DOMENICA IV DI AVVENTO (2019)

DOMENICA IV DI AVVENTO (2019)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione alla Chiesa dei 12 Apostoli.

Dom. privil. Semid. di II cl. Paramenti violacei.

Come tutta la liturgia di questo periodo, la Messa della Quarta Domenica dell’Avvento, ha lo scopo di prepararci al doppio Avvento di Cristo, avvento di misericordia a Natale, nel quale noi commemoriamo la venuta di Gesù, e avvento di giustizia alla fine del mondo. L’Introito, il Vangelo, l’Offertorio e il Communio fanno allusione al primo, l’Epistola si riferisce al secondo, e la Colletta, il Graduale e l’Alleluia possono applicarsi all’uno e all’altro. Le tre grandi figure delle quali si occupa la Chiesa durante l’Avvento ricompaiono in questa Messa. Isaia, Giovanni Battista e la Vergine Maria. Il Profeta Isaia annuncia di S. Giovanni Battista, che egli è: « la voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore, appianate tutti i suoi sentieri, perché ogni uomo vedrà la salvezza di Dio ». E la parola del Signore si fece sentire a Giovanni nel deserto: ed egli andò in tutti i paesi intorno al Giordano e predicò il battesimo di penitenza (Vang.). « Giovanni, spiega S. Gregorio, diceva alle turbe che accorrevano per essere battezzati da lui: Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire la collera che sta per venire? La collera infatti che sovrasta è il castigo finale, e non potrà fuggirlo il peccatore, se non ricorre al pianto della penitenza. « Fate dunque frutti degni di penitenza. In queste parole è da notare che l’amico dello sposo avverte di offrire non solo frutti di penitenza, ma frutti degni di penitenza. La coscienza di ognuno si convinca di dover acquistare con questo mezzo un tesoro di buone opere tanto più grande quanto egli più si fece del danno con il peccato » (3° Nott.). « Iddio, dice anche S. Leone, ci ammaestra Egli stesso per bocca del Santo Profeta Isaia: Condurrò i ciechi per una via ch’essi ignorano e davanti a loro muterò le tenebre in luce, e non li abbandonerò. L’Apostolo S. Giovanni ci spiega come s’è compiuto questo mistero quando dice: Noi sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza perché possiamo conoscere il vero Iddio ed essere nel suo vero Figlio » (2° Nott.). – Per il grande amore che Dio ci porta ha inviato sulla terra il Suo unico Figlio, che è nato dalla Vergine Maria. Proprio questa Vergine benedetta ci ha dato di fatto Gesù; così, nel Communio, la Chiesa ci ricorda la profezia di Isaia: « Ecco che una Vergine concepirà epartorirà l’Emmanuele », e nell’Offertorio ella unisce in un solo saluto le parole indirizzate a Maria dall’Arcangelo e da Santa Elisabetta, che troviamo nei Vangeli del mercoledì e del venerdì precedenti: « Gabriele, (nome che significa « forza di Dio »), è mandato a Maria — scrive S. Gregorio — perché egli annunziava il Messia che volle venire nell’umiltà e nella povertà per atterrare tutte le potenze del mondo. Bisognava dunque che per mezzo di Gabriele, che èla forza di Dio, fosse annunciato Colui che veniva come il Signore delle Virtù, l’Onnipotente e l’Invincibile nei combattimenti, per atterrare tutte le potenze del mondo » (35° Serm.). La Colletta fa allusione a questa «grande forza» del Signore, che si manifesta nel primo avvento, perché è nella sua umanità debole e mortale che Gesù vinse il demonio, come anche ci parla dell’apparizione della sua«grande potenza» che avverrà al tempo del suo secondo avvento, quando, come Giudice Supremo, verrà nello splendore della sua maestà divina, a rendere a ciascuno secondo le sue opere (Ep.). Pensando che, nell’uno e nell’altro di questi avventi, Gesù, nostro liberatore, è vicino, diciamogli con la Chiesa « Vieni Signore, non tardare ».

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitu

Exod XVI :16; 7
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus [Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]
Ps XXIII: 1
Dómini est terra, et plenitúdo ejus: orbis terrárum, et univérsi, qui hábitant in eo. [Del Signore è la terra  e quanto essa contiene; il mondo e tutti quelli che vi abitano.]
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus.

[Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]

Oratio 

  Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: et magna nobis virtúte succúrre; ut per auxílium grátiæ tuæ, quod nostra peccáta præpédiunt, indulgéntiæ tuæ propitiatiónis accéleret: [O Signore, Te ne preghiamo, súscita la tua potenza e vieni: soccòrrici con la tua grande virtú: affinché con l’aiuto della tua grazia, ciò che allontanarono i nostri peccati, la tua misericordia lo affretti.]

Lectio

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Corinthios
1 Cor IV: 1-5
Fratres: Sic nos exístimet homo ut minístros Christi, et dispensatóres mysteriórum Dei. Hic jam quaeritur inter dispensatóres, ut fidélis quis inveniátur. Mihi autem pro mínimo est, ut a vobis júdicer aut ab humano die: sed neque meípsum judico. Nihil enim mihi cónscius sum: sed non in hoc justificátus sum: qui autem júdicat me, Dóminus est. Itaque nolíte ante tempus  judicáre, quoadúsque véniat Dóminus: qui et illuminábit abscóndita tenebrárum, et manifestábit consília córdium: et tunc laus erit unicuique a Deo.

Lezione tratta dalla prima Lettera dell’Apostolo S. Paolo ai Corinti, Cap. IV, v. 1. 5.

“Fratelli mici, così ci consideri ognuno come ministri di Cisto, e dispensatori dei misteri di Dio. Del resto poi ciò che si richiede ne’ dispensatori è che sian trovati fedeli. A me pochissimo importa di esser giudicato da voi, o in giudizio umano; anzi nemmeno io giudico di me stesso. Poiché non ho coscienza di nessun male; ma non per questo sono giustificato; e chi mi giudica, è il Signore. Onde non vogliate giudicare prima del tempo, finché venga il Signore: il quale rischiarerà i nascondigli delle tenebre, e manifesterà i consigli de’ cuori, ed allora ciascuno avrà lode da Dio”.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

A qual fine la Chiesa fa leggere oggi questa lettera?

Per avvertire quelli che ieri ricevettero i sacri ordini a distinguersi per la fedeltà ai loro doveri e per la Santità della vita, quanto sono distinti per l’alta dignità del loro stato; per ispirare il rispetto dovuto ai sacerdoti. che sono i ministri di Gesù Cristo, e i dispensatori dei divini misteri; ed in ultimo per ricordare ai Fedeli questa seconda venuta del Figliuolo dell’uomo; ed invitarli così a giudicarsi da se stessi, a purificare il loro cuore per la festa del Natale, ed a ricevere degnamente Gesù Cristo come Salvatore, sicché non l’abbiamo a temer come Giudice.

In che qualità Gesù Cristo si serve dei Sacerdoti?

Se ne serve in qualità di economi, di dispensatori dei santi misteri, di mediatori e di ambasciatori. Perciò Iddio ordina tanto espressamente di riverirli. I sacerdoti che governano bene siano doppiamente onorati, in particolar modo quelli che si affaticano nella predicazione e nell’istruire. (Lett. prima a Timoteo cap. V. v. 17.).

I Sacerdoti possono amministrare i sacramenti a loro piacere?

No, come gli economi non possono fare a loro volontà.  Essendo gli economi di Gesù Cristo, debbono conformarsi al suo volere, esercitar fedelmente il loro ufficio, e per conseguenza non dare ai cani ciò che è santo, cioè non dar l’assoluzione, o conferire altri Sacramenti ai non degni. Nelle prediche non debbono cercare né di lusingar l’orecchio né di far mostra del loro ingegno, ma predicare la dottrina di Gesù Cristo con tutta la gravità e dignità conveniente, né guardare al giudizio degli uomini, siccome faceva s. Paolo.

Perché i Sacerdoti non debbono guardare al giudizio degli uomini?

Perché spesso avviene che gli uomini giudicano dall’apparenza, e non secondo la verità, per passione, per amor proprio, per spirito di parte, e non secondo giustizia; danno elogio e biasimo senza attendere al merito; sono incostanti nei loro giudizi, approvando ciò che prima censurarono, e censurando quel che approvarono: trovano cattivo ciò che piace a Dio, e buono ciò che gli dispiace; e tutto quanto gli uomini dicono di noi non può togliere né aggiunger niente al nostro merito innanzi a Dio: il giudizio di Dio, sempre conforme alla verità, è il solo al quale debbono riguardare i Sacerdoti e tutti gli altri Cristiani. Qual follia dunque è quella di coloro che seguono le mode scandalose del mondo e si conformano ai suoi corrotti costumi, per non dispiacergli; si uniscono a compagnie pericolose, per non comparir singolari; lasciano le pratiche di religione per umano rispetto, e dimandan sempre: che dirà il mondo? e mai: che dirà Iddio, se faccio questa cosa, se tralascio quest’altra? Se io volessi piacere agli uomini dice s. Paolo – non sarei servo di Gesù Cristo. – Il giudizio degli uomini non ci distolga mai dall’adempimento degli ordini di Dio, che non ricompensa se non la fedeltà. V’è onore e felicità più grande del servire a Dio? Cerchiamo dunque di piacergli in tutto.

Perché S. Paolo non voleva giudicar se stesso?

Perché non sapeva come Dio lo giudicava, sebbene di niente gli rimordesse la coscienza: senza una rivelazione di Dio, nessuno sa se sia degno d’amore o d’odio. Dio scandaglia i cuori e le reni; nulla può sfuggire al suo sguardo, ed i giudizi di Lui sono ben differenti da quelli degli uomini, che accecati dall’amor proprio e dalla passione, spesso non vedono il male che fanno; nascondono sé a se stessi, e si giustificano quando dovrebbero condannarsi. Tale si crede innocente e si riguarda come santo, che al giorno poi del giudizio sarà ricoperto di confusione, quando Dio svelerà in faccia all’universo tutte le azioni di lui e tutti gli interni segreti. Non giudichiamo gli altri; di loro ci è ignoto l’interno; ma giudichiamo noi stessi: esaminiamoci accuratamente, pesiamo tutte le nostre azioni, scendiamo nel fondo della nostra coscienza, frugando tutte le pieghe e i nascondigli del nostro cuore; ed imiteremo S. Paolo che si giudicava così da se stesso; ma imitiamo parimente s. Paolo che in un altro senso non si giudicava da sè, cioè se dopo un’esatta ricerca, non troviamo nulla di reprensibile in noi, senza troppo fidarci del nostro giudizio, rimettiamo a Dio il giudizio definitivo, ed affatichiamoci per la nostra salvezza con timore e tremito, ponendo la confidenza nella misericordia del Signore.

Aspirazione. Ah! Signore, non entrate in giudizio col vostro servo, poiché nessun uomo vivente sarà giustificato alla vostra presenza. O chiave di David, e scettro della casa d’Israele, che aprite e nessuno chiude, che serrate e nessuno apre, venite a sottrarre il prigioniero dalla carcere, il misero assiso nelle tenebre all’ombra della morte.

Graduale 

Ps. CXLIV: 18; 21
Prope est Dóminus ómnibus invocántibus eum: ómnibus, qui ínvocant eum in veritáte. [Il Signore è vicino a quanti lo invocano: a quanti lo invocano sinceramente.]
V. Laudem Dómini loquétur os meum: et benedícat omnis caro nomen sanctum ejus. [Signore: e ogni mortale benedica il suo santo nome.

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Veni, Dómine, et noli tardáre: reláxa facínora plebis tuæ Israël. Allelúja [Vieni, o Signore, non tardare: perdona le colpe di Israele tuo popolo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc III: 1-6

Anno quintodécimo impérii Tibérii Cæsaris, procuránte Póntio Piláto Judæam, tetrárcha autem Galilaeæ Heróde, Philíppo autem fratre ejus tetrárcha Ituraeæ et Trachonítidis regionis, et Lysánia Abilínæ tetrárcha, sub princípibus sacerdotum Anna et Cáipha: factum est verbum Domini super Joannem, Zacharíæ filium, in deserto. Et venit in omnem regiónem Jordánis, praedicans baptísmum pæniténtiæ in remissiónem peccatórum, sicut scriptum est in libro sermónum Isaíæ Prophétæ: Vox clamántis in desérto: Paráte viam Dómini: rectas fácite sémitas ejus: omnis vallis implébitur: et omnis mons et collis humiliábitur: et erunt prava in dirécta, et áspera in vias planas: et vidébit omnis caro salutáre Dei.”

OMELIA I

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE IV.

 “L’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, e tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello, tetrarca dell’Idurea della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i Pontefici Anna e Caifa, il Signore parlò a Giovanni figliuolo di Zaccaria, nel deserto. Ed egli andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di  penitenza per la remissione dei peccati: conforme sta scritto nel libro dei sermoni d’Isaia profeta: Voce di uno cbe grida nel deserto: Preparate la via del Signore; raddrizzate i suoi sentieri: tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno: e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno, e i malagevoli si appianeranno: e vedranno tutti gli uomini la salute di Dio”. (Luc. III, 1-6).

Il divin Redentore Gesù dopo di aver passati trent’anni nell’oscurità della bottega di Nazaret, soggetto a Maria ed a S. Giuseppe, stava al fine per uscirne e dar principio alla sua pubblica predicazione. E poiché S. Giovanni Battista aveva da Dio ricevuto la gran missione di preparare gli uomini a ben ricevere Gesù ed a credere ai suoi divini insegnamenti, conveniva che, lasciato il deserto, dove si era recato sin dai più teneri anni a vivere da solitario e tutto occupato nelle cose celesti, si recasse sulle rive del Giordano a predicare la necessità della penitenza e delle opere buone. Così fece per l’appunto, ed è quello che ci racconta il Vangelo di oggi, tanto opportunamente scelto dalla Chiesa per questo tempo, in cui ci troviamo così vicini alla festa del Santo Natale. Di fatti noi potremo facilmente vedere come questo Vangelo ci parli anzitutto della venuta di Gesù Cristo, ci dica in seguito quale sia la preparazione, che dobbiamo tare a tale venuta, e ci dimostri da ultimo quale sarà il frutto della medesima.

1. Quando nostro Signor Gesù Cristo, giunto all’età di trent’anni, dava principio alla sua vita pubblica, a Roma il grande imperatore Augusto era morto, e gli era succeduto Tiberio, arrivato già al quindicesimo anno del suo regno. A Gerusalemme era pur morto lo scellerato e crudele Erode, che alla nascita di Gesù aveva ordinato la strage degli innocenti; ed il suo regno era stato diviso fra i suoi tre figli Erode-Antipa, Filippo ed Archelao. La Giudea era toccata a quest’ultimo; ma debole e violento, ad un tempo non andò guari che venne deposto dall’imperatore Augusto e mandato in esilio nelle Gallie; e così la Giudea venne annessa all’impero romano e già da venti anni vari governatori romani vi comandavano a nome dell’imperatore. Non è certo difficile il comprendere l’afflizione, anzi la rabbia, in cui si trovavano i Giudei per avere in tal guisa perduta la loro libertà, il loro regno, la loro patria. Quella terra Iddio l’aveva loro concessa operando tanti prodigi, dopoché Abramo ne aveva ricevuto da Dio una solenne promessa: ivi Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, aveva fatto trasportare le sue ossa, Davide per molti anni aveva combattute le battaglie del Signore, Salomone aveva innalzato al solo vero Dio un magnifico tempio, a paragone del quale era ben poca cosa quello che, sebbene già tanto splendido, esisteva presentemente; ivi i monti, le valli, le pianure, i fiumi erano cose tutte, che parlavano mirabilmente ai Giudei e dicevano loro le grandezze e le meraviglie dei loro padri e dei santi Profeti: ed ora questa terra era uscita dal loro dominio e caduta in potere altrui! Considerando il loro decadimento, si infiammavano di furibondo livore e, di tanto in tanto, nella speranza di scuotere l’abborrito giogo, facevano delle insurrezioni, che però a nulla approdavano. La potenza delle aquile romane si era posata là da vera signora ed anche a costo di radere al suolo Gerusalemme, non ne sarebbe più partita. Presentemente, vale a dire l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio, chi governava la Giudea, era il procuratore Ponzio Pilato, uomo irresoluto e debole, che commise poi, tre anni dopo, la più spaventevole delle iniquità, cedendo alla voce del popolo ebreo e condannando alla morte di croce il nostro divin Redentore. E mentre Pilato governava la Giudea, i due fratelli Erode-Antipa e Filippo, figli di Erode, continuavano ciascuno a governare la loro parte, cioè il primo la Galilea, il secondo l’Iturea e la Traconitide; ed un certo Lisania comandava un piccolo tratto di paese chiamato Abilene, e tutti costoro avevano più o meno propriamente il titolo di tetrarca, parola greca, che significa governatore della quarta parte di uno stato. Inoltre gran sacerdote o pontefice de’ Giudei era allora Caifa, genero di Anna, il quale era stato pontefice prima di lui, e che, per connivenza di Caifa e del procuratore romano, conservava pur tuttavia il suo titolo con una parte delle sue funzioni, presiedendo il sinedrio e continuando a godere d’una grande influenza. – Tale era lo stato politico della Giudea, quando lo Spirito di Dio parlò a S. Giovanni, figliuolo di Zaccaria, chiamandolo ad esercitare la sua missione sulle rive del Giordano. Il Vangelo di oggi ci reca appunto il tempo preciso della sua comparsa e lo annunzia con una solennità inusitata: L’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, e tetrarca della Galilea Erode, e Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i pontefici Anna e Caifa, il Signore parlò a Giovanni, figliuolo di Zaccaria, nel deserto. – Ora, o miei cari, perché mai questa lunga enumerazione dei nomi di coloro, che allora comandavano nel paese di Giudea? Il santo Vangelo volle provare con ciò, che la famosa predizione di Giacobbe al suo letto di morte era avverata. Sul punto di mandare l’ultimo sospiro, circondato dalla numerosa sua famiglia, il Patriarca, illustrato da una luce divina, aveva detto: « Non sarà tolto da Giuda lo scettro, fino a tanto che sia venuto Colui, che dev’essere mandato, ed è egli che sarà l’aspettazione delle nazioni » (Gen. XLIX, 10). Di questa profetica parola la conseguenza naturale è questa: Quando più non regneranno i principi di Giuda, quando la reale famiglia di Davide avrà lasciato cadere lo scettro, allora sarà venuto il Messia, ch’è l’aspettazione delle genti. Ed ecco che i tempi predetti sono compiuti: La Giudea è soggetta all’Impero romano, e quelli che comandano in quel paese sono i commissari di Cesare. Ora essendo le cose in questo stato, il Signore parlò a S. Giovanni chiamandolo ad esercitare il suo ufficio di precursore.

2. Fattoci in tal guisa conoscere la venuta del Messia, il santo Vangelo nel metterci innanzi la predicazione di S. Giovanni, con la quale egli si studiava di preparare alla stessa gli Ebrei, indica pure a noi che cosa dobbiamo fare per prepararci degnamente alle prossime feste del santo Natale. – Dice adunque il Vangelo che Giovanni andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati: conforme sta scritto nel libro dei sermoni d’Isaia profeta: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore; raddrizzate i suoi sentieri. Tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno; e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno, e i malagevoli si appianeranno. Ecco qual era la predicazione, che S. Giovanni faceva agli Ebrei. Ei predicava loro, dice S. Giovanni Grisostomo, il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, vale a dire, li esortava a pentirsi dei loro disordini, a confessarli, a fare degni frutti di penitenza, a ricevere il suo battesimo, il quale non rimetteva i peccati, ma era una preparazione a quello di Gesù Cristo, al quale era riserbato il rimetterli. Ed applicando a sé stesso esattamente la predizione, che il profeta Isaia aveva fatto di lui e della sua missione, si valeva ancora delle sue parole per adempierla. Isaia, dopo aver predetto la schiavitù, che subirebbero gli Ebrei in Babilonia, aveva altresì annunziato la loro liberazione, indicando il modo, con cui dovevano dal Signore meritarsela. Ma nel tempo stesso egli aveva annunziato la venuta di Gesù Cristo a liberare dalla schiavitù di satana tutto il mondo, e fin d’allora udiva la voce del banditore, che avrebbe intimato agli uomini di ben ricevere il loro liberatore. E questo banditore, per riuscire nel suo intento si sarebbe servito di quello, che si suol fare quando un gran principe va in qualche città, che si accomodano, e si adornano le strade, e si colmano i luoghi bassi. Così appunto faceva il Santo Precursore. Nel cammino della vita egli precedeva il Salvatore, affine di rendergli più agevole la strada, e preparargli la via nei cuori degli uomini. Quei cuori avevano bisogno di essere dirizzati, perché erano stati viziati dall’amore del mondo e dall’attaccamento alle creature. Per causa degli errori, dei vizi, della superbia, dell’ingiustizia, della disonestà, e di tanti altri peccati, in quei cuori vi erano come delle valli da riempire, dei monti da abbassare, dei sentieri tortuosi e malagevoli da raddrizzare e da appianare. Epperò solo la penitenza poteva operare questo felice risultato di togliere da quei cuori tutti gli ostacoli, che si frapponevano a ricevere il gran benefizio della venuta di Gesù Cristo, e S. Giovanni con uno zelo ammirando si era dato a predicarla, e mercé di Dio con grande frutto. Si accorreva a lui da ogni parte, veniva richiesto che cosa si dovesse fare; i pubblicani ed i soldati gli confessavano i loro peccati, ricevevano il suo battesimo, e così si preparavano a ricevere quello del Salvatore. Or bene la predicazione di Giovanni è la stessa che conviene a noi. Quanto egli raccomandava agli Ebrei è quanto la Chiesa oggi raccomanda a noi. Anche noi, fra pochi giorni aspettiamo il Messia; la Chiesa sta per mostrarcelo bentosto nel suo presepio, sulla paglia della sua stalla. Ella è per dirci tutte le circostanze della benedetta sua nascita: i pastori che vegliano nella pianura, l’Angelo dal ciel disceso per annunziar loro le meraviglie di Betlemme, i festosi cantici intonati dall’esercito celeste, i pastori che lasciano i loro greggi per recarsi alla città di Davide ad adorare il Bambinello involto nelle fasce e deposto in una mangiatoia. Ella è per invitarci a porci in cammino pel santo e giocondo pellegrinaggio; e s’Ella non dice più: Cristiani, a Betlemme! ci dirà almeno: Cristiani all’altare! Troverete sotto gli eucaristici velami lo stesso Gesù, che trovarono i pastori sotto i lineamenti dell’infanzia. Più avventurosi dei primi adoratori del presepio, voi potete toccare, ricevere, portare nel vostro seno questo re degli Angeli, che per voi si è fatto il pane di vita. Ma ancor voi dovete prepararvi a riceverlo con la vera penitenza, e con la risoluta correzione della vostra vita. Pentitevi adunque sinceramente delle vostre passate colpe, lavate accuratamente le vostre macchie con una buona Confessione e contrizione vera. Colmate le valli, cioè rinunziate ai peccati di negligenza, pigrizia, omissione, che fecero un vuoto nelle anime vostre. Abbassate i monti ed i colli, cioè umiliatevi profondamente al vedere le vostre imperfezioni, invece di innalzarvi agli occhi vostri, seguendo le illusioni del vostro amor proprio, che non può far altro che indurvi in errore. I sentieri torti diventino dritti, cioè siate aperti e sinceri, nemici della menzogna e della doppiezza, della finzione e dell’astuzia. Ed appianate gli aspri cammini, cioè frenate la violenza di un carattere incapace di sopportare alcun che, ed a quella durezza ed asprezza d’umore, di cui tutti si lagnano, succeda la dolcezza e pazienza cristiana, poiché colui che andate a ricevere, dal tabernacolo, ove risiede, vi predica la dolcezza, la pazienza, l’amor del prossimo ed il perdono delle ingiurie. Ed allora in seguito a questa santa preparazione godrete anche voi i frutti della venuta di Gesù Cristo.

3. S. Giovanni, conchiude il Vangelo di oggi, dopo aver predicato la penitenza e la rinnovazione della vita, soggiungeva: E tutti gli uomini vedranno la salute di Dio; Et videbit omnis caro salutare Dei. E voleva dire: Il Messia, apportatore della salute comparirà presto in pubblico e presto si darà a vedere agli uomini insegnando agli stessi la via del cielo, e tutti, non solamente gli Ebrei, ma ogni uomo a qualunque nazione appartenga e in qualunque tempo egli viva, potrà vedere e conoscere per la fede la salute di Dio, cioè questo Salvatore, mandato da Dio per la salute eterna di tutti. Or ecco il frutto, che dalla venuta del Salvatore, ancor noi, mercé la penitenza e le buone opere, possiamo guadagnare, la nostra eterna salute, il paradiso per tutta l’eternità. E potremmo noi fare un guadagno più grande, più importante di questo? Potremmo noi desiderare, volere qualche cosa di meglio? Pur troppo è vero, ci sono di coloro, che non stimano punto questo bene supremo. L’eterna salute è il vero tesoro, la vera felicità, per la quale l’uomo è stato creato. Ora si potrebbe dire che la stimi colui, il quale per un piacere da nulla, per il gusto di un momento se ne rende indegno e si mette a rischio di perderla eternamente? No, certamente, costui non stima la sua salvezza e sarà impossibile che la consegua. Per poter dire che si stima il Paradiso bisogna essere pronti a far piuttosto getto di ogni altra cosa. Che cosa farebbe un ricco mercante, che, viaggiando sopra di un bastimento, oltre a tante stoffe porta seco una cassetta di preziosissime perle, qualora fosse assalito dalla tempesta? Costretto dai marinai a gettare la sua roba nel mare per alleggerire la nave, getterebbe senz’altro tutte le stoffe, ma non getterebbe giammai quella cassetta di gioie, che è il suo più gran tesoro. Così chi si trova nel caso o di perdere l’onore, la sanità, la roba, oppure il Paradiso, deve dire: Vada l’onore, vada la sanità, vada la roba, ma si guadagni, si guadagni il Paradiso. E come? esclamava Tommaso Moro alla sua donna, che lo tentava ad acconsentire alle inique pretese di Arrigo VIII, come? per dieci o vent’anni di vita, che tu mi prometti e non mi assicuri, per dieci, vent’anni di vita nella stima e nell’amore di un re della terra, tu vuoi che io rinunzi all’eternità del Paradiso nella stima e nell’amore di un Dio? Ah! stolta mercantessa che tu sei; allontanati da me: recede, recede a me, stulta mercatrix. Benché il più delle volte non è mai tanto, che da noi si deve fare. Ordinariamente il tutto si riduce a fuggire una cattiva compagnia, a rompere una brutta catena, a lasciare la lettura di un cattivo libro o giornale, a vincere una tentazione e rinunziare ad uno schifoso piacere: e noi non saremo disposti a fare questo poco? Verrebbe senza dubbio un giorno, nel quale. come Esaù, che per una scodella di lenticchie si lasciò sfuggir di mano il diritto di primogenitura, ruggiremmo con grandi clamori, ma indarno. Or dunque facciamo dell’eterna salute la giusta stima. Ma in secondo luogo vogliamola e vogliamola efficacemente. Come non tutti coloro, che dicono: Signore, Signore; entreranno nel regno dei cieli: Non omnis qui dicit, Domine, Domine, intràbit in regnimi cælorum (Matt. VII, 21); così non tutti quelli, che dicono: vogliamo salvarci, vogliamo andare in Paradiso, vi andranno; ma solo coloro, che lo vogliono efficacemente. E per volerlo efficacemente bisogna far realmente quel che bisogna per guadagnarlo; bisogna cioè praticare la predicazione di S. Giovanni Battista, che non fu diversa da quella, che per questo riguardo fece poi Gesù Cristo e fa tuttora la Chiesa; bisogna far penitenza e correggere i nostri mali costumi, bisogna in sostanza osservare i Comandamenti di Dio, i Comandamenti della Chiesa, pregare, frequentare i Sacramenti, le chiese, praticare la virtù, fuggire costantemente il peccato, sopportare con pazienza le tribolazioni, fare opere buone. Perché se Gesù Cristo è venuto quaggiù per operare la salute di tutti, è certo tuttavia, che non si salveranno che coloro, i quali corrisponderanno con la bontà della vita alla grazia di Dio. Intanto aspettando di vedere poi la nostra eterna salute al termine della vita, prepariamoci fin d’ora a vedere e ricevere nei nostri cuori il Divin Salvatore in queste feste del Santo Natale.

II OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

DISCORSO IV

– Sopra la qualità della penitenza. –

Parate viam Domini, rectas facite semitas eius.”

 [Matth. III]

Mi valgo ancora quest’oggi, fratelli miei, delle parole e delle voce di s. Giovanni Battista per annunziarvi una verità che faceva il soggetto ordinario dei suoi discorsi. Preparate le strade del Signore, diceva al popolo il santo precursore, perché il regno del cielo si avvicina. Affrettatevi di prevenire ira del Signore, la quale è pronta a colpirvi. Già la scure è alla radice dell’albero, e ben presto quest’albero verrà tagliato per esser gettato nel fuoco. – Fate dunque frutti degni di penitenza, se volete schivare la disgrazia che vi minaccia: Pænitentiam agite. Il regno del cielo si avvicina, posso dirvi io pure con s. Giovanni Battista, vicini voi siete al momento in cui deve il Messia di nuovo nascere nei vostri cuori e regnar in voi colla sua grazia. Nessun mezzo più acconcio della penitenza per prepararvi alle grazie ch’Egli vuol farvi; forse anche voi siete molto vicini all’ultimo momento di vostra vita. Affrettatevi dunque a purificare la vostra anima; e giacché la penitenza è l’unico mezzo che vi resta per meritare la salute, abbracciatela con piacere ed assicuratevi l’amicizia del nostro Dio con i gemiti di un cuor contrito e con i santi rigori di una vita mortificata e paziente; ma riflettete che la minima dilazione o una negligente indolenza può perdervi. Sia dunque pronta la vostra penitenza, sia sincera; a questa prontezza, a questa sincerità della vostra penitenza è annessa l’amicizia del vostro Dio.

1.° Punto. Egli è ben raro trovar peccatori talmente ostinati nel male che non vogliano giammai convertirsi. Perciò non ve n’è alcuno che non si proponga di far un giorno penitenza dei suoi peccati; ma il più gran numero rimette questa penitenza ad un tempo avvenire. Non vorrebbero rinunziare alle delizie eterne, ma nemmeno vogliono interdirsi i piaceri della vita. Così dimorano nei loro peccati per godere dei piaceri di quaggiù, e contano sopra una penitenza differita per avere parte ai piaceri del cielo. Ma quanto è ingiuriosa a Dio questa dilazione! quanto è funesta pel peccatore! Poiché differire la propria conversione è ad un tempo abusarsi della bontà divina, da cui prende baldanza per continuare nel disordine e disprezzare l’ira di Dio, la quale accerta l’impenitenza e la dannazione all’anima che differisce la sua conversione. – E per farvi subito comprendere l’ingiuria che voi fate a Dio allorché differite la vostra penitenza, vi prego a considerare qual sia la bontà di Dio a prevenire, a ricercare il peccatore nei suoi traviamenti: lo stimola, l’invita a ritornare a Lui, la sua misericordia gli stende le braccia per riceverlo. Venite a me, dice ai peccatori questa divina misericordia, voi tutti che carichi siete, ed io vi alleggerirò del peso che vi opprime: Venite ad me, omnes qui laboratis et onorati estis, et ego reficiam vos (Mat. XI). Convertitevi a me, ed Io mi convertirò a voi, vi renderò la mia amicizia, che voi avete col peccato perduta: Convertimini ad me, et ego convertar ad vos (Zach. 1). Ma che ne avviene? Lungi di arrendersi a quei teneri inviti e di lasciarsi persuadere, insensibile il peccatore alle finezze della bontà di Dio, se ne allontana, disprezza le ricchezze della sua grazia,  ricusa la sua amicizia; quale ingratitudine! Che direste voi di un suddito divenuto nemico del suo principe e condannato a soffrire una morte vergognosa e crudele, il quale disprezzasse le offerte che il Principe gli facesse di rendergli la sua grazia ed amicizia; e non si degnasse di neppur ascoltarlo, quando quegli si abbassasse egli stesso sino a venir in persona a cercar quel colpevole nella oscura prigione dove sta rinchiuso? Il disprezzo di una sì grande indulgenza non vi sembra degno di tutta l’ira di sì buon principe? Tal è il vostro ritratto, o peccatori ribelli alla voce del vostro Dio che vi offerisce il perdono. Questo Dio di maestà infinitamente più elevato sopra di voi che il più gran re della terra sopra l’ultimo dei suoi sudditi, si degna abbassarsi sino a voi, vuole liberarvi dalle catene che prigioni vi tengono sotto l’impero del demonio; e voi tocchi punto non siete dai suoi modi di procedere, sordi siete alla sua voce, insensibili alle finezze del suo amore! Una tale ingratitudine non merita forse che una sì grande bontà vi abbandoni, che si cangi in una giustizia rigorosa, la quale vi opprima col peso delle sue vendette? E perciò aspettarvi dovete di provarle per vostra disgrazia, mentre, in tal modo abusandovi di questa bontà, di questa pazienza di Dio, vi accumulate, come dice l’Apostolo, un tesoro d’ira, di cui sentirete tutto il rigore nel giorno delle sue vendette: Thesaurizas tibi tram in die iræ (Rom. II). Voi vi lusingate che la grande bontà di Dio vi aspetterà e vi darà tempo e grazia per far penitenza; speranza vana e fallace! No, fratelli miei, voi non avrete né quel tempo né quella grazia: voi disprezzate con queste dilazioni questo Dio di bontà, e vi disprezzerà Egli pure; voi lo rigettate al presente che vi cerca, anch’Egli rigetterà voi quando lo cercherete: Vocavi et renuistis; ego quoque in interitu vestro ridebo et subsannabo (Prov. 1). Sì, peccatori,se voi differite ancora la vostra conversione, voi morrete nel vostro peccato e cadrete in un abisso di miserie, perché non vi sarete approfittati del tempo della misericordia: In peccato vestro moriemini (Jo VIII). Egli è dunque di vostro interesse altrettanto che della gloria di Dio il fare una pronta penitenza. Perciocché differendola, quali perdite non fate e di quali rischi non siete voi minacciati? Oimè! quel poco bene che fate nello stato di peccato è interamente perduto pel cielo: voi pregate, digiunate, fate limosine, adempite molti doveri che la Religione v’impone, assistete alle Messe, ai divini uffizi, rendete al vostro prossimo qualche servizio di carità: poiché non vi è alcuno, dice S. Agostino, la cui vita sia così sregolata che resti interamente spoglia di ogni azione virtuosa. – Ora tutte le buone opere che voi fate essendo nemici di Dio non sono di alcun merito per l’eternità; avrete la fatica della virtù senza averne la ricompensa. É vero che quelle buone opere vi possono procacciar grazie per la conversione per rientrare nell’amicizia di Dio da voi perduta; ma a che vi serviranno quelle grazie, se non vi cooperate e se morite nell’impenitenza finale? Non serviranno esse che a farvi condannare con più rigore. Inoltre siete voi l’arbitro dei vostri giorni?

l.° La morte non può forse sorprendervi, come ha sorpreso tanti altri che avevano fatto come voi il progetto di convertirsi e che non hanno avuto il tempo di eseguirlo? 2.° Quando ben anche aveste il tempo di far penitenza, ve ne darà Iddio forse la grazia, dopo avergli sì lungo tempo resistito? Non dovete temere all’opposto che Dio non punisca colla sottrazione delle sue grazie l’abuso che ne avreste fatto? Ma abbiate pure il tempo e la grazia di far penitenza, voi non la farete a cagione della gran difficoltà che vi troverete e che nascerà dell’abito del peccato che avrete contratto. – Imperciocché l’abito del peccato è l’effetto ordinario della dilazione della penitenza; un peccato commesso di cui uno non si corregge ne tira un altro, questo un terzo; si cade d’abbisso in abisso, Abyssus abyssum invocat (Psal. XLI), ed insensibilmente si forma la catena fatale delia riprovazione del peccatore. Da che una volta impegnati ci troviamo nell’abito del peccato, quest’abito diventa in noi una seconda natura, che è quasi impossibile di cangiare. Si forma bensì qualche progetto di conversione, ma si rimette sempre all’indomani; sono desideri inefficaci e superficiali che non mettonsi mai in esecuzione: si portano questi desideri sino alla morte: si muore con questi desideri e si comparisce al giudizio di Dio senza aver altra cosa a presentargli che vani progetti che consumano la dannazione. Ah! fratelli miei, giacché Dio vi offerisce nel giorno d’oggi il perdono, profittatevi di un benefizio che forse domani non sarà più in vostro potere: la grazia ha i suoi momenti; guai a chi li lascia passare senza profittarsene. Di più, non avvi alcun ostacolo che superar non possiate con l’aiuto del cielo.  Le pratiche, le corrispondenze peccaminose che avete con certe persone, voi le abbandonereste pure, se si trattasse della vostra fortuna; e la vostra eterna salute non sarà un motivo forte abbastanza per staccarvene? Quei legami sono forse maggiori di quelli che legata tenevano altre volte la Maddalena al mondo? Ora, tosto che la luce della grazia risplendette ai suoi occhi, non rinunziò ella generosamente a tutti i piaceri del secolo? Non stette a deliberare, non esitò punto di andare a trovar Gesù Cristo, l’Autore della salute. Perciò la remissione de’ suoi peccati seguì da vicino la sua penitenza: grazia che forse non sarebbe più stata in tempo di ricevere, se ella avesse lasciata fuggire l’occasion favorevole che se le presentava. – Del resto, fratelli miei, per scusare le vostre colpevoli dilazioni, invano alleghereste l’impaccio e l’impedimento degli affari in cui impegnati vi trovate: mentre, ditemi, ve ne prego, avete voi un più grande affare di quello della vostra salute? E a che vi servirebbe l’esser riusciti in tutti gli altri, se mancate in questo? Ma le mie passioni sono sì vive, dite voi; lo saranno forse meno col tempo, quando gli abiti invecchiati le avranno fortificate e dato loro un impero assoluto sopra di voi? Queste passioni sono forse più veementi di quella da cui dominato era Saulo allorché andava a perseguitare i Cristiani? Con tutto ciò, tosto che la voce di Gesù Cristo si fece udire alle sue orecchie, depose l’armi, umiliato, prostrato a terra chiese al suo vincitore: Signore, che cosa volete che io faccia? Domine, quid me vis facere (Act. 1)? Il persecutore della Chiesa ne diventa lo zelante difensore.

Pratiche. Felici disposizioni, in cui dovreste, fratelli miei, entrare in questo momento che la grazia vi fa intendere la sua voce e vi sollecita darvi a Dio. Signor, dovete dirgli, che cosa volete che io faccia? Domine quid me vis facere? Volete che, cessando dal peccare, io cessi dal farvi la guerra, che io rinunzi a quell’oggetto che m’incanta e mi perde: sì, in questo momento io abbandono quel peccato, rinuncio a quell’occasione in cui la mia virtù ha fatto tante volte naufragio, bandisco dal mio cuore quell’idolo indegno di occuparlo. Signore, che cosa volete che io faccia? Domine, etc. Voi volete ch’io mi corregga di quel cattivo abito in cui marcisco da sì lungo tempo: sì, me ne correggerò ed mi applicherò alla pratica della virtù che gli è contraria. Voi volete che io restituisca quella roba che conservo contro i rimorsi della mia coscienza; sì, la restituirò e risarcirò tutti i danni che ho cagionati al mio prossimo. Voi volete ch’io mi riconcili con quel nemico che da tanto tempo perseguito: sì, quest’oggi il farò, andrò a trovarlo per far con lui la pace: Domine, etc.Voi volete che io sia assiduo a frequentare i Sacramenti, che sia il buon esempio della famiglia, che divenga più umile, più modesto, più mansueto, più paziente, più vigilante sopra di me, più esatto, più fervente ad adempier i miei doveri: la risoluzione è presa sin da questo momento, o mio Dio: Dixi hunc cæpi. Io voglio cominciar l’opera, voglio correggere quel cattivo umore che mi rende insopportabile agli altri; non sarò più sensibile sul punto d’onore, non sarò più amante dei miei agi e dei miei comodi, sarò più mortificato, più ritenuto, più fedele ad evitare sino la minima apparenza di male, riformerò in me tutto ciò che vi conoscerò d’irregolare, per non seguire altra regola che la vostra volontà: la mia penitenza sarà non solo pronta, ma sincera ancora e vera.

II. Punto. Richiede la giustizia che siavi l’uguaglianza tra la soddisfazione che si rende e i diritti che si sono violati. Bisogna dunque che la penitenza abbia una proporzione coll’ingiuria che il peccato fa a Dio, ch’essa ripari tutto il disordine del peccato, che faccia dell’uomo peccatore un uomo tutto nuovo, riformando il suo cuore e le sue azioni; e perciò bisogna ch’essa prenda la sua origine nel cuore e che si manifesti con le opere. Due condizioni essenziali per rendere la penitenza sincera, che l’apostolo s. Paolo ha perfettamente spiegate allorché esortava i fedeli a rinnovarsi nello spirito interiore: Renovamini spiritu mentis vestræ (Eph. IV). E diceva loro di far servire alla propria giustizia e santità i membri che servito avevano all’iniquità e alla colpa: Sicut exhibuistis membra vestra servire immunditiæ et iniquitati, ita nunc exhibete membra vestra servire iustitiæ (Rom. 6)..La prima funzione della penitenza si è la riforma del cuore. Questa è la prima soddisfazione che la giustizia di Dio chiede dal peccatore. Convertitevi a me, dice Iddio, in tutto il vostro cuore:  Converiimini ad me in toto corde vestro. (Joel. 2). Spezzate i vostri cuori piuttosto che le vostre vestimenta: Scindite corda vestra et non vestimenta vestra. Se voi m’aveste richiesti sacrifizi, diceva a Dio il santo Re Profeta, io ve ne avrei dati: Sacrifìcium dedissem utique (Psal.50); ma so, o mio Dio, che ogni altro sacrificio, fuorché quello di un cuor contrito ed umiliato, è incapace di calmare la vostra giustizia, e che questo sempre la disarmerà: Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies. E perciò, offrendovi il mio cuore infranto dal dolore, spero offerirvi un sacrificio che non avete mai rigettato: Cor contritum et humiliatum non despicies. Ma perché mai chiede Iddio a preferenza il sacrificio del cuore? Perché, dicono, i santi Padri e i teologi, si è nel cuore che consiste tutta la malizia del peccato, mentre il peccato, dice s. Tommaso, è un movimento del cuore che si stacca da Dio per unirsi alla creatura: Peccatum est aversio a Deo et conversio ad creaturam. Se le azioni dell’uomo sono peccati, è il cuore che loro comunica la sua malizia. Dal cuore, dice Gesù Cristo, vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i latrocini, i falsi testimoni, le bestemmie; non vi sarebbe mai peccato alcuno nelle azioni dell’uomo, se il cuore non vi avesse parte. Or da ciò che si conchiude, se non che, per fare una vera penitenza, convien primieramente cangiar il cuore, farne uno tutto nuovo: Cor mundum crea in me, Deus. E siccome col peccato il cuore ha dato la preferenza alla creatura sopra il suo Dio, così con la penitenza deve dare la preferenza a Dio sopra la creatura. Odiar deve ciò che amava, amare ciò che odiava. Ecco, dice s. Agostino, il vero carattere della penitenza, l’odio del peccato e l’amor di Dio: Pœnitentiam non facit nisi odium peccati et amor DeiMa notate, fratelli miei, che quest’odio del peccato non è soltanto una semplice avversione che si concepisce della sua bruttezza: i più gran peccatori odiano il peccato e nel tempo stesso che corrono dietro ai piaceri, che appagar possono le loro passioni, non hanno in mira, dice s. Agostino, di far alcun male; vorrebbero eziandio che nessun peccato vi fosse nella ricerca del piacere o del bene che si propongono. Ma sono sempre colpevoli, perché sanno che non possono possedere quel bene, godere de’ piaceri che la legge del Signore loro proibisce, senza ribellarsi contro questa divina legge; ed è in questa ribellione che consiste il disordine del peccato, di modo che non basta per essere vero penitente odiare semplicemente il peccato, ma bisogna ancora odiare e detestare ciò che è stato la cagione e la materia del peccato; bisogna staccarne il suo cuore per unirlo a Dio. Perciò, fratelli miei, voi sarete veri penitenti, se, dopo aver abbandonato il vostro cuore a quell’oggetto che era l’idolo della vostra passione, ve ne separerete interamente e per sempre, se rinunzierete ad ogni società con quella persona che vi piace e che con le sue funeste lusinghe ha sedotto il vostro cuore. Voi sarete veri penitenti, se, dopo aver posseduto quella roba che non v’apparteneva, la renderete al suo legittimo padrone; se dopo di aver attaccato il vostro cuore alla roba ancora che è vostra propria ed il cui amore eccessivo vi rendeva insensibile alle miserie dei poveri, piangerete quel troppo grande attacco, e sovverrete all’indigenze dei vostri fratelli. In una parola, fate a Dio un generoso sacrificio di tutto ciò che è stato per voi causa ed occasione di peccato; cangiate sentimenti ed inclinazioni per gli oggetti che avete amati e ricercati in pregiudizio dell’amore che dovevate a Dio: senza questo cambiamento interiore, senza questa riforma di cuore, ogni altra penitenza è vana ed ipocrita, dice S. Agostino; mentre bisogna, dice questo santo Padre, che la penitenza cangi l’uomo prima di cangiare le sue opere: Prius mutandus est homo, ut opera mutentur . Ma contentarsi di una semplice rinnovazione di spirito e di cuore senza cangiar di costumi e di condotta, senza espiare il peccato con opere esteriori di penitenza, non è che far una penitenza dimezzata; si è anche render sospetta la penitenza del cuore, la quale per esser sincera e vera deve produrre dei frutti: Facite fructus pœnitentiæ. Ora questi frutti consistono primieramente in una intera riforma che il peccatore deve fare dei suoi costumi e delle sue azioni, in una esatta fedeltà a compiere tutti i suoi doveri: mentre non basta per far penitenza cessar dal far il male, dice il concilio di Trento; bisogna ancora far il bene. Non basta lasciar le strade dell’iniquità, bisogna ancora camminare nei sentieri della giustizia, bisogna adempiere le sue obbligazioni riguardo a Dio, al prossimo e a se stesso: riguardo a Dio rendendogli l’onore, l’amore ed il rispetto che sono dovuti alla sua suprema maestà, alla sua bontà infinita. Come adunque ci persuaderete, fratelli miei, che vi siete corretti delle vostre negligenze nel servizio di Dio, che avete ripigliati sentimenti di pietà e di religione, quando non sarete maggiormente assidui all’orazione né ai divini uffizi né agli altri esercizi di pietà, quando non vedremo in voi che alienazione per la parola di Dio e per tutto ciò che riguarda il divin culto? La vostra penitenza è vana, dice Tertulliano, poiché non avvi alcun cangiamento nella vostra condotta. Conviene inoltre adempiere le vostre obbligazioni riguardo al prossimo: dovere di carità per soccorrere il povero, dovere di giustizia per rendere a ciascuno quanto gli è dovuto, per vegliare sopra le persone di cui avete la cura, per edificare con le vostre virtù quelli che avete scandalizzati coi vostri disordini. Ora potremo noi dire, e voi medesimi potrete pensarlo, che siete veri penitenti, quando vedremo sempre in voi la medesima durezza per i poveri, la medesima avidità nell’usurpare i beni altrui, la medesima negligenza nel mantenere i vostri figliuoli, i vostri servi in buon ordine, sempre i medesimi scandali che davate per lo addietro? Finalmente voi avete dei doveri che vi sono personali: doveri di sobrietà, di carità e di penitenza. Ma qual apparenza che queste virtù risiedano in un uomo collerico, bestemmiatore, intemperante, libero nelle sue parole, dissoluto nelle sue azioni? Le vostre parole e le vostre opere palesano quel che voi siete; e se è vero il dire con s. Agostino che, cangiato il cuore, si cangiano ancora le azioni : muta cor, et mutabitur opus, non bisogna forse conchiudere per ragion dei contrari che se non evvi alcun cangiamento nelle azioni, niuno avvenne anche nel cuore? Aggiunsi che, per fare degni frutti di penitenza, convien espiare il peccato con opere esteriori, che obbligano ad uno stesso tempo e l’anima ed il corpo del penitente. Infatti, giacché il corpo è stato il complice del peccato, deve anche aver parte nella penitenza; se ha goduto dei piaceri vietati dalla legge di Dio, deve anche soffrirne la pena; se ha servito all’ingiustizia e all’iniquità, deve anche servire alla santità e alla giustizia: Sicut exhibuistis membra vestra servire immunditiæ et iniquitati, ita nunc exhibete membra vestra servire iustitiæ. Tale è stato in tutti i secoli il sentimento e la pratica della Chiesa e dei santi; quindi quelle penitenze severe, quei digiuni lunghi e rigorosi che s’imponevano nella primitiva Chiesa a certi peccatori, che ammessi non erano alla partecipazione de’ santi misteri se non dopo aver lungo tempo pianto e portato il peso della pena ai loro peccati dovuta. È vero che la Chiesa per condiscendenza verso i suoi figliuoli si è molto rilassata di sua antica disciplina; ma non ha essa preteso di distruggere lo spirito di penitenza, il quale, secondo la testimonianza del Vangelo, è spirito di mortificazione, di crocifiggimento della carne, d’annegazione di se stesso; senza questo non possiamo lusingarci di essere Cristiani, molto meno di esser penitenti. Infatti la penitenza, dicono i ss. Padri, è un Battesimo laborioso: dunque nella penitenza è necessaria una santa severità; deve l’austerità farne il carattere; dopo il naufragio convien farsi violenza per giungere al porto: quindi il peccatore pretender non può alla felicità eterna, se non punisce sé stesso a proporzione del piacere che ha gustato nel peccato. Ora, io vi domando, un peccato è egli assai punito, detestando solamente la sua vita passata, cessando di malfare? E potremo noi persuaderci che un ubriacone, per esempio ed un impudico siano assai puniti perché recitano alcune preci o fanno qualche limosina, se non aggiungono opere soddisfattorie e penose, se non mortificano i loro corpi per espiare le commesse dissolutezze? No certamente. Altrimenti la riconciliazione del peccatore con Dio non sarebbe sì difficile, come ci dicono i libri santi. Con tutto ciò, oh cosa strana! Sono i più gran peccatori quelli che vogliono essere trattati con più riguardo; il solo nome di penitenza li spaventa, oppure non vogliono che penitenze comode e conformi alla loro inclinazione, penitenze che non li molestino e che raddolcir sappiano con temperamento che l’amore proprio loro suggerisce. Vogliono essere penitenti, ma non vogliono che lor ne costi pena. Ah! non così hanno fatto penitenza i santi: datisi ai lodevoli rigori di una vita mortificata e penosa, s’interdicevano i piaceri più permessi; sempre in guerra con se stessi si dinegavano sino le cose le più necessarie alla vita, e l’unica consolazione che gustavano era di vivere sulla croce con Gesù Cristo, e dimorarvi sino alla morte.

Pratiche. Sopra tal santi esempi dobbiamo noi d’or innanzi regolare la nostra condotta. Iddio nella sua misericordia ci attende; ci ama ancora benché peccatori, ma rimette i suoi diritti nelle nostre mani. Se abbiamo ancora qualche amore per questo Dio di bontà, vendichiamolo degli oltraggi che ha da noi ricevuti e proporzioniamo la nostra penitenza al numero e all’enormità dei nostri misfatti. Laonde, fratelli miei, voi che avete fatto danno al vostro prossimo, non vi contentate di restituire la roba mal acquistata, date ancora del vostro ai poveri. A voi che vi siete abbandonati all’impurità, all’intemperanza, convien digiunare, mortificarvi, privarvi a mensa di qualche vivanda che più lusinghi il vostro appetito; troncate almeno certe soperfluità le quali non servono che a nutrire la delicatezza e sono sorgente di peccati. Voi che siete stati liberi nelle parole, che avete macchiata con le vostre maldicenze la riputazione del vostro prossimo, condannate la vostra lingua ad un volontario silenzio. Voi, voluttuosi, allontanate i vostri sensi dagli oggetti che possono lusingarvi, riteneteli nel contegno e nella soggezione per punire la libertà che loro avete data ed il cattivo uso che avete fatto del vostro corpo. Voi che avete frequentate case sospette, amicizie pericolose, evitate queste società, condannatevi al ritiro, ovvero se uscite, ciò sia soltanto per andar a visitare Gesù Cristo nel suo santo tempio, oppure nei suoi membri che soffrono. Se la vostra penitenza non uguaglia nella sua severità l’enormità dei vostri mancamenti, le sia almeno proporzionata nella durata; vale a dire, passate tutta la vostra vita nel far penitenza di peccati che hanno meritato di essere puniti per una eternità; voi dovete tanto più perseverare nella pratica della penitenza, perché senza di essa non terrete giammai le vostre passioni in freno; esse si ribelleranno di nuovo, e voi ricadrete nel vostro primo stato. Ricordatevi che questa penitenza, per lunga ch’ella sia, è leggerissima in paragone di quella che fareste nell’inferno, e non dimenticate mai la felicità che vi è riserbata nel cielo. Cosi sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Luc 1: 28
Ave, María, gratia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta

Sacrifíciis pæséntibus, quǽsumus, Dómine, placátus inténde: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno alle presenti offerte: affinché giovino alla nostra devozione e alla nostra salvezza.]

Comunione spirituale: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Is. VII: 14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel. [Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio: e si chiamerà Emanuele.]

Postocommunio

Orémus.
Sumptis munéribus, quǽsumus, Dómine: ut, cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Assunti i tuoi doni, o Signore, Ti preghiamo, affinché frequentando questi misteri cresca l’effetto della nostra salvezza.]

Preghiere leonine https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (91)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (2)

CAPO II.

Quanto sieno indegni di credito gli ateisti.

I.

I . Non par possibile, che l’uomo introdotto in questo mondo, quasi in un tempio, affinché in nome di tutte le creature offerisca alla divinità sacrifizio di lode eterna, degeneri poi del suo grado sì enormemente, che di’ sacerdote si rivolga in ribelle, né solo contenda al suo sovrano l’omaggio, ma infino l’essere. Eppur così non prevaricasse più d’uno! Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus(Ps. XIII. I ). Vero è, che se all’uomo è difficile l’avanzarsi al più alto della virtù, non gli è forse meno difficile l’difficile l’arrivare al più profondo del vizio. Ond’è che innanzi che uno divenga ateista vi vuole assai: dovendo egli a tal effetto, non solo perdere il senno, ma voler perderlo. Ora, perché il rinvenire l’origine de’ malori è gran parte della lor cura, facciameli a rinvenir quella dell’ateismo, per pura brama di convertire, a chi ne sia per sorte infetto, la vipera in medicina.

II.

II. La sorgente più consueta della vertigine non è nel cerebro, come la gente si crede, ella è nello stomaco, il quale pieno di maligni umoracci, manda alla testa quegli aliti impetuosi che, sconvolgendola, le danno insino a stimare che i monti ballino. Tanto accade nel caso nostro. La origine di questa incredulità sì caliginosa non si ha da cercare immediatamente nell’intelletto alterato, ma nella volontà, la qual carica di ogni fracidume di vizio, solleva dal suo seno lumi nerissimi, per cui viene alla mente quel capogiro che non le lascia tenere per saldo e stabile né anche il primo motore (Talvolta la corruzione discende dal cervello al cuore, tal’altra monta dal cuore al cervello. Le passioni della volontà ed i traviamenti dell’intelligenza sì rispondono mutuamente, e si dividono amichevolmente il dominio dell’anima).

III. Io certamente non so chi vi siate voi che avete pigliato a scorrere queste carte. Mi giova credere, che senza fallo voi siate fedele a Dio. Ma se foste uno di quei che neppur lo ammettono, deh contentatevi, che da solo a solo io vi chiegga in segreto sommo (giacché qui parliamo a quattr’occhi!, come avete mai fatto a scancellare dal fondo della vostra anima quei sentimenti più pii che vi stimolavano a riconoscere un Fabbricatore supremo dell’universo, ed a venerarlo (Queste parole ci ricordano quelle altre ragguardevoli di Tertulliano: « Oh! testimonium animæ naturaliter christianæ! »)? Non potete già dire, che siate nato ateista; vi siete fatto, e fatto, se si consideri, a poco a poco. Confessatemi dunque per quella divinità, cui non date fede: quali sono quei gradi per cui veniste a cadere in sì gran delirio? Non credo io già, che la integrità de’ costumi, la continenza, la carità, la pazienza, e molto meno la mortificazione indefessa di voi medesimo vi abbiano persuaso, che Dio non v’è (Un animo morigerato, e casto, ed adorno di elette virtù non può non sentire Iddio, che è santità e purezza infinita, ed in sentirlo ne riconosce e ne adorala viva presenza. Un cuore ben fatto non fu ateo giammai). Ve l’ha persuaso la vaghezza di vivere, come fan le bestie, a capriccio. E una dottrina sì misera, che si apprende unicamente nel lezzo e ne’ lupanari, sarà la vera? Dove mai si trovò, che a penetrar a più bella di tutte le verità fosse di mestieri mettersi sotto i piedi la temperanza? Anzi fu perpetuo parere di tutti i saggi, che ad indagare qualunque verità, non pure alta, ma comunale, nulla giovi più che l’avere libero il cuore dalle passioni troppo abili ad ingombrarlo (Come le passioni ci presentano le cose ben altre da quel, che sono, ossia alterate, così la mente spassionata non può non vedere gli oggetti quali sono effettivamente in se stessi, ed accogliere la schietta luce della verità). E come dunque chi più si lasci dominare dall’ira, dall’ambizione, dall’astio e dalle dissolutezze più vergognose, più ancora intende di ciò che appartiene a Dio? – Quando a contemplar meglio il cielo sarà più spediente ad un astronomo il chiudersi in una stufa colma di fumo, che non sarebbe l’uscire in campagna aperta: allora si potrà giudicare, che la vita menata fra mille crapule e mille carnalità vi abbia dato a vedere, che sulle stelle non v’è quel Dio che si pensa la gente credula. E se così è, permettetemi dunque, che io vi soggiunga: Qual quiete d’animo volete voi mai promettervi in una setta, nella quale avete sì forte la presunzione di non apporvi, dal mirar solamente chi siate voi?

III.

IV. Ma quando anche foste di vita non sì perversa, su che fondamento stabilite voi quella torre di confusione, dalla cui cima vi affacciate a trasmetterci sì gran nuova, che Dio non v’è? Non est Deus (Come Iddio è il primo essere, cagione dì tutti gli altri esseri, ed il primo Vero, ragione di tutti gli altri veri, cosi il Non est Deus dell’ateo nell’ordine della realtà mena al nullismo, perché senza Dio niente più sussiste, e nell’ordine del sapere riesce al massimo degli errori e degli assurdi, perché si risolve in questo pronunciato: l’essere, che non può non esistere (Deus), non esiste (non est); ossia il necessario è nulla). Aspetto, che mi diciate con quegli sciocchi già confutati da Tullio, (De nat. Deor.) che Dio non v’è, perché non è visibile agli occhi nostri. Ma da quando in qua si ha da curare la testimonianza degli occhi in cercar Dio? Si veggono con gli occhi le cose soggette agli occhi, quali son le corporee: le spirituali s’intendono, non si veggono. Di poi, perché state a dirmi di non vederlo? Noi vedete in sé, ve ‘l concedo; ma lo vedete (se non volete accecarvi da voi medesimo) ne’ suoi effetti. Ditemi un poco. Come vedete voi l’anima di quell’uomo che vi è presente? La vedete forse in se stessa? No certamente. Voi la vedete nelle sue operazioni. Eppure queste vi fanno abbastanza credere, ch’ella v’è: né mai vi cade in pensiero di sospettare, che il corpo di quell’artefice il quale intaglia, scrive, stampa, dipinge per eccellenza, non sia corpo animato, sia corpo morto da mandare alla sepoltura. Che sciocchezza dunque è mai questa? dalle operazioni del corpo conoscere che v’è l’anima da cui sgorgano; e dalle operazioni di tanto cose create non sapere conoscere, che v’è Dio! Stulte(diceva appunto il grande Agostino (In Ps. LXXIII) ad un uomo del taglio vostro) Stulte, ex operibus corporis agnoscis vicentem, ex operibus creaturæ non potes agnoscere Creatorem? Questo è il sapere arguir da’ suoi giri il rivo, e non sapere arguire dal rivo il fonte. I postumi mai non videro il loro padre, eppur di lui sono certi, né solo ne son certi, ma di più l’amano nei ritratti, l’amano nelle rendite, l’amano nella casa di tanto costo da lui fabbricata per essi non anche nati. E a voi non basta mirar quanto Dio vi diede, e quanto vi dà, per credere che ei vi sia, se non per amarlo? Voi dunque non crederete (se così è) né tanto che vi è noto per pura autorità di persone degne di fede, che ve lo affermano, come è, che il sole sia mille e mille volte maggior di tutta la terra (purtroppo anche il Segneri non credeva alle parole della Bibbia, quando riportava l’esempio degli eliocentristi dediti al culto di Mitra, che immaginavano – essi sì – che il sole fosse mille volte più grande della terra, senza avere avuto mai uno straccio di prova, ma solo per  argomentare contro le parole di Dio delle sacre Scritture – Errore grave di tutti i chierici sette-ottocenteschi ed oltre, che evidentemente non credevano al dogma dell’inenarranza biblica!); né crederete tanto altro che la ragione vi sforza a credere con le sue violente illazioni.

IV.

V. A questi due tribunali voglio io pertanto citarvi per vostro bene: a quello dell’autorità, ed a quello della ragione (Autorità e ragione tornano entrambe necessarie allo studio non della Religione soltanto, ma di qualsiasi ramo dello scibile umano. Il discente non può muover un passo senza piegar docile l’intelletto alla parola autorevole del maestro, perché non est discipulus supra magistrum; ed il dotto anch’esso mal può penetrare più addentro nelle profondità della scienza sua, se non piglia ad imprestito dalle altre scienze, senza punto discuterli e dimostrarli, quei principii, di cui come di postulati abbisogna la propria). E se ad ambo voi rimarrete convinto, che Dio vi sia, come più fissarvi a contenderlo? Sarebbe questo un non volere altra regola in giudicar delle cose, che il proprio orgoglio. Onde potremmo conchiudere, che se la corruzion della volontà, è la madre, come si disse, dell’ateismo; l’orgoglio dell’intelletto ne è il vero padre. Tale è l’origine degli animali più vili. Sono eglino schiusi in vero dalla putredine, ma non senza il concorso di quel poco di spirito che ivi intorno se ne va volando per l’aria. Quindi è l’osservare in ogni ateista un cervello, non pure altero, ma indomito, tanto che recansi fino a sapienza l’errare, ed a sapienza massima l’errar soli, singolarmente dappoi che l’amore della novità gli ha impegnati a stimarsi tanto più liberi, quanto più se ne vanno fuori di strada. Allora, crescendo in essi per la libertà l’alterezza, divengono incorreggibili. Imperciocché siccome nel calore della battaglia non si accorge taluno di esser ferito; cosi essi non si accorgono di quei colpi che dà loro la verità per ridurli in via, né se ne risentono, o sia l’autorità quella che più li percuote, o sia la ragione. Non vorrei già, che voi dimostraste esser uno di questi miseri. Però arrendetevi in prima all’autorità.