famiglie intorbidate dalle dissensioni, la società umana interamente distrutta e sconvolta. Toccava dunque alla sapienza di Dio il prevenire questi disordini con l’indissolubilità del matrimonio: il che lo distingue dalle altre unioni, le quali cessar possono avanti la morte di coloro che formate le hanno, laddove quella del matrimonio non può rompersi che con la morte del marito o della moglie; ma dopoché questo contratto è stato da Gesù Cristo innalzato alla dignità di Sacramento, ha ricevuto una perfezione più grande di quella che aveva nella antica legge; non può adesso sussistere se non tra due persone, che si debbono l’una all’altra una fedeltà inviolabile; fedeltà che si promette in faccia degli altari, alla presenza degli Angeli e degli uomini; fedeltà che dee durare sino alla morte per non fare di due persone che un solo spirito, un cuor solo, un’anima sola. Ed è per questo carattere d’indissolubilità che il matrimonio della nuova legge rappresenta più perfettamente che quella dell’antica l’unione di Gesù Cristo con la sua Chiesa: Sacramentum hoc magnum est in Christo et Ecclesia (Eph. V). Ma fassi al giorno d’oggi grande attenzione a quelle sacre promesse che contratte si sono nel matrimonio, e che si violano alla prima occasione con disprezzo di quanto ha di più sacro la Religione? O cieli! quale strano rovesciamento! Ciò che esser doveva un rimedio alla concupiscenza dell’uomo, non serve in questo secolo di miseria che a renderlo più licenzioso e più colpevole. Quali abbominazioni e quali dissolutezze non si nascondono sotto il velo del matrimonio? Che, fratelli miei? Si avrebbe rossore di mancar alla sua parola nelle vendite e nelle compre, e non si avrà rossore di mancare alla fedeltà che si è giurata a piè dell’altare? Qual crudele Ingiustizia! Si promette in quest’oggi un affetto inviolabile alla persona con cui si contrae alleanza; e domani si volgono le mire e le sue inclinazioni verso un oggetto straniero. Sembra che il piacere consista nell’offender Dio, e che le cose permesse debbano infastidirvi. Tale è il carattere bizzarro dell’uomo, egli cerca con ardore quel che non ha, dopo essersi disgustato di ciò che possiede. Bisogna dunque, fratelli miei, fissarvi all’oggetto che avete scelto; persuadendovi che vale più di qualunque altro, come diceva altre volte Tertulliano alle persone maritate, per impegnarle a vivere in buona armonia. Infatti non sarebbe meglio non aver mai formato vincolo alcuno con una persona che vivere insieme come i più gran nemici che siano nel mondo? Comprender possiate voi tutti che mi ascoltate quanto grande è il disordine di quelle anime ree le quali di un legame indissolubile, qual si è il matrimonio, ne fanno il soggetto di una disunione, di un divorzio scandaloso, che fa passare i giorni nella tristezza, che rende la vita più dura della morte, che cagiona la rovina delle famiglie, che forma lo scandalo della Religione. Guai a quelli che ne fanno per colpa loro la trista esperienza! Si rendono colpevoli innanzi a Dio d’ingiustizia, violando le promesse e la fede coniugale; di sacrilegio, profanando un Sacramento che li obbliga per un diritto particolare a serbarsi inviolabile fedeltà. Volete voi evitare, fratelli miei, una sì grave disgrazia? Siano i vostri matrimoni uniti coi legami di una amicizia pura e soda, efficace e rispettosa. Il grande Apostolo ve ne dà un modello perfetto nell’amore che Gesù Cristo ha per la sua Chiesa e nell’ubbidienza che la Chiesa rende a Gesù Cristo; mariti, amate le vostre moglie, come Gesù Cristo ha amata la sua Chiesa : Viri, diligite uxores vestras, sicut et Christus delixìt Ecclesiam (Eph. V). Ora qual è stato l’amore di Gesù Cristo per la  Chiesa? É stato si grande che Egli si è dato per essa, come dice lo stesso Apostolo, affine di renderla santa e gloriosa; la nutre, provvede a tutti i suoi bisogni, comunicandole i suoi tesori e le sue grazie. In tal modo devo noi mariti amare le proprie mogli. Il loro amore, per esser simile a quello di Gesù Cristo, ha da essere puro, casto e regolato, vale a dire, non deve esser guidato dalla passione, ma secondo Dio,il quale dee esserne il principio ed il fine. Quest’amore pure e casto ha da essere senz’artifizio e senza finzione: Dilectio sine simulatione (Rom. XII). Deve scacciare vicendevolmente qualunque diffidenza; non sa che cosa sia quella gelosia mesta e stizzosa, quei sospetti ingiuriosi cui s’abbandonano certi mariti su cattivi rapporti che loro si fanno della condotta di una moglie che diventa così la vittima di una cieca o funesta passione senza per altro aver dato alcun motivo di sospettare della sua fedeltà. Un’altra regola che il dottor delle genti propone a seguire per l’amore che i mariti debbono alle loro mogli è l’amore ch’essi hanno pei loro corpi. Colui, dice egli, che ama sua moglie, ama se stesso: Qui suam uxorem diligit, seipsum diligit. Niuno ha mai odiato la sua propria carne; così i mariti odiar non devono le loro mogli. Qual affetto non si ha pel suo corpo? Se ne ha cura, si nutre per conservarlo in sanità; se è infermo, si compatisce, si ristora, nulla si risparmia per guarirlo. In questa guisa voi, o mariti, amar dovete le vostre mogli; ed è questa altresì la regola ed il modello che le mogli debbono seguire nell’amore che han da portare ai loro mariti. In virtù dell’unione che avete contratta insieme, tutti i beni e i mali debbono esser tra voi comuni; i beni per sostenere i pesi del matrimonio, e i mali per essere raddolciti dagli aiuti di cui vi siete vicendevolmente debitori. Se uno è nell’allegrezza, deve l’altro parteciparvi; se uno è nella malinconia, dee l’altro risentirla: gaudere cum gaudentibus, fiere cum flentibus. Lungi da voi dunque quella durezza di cuore che si osserva in certi mariti i quali riguardano le proprie mogli come schiave piuttosto che come loro compagne; che ricusano sino le cose necessarie ad esse ed alla loro famiglia, mentre essi d’altra parte dissipano i loro averi, di cui non sono che gli economi; che alle mogli non partecipano alcuno dei loro affari, né ascoltar vogliono alcun avvertimento da esse, ma vogliono il tutto fare da se stessi, come se una moglie fosse una straniera che entrar non dovesse in società dei loro disegni. E non è questo peccare contro il fine del matrimonio, che render dee ogni cosa comune tra i mariti e le mogli, lo spirito, il cuore e gli averi. – Ma se i beni esser debbono comuni tra le persone maritate, i mali debbono esserlo ancora per ricevere l’uno dall’altro i soccorsi necessari per raddolcirli. Ora quante miserie non è l’umana condizione soggetta? Accadono talvolta sinistri accidenti, perdite di beni che desolano le famiglie, infermità, malattie che ne consumano tutti i redditi e che, rovinando la sanità, rendono inutile una persona la quale non è più che a carico e non è più capace che di cagionar noia, disgusto e mille gravose inquietudini. Si cerca una invitta pazienza per sostenere in quei momenti la natura oppressa sotto il peso della tribolazione! Ma è allora appunto che un amore pietoso deve venire al suo soccorso per consolarla nell’afflizione, per aiutarla nell’infermità: allora debbono il marito e la moglie ricordarsi delle promesse solenni che fatte si sono vicendevolmente di mantenersi la fede, di aiutarsi, in qualunque stato si ritrovino. Quello dei due che non è infermo né afflitto pongasi nelle veci di quello che lo è, per dargli tutti i soccorsi che nel bisogno medesimo vorrebbe egli stesso ricevere; ma diensi questi aiuti con gioia e piacere, come dice l’Apostolo; qui miseretur in hilarilate (Rom.XII), e non con maniere aspre e dispiacevoli, che ne fanno perder il merito: neppure aspettar conviene che uno chieda soccorso all’altro, bisogna prevenirlo con offerta di servigio, con reciproche cortesie: Honore invicem prævenientes (Rom. XII). Ma se l’amore degli sposi deve essere pietoso per alleggerire i mali e le miserie della vita, non deve esserlo di meno per sopportare i difetti cui essi sono sottoposti. È questo un punto di morale che vi prego di ben bene osservare. Certa cosa è non esservi alcun nel mondo il quale esente sia da difetti: ciascuno ha i suoi, e sarebbe ingannarsi a gran partito il credere di non averne alcuno. Non bisogna dunque immaginarsi che, sposando una persona, si debba trovarla perfetta: si sposano con essa i suoi difetti, le sue imperfezioni; s’incorre nell’obbligo sin d’allora di soffrirli; e se sopportar non si volevano i difetti l’uno dall’altro, bisognava o non contrarre giammai alcuna società o romperla interamente. Se tutte le persone maritate fossero ben persuase di queste verità, si vedrebbero forse ai nostri giorni tante dissensioni nei matrimoni, tanti contrasti, tante guerre domestiche, che ne disturbano il riposo e la pace? Si udirebbero forse tante parole ingiuriose, tante maledizioni ed imprecazioni dei mariti contro le mogli, delle mogli contro i mariti, che scandalizzano la famiglia e che la cagion saranno della loro eterna dannazione? Donde vengono questi disordini? Dal difetto di pazienza nel sopportarsi l’un l’altro; niuno sforzo vogliam fare per perdonarci vicendevolmente un’offesa. Vogliamo bensì che gli altri ci sopportino e ci perdonino, ma sopportar non vogliamo né  perdonare agli altri; ciascheduno vuol avere ragione, e niuno vuol rendersi giustizia. Dopo questo si lamentano che è impossibile di salvarsi nel matrimonio: vi si rimira la virtù come impraticabile, lo non ne sono punto sorpreso, fratelli miei, perché far non sapete di necessità virtù; perché mancate di condiscendenza l’uno per l’altro, laddove, se voi sopportaste pazientemente i difetti delle persone con cui obbligati siete di vivere, la vostra società sarebbe assai più dolce. Dio ne resterebbe meno offeso, la vostra salute più sicura. Sopportatevi dunque gli uni con gli altri, come dice s. Paolo: Alter alterius onera portate (Gal. VI). – Perciò sopportate, o mariti, i difetti delle vostre mogli. Voi vi dolete del loro cattivo umore, dei loro capricci; voi loro rimproverate ch’esse trovano da dire a tutto ciò che voi fate; ve lo accordo, meritano le vostre riprensioni: ma non hanno esse a lamentarsi di voi, che siete un dissoluto, un collerico, uno scialaquatore? Volete voi che esse vi perdonino? Perdonate loro ancora voi. Lo stesso dico alle mogli riguardo ai loro mariti. Se la carità vi obbliga a riprendervi l’un l’altro, ciò sia con prudenza, con dolcezza ed in un tempo che possiate guarir il male e non inasprirlo; se le vostre prudenti correzioni, i vostri buoni consigli a nulla servono, pregate l’un per l’altro. A che inquietarvi di ciò che impedir non potete e di cui non risponderete a Dio, il quale giudicherà ciascheduno secondo le sue opere? Quando avrete fatto quanto potete dal canto vostro, lasciate far a Dio il restante; forse la vostra pazienza, la vostra virtù, le vostre preghiere ricondurranno al dovere la parte colpevole. Sia come si voglia, fratelli miei, ritorno al principio, bisogna fare necessità virtù, sopportandovi pazientemente l’un l’altro nei vostri difetti; è questo il mezzo di conservare l’unione e la pace, la quale fa la felicità dei matrimoni. Voi nulla tralasciar dovete per conservare questa pace sì preziosa, che deve essere il vostro rifugio contro le altre disgrazie della vita. Non basta forse che abbiate molestie al di fuori, senza inquietarvi l’un l’altro con altercazioni, con inimicizie, con cattivi trattamenti? Non dovete all’opposto consolarvi scambievolmente delle altre disgrazie che vi accadono, o pei disastri della fortuna o per la persecuzione dei vostri nemici? Ora per avere questa pace nel matrimonio, bisogna che ciascuno adempia i suoi doveri a riguardo l’uno dell’altro, che i mariti amino le loro mogli, come Gesù Cristo ha amata la Chiesa, che le mogli siano sottomesse ai loro mariti, come la Chiesa lo è a Gesù Cristo; è sempre la dottrina del grande Apostolo: Sicut Ecclesia subiecta est Christo, ita mulieres viris suis in omnibus (Eph. V). La ragione che egli nedà si è che siccome Gesù Cristo è il capo della Chiesa, così le moglie riguardare debbono i propri mariti come loro capi estare ai medesimi sottomesse in tutto quello che non è contrario alla legge di Dio: perocché, se i loro mariti volessero con la loro autorità costringere a qualche azione contraria alla legge del Signore: debbono esse piuttosto piacere a Dio che ai loro mariti. Bisogna dunque che questi usino della loro autorità con prudenza ed amore:con prudenza, per nulla comandare contro la legge di Dio; con amore, per trattare le loro mogli non come schiave, ma come compagne che esser devono a parte con essi delle dolcezze dellasocietà.Per finir di trattare delle obbligazioni delle persone maritate, mi converrebbe parlare ancora dei doveri riguardo ai figliuoli, che ne sono la conseguenza:ma la materia richiede una istruzione particolare; e perciò finisco esortandovi a camminar fedelmente nella vocazione cui Dio vi ha chiamati. Se voi non siete ancora legati da matrimonio ed aspirate a questo stato, preparatevi ad esso con l’orazione, e la regolarità della condotta, con la rettitudine delle intenzioni, con la purezza della coscienza. Se siete in esso impegnati, siate fedeli ad adempiere gli obblighi vostri verso Dio e verso il prossimo:verso Dio con la purità delle vostre menti e dei vostri corpi: verso il prossimo con un amore puro, sincero, efficace e pietoso. Se preso avete il partito del matrimonio contro la volontà di Dio, e siete riuscito male nella scelta che avete fatta e siete mal contenti della vostra sorte, non bisogna per questo perdersi di coraggio né disperare della vostra salute: Sebbene non vi abbia posti Dio nei legami in cui vi siete impegnati da voi medesimi, vuole nondimeno che vi dimoriate perché non è in poter vostro di romperli; e siccome salvar vuole gli uomini tutti, in qualunque stato siano, vi darà le grazie necessarie, cui non avete che a corrispondere per esser salvi. È dunque inutile voler ritornare indietro, desiderare un altro stato in cui esser non potete; ciò sarebbe tormentarvi invano: peggio ancor fareste abbandonando all’impazienza, mormorando, bestemmiando contro coloro che sono la cagione della vostra disgrazia.

Pratiche. Ma ciò che voi far dovete si è di offrir a Dio le pene del vostro stato in penitenza del falso passo che avete fatto; si è di vegliare così attentamente su voi medesimi, di essere così fedeli a compiere i vostri doveri, che vi meritiate dalla parte di Dio le grazie particolari dello stato in cui impegnati vi siete; si è di farvi un merito di ciò che evitar non potete. Sopportate con pazienza i difetti della persona che non vi conveniva; non fate giammai sapere altrui i vostri disgusti; le vostre riflessioni e i vostri ragionamenti su di ciò non farebbero che accrescere i vostri affanni: ma cercate in Dio solo la vostra consolazione. Andate con questa mira a visitar qualche volta il Santissimo Sacramento per chieder a Gesù Cristo quanto vi è necessario, la pazienza di soffrire per amor suo. Ricorrete alla protezione di Maria Vergine e di s. Giuseppe, protettori delle persone maritate; recitate ogni giorno qualche preghiera in loro onore; frequentate spesso i Sacramenti, in cui riceverete le grazie e i lumi che vi fortificheranno, sebbene aveste un marito, una moglie infedele. L’apostolo s. Paolo non dice forse che la moglie fedele santifica il marito infedele, e che il marito fedele santifica la moglie infedele con le cure e le sollecitudini che l’uno si dà per convertir l’altro e condurlo a Dio? Così diportossi s. Monica riguardo a suo marito, così Clotilde riguardo a Clodoveo il primo dei re di Francia Cristiani. Proponetevi questi modelli ad imitare, e tanti altri di cui vedete gli esempi, che si santificano nello stato del matrimonio, malgrado gli ostacoli, che vi riscontrano. Servite a Dio, come essi, con fervore adempiendo i doveri del vostro stato. Perché non farete voi dunque quel che fanno essi, giacché aspettate la medesima ricompensa, che è la vita eterna? Cosi sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps LXV: 1-2; 16
Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja
. [Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta

Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.  [Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joann II: 7; 8; 9; 10-11
Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis. [Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio

Oremus.
Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.
[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

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https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

TEMPO DELL’EPIFANIA

TEMPO DELL’EPIFANIA

Dal 14 Gennaio alla Domenica di Settuagesima.

I . Commento Dogmatico.

Il ciclo di Natale è come un dramma grandioso in tre atti, che ha il fine di rappresentare in tre modi distinti l’Incarnazione del Verbo e la divinizzazione dell’uomo.

Il primo atto del ciclo di Natale si svolge durante le quattro settimane dell’Avvento. Ci rivela, con figure e parole profetiche, il grande dogma di un Dio fatto uomo e ci prepara a partecipare a questo grande mistero.

Il secondo atto, che comprende, con il Tempo di Natale, tutti i misteri della fanciullezza di Gesù ci fa « vedere con i nostri occhi e toccare con le nostre mani il Verbo di vita che era nel seno del Padre, e che ci è apparso, perché possiamo entrare in comunione con il Padre, e con il Figlio Gesù Cristo, e perché la nostra gioia sia perfetta (S. Giov. I, 4)

Il terzo atto, che si svolge durante il Tempo dopo l’Epifania, è la continuazione del Tempo di Natale. La divinità di Gesù continua ad affermarsi. Non sono più gli Angeli del « Gloria in excelsis », né la stella dei Magi, e neppure la voce di Dio Padre e l’apparizione dello Spirito Santo, come al Battesimo di nostro Signore, ma è il Cristo stesso che agisce e parla come Dio. Egli vorrà, come vedremo nel ciclo di Pasqua, la sottomissione del nostro spirito e del nostro cuore al suo insegnamento e alla regola di condotta ch’Egli ci detta; bisogna dunque che prima di tutto le sue parole e i suoi atti manifestino la sua autorità divina. Cosi, i Vangeli della 2a 3a e 4a Domenica dopo l’Epifania, sono tratti dalla serie di miracoli che San Matteo riferisce, e quelli della 5a e 6a domenica dalle parabole chi lo stesso Evangelista riporta per dimostrare che Gesù è il Messia: Gesù comanda alle malattie, al mare, al vento, cambia l’acqua in vino, guarisce a distanza, o con un semplice gesto. Egli è dunque Dio. Gesù parla anche come solo un Dio può farlo. Questo Tempo dopo l’Epifania è, come tutto il ciclo di Natale, il tempo consacrato all’Epifania, o manifestazioni della divinità di Gesù.

Le parole di Cristo, sono l’espressione diretta e sensibile dei pensiero di Dio. « Le cose che Io dico, le dico come il Padre me le ha dette » (S. Giov., XII, 50). E come le Sante Specie, che sono l’oggetto della nostra adorazione, perché contengono la divinità, la dottrina di Gesù esige da parte nostra fede e rispetto, perché è una piccola parte della verità eterna. « Colui che riceve con indifferenza la santa parola, non è meno colpevole di colui che lascia cadere a terra il Corpo del Figlio di Dio » (S. Cesano, Appendice opere S. Agostino, Sermo CCC, 2). Ciò che S. Paolo dice dell’Eucarestia: « Colui che mangia indegnamente il Corpo del Signore, mangia la propria condanna ». (I ai Corinti, XI, 29). Gesù l’ha detto con la sua parola sacra: « Colui che non riceve le mie parole, ha chi lo giudica: la parola annunciata da me, questa sarà suo giudice nel giorno estremo » (S. Giov., XII, 48). Perché restringerla, è respingere il Verbo che si manifesta a noi sotto questa forma. Ma Gesù non ha soltanto « detto la verità » (id. VII, 40), secondo la sua bella espressione, egli ha « fatto la verità » (id. III, 21). Possedendo la natura del Padre, ne possiede non solo la dottrina, ma anche l’Onnipotenza. – Il Figlio non può far niente da sé, se non quello che vede fare dal Padre, perché tutto ciò che il Padre fa, il Figlio lo fa egualmente (id. V, 19); E allora, come le sue parole, cosi i suoi miracoli sono una manifestazione della sua divinità. « Le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste rendono testimonianza di me (id. X, 25). Un uomo non saprebbe parlare e agire come Gesù, se non fosse Dio; così Egli aggiunge: « Se Io non fossi venuto e non avessi parlato loro, essi non avrebbero peccato, ma ora essi non hanno scuse per i loro peccati. « Se io non avessi fatto fra loro opere tali, che nessun altro mai fece, sarebbero senza colpa » (id. XV, 22-24). Queste due frasi riassumono, in rapporto a Gesù, tutto il Tempo dopo l’Epifania. E, quanto a noi, dobbiamo cercare nelle Epistole tratte dalle lettere di S. Paolo ai Romani, quale sia lo Spirito di questo stesso Tempo. Non soltanto Dio, fedele alla sua promessa, invita i Giudei ad entrare nel regno di cui il suo Figlio è re, ma pieno di misericordia, chiama tutti i Gentili a far parte di queste regno, in modo che, divenuti anche noi a nostra volta membri del Corpo mistico di Cristo, dobbiamo amarci l’un l’altro come fratelli in Gesù Cristo e sottometterci in tutta umiltà al Figlio di Dio, che è nostro Re.

II. Commento storico

Al tempo di nostro Signore, la Palestina era divisa in Quattro ProvincieAd Est del Giordano, la Perea; ad Ovest ed a Sud laGiudea; al centro, la Samaria; al Nord, la Galilea.In questa ultima regione, dove furono un tempo le tribù di Aser di Neftali,, di Zàbulon, di Issachar, si svolsero gli avvenimenti narrati nei Vangeli delle Domeniche dopo l’Epifania. A Cana Gesù fece il suo primo miracolo (2° Dpm. Dopo l’Epifania). Poi nella Sinagoga di Nazaret, tornando nella Galilea, predicò la sua sublime dottrina, « che rapiva tutti coloro che l’ascoltavano » (Comm. delle Dom. 4°, 5°, 6° dopo l’Epifania). Ancora in Galilea Gesù guarì il lebbroso(Vang 3a Dom. dopo l’Epifania). Ma a Cafarnao soprattutto,a una giornata di cammino da Nazareth, per una stradache discende attraverso le collinedi Zàbulon, Gesù predicò la suadottrina ed operò i suoi miracoli.Dopo il discorso della montagna, che alcune tradizioni diconcofosse quella di Kùrum Hattin, al Nord-Ovest di Tiberiade, Crist:odiscese a Cafarnao dove guari il servitore del centurione (Vang. 3aDom. dopo l’Epifania). Sopra una barca presso la riva del Iago, chedeve il suo nome di Genezaret, o valle dei fiori, ai prati fioriti, checircondano le sue sponde, Gesù narrò la parabola del seminatore (Ev. 5a Dom. dopo l’Ep.). Le fertili colline che si stendono da Cafarnao a Chorozain gliene offrirono gli elementi. Quanto alle parabole delle quali ci parla il Vangelo della 6 a Dom. dopo l’Epifania, furono dette poco dopo. Alla fine di questa continuata predicazione, una sera, il Salvatore, non potendo riposare, volle attraversare il lago di Tiberiade, formato dalle acque del Giordano, il quale è sovente sconvolto da frequenti e forti uragani. Qui Gesù calmò miracolosamente la tempesta e mostrò ancora una volta agli Apostoli di essere Dio (Vang. 4″ Dom. dopo l’Ep.).

III. — Commento Liturgico.

Il Tempo dopo l’Epifania comincia il domani dell’Ottava di questa festa e va per il Ciclo del Tempo fino al tempo di Settuagesima e per il Ciclo dei Santi, fino al 2 febbraio, Festa della Purificazione. Mentre le feste del Natale e dell’Epifania che cadono sempre il 25 dicembre e il 6 gennaio danno al Ciclo di Natale un carattere di stabilità, il Ciclo di Pasqua che si svolge in gran parte sotto la luna pasquale, è necessariamente mobile. Cosi, quando la festa della Risurrezione, che può cadere tra il 22 marzo e il 25 aprile, cade presto, la 9a Domenica che precede e cioè quella di Settuagesima, viene ad occupare il tempo dopo l’Epifania, il quale mentre conta normalmente 6 domeniche è talvolta ridotto a una o due domeniche (ved. p. 271). Il color verde, simbolo della speranza, è quello del Tempo dopo l’Epifania, come sarà quello del Tempo dopo la Pentecoste. Il verde è infatti il colore che predomina nella natura. San Paolo dice che colui che scava il solco, deve farlo con le speranza di raccogliere i frutti. Allo stesso modo in questo Tempo dopo l’Epifania, il campo della Chiesa, seminato con la dottrina e con le opere, di Gesù, si copre di verdi steli, promessa di abbondante raccolto. Facendo eco a quello di Natale, questo Tempo ha dunque la caratteristica di una santa gioia; la gioia di possedere nella persona di Cristo, un Dio « potente in opere ed in parole » (S Luca, XXIV, 79); la gioia anche di far parte del suo regno sulla terra in attesa che al suo ritorno ci faccia partecipi per sempre del regno eterno.

LO SCUDO DELLA FEDE (94)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (5)

CAPO V.

Il mondo non poté essere da se stesso.

I. A voler corre la rosa, convien procedere sempre con tal destrezza, che non si punga al tempo stesso la mano tra mille spine noiose che la circondano. Dacché però, a voler conseguire la verità da cercarsi in questo capitolo, non si possono tutte schivare appieno quelle contenzioni scolastiche che sono le più spinose, vediamo almanco di trattarle di modo che non ci pungano, come ci avran forse punti nel precedente.

I.

II. Ditemi dunque (prima che diamo un urto al mondo, e il gettiamo a forza di ragion viva giù da quel trono in cui l’han collocato i suoi stolidi adulatori, qual nume sommo), chi ha detto a voi che il mondo non avesse incominciamento? Aristotile, fra quei problemi dialettici che dan luogo di tenzonare verisimilmente per l’una e per l’altra parte, ripose questo, dell’essere, o non essere il mondo eterno (Qui giova distinguere due questioni, che l’autore sembra abbia insieme confuse. Altro è il domandare, se il inondo esista da tutta l’eternità per virtù propria, ed altro il chiudere, se non possa essere stato creato da Dio da tutta l’eternità, anziché aver cominciato ad esistere nel tempo. L’autore non vide, che fra queste due proposizioni, 1° il mondo esiste ab eterno per virtù sua propria, 2° il mondo cominciò ad esistere nel tempo, intermedia quest’altra: il mondo fu creato da Dio fin dall’eternità): Utrum mundus sit æternus (L. 1. Top. c. 9 ). E sebbene egli mostrò di tenero tale, tuttavia, dove ne trattò di professione, provò bensì non sussistere quelle vie che gli antichi filosofi avean battute a dargli principio, ma non ne scoperse delle sussistenti a negarglielo (S. Th. 1. p. q. 46. art. 1. in c.). Piuttosto confessò dappertutto, che il parere universale degli uomini favoriva la produzione del mondo in tempo: Omnes quidem mundum generant (De cœlo 1. 1. text. 10): tanto ella è più conforme al giudizio della ragione.

III. E vaglia la verità: quanto di violenza conviene che vi facciate a stimar piuttosto che il mondo non cominciasse? Se fosse eterno, par pure che egli non avrebbe dovuto indugiar tanti secoli a farsi dotto. Gli arabi vantano di essere stati i primi fra tutti i popoli ad osservare i movimenti do’ cieli. Gli Egiziani i primi a insegnare la medicina. I Greci i primi a introdurre la marinaresca, i Cartaginesi i primi a trovar la mercatanzia (V. Polib. Virg.) . E i tempi a noi men remoti non ci hanno parimente donato l’uso della calamita, degli archibugi, delle artiglierie, e della stampa, sì ignote per lungo tratto a’ nostri antenati ‘i Rerum natura sacra sua non simul tradit, diceva Seneca (Natur. q. 1. ult.). Se il mondo però fosse stato eterno, sarebbe pure preceduto negli uomini un eterno studio ed un’eterna esperienza. E però, come può credersi, che non fosse bastata un’eternità a rinvenir quelle industrie, per cui è bastato lo spazio di seimila anni? Forsa il mondo è stato sempre fanciullo, e solamente da pochi secoli in qua egli è pervenuto all’età della discrezione?

II.

IV. Direte per avventura, che tutte queste arti fiorirono a un tempo al mondo, ma che a poco a poco declinarono tanto, che se ne venne anche a perdere la perizia. Sia ciò che dite. Ma come almanco non ne venne a restare la rimembranza? Questo è ciò che non può credersi senza stento. Conciossiachè quale lima possiamo noi divisare nella natura, la quale giungesse a radere mai dagli animi sì altamente ogni sentore di ciò che giovava tanto al comun genere umano? Miriamo che gli uomini hanno innestato nel cuore un desiderio di gloria insaziabilissimo. Onde non solo le Provincie più illustri, ma infino le più volgari vanno ostentando ciò che tra loro abbia vanto di singolare: e per mezzo o di pitture, o di intagli, o d’iscrizioni, o di libri, o almen della voce viva, sogliono tramandar di padre in figliuolo ciò che fu per loro inventato di memorabile. E pure non abbiamo memoria alcuna di questa eternità posseduta da veruna arte, per inclita che ella sia: né i secoli più vetusti hanno mai trasmessa ai novelli alcuna contezza di quelle scienze, di cui noi gli abbiam sempre stimati privi. 1 più antico storico di cui ragioni la fama, fu Beroso Caldeo (Joseph contra Apionem 1. 1). E pure egli non seppe ordire le sue narrazioni da altro, che dal diluvio sì celebre di Noè. E le più antiche poesie sono gli eccidi, o di Troia, o di Tebe, città notissime, non solo per la morte di ambedue loro, ma per i natali (Lucretius l. 5). – Se dunque il mondo è sì vecchio, che è sino eterno, come sono sì giovani i suoi scrittori?

V. So che voi qui ricorrete agli iterati diluvi che, ad ora ad ora sommergendo la terra, abbiano, con le vite degli uomini, estinta ancora ogni ricordanza delle loro imprese più belle. Ma vi ricorrerete a piacere. Nella natura non v’è questa forza immensa di sopraffar tutti i monti con piene tali, che allaghino l’universo: attesoché non ha ella altri pozzi onde attingere l’acque che di poi versa su la terra e sul mare, che i seni stessi della terra e del mare su cui la versa; che però il diluvio di Noè, che poc’anzi io rammemorai, fu per virtù della giustizia divina montata in ira, non fu per congiungimento di costellazioni piovose che allor corressero, potendo bensì queste eccitare qualche diluvio particolare, quale fu quello che sotto Deucalione allagò tutta la Tessaglia, ma non potendo eccitarne (come il Filosofo mostra), un universale.

VI. Oltre a ciò passo ad interrogarvi : O noi poniamo, che per tali diluvi, replicati ogni volta che le stelle concorressero in un tal posto determinato, venissero a perir sempre tutti i viventi, o che ne campasse qualcuno: si qualcuno ne scampò, come dunque non lasciò egli a’ suoi posteri questo sì grande avviso del mondo naufrago; in quella guisa che chi campò per sorte fortunatissima nella rotta di qualche famoso esercito fatto in pezzi, ne reca ad altri la funesta novella, ed ama di comparir tanto più felice nella comune felicità, quanto fu più solo? Se poi si ponga che tutti i viventi rimanessero morti, chi dunque tornò a generarli di nuovo? chi gli allattò? chi gli allevò, chi li provvide di necessario ristoro su quei primi anni? chi insegnò loro il ben vivere, noto a niuno, se non lo apprende? Dopo il diluvio particolare di Ogige che affogò l’Attica, sappiamo che dugento anni stette quella provincia a riabitarsi (Perer. in Gen. t. 1.1. 2. dis. 14). Che non avrebbero dunque operato di danno al mondo questi iterati diluvi sì universali, ove non fossero favole? Se dopo quel di Noè la terra in breve tempo restò abitabile da’ figliuoli di lui, salvati nell’arca, noi diciamo che ciò seguì a forza di quel vento miracoloso che Dio svegliò a disseccarla fuor di ogni legge. Ma qual miracolo può mai vantare ancor egli chi neghi Dio? La natura può ben talora operare sotto la sua virtù, con produrre i mostri; ma sopra la sua virtù non

può mai far nulla: tanto da sé è limitata.

III.

VII. Piuttosto dunque da quei diluvi piccoli, ma veraci, che sovente accadono al mondo, io dietro l’orme di più uomini dotti, vi argomento contra, e vi pruovo ch’è fatto in tempo. Noi da un lato veggiamo nella natura una tal cagione, che a poco a poco va ognora più diminuendoci i monti (Cabeus 1. 1. Meteorol. text. 72). E questa è la pioggia rovinosa che cala dalle loro sommità, sempre torbida e sempre terrea, per lo mescolamento di quel terreno che porta seco, quasi di rapina, alle valli. E dall’altro lato non veggiamo nella stessa natura cagion veruna, la qual faccia mai la dovuta restituzione, con riportare e riporre il terren caduto sulle medesime sommità. Adunque i monti non sono stati ab æterno; altrimenti a quest’ora sarebbonsi già appianati infinite volte, non che abbassati. Però conviene di necessità agli ateisti, o confessare che il mondo fu fatto in tempo, come io dicevo; o quando vogliano mantener con perfidia che egli fu eterno, convien che trovino una cagion più possente nell’operare, di quel che sia la natura, la quale abbia di tempo in tempo rialzate queste gran moli, per la  lunghezza degli anni prostese al suolo: da che il ricorrere che fanno alcuni a’ tremuoti, per ripararsi dal colpo di questa ragion sì forte, non è bastevole, mentre per quanti tremuoti abbiano finora scossa la terra con forza orribile, sappiamo bone, essersi profondato molte città, ma non sappiamo essersi eretto né anche un piccolo colle, non che un argine invitto di monti simili agli Appennini ed all’Alpi. E se è così, le tante piogge non favolose, ma certe, venute al mondo, dimostrano ch’egli nacque a un parto col tempo, e che per conseguente ebbe artefice che il cavò dal seno del nulla.

IV.

VIII. Poi, scendendo anche più dall’universale al particolare, convien che io chieggavi, che intendiate per mondo, quando mi state a dire che egli fu eterno? Intendete voi le generazioni degli uomini? No di certo, perchè, come abbiamo veduto, queste dovevano a forza sortir principio. E però né anche potete intender per mondo le generazioni de’ bruti, nascenti all’istessa guisa. Conviene adunque, che voi per mondo vi riduciate ad intendere, non gli abitanti, ma solo l’abitazione, cioè il globo celeste che n’è la volta, ed il terrestre che n’è come il suolo, circondato dall’acque, e adorno in terra ferma di piante, di pietre, di metalli, e di tanti diversi misti che l’abbelliscono a meraviglia (L’autore piglia qui il vocabolo mondo in senso troppo ristretto, mentre va adoperato a significare il complesso di tutti gli esseri, siano terreni o celesti, corporali o spirituali, di cui nessuno ha la sua ragion di essere in se medesimo. Di che si inferisce, che il mondo per ciò appunto che è contingente nel suo insieme, non può essere eterno. In quella vece preso il mondo nel senso ristretto dell’autore, quand’anche dimostrato temporaneo, rimarrebbe pur sempre di provare, che anche gli altri esseri mondiali hanno tutti avuto un principio).

IX. Ma piano un poco, perché è manifestissimo a tutti i saggi, che la fabbrica mondiale èfatta unicamente in grazia dell’uomo, il quale, se ben si pondera è quegli che ne raccoglie un frutto incomparabilmente maggiore di quel che traggane qualunque altro vivente, valendosi egli di tutte le creature, o per cibo, o por difesa, o per diporto, o per medicina, o se non altro per quello che è proprio suo, che è per acquisto di scienza. A che avrebbe dunque servito così gran fabbrica, se, come in casa vacante, fossero preceduti infiniti secoli ad introdurvi quel nobile abitatore per cui fu fatta ? Forse doveva sì gran palazzo concedersi ai bruti soli? Ma primieramente di questi non mi potete più far menzione: altrimenti di nuovo io vi chiederei, come nascessero i bruti per via di continuate generazioni fino ab æterno, se da voi si pone, che manchi la cagion prima? Di poi soggiungo, come poteva la natura amarli di tanto, mentre non sono essi capaci di verace amicizia, la quale consiste nella scambievole corrispondenza degli animi, e comunicazion degli arcani, propria delle pure creature intellettuali? E poi quante opere belle sarebbero per una eternità state inutili senza l’uomo? A che produrre tanta varietà di fragranze delicatissime, se non v’era chi ne potesse godere un saggio? Le bestie altro odoro non curano, che quell’uno il quale le scorge ai due loro diletti sommi, appartenenti al pascersi e al propagarsi. A che l’armonia di tanti uccelli canori, se non v’erano orecchie di lei curanti? A che le scene de’ boschi, de’ prati, delle pianure, de’ monti, e quel che è più, di tante stelle che adornano il firmamento, se non v’era occhio capace di vagheggiarle per tutta un’eternità? Senzaché tornerebbe a risorgere l’argomento addotto di sopra. Chi fu il primo a far comparire gli uomini in questo palco, dopo un’eternità (se così vogliamo chiamarla) di scena vuota? Spuntarono forse eglino dalla terra, come ne spuntano i funghi, o nacquero dalla polvere, come i rospi e come i ranocchi: se puro è vero, che i ranocchi stessi e che i rospi non abbiano miglior madre (Questa osservazione vale contro la strana opinione della generazione spontanea, di cui menano tanto scalpore i materialisti dei giorni nostri, senza mai essersi degnati di confortare di una soda ragione la loro asserzione. Quasicché possa darsi un effetto maggiore della sua cagione!) ? Strano intelletto conviene che sia pertanto cotesto vostro, se voi provate minor pena ad ammettere il mondo eterno fra tanti assurdi che vi conviene divorar come se foste uno struzzolo, di quella che senza niuno provereste ad ammetterlo fatto in tempo, cioè fitto quando più piacque al sovrano architetto di fabbricarlo.

V.

X. E ciò sia detto a pura soprabbondanza di verità. Nel rimanente qual necessità ho io di stare a contendere su questo punto con esso voi, quasiché da ciò penda il tutto? Passi per concesso quel che non solamente non è di fatto, ma per mio parere non è né anche possibile, cioè che il mondo sia stato senza principio: per questo gli ateisti han vinta la causa? Lascerò a voi il giudicarlo.

XI. Vorrebbono essi deluderci, se potessero, con porci innanzi, come fece già Totila, uno scudiere travestito da re. Ma quanto vanno ingannati! Diremo all’universo anche noi, come disse a quello scudiere il gran Benedetto, che ponga giù dagli omeri gli ori e gli ostri che non son suoi: Depone, fili, depone quod geris, nam tuum non est. E una maschera il vanto che questi iniqui ti vogliono attribuire di divinità: e il tuo capo, per gonfio che egli si sia, troppo è minore di quell’ampia corona che costoro ti offrono, come a nume: Mundum numen credi par est, æternum, immensum, ncque genitum, ncque interiturum unquam {Pl. 1. 1. c. 2).Furono deliri di filosofia frenetica, non fondata. Veggiamo ciò con chiarezza, spogliando il mondo, quale nume illegittimo, a parte a parte, di ogni suo mentito ornamento.

XII. Questo tutto visibile al guardo umano si può dividere in due ragioni di cose. Alcune son corruttibili, e così nascono e muoiono ad ogni tratto: l’altre sono incorruttibili, e duran sempre. Or quanto alle corruttibili, è indubitato, che hanno la cagion loro, né sono a se medesime la sorgente d’ogni lor essere, mentre han bisogno di mendicarlo di fuori, nascendo dall’altrui morte: Corruptio unius est generatio alterius. Rimane dunque, che possano forse più verisimilmente pretendere una tal gloria le incorruttibili, cioè a dire pretenderla i cieli, pretenderla gli elementi. Ma no: va tutto all’opposjto: queste l’hanno a pretendere ancora meno. Conciossiachè chi può mai persuadersi, che gli elementi, o che i cieli posti nell’infimo grado dell’essere, tutti corporei, e quel ch’è peggio, privi affatto di vita, possano in sé possedere tanto di bene, quanto è non dovere il suo essere a verun altro fuor di sé, che è l’istesso che 1’essere il sommo bene? Il sole che siede in cielo, quasi re nel suo trono eccelso, è nondimeno più imperfetto di una formicola: e questa bcstioluccia  sì vile, se fosse atta ad eleggere, avrebbe in sé tanto senno di non cambiare la sua povera sorte con quel pianeta: e riputerebbe a ragione che l’essere lei capace di sperimentare il suo bene proprio, e di compiacersene, valesse più che non vale tutto quell’oro che la natura ha tanto liberalmente versato in seno al vasto corpo solare privo di senso. Se però da sé  non può essere la formicola, che possiede un grado di essere più perfetto che non ha il sole, molto men dunque potrà essere il sole, che non arriva a tal grado. E se è così, non fu stoltezza, volerlo spacciar per Dio? Troppo male sarebbe collocato questo tesoro della divinità in un fondo sì cupo, dove il padrone non potesse mai giungere a rinvenirlo per la sua cecità: troppo male dimorerebbe il dominio delle cose in un re sempre addormentato, anzi inabile a risvegliarsi; e le redini del governo troppo male starebbono in mano ad uno che in tanta luce non solamente non può conoscere alcuno de’ suoi vassalli, ma neppur sé. Che se il sole non è quel Dio che si cerca, in qual altro de’ cieli egli sarà mai? In Marte, inMercurio, o nelle stelle, che, per alte che sieno sul firmamento, conviene alfine che cedano anch’esse al sole?

VI.

XIII. E pure io non ho dotto il meglio. Chi è da sé, è quale si conviene che sia chi è Dio, cioè tutto per sé medesimo: e siccome egli non ha cagione sufficiente dell’esser proprio, così né anche può avere cagion finale. Conciossiachè l’esser destinato ad un fine, qualunque siasi, dimostra chiaro un essere avventicelo, cioè imprestato da un altro agente maggiore che sopr’intende a quel fine. E pure tutti i cieli hanno un fine notissimo fuor di sé, né son fine di se medesimi, essendo eglino da una parte inabili a dilettarsi di ogni lor bene, e correndo dall’altra incessantemente a benefizio di altrui, senza perfezionarsi mai di vantaggio co’ loro moti, e senza assaporare una stilla di quel profitto o di quel piacere che piovono assiduamente sopra di tante creature inferiori ad essi di sito, ma non di prezio.

XIV. Più. Chi ha l’essere da sé, convien di necessità che sia stato sempre; e se fu sempre, fu egli prima altresì di ogni suo contrario, cioè prima di ogni suo nulla: ond’è che l’ha vinto affatto, tenendolo eternamente da sé lontano. Ma se egli è tale, come può dunque racchiudere alcuna spezie d’imperfezione? Chi ha vinto da se medesimo il maggior nulla, che è quel che si oppone all’essere, molto più debbo aver vinto ancora il minore, che è quello che si oppone al mero ben essere. Pertanto non può capirsi, come chi non è cagionato da verun altro, sia punto limitato in alcun suo vanto: non apparendo possibile, che verun sia cagione a sé di limitare se stesso. Chi ha l’essere da qualche altro, è quale torna bene all’altro che sia: ma chi l’ha da sé, fa d’uopo, che abbialo quale a lui torna meglio: e mentre non riconosce altra necessità che se stesso, sarebbe egli bene uno stolto a farsi lago, mentre può essere mare; a farsi ligio, mentre può esser monarca; e ad occupare quasi una striscia di bene, mentre ne può possedere l’intera pezza, che è interminabile. Ens a se, est ipsum omne, dice Aristotile (De gen. anim. c. 1), epilogandoci il molto in poco.

XV. Rendesi dunque da tutto ciò più che certo, che i cieli e le cose incorruttibili sono immensamente distanti dalla natura divina; onde non si può riconoscere mai per Dio questo nume favoloso del mondo, senza rivoltare il mondo sossopra, cioè senza abbattere il primo Artefice, per sostituirne in suo luogo una morta statua, che neppure esprime la immagine delle fattezze di lui, tanto le ha diverse. Può bene il mondo esser dunque il reame, ma non il re, e se vogliamo ritornare al primiero esempio, può ben essere il servo travestito da principe maestoso, ma non il principe. E posto ciò, replichiamogli unitamente: Depone, fili, depone quod gevis, nam tuum non est: dacché il puro lume naturale medesimo ci dà tanto, di saper discernere un Dio da scena ed un Dio da senno.

XVI. Vero è, che per questo sognato nume del mondo non è gran fatto che voi intendiate l’universo visibile, ma animato da una mente invisibile che lo informi. E se è così, che posso io dunque soggiungervi, senonché voi di ateista, passate, senza avvedervene, in idolatra, variando gli errori, per non deporli? Ma lode al cielo, che almeno voi non pigliate più il senso per unico attestator della verità, e v’inducete a confessare una mente, benché da voi non veduta, la qual vi assista. Chi sa che come la febbre sopravvegnente ha talor consumati quegli umoracci i quali generavano la vertigine, così questo nuovo fallo non vi disponga a fermar l’intelletto da vacillare con tanta instabilità?

XVII. Dunque tra gl’idolatri, Varrone, con quegli altri che furono i meno stolidi, si argomentavano , per testimonianza di un Agostino (De civ. Dei 1. 1. c. 4), che Dio fosse l’anima di questo tutto, cui diamo il nome di mondo (Questa proposizione, Dio è l’anima del mondo, può essere sanamente intesa nel senso, che tutto il creato vive in Dio, come in suo principio efficiente, giusta il detto scritturale: In Deo vivimus, movemur et sumus.); e che però a qualunque parte di esso, come a divina, stessero bene le vittime, lo adorazioni, gli altari e le proprie suppliche. Ma leggier fatica è il confondere questa sì favolosa teologia. Conciossiaché se per Dio ci conviene intendere una suprema cagione, perfettissima in ogni genere, è manifesto, che Egli non può aver l’essere, se non che nella maniera più nobile che vi sia, cioè in se medesimo, e non in altri. Poi: qual bisogno ha Egli di unirsi al mondo? Forse per operare nel mondo, o per far che si operi? Non per operare, mentre dalla materia non può Egli ricevere prò veruno; anzi ha per sua dote propria il poter fare ciò che Egli vuole, da sé, con esenzione pienissima da qualunque altra cagione, anche strumentale, che vi concorra. Non per fare che si operi, mentre a tal fine non ha Egli necessità di starsi unito alle cose, qual parte di alcun composto: basta che sia loro autore. Anzi, se da sé solo egli è il tutto, è di là dal possibile, che sia parte, o che mai divenga (S. Th. contra gentil. 1. 1. c. 18 et 27).

XVIII. Ma di ciò sia detto abbastanza: dacché il mondo è oggimai divenuto sì savio, che si vergogna all’udire rammemorarsi queste così vetuste follie, benché per suo meglio.