UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. S. PIO X – “ACERBO NIMIS”

« Vi preghiamo e scongiuriamo, riflettete quanta rovina di anime si abbia per la sola ignoranza delle cose divine … » Ecco il grido accorato che il Pontefice Santo, Papa Pio X, emetteva alla fine della sua sapientissima lettera Enciclica Acerbo nimis, documento disatteso, per infingardia o per calcolata malizia, da molti di coloro ai quali esso era diretto. Oggi purtroppo ne constatiamo le tragiche e funeste conseguenze, perché è proprio sull’ignoranza, più o meno colpevole, del popolo cristiano, che la sinagoga di satana – il novus ordo – si è infiltrata nella Chiesa Cattolica devastandola con perniciose e false dottrine che dagli ignoranti, veri e finti prelati o pigri fedeli, non sono state combattute né eliminate col pretesto di una supposta obbedienza, non alla Legge divina, ma alle imposture diaboliche inoculate con le aberranti dottrine del conciliabolo c. d. Vaticano II. Non solo quindi si è disattesa la volontà del santo Pontefice, ma si sono agevolmente introdotte false dottrine e aberranti culti pseudo-liturgici (… la messa del baphomet-lucifero signore dell’universo …) senza che la maggior parte dei Cristiani “di faccia” abbia compreso né reagito di conseguenza, mettendo la propria anima in attesa di una dannazione sicura e meritata. La lettera Enciclica parla da sola nella sua veemente esposizione dei mali congiunti all’ignoranza religiosa, un tempo forse incolpevole, ma oggi assolutamente colpevole e condannata alla eterna riprovazione. Guai ai veri o finti pastori, ed ai loro fiancheggiatori laici, che hanno alterato, manipolato, falsamente presentato ed interpretato la dottrina cristiana, per aver derubato a Dio la gloria a Lui solo dovuta, dell’essere conosciuto, adorato e servito da tutti i Cristiani e da eventuali pagani o acattolici, tenuti lontani dal vero culto divino. È questo l’affronto più grave che si potesse e si possa fare al Creatore dell’universo e delle anime che dovevano dare gloria al Padre celeste sull’esempio del Figlio unigenito, … per Lui, con Lui ed in Lui … “Io non dividerò la mia gloria con nessuno” – dice tramite Isaia – il Dio delle schiere. Ed allora impavido pusillus grex, rimasuglio dei veri fedeli ed adoratori in spirito di Dio, studiamoci bene il Catechismo Cattolico (… quello vero naturalmente, quello del sacrosanto Concilio di Trento, o dello stresso S. Pio X, magari approfondendolo con opere di più ampio spessore – per chi ne abbia il tempo e la possibilità – di autori Cattolici comprovati ed autorizzati da imprimatur veraci e legittimi), mettiamolo in pratica nella nostra vita ordinaria e, fondando sulla grazia divina, annunziamolo possibilmente nelle varie realtà in cui si opera, ed i benefici saranno immensi, per i singoli e per l’intera società umana, di modo che non si possa più dire, come all’inizio della sottostante Enciclica « … la radice precipua dell’odierno rilassamento e quasi insensibilità degli animi e dei gravissimi mali che quindi si derivano, ripongono nell’ignoranza delle cose divine … ».

san Pio X
Acerbo nimis

Lettera Enciclica

I.

L’ignoranza della Religione causa precipua dell’odierno rilassamento.

In troppo ingrati e difficili tempi le disposizioni arcane della Provvidenza divina hanno sollevato la Nostra pochezza all’officio di Pastore supremo dell’universal gregge di Gesù Cristo. L’uomo inimico già da lunga stagione si aggira intorno a questo gregge, e lo va così insidiando con sottilissima astuzia, che or più che mai sembra verificato ciò che l’Apostolo prediceva ai maggiorenti della Chiesa di Efeso: “Io so che entreranno fra voi lupi rapaci che non perdoneranno all’ovile” (Act. XX, 29). — Del quale religioso decadimento, coloro che nutrono tuttora zelo della gloria di Dio, vanno indagando le ragioni e le cause; e mentre altri altre ne assegnano, conforme all’opinar di ciascuno, diverse son le vie che seguono per tutelare e ristabilire il regno di Dio sulla terra. A Noi, Venerabili fratelli, checché sia di altre cagioni, sembra di preferenza dover convenire con coloro che la radice precipua dell’odierno rilassamento e quasi insensibilità degli animi e dei gravissimi mali che quindi si derivano, ripongono nell’ignoranza delle cose divine. Il che risponde pienamente a quello che Dio stesso affermò pel profeta Osea: “… E non è scienza di Dio sulla terra. La maledizione, la menzogna, e l’omicidio, e il furto, e l’adulterio dilagarono, e il sangue toccò il sangue. Perciò piangerà la terra e verrà meno chiunque abita in essa” (Os. IV, 1 ss.).

II.

L’ignoranza della religione quanto comune ai nostri tempi.

E che infatti fra i Cristiani dei nostri giorni siano moltissimi quelli i quali vivono in una estrema ignoranza delle cose necessarie a sapersi per la eterna salute, è lamento oggimai comune, e purtroppo! lamento giustissimo. E quando diciamo fra i Cristiani, non intendiamo solamente della plebe o di persone di ceto inferiore, scusabili talvolta, perché, soggetti al comando d’inumani padroni, appena è che abbian agio di pensare a sé ed ai propri vantaggi: ma altresì e soprattutto di coloro, che pur non mancando d’ingegno e di coltura, mentre delle profane cose sono conoscentissimi, vivono spensierati e come a caso in ordine alla Religione. Può dirsi appena di quali profonde tenebre questi tali sien circondati; e ciò che più accuora, tranquillamente vi si mantengono! Niun pensiero quasi sorge loro di Dio Autore e moderatore dell’universo e di quanto insegna la Fede cristiana. E conseguentemente, sono cose affatto ignote per essi e l’Incarnazione del Verbo di Dio, e l’opera di Redenzione dell’uman genere da lui compiuta; e la Grazia che è pur il mezzo precipuo pel conseguimento dei beni eterni, e il santo Sacrificio e i Sacramenti, pei quali la detta grazia si acquista e conserva. Nulla poi apprezzano la malizia e turpitudine del peccato, e quindi non hanno affatto pensiero di evitarlo o di liberarsene; e così si giunge al giorno supremo, talché il ministro di Dio, acciò non manchi una qualche speranza di salute, è costretto ad usare dei momenti estremi, che dovrebbero tutti impiegarsi nel fomentare la carità verso Dio, nel dare una sommaria istruzione delle cose indispensabili a salute; se pure, ciò che sovente interviene, l’infermo non sia talmente schiavo di colpevole ignoranza, da credere superflua l’opera del sacerdote, e senza riconciliarsi con Dio, affronti tranquillo il viaggio tremendo dell’eternità. Onde è che il Nostro predecessore Benedetto XIV giustamente scrisse: “Questo asseveriamo, che la maggior parte di coloro, che san dannati agli eterni supplizi, incontrano quella perpetua sventura per ignoranza dei misteri della fede, che necessariamente si debbono sapere e credere per essere ascritti fra gli eletti” (Instit. XXVI, 18).

III.

Dall’ignoranza della religione è da ripetersi l’odierna corruttela dei costumi.

Ciò posto, Venerabili Fratelli, qual meraviglia che si veda oggi nel mondo, e non già diciamo fra i barbari, ma in mezzo alle nazioni cristiane, e cresca ogni giorno più la corruttela dei costumi e la depravazione delle abitudini? Intimava l’Apostolo scrivendo agli Efesini: “La fornicazione poi ed ogni immondezza, o l’avarizia, neppur si nomini fra voi, come si addice ai santi: o la turpitudine, o lo stoltiloquio” (Ephes. V, 3 s.).  – Ma egli a fondamento di questa santità e del pudore, che infrena le passioni, poneva la sapienza soprannaturale: “Guardate dunque, o fratelli, come dobbiate camminar cautamente non quasi stolti, ma come sapienti. Perciò non vogliate essere spensierati, ma intendete bene quale sia la volontà di Dio” (Ibid. 15 ss.).  E ciò con ragione. Infatti la volontà umana conserva appena alcun che di quell’amore dell’onesto e del retto, che Dio Creatore le infuse e che quasi la trascinava al bene non apparente ma verace. Depravata per la corruzione della colpa primiera, e pressoché dimentica di Dio, suo Autore, gli affetti suoi rivolge quasi tutti all’amore della vanità e alla ricerca del mendacio. – Fa quindi mestieri a questa volontà fuorviata ed accecata dalle perverse passioni, assegnare una guida, che la scorga perché torni sui male abbandonati sentieri della giustizia. E la guida, non liberamente scelta, ma destinata dalla natura è l’intelletto appunto. Il quale, pertanto, se manchi di vera luce, cioè della cognizione delle cose divine, sarà come un cieco che presti il braccio ad altro cieco, e cadranno entrambi nella fossa. Il santo Davide, lodando Iddio della luce di verità da Lui riverberata sulle nostre menti, diceva: (Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine: dedisti lætitiam in corde meo. (Signore, il lume del volto tuo è segnato sopra di noi – Ps. IV, 7). E la conseguenza di questa luce indicò qual fosse, aggiungendo: “Hai infuso allegrezza nel mio cuore“;quell’allegrezza cioè che dilatandoci il cuore, fa che corra la via dei divini comandamenti.

IV.

La conoscenza delle cose religiose non è soltanto lume all’intelletto, ma guida e stimolo della volontà.

E che sia difatto così, apparisce manifesto a chi per poco rifletta. Imperocché la dottrina di Gesù Cristo ci disvela Iddio e le infinite perfezioni di Lui con assai maggior chiarezza che non lo manifesti il lume naturale dell’umano intelletto. Ma poi? quella stessa dottrina ci impone di onorare Dio con la fede, che è ossequio della mente; colla speranzache è ossequio della volontà; colla caritàche è ossequio del cuore; e per tal guisa lega tutto l’uomo e lo soggetta al suo supremo Fattore e Moderatore. Parimente la dottrina di Cristo è la sola che ci manifesti la vera ed altissima dignità dell’uomo, additandocelo come figlio del Padre celeste che è nei cieli, fatto ad immagine di Lui e destinato a vivere con Lui eternamente beato. Ma da questa stessa dignità e dalla cognizione della medesima Cristo deduce l’obbligo per gli uomini di amor vicendevole come fratelli ch’ei sono, prescrive loro di vivere quaggiù come si avviene a figliuoli della luce “… non in bagordi ed ubbriachezze, non in mollezze ed impudicizie, non in risse ed invidie(Rom. XIII, 13);li obbliga inoltre a riporre in Dio ogni sollecitudine giacché Egli ha cura di noi; comanda di stendere la mano soccorritrice al povero, di far bene a quei che ci fan male, di anteporre i vantaggi eterni dell’anima ai beni fugaci del tempo. E per non discendere in tutto al particolare, non è la dottrina di Gesù Cristo che all’uomo, il quale vive di orgoglio, ispira ed impone l’umiltà, origine di gloria verace? “Chiunque si umilierà… questi è il più grande nel regno dei cieli” (Matth., XVIII, 4). Dalla stessa dottrina apprendiamo la prudenza dello spirito, per cui fuggiamo la prudenza della carne: la giustizia, per cui rendiamo il suo diritto ad ognuno; la fortezza che ci fa pronti a patir tutto, e colla quale, con animo generoso, patiamo di fatto ogni cosa per Iddio e per l’eterna felicità; e finalmente la temperanza, con cui giungiamo ad amare financo la povertà, ci gloriamo anzi della croce, non curando il disprezzo. Sta insomma che la scienza del Cristianesimo non è solo fonte di luce all’intelletto per la consecuzione del vero, ma fonte eziandio di calore alla volontà, con cui ci solleviamo a Dio e con lui ci uniamo per la pratica delle virtù. – Con ciò siamo ben lungi dal dire che, anche colla scienza della Religione, non possa unirsi volontà perversa e sregolatezza di costume. Piacesse a Dio che nol provassero anche troppo i fatti! Sosteniamo però che non potrà mai esser retta la volontà né buono il costume, qualora l’intelletto sia schiavo di crassa ignoranza. Chi ad occhi aperti procede, può certamente uscire dal retto sentiero: ma chi è colto da cecità, è sicuro di andare incontro al pericolo. – Aggiungasi di più che la perversità del costume, ove non sia del tutto estinto il lume della fede, lascia sempre a sperare un ravvedimento; laddove, se alla corruzione del costume si congiunge per effetto dell’ignoranza, la mancanza della fede, il male appena ammette rimedio, ed è aperta la via all’eterna rovina.

V.

A chi spetti l’obbligo dell’insegnamento religioso.

Tanti adunque e sì gravi essendo i danni provenienti dalla ignoranza delle cose di religione; e tanta, da altra parte, essendo la necessità e l’utilità dell’istruzione religiosa, giacché non potrà mai adempiere i doveri del Cristiano chi non li conosca; resta a cercare, a chi poi si spetti di eliminare dagli animi siffatta ignoranza, e chi abbia il dovere di comunicare alle anime una scienza così necessaria. — E qui, Venerabili Fratelli, non vi ha punto luogo a dubitazioni; giacché questo gravissimo dovere incombe a quanti sono Pastori di anime. Ad essi, per comandamento di Cristo, è imposto di conoscere e di pascere le pecorelle affidate; ora il pascere importa in primo luogo l’insegnare: “Io vi darò“,così Dio prometteva per Geremia, “pastori secondo il cuor mio, e vi pasceranno colla scienza e colla dottrina” (Ier. III, 15). Per la qual cosa l’Apostolo San Paolo diceva: “Non mi ha Cristo mandato per battezzare, ma per evangelizzare“(I Cor. I, 17); volendo cioè indicare, che il primo officio di quanti, in qualche misura, sono posti a reggere la Chiesa, è di istruire nella sacra dottrina i fedeli.

VI.

Encomio delle insegnamento del catechismo.

Della quale istruzione ci sembra non necessario dir qui le lodi, e mostrare di quanto merito sia al cospetto di Dio. – Certo l’elemosina, con cui solleviamo le angustie dei poverelli, è dal Signore altamente encomiata. Ma chi vorrà negare che encomio di gran lunga maggiore si debba allo zelo ed alla fatica, onde si procacciano, non già passeggeri vantaggi ai corpi, ma, coll’insegnare ed ammonire, eterni beni alle anime? Nulla per verità è più desiderato e caro a Gesù Cristo salvatore delle anime; il quale, per bocca di Isaia, volle di sé affermare: “Io sono stato mandato per evangelizzare i poveri“(Luc. IV, 18).

VII.

Ogni sacerdote ha il dovere di ammaestrare i fedeli.

Ma, pel presente scopo, meglio è soffermarci ad un punto, e su di esso insistere, non esservi cioè per chiunque sia sacerdote né dovere più grave, né più stretto obbligo di questo. E per fermo chi è il quale nieghi nel sacerdote alla santità della vita debba andare congiunta la scienza? “Le labbra del sacerdote custodiranno la scienza” (Malach. II, 7). – E la Chiesa infatti severissimamente la richiede in coloro, che devono essere assunti al ministero sacerdotale. E perché mai? perché da loro aspetta il popolo cristiano di conoscere la Legge divina, e sono essi perciò mandati da Dio: “E ricercheranno la legge dalla bocca di lui, perché egli è l’angelo del Signore degli eserciti” (Ibid.). Per la qual cosa il Vescovo, nella sacra ordinazione, parlando agli ordinandi, dice loro: “Sia la vostra dottrina spirituale medicina al popolo di Dio: sieno provvidi cooperatori dell’ordine nostro; affinché meditando giorno e notte nella sua legge, credano quello che avranno letto, ed insegnino ciò che avranno creduto(Pontif. Rom.).

VIII.

Obbligo specialissimo e quasi particolare che ne hanno i parrochi.

Che se ciò vale di qualsiasi Sacerdote, che dovrà poi pensarsi di coloro, che insigniti del titolo e dell’autorità di parrochi, in forza del loro grado e quasi per contratto, hanno officio di reggitori delle anime? Essi, in certa misura, sono da annoverarsi fra i pastori e dottori che Cristo assegnò, affinché i fedeli non sieno a guisa di pargoli fluttuanti e non sieno, per nequizia degli uomini, aggirati da ogni vento di dottrina; “ma operando la verità nella carità, crescano per ogni cosa in colui, che è il capo, Cristo” (Ephes. IV, 14, 15). Per la qual cosa il sacrosanto Concilio di Trento (Sess. V, cap. 2 de ref.; Sess. XXII, cap. 8; Sess. XXIV, cap. 4 et 7 de ref.), trattando dei pastori delle anime, pone per loro primo e massimo dovere l’istruzione dei fedeli. Quindi ordina ai medesimi che almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni parlino al popolo delle verità religiose, e quotidianamente, o almeno tre volte per settimana, facciano altrettanto nei sacri tempi dell’Avvento e della Quaresima. Non basta: aggiunge inoltre essere tenuti i parrochi, almeno nelle domeniche e nei giorni festivi, ad istruire, o per sé, o per mezzo di altri, nei principi della fede e nell’obbedienza a Dio ed ai genitori i fanciulli (Ibid. cap. 7). E quando poi debbono amministrarsi i Sacramenti, prescrive che si spieghi, secondo l’intelligenza di quelli che stanno per riceverli, ed in lingua volgare, la virtù dei medesimi.

IX.

La spiegazione del Vangelo ed il catechismo sono due obblighi distinti del parroco.

Le quali prescrizioni del sacrosanto Concilio il Nostro predecessore Benedetto XIV, nella sua Costituzione Etsi minime, riassume e meglio determinò colle seguenti parole: “Due specialmente sono gli obblighi che dal Sinodo Tridentino furono imposti a chi ha cura delle anime: l’uno che nei giorni festivi parlino al popolo delle cose divine; l’ altro che istruiscano nei rudimenti della legge di Dio e della fede i fanciulli ed i rozzi“.E giustamente quel sapientissimo Pontefice distingue questo doppio dovere, del sermone cioè, che volgarmente chiamano spiegazione del Vangelo, e del catechismo. Imperocché forse non mancano di coloro, che a diminuir fatica, si persuadano che la spiegazione del Vangelo possa tener luogo dell’istruzione catechistica. Il qual giudizio ognun vede quanto sia errato. Imperocché il discorso, che si fa sul Vangelo, si rivolge a coloro che si suppongono istruiti nei rudimenti della fede. È il pane, per dir così, che si spezza a chi è già adulto. E’ istruzione catechistica invece è quel latte, cui l’Apostolo S. Pietro voleva che desiderassero con semplicità i fedeli quasi fanciulli testé generati. – Questo infatti e non altro è il compito del catechista, tôrre a trattare una verità o di fede o di morale cristiana e spiegarla in ogni sua parte; e poiché il fine dell’insegnare è sempre la riforma della vita, è d’uopo ch’ei faccia un confronto fra quello che da noi esige il Signore, e quello che difatto si opera; quindi per mezzo di esempî opportuni, tratti sapientemente dalle Sante Scritture o dalla Storia ecclesiastica o dagli atti dei Santi, persuadere e quasi mostrare a dito come debbansi conformare i costumi; e conchiudere in fine con esortazione efficace, affinché gli uditori si muovano a detestazione e fuga del vizio e all’esercizio della virtù.

X.

Nobiltà dell’officio di catechista.

Sappiamo che l’officio di catechista da molti non è ben visto, perché comunemente non è stimato gran fatto ed è poco acconcio ad accattarsi plauso. Ma questo, a Nostro avviso, è un giudizio nato da leggerezza e non da verità. Noi senza dubbio ammettiamo che siano degni di lode quei sacri oratori, che si dedicano con sincero zelo della gloria di Dio sia alla difesa ed al mantenimento della fede, sia all’encomio degli eroi del Cristianesimo. Ma la fatica di costoro ne suppone un’altra, quella cioè dei catechisti; la quale ove manchi, mancano i fondamenti, e faticano indarno coloro che edificano la casa. Troppo spesso i fioriti sermoni che riscuotono il plauso degli affollati uditori, riescono semplicemente ad accarezzar gli orecchi; non commuovono affatto gli animi. Per lo contrario l’istruzione catechistica benché piana e semplice, è quella parola, di cui Dio stesso dice in Isaia: “Come scende la pioggia e la neve dal cielo, e là più non torna, ma innebria la terra, e la penetra, e la fa germinare, e dà semenza al seminatore, e pane al famelico, così sarà la mia parola che uscirà dalla mia bocca: non tornerà a me vuota, ma opererà quanto io volli, e sarà prosperata nelle cose per le quali io l’ho mandata” (Is. LV, 10, 11). — Similmente pensiamo doversi dire di tutti quei Sacerdoti, i quali ad illustrare le verità religiose, compongono libri di gran fatica; degni perciò di essere assai commendati. Ma quanti sono poi coloro che leggono siffatti volumi e ne traggono frutto rispondente ai sudori ed alla brama di chi li scrisse? Laddove l’insegnamento del catechismo, se si faccia a dovere, non è mai che non rechi vantaggio a chi ascolti.

XI.

Si deplora di nuovo la universale ignoranza delle cose religiose.

Giacché, giova ripeterlo per eccitare lo zelo dei ministri del santuario, troppi sono adesso coloro, ed ogni dì ne cresce il numero, i quali ignorano affatto le verità religiose o di Dio e della Fede cristiana hanno soltanto quella scienza la quale permette loro di vivere a mo’ d’idolatri in mezzo alla luce stessa del Cristianesimo. Quanti sono, né già soli giovanetti, ma adulti ancora e vecchi cadenti, i quali ignorano affatto i principali misteri della fede; i quali udito il nome di Cristo rispondano: “Chi éperché debba credere in Lui?“(Ioan. IX, 36). In conseguenza di ciò non si recano punto a coscienza eccitare e nutrire odî contro del prossimo, fare ingiustissimi contratti, darsi a disoneste speculazioni, imposessarsi dell’altrui con ingenti usure, e simili malvagità. Di più, ignorano come la legge di Cristo, non solo proscrive le turpi azioni ma condanni altresì il pensarle avvertentemente e desiderarle; e rattenuti forse da un motivo qualsiasi dall’abbandonarsi ai sensuali diletti, si pascono, senza scrupolo di sorta, di pessime cogitazioni; moltiplicando i peccati più che i capelli del capo. Né di questo genere, torniamo anche a dirlo, si trovano solamente fra i poveri figli del popolo o nelle campagne, ma altresì e forse in numero maggiore fra le persone di ceti più elevati e pur fra coloro cui gonfia la scienza, e che poggiati su d’una vana erudizione, credono di poter prendere in ridicolo la religione e “bestemmiano quello che ignorano” (Iud. 10).

XII.

La fede infusa nel Battesimo ha bisogno di coltura.

Or se è vano aspettare raccolta da una terra, in cui non sia stata deposta la semenza, in qual modo potranno sperarsi più costumate generazioni, se non siano istruite per tempo nella dottrina di Gesù Cristo? Dal che segue, che, languendo ai dì nostri ed essendo in molti quasi svanita la fede, convien conchiudere adempiersi assai superficialmente, se non anche del tutto trascurarsi, il dovere dell’insegnamento del catechismo. — Né vale, per iscusarsi, il dire che la fede è un dono gratuito comunicato a ciascuno nel santo Battesimo. Sì, tutti i battezzati in Cristo hanno infuso l’abito della fede: ma questo germe divinissimo, non “si sviluppa né mette ampî rami“(Marc. IV, 32) abbandonato a se stesso e quasi per virtù nativa. Anche l’uomo, nascendo, porta in sé la facoltà d’intendere; pure ha bisogno della parola della madre, che quasi la risvegli e la faccia, come dicesi, uscire in atto. Non altrimenti il Cristiano, rinascendo per l’acqua e lo Spirito Santo, porta in sé la fede; ma gli è mestieri della parola della Chiesa che la fecondi, la sviluppi e la faccia fruttificare. Perciò scriveva l’Apostolo: “La Fede è dall’udito, l’udito poi per la parola di Dio: (Rom. X, 17) e per mostrare la necessità dell’insegnamento, aggiunge: “Come udiranno, se non vi sia chi predichi?” (Ibid. 14).

XIII.

Si determina e si impone quel che ogni parroco deve fare per l’ammaestramento dei fedeli nelle cose religiose.

Che se dalle cose premesse apparisce manifesta la somma importanza dell’insegnamento religioso; somma altresì deve essere la Nostra sollecitudine perché l’insegnamento del Catechismo, che Benedetto XIV disse: “la più utile istituzione per la gloria di Dio e la salute delle anime” (Constit. Etsi minime, 13), si mantenga sempre in vigore, e dove per caso si trascuri, torni a fiorire. — Volendo pertanto, o Venerabili Fratelli, adempiere questo gravissimo dovere impostoci dal supremo apostolato, ed introdurre da per tutto uniformità in questa rilevantissima materia, con la Nostra suprema autorità stabiliamo e strettamente ordiniamo che in tutte le diocesi si osservi ed adempia a quanto segue:

I. Tutti i parrochi, ed in generale tutti coloro che hanno cura d’anime, in tutte le domeniche e feste dell’anno, senza eccezione alcuna, col testo del Catechismo ammaestrino, per lo spazio di un’ora, i fanciulli e le fanciulle in ciò che ognuno deve credere ed operare per salvarsi.

II. I medesimi, in determinati tempi dell’anno, con una istruzione continuata di più giorni, preparino i fanciulli e le fanciulle a ricevere i Sacramenti della Penitenza e della Confermazione.

III. Similmente e con cura speciale, in tutti i giorni feriali della Quaresima e, se fosse necessario, in altri giorni dopo le feste Pasquali, preparino, con opportune istruzioni e riflessioni, i giovanetti e le giovanette a fare santamente la prima Comunione.

IV. In tutte e singole le parrocchie si eriga canonicamente la Congregazione della Dottrina Cristiana. Con la quale i parrochi, specialmente nei luoghi ove sia scarsezza di Sacerdoti, avranno per l’insegnamento del Catechismo validi coadiutori nelle pie persone secolari, che contribuiranno a questa opera salutare e santa si per zelo della gloria di Dio e sì per lucrare le moltissime indulgenze concesse dai Sommi Pontifici.

V. Nelle città maggiori, specialmente in quelle ove sono Università, Licei, Ginnasi, si istituiscano Scuole di Religione, destinate ad istruire nelle verità della fede e nella pratica della vita cristiana la gioventù che frequenta le pubbliche scuole, dalle quali è bandito ogni insegnamento religioso.

VI. Considerando poi, che, segnatamente in questi tempi, anche gli adulti non meno dei fanciulli hanno bisogno della istruzione religiosa; tutti i Parrochi ed ogni altro avente cura di anime, oltre la consueta omilia sul Vangelo, che deve esser fatta nella messa parrocchiale in tutti i giorni festivi, spiegheranno il catechismo ai fedeli in modo facile e acconcio alla intelligenza degli uditori, in quell’ora che ciascun stimerà più opportuna per la frequenza del popolo, fuori però del tempo in cui si ammaestrano i fanciulli. Nel che dovranno fare uso del Catechismo Tridentino; e procederanno con tale ordine, che, nello spazio di un quadriennio o quinquennio, trattino tutta la materia del Simbolo, dei Sacramenti, del Decalogo, dell’orazione domenicale e dei Precetti della Chiesa.

XIV.

Tocca ai Vescovi invigilare accuratamente l’esecuzione delle cose prescritte.

Questo, Venerabili Fratelli, Noi prescriviamo e comandiamo con Apostolica Autorità. Tocca ora a voi, ordinarne l’esecuzione pronta ed intera nelle vostre diocesi; e con la forza della vostra potestà vigilare ed impedire che tali Nostre prescrizioni sieno dimenticate o, ciò che equivale, eseguite superficialmente. Il che perché si eviti, fa d’uopo che Voi non cessiate di raccomandare e pretendere che i parrochi non facciano senza apparecchio queste loro istruzioni, ma vi premettano diligente preparazione; non parlino parole di umana sapienza, ma “con semplicità di cuore e nella sincerità di Dio” (II, Cor. I, 12), imitando l’esempio di Gesù Cristo il quale, benché rivelasse “misteri nascosti fin dalla costituzione del mondo” (Matt. XIII, 35), parlava nondimeno “alle turbe sempre con parabole, né senza parabole discorreva alle medesime“(Ibid. 34). E lo stesso fecero altresì gli Apostoli ammaestrati dal Signore; dei quali disse il Pontefice S. Gregorio Magno: “Ebbero somma cura di predicare ai popoli ignoranti cose piane ed intelligibili, non sublimi ed ardue” (Moral., I. XVII, cap. 26). – E perciò che spetta alla Religione, la più parte degli uomini, ai dì nostri, sono da considerarsi ignoranti.

XV.

L’insegnamento del catechismo richiede grande preparazione.

Non vorremmo però che da questo studio di semplicità da taluno si inferisse che questo genere di predicazione non richiede fatica e meditazione, che anzi ne esige maggiore che qualunque altro genere. Più agevole assai è trovare un predicatore capace di tenere un eloquente e pomposo discorso, anzi che un catechista che faccia una istruzione lodevole sotto ogni riguardo. Qualunque pertanto sia la facilità che altri abbia da natura di concepire e di parlare, si rammenti bene che non potrà mai fare un fruttuoso catechismo ai fanciulli ed al popolo senza prepararvisi con molta riflessione. S’ingannano coloro che, facendo a fidanza con la rozzezza ed ignoranza del popolo, credono di poter procedere in questo fatto con trascuratezza. Per contrario, quanto più l’uditorio è grossolano, cresce l’obbligo di studio maggiore e di maggior diligenza, per mettere alla portata di ognuno verità sublimissime e sì remote dalla intelligenza del volgo, che pur fa d’uopo che tutti, non meno dotti che ignoranti, conoscano per conseguir l’eterna salute.

XVI.

Esortazione ai Vescovi.

Orsù pertanto, Venerabili Fratelli, Ci sia lecito, sul termine di questa Nostra Lettera, rivolgere a Voi le parole che disse Mosè: “Se alcuno appartiene al Signore si unisca a me” (Exod. XXXII, 26).Vi preghiamo e scongiuriamo, riflettete quanta rovina di anime si abbia per la sola ignoranza delle cose divine. Forse molte cose utili e certamente lodevoli avete voi istituite nelle vostre diocesi a vantaggio del gregge affidatovi: a preferenza di tutte però vogliate, con quanto impegno, con quanto zelo, con quanta assiduità vi è possibile, procurare ed ottenere che la scienza della cristiana dottrina penetri ed intimamente pervada gli animi di tutti. “Ciascuno“,sono parole dell’Apostolo S. Pietro, “come ha ricevuto la grazia, l’amministri a vantaggio altrui, come buoni dispensatori della multiforme grazia di Dio” (I, Petr. IV, 10). – Ed intercedente la Vergine Beatissima Immacolata, fecondi la vostra diligenza e le vostre industrie, l’apostolica benedizione, che, pegno del Nostro affetto ed auspice dei divini favori, impartiamo dall’intimo del cuore a Voi ed al clero e al popolo a ciascuno di voi affidato.

Dato a Roma, presso S. Pietro il giorno 15 aprile 1905, nel secondo anno del Nostro Pontificato.

https://www.exsurgatdeus.org/2018/05/27/unenciclica-al-giorno-toglie-il-modernista-apostata-di-torno-etsi-minime/

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.
[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6
“Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in saecula sæculórum. Amen.”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

LA FAMIGLIA CRISTIANA

“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”

L’epistola di quest’oggi è una continuazione di quella della domenica scorsa. L’Apostolo, ricordato agli Efesini che devono vivere in modo consono alla grande dignità di Cristiani, alla quale furono chiamati, scende al particolare, e viene a parlare dell’unione degli animi che deve regnare tra di loro. Essi devono conservare l’unione, perché uno solo è il corpo mistico a cui appartengono, la Chiesa; uno solo è lo spirito che anima questo corpo, lo Spirito Santo; uno solo è il fine per il quale sono stati chiamati, la speranza di trovarsi uniti con Dio in cielo; uno solo è il Signore al quale credono con una stessa fede; uno solo è il Battesimo che li ha fatti entrare nella Chiesa. Vi è un solo Dio. che è il Padre comune. Se, per tutti i motivi addotti, deve regnare una perfetta armonia nella famiglia cristiana, quest’armonia non dev’essere minore nelle singole famiglie, che formano la società. E questa armonia non manca:

1. Se ciascuno adempie i suoi obblighi con spirito di fede,

2. Se c’è pazienza e mansuetudine,

3. Se c’è carità.

1.

Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati. Gli Efesini, come tutti i Cristiani,sono stati chiamati a far parte della grande famiglia diDio. La grande dignità di questa condizione esige che essivivano, non più secondo le norme del mondo pagano, mache vivano santamente, corrispondendo alle grazie ricevute.La grande famiglia cristiana è formata da tantepiccole famiglie che richiedono, da coloro che la compongono,l’adempimento di particolari doveri, che dovrebberoessere come il santuario dell’armonia e della pace,e sarebbero tali, se si imitassero le mirabili virtù con lequali Gesù ha consacrato la vita domestica.La condizione di chi è senza famiglia non è rosea. Facompassione l’orfanello senza la guida e il sostegno deigenitori; muove a pietà il vecchio abbandonato; ci fa pena l’infermo che non ha un congiunto che vegli al suo letto, e lenisca i suoi dolori. Ma non è neppur rosea la condizione di tante famiglie nelle quali invece dell’armonia e della pace, si trova l’inferno. Chi è a capo della famiglia non pensa: sono in questa condizione per volontà di Dio; devo, dunque, diportarmi in maniera degna della mia vocazione, e vedere, quindi, ciò che Dio stabilisce in proposito. — Dio stabilisce, per bocca dell’Apostolo – «Le donne siano soggette ai mariti come al Signore, poiché l’uomo è il capo della donna, come Cristo è il capo della Chiesa, essendo il Salvatore del suo corpo» (Ef. V, 22-23.). Qui è stabilita l’autorità del marito nella famiglia, e gli è posto davanti il modello da imitare nell’esercizio di questa autorità: Gesù Cristo. Egli ha salvato la Chiesa, sacrificandosi per essa, la conserva, l’assiste, la governa. Così il marito è capo della moglie, non per tiranneggiarla o maltrattarla, ma per guidarla, proteggerla, e prestarle quegli aiuti e quell’assistenza di cui potrebbe abbisognare. Il marito non deve considerare la casa come un luogo di gioie, di vantaggi, senza voler portarne i pesi, le amarezze, le disillusioni. – Da Dio son stabiliti anche i privilegi e i doveri della moglie. «Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così ancora le donne ai loro mariti in ogni cosa» (Ef. V, 24.). Essa non deve pretendere di dominare, usurpando l’autorità del marito, e molto meno deve pretendere di comandare a lui. La sua libertà è limitata. «Egli ti comanderà», aveva già detto Dio a Eva (Gen. III,16). Questo però non vuol dire che la moglie debba vivere da serva o da schiava. La sua soggezione al marito è basata sull’amore, sull’esempio della soggezione della Chiesa a Gesù Cristo. Perciò l’Apostolo soggiunge: «I mariti devono amar le mogli come i propri corpi» (Ef. V, 28). – Anche le relazioni tra i figli e i genitori sono stabilite da Dio: «Figliuoli, siate ubbidienti ai vostri genitori nel Signore; perché ciò è giusto. Onora il padre tuo e la madre tua: ecco il primo comandamento della promessa, affinché tu sii felice, e abbia lunga vita sulla terra» (Ef. VI, 1-3). Purtroppo l’ubbidienza ai genitori è generalmente trascurata, e l’onore si confonde, il più delle volte, con una confidenza illimitata, poco dignitosa, che presto diventa padronanza, e cambia le parti nella famiglia. Si preferiscono gli insegnamenti della moda a quelli dello Spirito Santo. – I genitori hanno anch’essi tracciata la norma rispetto ai figli. «E voi, padri, non irritate i vostri figliuoli, ma allevateli nella disciplina e negli ammonimenti del Signore » (Efes. VI, 4). I genitori amino sinceramente i loro figli, non passino la misura nel corregerli, lasciandosi guidare dalla passione, invece che dalla ragione; l’affetto paterno, però, non impedisca di osservare i loro difetti e di correggerli, di avvezzarli all’obbedienza e alla mortificazione, e di allevarli nel timor di Dio. – Prima condizione, dunque, per vivere in pace e armonia nella vita domestica è il regolarsi secondo le norme che Dio ha stabilito per i vari membri della famiglia.

2.

Nella grande famiglia cristiana non ci può essere unione, se domina lo spirito della superbia e dell’ira; perciò l’Apostolo vuole che i Cristiani si diportino con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza. Questo contegno è necessario soprattutto nella vita domestica. I motivi di contrasto si hanno maggiormente con chi ci sta vicino. C’è la diversità di carattere. Per quanto due caratteri si assomiglino, non si accordano mai in tutto; e poi c’è sempre qualche circostanza che può metterli in urto tra di loro. Purtroppo la diversità di carattere è il pretesto più frequente della disunione e della rovina delle famiglie. – Dopo un po’ di tempo cominciano gli screzi, poi vengono i contrasti aperti, poi uno diventa uggioso all’altro. La famiglia non è più un dolce nido, è diventata una casa di punizione. Le conseguenze ciascuno può immaginarle. Quasi sempre però si potrebbero evitare se almeno uno dei coniugi fosse stato educato di buon’ora a vincer se stesso con l’esercizio della pazienza. La Beata Anna Maria Taigi visse col suo sposo, sotto i medesimo tetto, per quarant’anni continui, senza che da una parte o dall’altra ci fossero risentimenti o rimpianti, tanta era l’unione degli spiriti. Eppure si trattava di due caratteri disparatissimi. Lei dolce, soave, composta; lui aspro, rozzo, inquieto, e talvolta anche violento. Ma la Beata non si offese mai di questi modi, né mai la si vide contendere con lui. Egli, come dicevano i vicini, aveva un carattere da cagionare continui incendi, ma la dolcezza e il tatto della santa consorte sapeva evitare l’incendio e mantenere l’armonia nella casa (Mons. Carlo Salotti. La Beata Anna Maria Taigi madre di famiglia. Roma 1924, p. 89-90). Sopportiamo il carattere dei compagni di lavoro, sopportiamo il carattere delle persone con cui si tratta per affari o per ufficio, perché non dobbiamo sopportare il carattere di quei che compongono la nostra famiglia? « Quel dovere che ti obbliga verso gli estranei — dice S. Ambrogio al marito — t’incombe maggiormente verso la moglie, col tollerarne e correggerne la condotta » (Exp. S. Evang. sec. Lucam, L. 8, n. 4). Lo stesso si dica della moglie rispetto al marito. Pazienza vince in tutte le guerre. – Nella vita domestica o un momento o l’altro vengono le ore grigie. Con le lamentele, con le imprecazioni, con lo scoraggiamento non si rimedia. Il rimedio più efficace, l’unico rimedio che il capo famiglia deve adottare è quello di una grande pazienza. Deve in quei momenti ricordarsi in modo speciale delle parole del Salvatore: «imparate da me », e sull’esempio di Lui, che governa la gran famiglia cristiana dalla croce, guidare, rassegnato e da forte, la propria famiglia con grande spirito di sacrificio. – Nel cielo della famiglia può sorgere qualche leggera nuvola. Ma questa nuvola bisogna procurare di fugarla subito. « Il sole — dice S. Paolo — non tramonti sul vostro sdegno» (Ef. IV, 26). E ‘ una scena abbastanza brutta, vedere in una casa, al medesimo desco, gente che non parla, facce che si voltano per non incontrarsi negli sguardi, visi corrucciati e fronti tristi. Non è abbastanza pesante la vita che si conduce fuori di casa, per volerla triste anche tra le pareti domestiche? Non dovrebbe mai tramontare il sole prima che la pace familiare sia riacquistata, primi che i malintesi siano dissipati, prima che le piccole tempeste siano sedate.

3.

Tutti i membri della società cristiana, e, più ancora tutti i membri di una famiglia devono sforzarsi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Questo si ottiene con la carità. «La pace e la carità sono sorelle senza bisogni e senza cure». Quando nella famiglia domina la carità, tutto si appiana. Il marito cerca di provvedere a tutto. Non solo trova ragionevoli i sacrifici che gli si domandano, ma sa indovinare e comprendere anche quelli che non gli si domandano; e, per quanto sta in lui, accontenta e previene. Egli sa apprezzare la parte importante e delicata che in seno alla famiglia compie la moglie, e cerca di alleggerirne i pesi con le sue premure. Quando nella famiglia domina la carità, la moglie non si acciglia se il marito è di malumore, soprappensiero. Il lavoro giornaliero, l’andamento degli affari, le preoccupazioni per la famiglia possono spiegare benissimo questi momenti tristi. Essa conosce la propria missione: addolcire, mitigare, rasserenare. Quando nella famiglia domina la carità, i figli non vengono considerati come un peso; non ci si disinteressa di loro. Si ringrazia Dio che li dona e si trattano come li trattava Gesù quando le madri glieli conducevano perché li benedicesse. Egli li trattava come tesori preziosi. Minacciava chi avesse tentato di scandalizzar questi innocenti i cui Angeli vedono continuamente la faccia del Padre celeste, e che hanno diritto al regno del cielo. E quando i genitori considerano i loro figli come tesori preziosi, loro affidati da Dio,usano tutte le precauzioni per tenerli lontani da tutto quello che potrebbe renderne l’anima meno bella agli occhi dei loro Angeli custodi; li correggono quando prendono cattiva piega. Sarebbe un grave errore credere che il castigo escluda l’amore. È questione di lasciarsi guidare dall’amore e non dall’ira. «Non credere di amar tuo figlio, quando non lo castighi… ; — dice San Agostino — questa non è carità, ma languore» (In Epist. Ioannis Tract. 7, 11). – E quando i figli sono trattati con amore illuminato, non rimangono insensibili. Il ripicco, il puntiglio, la cocciutaggine sono rari: è più facile che traggano profitto dalla correzione, rientrando in se stessi. Se vogliamo che nella famiglia regni veramente, come dovrebbe regnare, l’armonia e la pace, non prendiamo per guida gli insegnamenti della moda, ma il santo timor di Dio: nei contrasti, nelle difficoltà non perdiamo mai la calma, in tutto e sempre siamo animati dalla carità. La nave, quando il mare è in tempesta, procede male anche lontana dagli scogli: nella calma, fila sicura anche tra gli scogli, se chi la guida ha occhio attento e cuor generoso.

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.
[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja [Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre”.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLV.

“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io metta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.

Il divin Redentore si trovava in Gerusalemme dopo il suo ingresso trionfale in quella città, epperciò qualche giorno appena prima della sua passione e morte. E i suoi nemici, gli uni dopo gli altri, gli si appressavano facendogli con maligna insistenza varie domande affine di confonderlo se fosse stato possibile. Ma in quella vece alle domande, che gli erano fatte, Gesù Cristo rispondeva in modo, che restavano confusi i suoi nemici. Egli aveva allora allora chiusa la bocca ai Sadducei, specie di materialisti di quel tempo, che negavano la resurrezione, quando, come ci narra il Vangelo d’oggi, i Farisei avendo ciò saputo si unirono insieme; quindi uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il più grande comandamento della legge? E Gesù rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge e i profeti. Così rispose il Divino Maestro a quel Dottore, e così insegnò anche a noi. Oggi perciò prendiamo questo importantissimo ammaestramento.

1. Gesù Cristo stesso adunque nella risposta data a quel dottore, che lo interrogava solo per tentarlo, fece chiaramente intendere che il primo, il più grande dei nostri doveri, quello in cui sono compresi tutti quanti gli altri prescritti dalla legge divina ed insegnatici dai profeti, si è quello di amare Iddio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, e con tutto il nostro spirito. Dal che è facile comprendere come la carità è la massima tra le virtù, e che di quanto l’oro sopravanza gli altri metalli, il sole vince le stelle, i Serafini superano gli Angeli, di tanto la carità è superiore alle altre virtù. Perciò non bisogna meravigliarsi che S. Paolo abbia scritto: Quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli e non avessi la carità, sarei come un bronzo sonante o come un cembalo che squilla. E quando avessi il dono della profezia, quello dell’intelligenza di tutti i misteri e tanta fede da trasportare le montagne, mancando di carità sarei niente. E se pur distribuissi in nutrimento ai poveri tutte le mie facoltà e sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità nulla mi giova. No, che S. Paolo abbia scritte queste cose non bisogna meravigliarsi, perché dove non è la carità, non giova neppure alcun’altra virtù, ma dove la carità si trova, si trovano pure tutte le altre virtù, essendo essa una regina, a cui tutte le virtù fanno corteo. Essa è l’oro prezioso e purgato, col quale si compra il cielo, è un fuoco celeste, che infiamma i cuori, è una virtù angelica, che cangia gli uomini in Serafini. Tanto è grande la carità, che ci unisce così intimamente a Dio da formare in certo modo una sola cosa con Lui: poiché l’amore cangia in certa guisa colui che ama in quello che è amato. Da tutto ciò apparisce chiaramente quanto importi amare il nostro Dio. E come non amarlo, o cari Cristiani e cari giovani? Non è Egli degno di tutto quanto il nostro amore? Egli è la santità, la potenza, la sapienza, la bontà, la misericordia, la scienza infinita. Dio sorpassa all’infinito non pure tutto ciò che esiste con tutte le sue perfezioni e qualità, ma ancora tutte le cose possibili ed immaginarie; e le sorpassa non di cento, non di mille, non di milioni di gradi, ma infinitamente al di sopra di ogni calcolo. E ben a ragione esclamava Davide nei suoi salmi: Grande è il Signore e al di sopra di ogni lode. Dunque non è Egli infinitamente amabile? Ma bisogna in secondo luogo amare Iddio, perché Egli ci ha sovranamente amati, secondochè già aveva detto per Geremia: Io vi ho amati di un amor eterno, perciò vi ho attirati a me nella mia misericordia. E che necessità aveva Egli di amarci fin dall’eternità? Nessuna. Quale utilità ne ritrae a suo riguardo? Quali meriti vi erano in noi, perché ci rivolgesse il suo amore? Ah! che nient’altro che la bontà infinita di Dio è la base e la ragione dell’averci Egli amato e dell’amarci tanto ancora. E come Egli immensamente ci ama, così immensamente ci benefica. A quella guisa che il sole saetta i suoi benefici raggi per ogni parte affine di illuminare, di scaldare, di vivificare e di fecondar la natura, così Iddio spande su tutte le creature, ma specialmente sugli Angeli e sugli uomini i divini raggi della sua beneficenza, affine di illuminarli col lume della sua sapienza, di scaldarli del fuoco del suo amore e vivificarli della vita della grazia e della gloria. Ed in vero non è Dio, che ci ha creati, che ci ha redenti col Sangue preziosissimo del suo Divin Figlio? Non è Egli che ci conserva la vita, che ci dà ogni giorno il pane, che più ancora con la sua grazia e co’ suoi Sacramenti mira a santificarci per darci infine la prova suprema del suo amore nel Paradiso? Amiamo adunque, miei cari, amiamo un Dio, che tanto ci ama. Ma amiamolo a fatti e non a parole soltanto. Quegli pertanto, che ama davvero Iddio, non consentirà giammai ad offenderlo, ad oltraggiarlo, a violar la sua legge. E se pure gli accade di essere tentato ad offendere Iddio, la carità lo ha da rendere come invincibile. Sì l’amor di Dio deve essere come un fuoco, che consumi ed annienti il peccato stesso e renda come impeccabili. Ed è in questo senso che s. Agostino sentenziava: Ama e poi fa quel che ti piace. I martiri animati da questo santo fuoco, resistettero ai più acerbi tormenti inventati dai loro persecutori e carnefici. I santi tutti abbonavano per tal modo dal peccato da essere pronti a morire mille volte anziché commetterlo una volta sola. E quanti fra di loro sul fior della vita, mentre il mondo colle sue lusinghe, co’ suoi piaceri e coi suoi inganni cercava di attirarli a sé e guadagnarli al demonio, gli diedero risolutamente l’addio e spinti dalla divina carità si consacrarono tosto al Signore servendolo con ogni diligenza! Quanti non paghi di provvedere alla salvezza della loro anima si diedero ancora, benché assai giovani, alla salvezza delle anime altrui e per amor di Dio lasciarono la patria, i parenti, gli amici e varcando i mari si portarono tra i selvaggi e gli infedeli a far conoscere Gesù Cristo! O miei cari, diciamo con S. Agostino: Se questi e quelli hanno fatto tanto per amor di Dio, perché non faremo qualche cosa anche noi? E perché non faremo qualche cosa di grande? E voi, o giovani, mentre siete nel più bello della vostra vita, accendete in voi questa santa fiamma, accrescetela ogni giorno con la preghiera e con la frequenza dei Sacramenti, e proverete con la vostra stessa esperienza quanto sia soave il Signore e quanta gioia si provi nell’amarlo. E così se il Signore stesso vi conserverà lungo tempo sopra di questa terra, non vi accadrà nella vostra vecchiaia di dover con rincrescimento ripetere le parole di S. Agostino: « Troppo tardi ti ho conosciuto, o Signore, troppo tardi ti ho amato ».

2. Se il primo comandamento è quello d’amar Iddio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, immediatamente dopo questo e simile a questo è, per attestazione di Gesù Cristo medesimo, quello di amare il nostro prossimo come noi medesimi. E ciò a tal punto, che il Divin Redentore lo chiama in altra circostanza il suo precetto, cioè il precetto, che più gli sta a cuore e del quale più raccomanda l’adempimento. Vicino ad immolarsi sul Calvario per la salute degli uomini, Egli riunisce solennemente i suoi discepoli per dettare loro le sue ultime volontà e, « Miei figli, dice loro con l’accento della più viva carità, Io non ho più che poco tempo a rimanere tra voi; prima di lasciarvi, Io vi do un precetto nuovo, ed è che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amati; e per la vicendevole carità che vi unirà, si riconoscerà che voi siete miei discepoli. » Pertanto la carità verso del prossimo, per attestazione stessa di Gesù Cristo è il distintivo dei suoi veri discepoli. Gesù Cristo ha fatto con noi ciò che suole praticarsi dai nobili signori nelle loro case, che pongono indosso ai loro staffieri la livrea, acciocché tutti li conoscano per gente di loro servizio; ed ha voluto che la divisa per cui ci distinguiamo dagli idolatri, dagli infedeli e dai barbari e siamo da tutti ravvisati per suoi fedeli, sia la carità reciproca.Quindi ebbe a dire S. Giovanni Grisostomo: Molti sono i caratteri del Cristiano, ma quello che lo esprime al più vivo è lo scambievole affetto di una vera carità. Ecco perché gli Apostoli nelle loro lettere tanto raccomandarono l’amore reciproco e tra gli altri S. Giovanni, essendo già molto vecchio non faceva altro che dire: Figliuoli miei, amatevi gli uni gli altri. Vi furono di coloro, che al sentirlo a ripetere sempre la stessa cosa se ne lagnarono con lui; ma egli rispose: Se voi fate questo, fate tutto quello che dovete fare, perché questo è il precetto del Signore. Ma quale è la natura e l’estensione della carità, che deve unire insieme i cuori degli uomini? I maestri della vita spirituale paragonano questa carità, nella sua natura e nei suoi effetti, all’unione ed alla corrispondenza che, secondo l’osservazione di S.Paolo, esiste tra le diverse membra del corpo umano. S. Agostino spiega questa verità in una maniera ammirabile: Supponiamo, egli dice, che il piede cammini sopra una spina; che vi ha di più lontano dagli occhi che il piede? Esso è, per verità, molto lontano per la sua situazione; ma è molto vicino per la corrispondenza vicendevole di tutte le membra; appena dunque che il piede è stato punto dalla spina, gli occhi si mettono a cercarla, il corpo si curva per trovarla, la lingua domanda dov’è, e la mano si mette in dovere di cavarla. Frattanto gli occhi, la mano, il corpo, la testa e la lingua non provano alcun dolore, e lo stesso piede non ha male che in una sola parte; ma egli è perché tutte le membra si interessano le une per le altre. Ecco in qual modo noi dobbiamo regolarci verso i nostri fratelli; fa d’uopo che abbiamo tanta cura di essi quanta di noi medesimi; che ci rallegriamo dei loro vantaggi come dei nostri, e soprattutto che i  loro mali e i loro dispiaceri, non ci tocchino meno che le nostre proprie afflizioni, perciocché Gesù Cristo nel Vangelo di quest’oggi ci dice chiaro che dobbiamo amare il nostro prossimo come noi stessi. Epperciò tutto quello che noi non faremmo a noi stessi, non dobbiamo assolutamente farlo agli altri, e tutto quello che giustamente desidereremmo che gli altri facessero a noi, è quello che, potendo, noi dobbiamo fare agli altri, compresi gli stessi nostri nemici, poiché anche ad essi Iddio vuole che si estenda il nostro amore. Dare adunque dei buoni consigli, correggere in bel modo chi manca ai suoi doveri, consolare quelli che si trovano nell’afflizione, fare elemosina ai poveri secondo le proprie facoltà, perdonare facilmente i nostri offensori, soffocare qualsiasi sentimento di odio e di invidia, sono tutti doveri impostici dalla carità. Ma per praticare convenientemente questo gran precetto dobbiamo badare soprattutto ad evitare la discordia. Vi ha una cosa, scrive Salomone, che Iddio abbomina sovra tutte, ed è colui che mette risse tra i fratelli, che semina discordie. Questo passo della Sacra Scrittura dice aperto quanto grave delitto sia la discordia e quanto contraria alla carità fraterna. Ed in vero la discordia genera le imprudenze, le derisioni, le satire, i sarcasmi, le maledizioni. Essa irrita colui del quale si scoprono i vizi, che alla sua volta cerca di svelar quelli del suo avversario, ed allora da una parte e dall’altra si fa a gara a chi più propali, ingrossi ed inventi dei brutti fatti, a chi insomma parli più male e con maggiore malignità.Quanto importa adunque per la pratica della carità fraterna tener lontana da noi la discordia. Ma in qual modo vi si riuscirà facilmente? Ecco. Sorse contesa tra i mandriani d’Abramo e quei di Lot, dice la Genesi; allora Abramo così parlò a Lot: Io ti prego che non si levino risse tra me e te, tra i miei pastori e i tuoi; perché siam fratelli. Pertanto coloro che sono facili alla discordia, rammentino questo mirabile esempio, e si riducano a mente che siamo tutti fratelli in Gesù Cristo, e che Egli del reciproco amore e perdono ci ha fatto un assoluto comando. Perciò quando taluno ci facesse qualche ingiuria, sappiamo farci violenza e sopportare quell’ingiuria in pace. L’ingiuria, dice Sant’Agostino, l’ingiuria ricevuta e ripercossa con lo scudo della pazienza, ritorna a colui che l’ha lanciata, lasciando voi sani e salvi. Osservare il silenzio è anche un altro potente mezzo per soffocar le discordie. Il volto dell’uomo litigioso, che monta in furia divien fuoco, dice S. Basilio, e allora voi mantenetevi calmi; i suoi occhi girano scintillanti, voi guardatelo con ciglio sereno; alza la voce, e voi rispondetegli con dolcezza, o meglio non rispondetegli punto. Animo, adunque. Il venerabile Beda ci esorta ancora a sopportar mansuetamente le persone irascibili e litigiose, osservando che non c’è Abele, là dove non c’è un Caino che ne metta a prova la virtù e la pazienza; e nei Proverbi si legge, che quegli il quale si tien lungi dalle contese e dalle risse s’acquista onore.

3. Ma se a praticare la carità verso il nostro prossimo dobbiamo mettere tanto impegno a fuggire la discordia, non dobbiamo poi metterne meno per fuggire un altro male, che alla carità è essenzialmente contrario, vale a dire il male delle scandalo. Si, lo scandalo è essenzialmente contrario alla carità cristiana, siccome quello che danneggia il prossimo in ciò che riguarda l’affare suo più importante, cioè la sua eterna salute. Ed ecco perché Iddio nel quinto comandamento, in cui ci ordina l’amore al nostro prossimo e ci proibisce tutto ciò che a un tale amore è contrario, non fu pago di proibire che si togliesse la vita del corpo. Egli vietava anche tutto ciò che può nuocere all’anima, specialmente lo scandalo, col quale si toglie al prossimo la vita spirituale. Perciocché lo scandalo consiste nel trarre altri a peccare, o nel distorglierli dalla virtù; e forma una seconda specie di omicidio, col quale non sono colpiti i sensi, ma che agli occhi della fede non è meno reale, né meno grave innanzi a Dio. Dal che è facile comprendere perché Gesù Cristo faccia le più terribili minacce a chi porge scandalo ed occasione di peccato ai propri fratelli. Guai – dice Egli – a coloro dai quali proviene lo scandalo! Per chi scandalizza uno di questi pargoli che in me credono, tornerebbe meglio l’essere precipitato in fondo al mare. Ed invero chi può dire l’enormità del peccato di scandalo! Che cosa fa lo scandaloso? Si oppone alla volontà che ha Dio di salvare gli uomini. È volere del Padre mio Celeste, dice Gesù Cristo, che nessuno di questi pargoli perisca. Tutti se li ha addottati come figli, e tutti vuole salvarli; ma con lo scandalo, s’impedisce questa sua volontà, perché si fanno perire quelli che Dio voleva felici. Gesù Cristo discese sulla terra per salvar le anime; per esse spargeva tutto il suo sangue; ma queste anime con lo scandalo gli sono tolte; gli viene rapita quella conquista che gli costò sì cara; si rende inutile il prezzo del suo sangue; si espone ad un’eterna miseria chi Gesù Cristo aveva preparato per la felicità dei Santi. – Ecco, ad esempio, un giovane di virtuose inclinazioni, docile ai genitori, ai superiori ed ai maestri, raccolto nella preghiera, intento sempre ai propri doveri, che forma l’oggetto della compiacenza del Signore. Gli capita la sventura di incontrarsi con un giovane libertino, che si gloria di non aver pietà, che alla religione dà titoli odiosi e ridicoli, che motteggia chi è religioso. Il giovine buono, sedotto da tali discorsi, soccombe facilmente sotto il timore delle derisioni e censure di costui, vergognandosi delle sue virtù. Allora il libertino passa più innanzi; vomita alla sua presenza parole licenziose, dà pessimi consigli, che corrobora con pessimi esempi, sicché il giovane buono apprende il male che ignorava, ha le più funeste impressioni e finisce col darsi in braccio ai medesimi disordini. Eccolo così fatto schiavo delle stesse passioni, soggetto agli stessi vizi del giovane malvagio. Dio voleva salvar quest’anima comprata dal sangue di Cristo, ma lo scandaloso la fece perdere: quest’anima era destinata all’eterna gloria, ma lo scandaloso la trasse in una eterna sventura. Quali castighi non deve dunque aspettarsi chi scandalizza? Vi ha forse per lui pena troppo rigorosa? Sciagurato! Avresti orrore di bagnare le tue mani nel sangue del tuo fratello, e intanto gli fai un male assai peggiore. Saresti verso di lui meno crudele, se immergessi un pugnale nel suo seno e gli togliessi la vita. Quest’anima da te sedotta griderà eternamente vendetta contro di te, e le sue grida giungeranno certo a Dio. Oh misero chi insegna alla gioventù il male che ignora! Misero chi con l’esempio e con le parole seduce l’innocenza dei fanciulli! Chi rimuove altri dalla virtù e dalla pietà con insensati scherni! chi sparge libri perniciosi alla Religione ed ai costumi! Chi in qualche modo dà scandalo! È reo di tutti i peccati, a cui ha dato causa, e sarà punito anche del male che avrà fatto con lo scandalo volontariamente dato. Cari Cristiani e cari giovani, guardatevi bene da tanta enormità. Rispettate soprattutto i più piccoli di età, perciocché i loro Angeli li guardano con amore e sarebbero pronti a vendicarli.

Credo …

Offertorium

Orémus
Dan IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.
[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta


Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris. [Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.
[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.
[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

Per l’Ordinario vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (80)

LO SCUDO DELLA FEDE (80)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO III.

CI TOLGONO I PROTESTARTI ANCHE I BENI TEMPORALI

Io vi ho rappresentato alcuni dei beni spirituali che vorrebbero i Protestanti rapire alle vostre anime, ma non crediate che siano solamente spirituali i danni che vi fanno. No: anche in questo mondo, vi privano di molti beni temporali; perché per giusta permissione di Dio sono castigati nei beni di questa terra quelli che non si curano dei beni del cielo. Qual è il maggior bene che si possa trovare in una famiglia? É la santa pace, la tranquillità, l’amore che si portano scambievolmente quei che la compongono. Qual è il maggior bene di tutto un paese, di tutta una città? É la concordia, è la quiete e il buon ordine che regna fra tutti i cittadini. E così voi stessi siete soliti dire che fa più buon pro un boccone di pane mangiato in pace e santa carità, che qualunque delizia assaporata tra le discordie ed il mal umore. Ebbene osservate che dove entra il Protestantismo ivi entra il demonio della discordia con tutti i suoi disordini. Guai a quella famiglia, dove qualcuno si lascia incautamente sorprendere! Sta sempre in lite con tutti, perde ogni confidenza ed amore anche con i parenti più intimi, e siccome è agitato internamente dai rimorsi della coscienza e non è in pace con se stesso, così non lascia pace neppure agli altri. Voi non conoscete la storia del Protestantismo; ma se la conosceste vi metterebbe spavento. Dovunque esso si è affacciato ed introdotto ha lasciata una striscia nera nera di sangue. In Germania suscitò una guerra spaventosissima che durò moltissimi anni, ed i soli contadini che in essa lasciarono la vita si contano più di centomila. La strage fu tanta che quella guerra si chiamò dagli storici la guerra dei Contadini. Dite ai Protestanti che lo neghino se possono. Nella Francia e soprattutto nelle Province del mezzogiorno suscitò tante turbolenze e tante guerre che solo del povero popolo ne perirono molte migliaia senza contare i signori di tutte le classi che vi lasciarono la vita. Dite ai Protestanti che lo neghino se possono. Nell’Inghilterra poi il Protestantismo entrò col sangue, visse in mezzo al sangue, e sempre si mantiene nel sangue. Lo sanno i poveri Irlandesi nelle loro campagne quello che hanno dovuto soffrire dai loro padroni perché Protestanti, maltrattati, vessati, percossi, spogliati di tutto, condannati a morire di fame e di stenti. Dite ai Protestanti che lo neghino, se basta loro il coraggio. E con tutti questi delitti che ha commesso al mondo il Protestantismo, ha coraggio ora di affacciarsi alle belle nostre contrade per cambiarle in un deserto di orrore e riempirle tutte di confusione e stragi ed ammazzamenti? Ah il buon Gesù disperda tutti questi tentativi d’iniquità! Un altro gran danno che il Protestantesimo apporta dovunque entra è la miseria temporale. Qui da noi non mancano delle disgrazie anche grandi talvolta che riducono delle famiglie alla mendicità. Ma quanto è raro il caso che una famiglia intera muoia di pura fame! Passano anni ed anni che non si sente a contare, perché o un vicino caritatevole, o il Parroco, o qualche signore pietoso appena sentono certe miserie, si danno attorno a provvedervi. Ma domandate un poco ai Protestanti inglesi, se presso di loro mai nessuno muoia di fame? Molte migliaia di poveri hanno lasciato morire di puro stento, perché non avendo più cuore Cattolico, non hanno più viscere di compassione. Chiedete un poco a loro, come trattano i loro contadini in Irlanda. Li lasciano ammontati come le bestie in certi tuguri mal riparati, mal difesi, anche in tempo d’inverno sulla nuda terra, e quando concedono loro tante patate quante bastano non a saziarsi, ma a non morire, credono di aver fatto un miracolo di carità. Ogni anno molte migliaia piuttosto che morire di fame, sono costretti a lasciare la patria ed i parenti, ed, attraversato il mare, andarsene in America, per trovare quel tozzo di pane che non trovano più nei loro paesi. Eppure prima del Protestantismo, se non avevano sempre da trionfare, non sapevano neppure quel che fossero le miserie che ora provano. Ah è pur troppo vero, che il Protestantismo ha rubato loro anche i beni temporali! Gli artieri poi, i lavoranti, i manifattori in quello sventurato paese lavorano tutta la giornata senza un momento di riposo, e per ogni loro sostentamento guadagnano poche patate, e bevono acqua e tanto loro basta. Sfidate pure tutti i Protestanti a negarvi tutti questi funestissimi effetti del Protestantismo, se possono. – Ma lasciamo andare questi beni meschini di quaggiù. A voi popoli della campagna Iddio ha negato certi vantaggi che ha concesso ad altri, non avete la ricchezza dei signori, non avete i loro piaceri, i loro divertimenti: ma Iddio, da quel buon Padre che è, vi aveva dato un largo compenso in questo che avevate molto maggior facilità a guadagnarvi il cielo. Nelle campagne non avete tanti pericoli per la vostr’anima, vi è più semplicità e più innocenza. Epperò se avevate un poco da patire per qualche anno, vi era poi molto più facile giubilare per tutta l’eternità. Oh che buon cambio era questo per voi! Avere i patimenti che passano presto, avere i godimenti che non finiscono mai! Mancava adesso appunto che venissero questi traditori a rubarvi il cielo e tutta la facilità che il buon Gesù vi aveva dato per acquistarlo; senza darvi poi neppure quei beni meschini che si possono godere quaggiù. Eppure voi avete potuto comprendere che è veramente così: mentre vi tolgono colla Fede tutti i mezzi della salute, quali sono la Chiesa, i suoi aiuti, i suoi Sacramenti, le opere buone, e finalmente il santo Paradiso, senza darvi neppure quella misera consolazione che si può godere in questa vita. Ah per pietà, pensatevi prima di rinunziarvi, e dite a quelli che v’insidiano, che voi non volete in eterno perdere quel bel regno che vi è stato promesso da Gesù.

SALMI BIBLICI: “JUDICA ME, DEUS, ET DISCERNE CAUSAM” (XLII)

SALMO 42: “JUDICA ME, DEUS, et discerne causam”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 42

 [1] Psalmus David.

   Judica me, Deus, et discerne causam meam

de gente non sancta, ab homine iniquo et doloso erue me.

[2] Quia tu es, Deus, fortitudo mea, quare me repulisti? et quare tristis incedo, dum affligit me inimicus?

[3] Emitte lucem tuam et veritatem tuam; ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua.

[4] Et introibo ad altare Dei, ad Deum qui lætificat juventutem meam. Confitebor tibi in cithara, Deus, Deus meus.

[5] Quare tristis es, anima mea? et quare conturbas me? Spera in Deo, quoniam adhuc confitebor illi, salutare vultus mei, et Deus meus.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLII

Davide prega Dio che lo liberi dai nemici, e insieme si consola nella speranza della futura beatitudine. È un epitome del Salmo precedente.

Salmo di David.

1. Fammi ragione, o Signore, e prendi in mano la causa mia; liberami da una nazione non santa, dall’uomo iniquo e ingannatore.

2. Perocché tu sei, o Dio, la mia fortezza; perché mi hai tu rigettato, e perché sono io contristato, mentre mi affligge il nimico?

3. Fa spuntare la tua luce e la tua verità; elleno mi istradino, e mi conducano al tuo monte santo e a’ tuoi tabernacoli.

4. E mi accosterò all’altare di Dio; a Dio, il quale dà letizia alla mia giovinezza.

5. Te io loderò sulla cetra, Dio, Dio mio; e perché, o anima mia, sei tu nella tristezza, e perché  mi conturbi?

Spera in Dio; imperocché ancora canterò le lodi di lui, salute della mia faccia e Dio mio.

Sommario analitico

Il salmista sia a nome suo, che a nome di ogni uomo giusto e di tutti i Sacerdoti della nuova legge, espone quali siano le virtù dalle quali essi devono essere ornati per essere degni di ascendere al santo altare ed offrire il Sacrificio della legge evangelica.

I.- Egli indica i tre gradi che devono condurli all’altare:

1° l’innocenza dei costumi e la santità di vita (1);

2° la speranza in Dio: “perché Voi siete la mia forza”;

3° un’attività tutta spirituale che esclude la tristezza (2).

II. Egli indica le due guide che devono aiutare il Sacerdote a guadagnare questi gradi:

1° la luce i cui raggi dissipano le tenebre dello spirito;

2° la verità che, per la certezza delle sue promesse, fortifica i suoi passi.

III. – Bisogna conoscere le virtù necessarie al Sacerdote che si appresta all’altare:

1° la contemplazione dei misteri divini e la tranquillità dell’anima nel tabernacolo di Dio (3);

2° l’oblazione ed il sacrificio di se stesso: “et introibo, etc.” ;

3° il fervore per il rinnovamento interiore dello spirito (4);

4° la lode di Dio e l’azione di grazie per un sì gran beneficio (5);

5° l’unione perfetta ed imperturbabile dell’anima con il supremo Bene (5).

Spiegazioni e Considerazioni

ff. 1, 2. – È possibile dire a Dio: « Dio, giudicatemi », senza provare un sentimento di timore e di sgomento? Occorre dunque vedere nel prosieguo del salmo di quale giudizio il salmista ha voluto parlare: non è del giudizio di condanna, ma del giudizio di discernimento. Cosa dice in effetti? « O Dio giudicatemi ». Come dire: “giudicatemi”, e separate la mia causa da quella di un popolo empio? Se si trattasse di questo giudizio di separazione, noi dovremmo comparire tutti davanti al tribunale di Gesù-Cristo; se è in questione al contrario del giudizio di condanna: « colui che ascolta le mie parole, egli dice, e che crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non verrà in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita ». Cosa vuol dire allora che non verrà in giudizio? Non incorrerà nella condanna! (S. Agost. Trat. XXII s. S. Giov. 5). – Voi non ignorate che tutti coloro che progrediscono in virtù e che gemono nel loro desiderio della città celeste, che si ritengono viaggiatori sulla terra, che camminano sulla buona strada, che hanno fissato la loro speranza come un’ancora nel desiderio di questa terra che è stabile per sempre, Voi non ignorate – io dico – che questa sorta di uomini, questa buona semenza che si forma in Cristo, geme in mezzo alla zizzania fino al tempo in cui giunge la mietitura, come l’ha definito l’infallibile Verità (Matt. XIII, 18). Questi uomini gemono in mezzo alla zizzania, cioè in mezzo ai malvagi, agli uomini fraudolenti e sediziosi, con uno spirito di collera e di velenosi inganni; essi guardano tutt’intorno a loro e vedono che essi sono come in uno stesso campo nel mondo intero, che tutti ricevono la stessa pioggia, tutti sono esposti allo stesso soffio dei venti, che tutti sono nutriti dagli stessi dolori, e che gioiscono tutti insieme di questi doni comuni di Dio accordati senza distinzione ai buoni e ai malvagi, da Colui che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, e cadere la pioggia sui giusti e gli ingiusti (Matth. V, 15). Essi vedono dunque questa razza di Abramo, questa santa semenza, vedono quante cose abbiano in comune con i malvagi, dai quali un giorno saranno separati: uguaglianza di nascita, condizione simile di natura umana, uguale peso di un corpo mortale, stesso uso della luce, dell’acqua, dei frutti della terra, sorte comune nei confronti delle prosperità e delle avversità del mondo, sia dell’indigenza, sia dell’abbondanza, sia della pace, sia della guerra, sia della salute, sia della peste; essi dunque vedono quante cose in comune essi hanno con i malvagi, con i quali però non fanno causa comune, ed allora essi gridano in tal modo: « Giudicatemi mio Dio e discernete la mia causa da quella della razza non santa ». Giudicatemi, mio Dio, essi dicono, io non temo il vostro giudizio, perché conosco la vostra misericordia. « Giudicatemi, mio Dio, e distinguete la mia causa da quella della razza che non è santa ». – Ora, nel viaggio di questa vita, voi non mi date ancora né un posto distinto, né una luce distinta; distinguete almeno la mia causa, che ci sia una diversità tra chi crede e chi non crede in Voi! La loro infermità è la stessa, ma la loro coscienza non è la stessa; la loro stanchezza è la stessa, ma il desiderio non è lo stesso (S. Agost.). – Il compendio di tutta la religione è, per noi, di essere persuasi che Dio possa tutto e noi nulla possiamo, per cui dobbiamo riporre la nostra fiducia non sul nulla, ma su Colui che è il tutto. Dio sembra respingerci quando non ci assiste in maniera sensibile nelle nostre tribolazioni; ma se abbiamo fede, comprenderemo che è il tempo in cui è più vicino a noi. Non siamo mai più forti di quando sentiamo la nostra debolezza: « la forza, dice l’Apostolo si perfezione nella malattia » (Berthier).

ff. 3. – Mandate la vostra luce e le vostra verità, esse mi hanno diretto e condotto sulla vostra santa montagna, etc., perché la vostra luce è la vostra verità medesima; sotto due differenti nomi, vi è un’unica cosa. Che cos’è in effetti la luce di Dio se non la verità di Dio? E lo stesso Cristo è insieme la luce e questa verità. « Io sono la luce del mondo; colui che crede in me non camminerà più nelle tenebre » (Giov. VIII, 12). « Io sono la via, la verità e la vita » (Giov. XIV, 6) – Egli stesso è la luce. Egli stesso è la verità (S. Agost.). – È la luce della grazia, la sorgente di gioia e di consolazione che dissipa con la sua presenza tutte le tristezze dell’anima. – È Verità di Dio, è fedeltà nel mantenere le sue promesse, altro motivo di gioia, fiducia e speranza. – Tale è la luce di Dio per essere illuminati sulla nostra condotta. È Verità di Dio per farci discernere l’errore e la menzogna, la Verità di Dio dalla verità puramente umana che i pretesti e le maschere alterano. – È questa Verità di Dio che conduce e porta ai tabernacoli divini, mentre le verità puramente umane gettano nell’errore e nel precipizio (Duguet).

ff. 4. – Esiste una lotta incessante nella nostra natura, e mentre il tempo ci porta inevitabilmente verso la senescenza, condizione che precede la morte, il desiderio del cuore è sempre per la giovinezza e la vita. Nella giovinezza vi è un non so che di fascinoso e che rapisce il cuore, e la giovinezza che il cuore ama sopra ogni altra giovinezza, è la giovinezza stessa del cuore, la sua freschezza, la sua bellezza, la sua vivacità, la sua feconda fantasia non ancora disincantata dalla triste esperienza di una vita di sofferenza. Da qui questi sospiri così puri e trasognati del cantore di Israele. « Mi avvicinerò all’altare di Dio, del Dio che letifica la mia gioventù ». Ma da cosa dipende che la giovinezza, e soprattutto la giovinezza del cuore, abbia per noi tanto fascino? La gioventù, nella sua novità, ci rivela la vita sotto una delle sue forme più dolci e più pure. È questa una unicità ed una integrità che non è stata ancora violata, è una perfezione ed una felicità che si fissano naturalmente a tutto ciò che è più vicino al suo principio, perché il possesso del principio, che è anche il fine, è precisamente ciò che continua la giovinezza. Così pure nei nostri santi Libri, il cui linguaggio così semplice copre misteri così profondi, ringiovanire e legarsi al capo, rinnoverà e ricondurrà ai suoi inizi, ricapitolare e restaurare, che sono espressioni sinonime “Instaurare omnia in Christo”. (Mgr BAUDRY, le Coeur de Jésus, p. 169). – Nel giorno della felicità come nel giorno dell’avversità, nel giorno della gioia, come nel giorno delle lacrime, in tutte le vicissitudini della vita, andiamo, come il santo re Davide, a circondare, stringere, abbracciare l’altare di Dio. Ciò che è un buco per il passero, un nido per la tortora, sia l’altare per il nostro cuore (Mgr. Pie, Disc.).

ff. 5. – Il cuore è l’arpa spirituale che risuona quando viene sfiorata dal tocco dello Spirito Santo. – E di nuovo il salmista dice alla sua anima, affinché estragga dei suoni da questo strumento: « perché anima mia siete triste, e perché mi turbate? » Io sono nelle tribolazioni, nei languori, in un’amara tristezza, perché anima mia, perché mi turbate? Ma chi è qui la persona che parla? È la nostra intelligenza che parla alla nostra anima. Essa langue nelle afflizioni, stanca nelle angosce, pressata dalle tentazioni, malata nelle sofferenze, ma lo spirito che dall’alto riceve l’intelligenza della verità, la risolleva e le dice: « … perché siete triste, e perché mi turbate? ». Spesso lo spirito apre le orecchie per ascoltare la voce di Dio che gli parla interiormente, ed ascolta in se stesso il canto che si fa intendere alla ragione. Così nel silenzio, qualcosa risuona, non alle nostre orecchie, ma al nostro spirito: chiunque ascolta questa melodia, è preso dal disgusto per tutto il brusio corporale, e tutta questa vita umana diviene per lui come un rumore tumultuoso che impedisce di intendere questo canto dall’alto, di un incanto infinito, incomparabile, ineffabile. E quando l’uomo viene distolto dal suo raccoglimento da qualche turbamento, ne soffre la violenza e dice alla sua anima: o anima mia, perché siete triste? E perché mi turbate? Forse volete riporre la vostra speranza in voi stessa? Sperate in Dio, e guardatevi dallo sperare in voi stessa (S. Agost.).

IL CUORE DI GESÙ (23): Il Sacro Cuore di Gesù e la penitenza.

(A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Torino, 1920)

DISCORSO XXIII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la Penitenza.

Uno fra i più belli, fra i più grandi, fra i più salutari costumi della Chiesa, nostra Madre e maestra, è quello di farci leggere ogni giorno nella Santa Messa un tratto del Vangelo e nella Officiatura il relativo commento che ne fecero i Santi Padri. E ciò ella fa non a caso, ma scegliendo sapientemente quei tratti di Vangelo e quei commenti che più sono conformi ai Santi che secondo la varietà del tempo essa onora od ai misteri che essa ricorda. Quale sarà pertanto il tratto di Vangelo che ella ci fa leggere, siccome il più adatto, nella festa del Sacro Cuore di Gesù? Quello ove si racconta il ferimento del costato di Gesù Cristo e la conseguente apertura del suo Cuore istesso. Eccolo: « In quel tempo, i Giudei, poiché era giorno di venerdì, perché i corpi dei giustiziati, vale a dire di Gesù Cristo e dei due ladroni con lui crocifissi, non rimanessero sulla croce al sabbato (perciocché quel sabbato era il giorno della Pasqua), pregarono Pilato che ai medesimi si rompessero le gambe (secondo il costume) e fossero tolti via. Andarono pertanto i soldati, e ruppero le gambe all’uno e all’altro di quei due che erano stati con Gesù crocifissi. Arrivati poi a Gesù, vedendolo che era già morto, non gli ruppero le gambe, ma uno dei soldati aprì il fianco di lui con una lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua. E chi vide (cioè S. Giovanni il discepolo prediletto) lo ha attestato, ed è vera la sua testimonianza. » (Io. XIX, 31-35) Questo è adunque il Vangelo scelto dalla Chiesa per la festa del Sacro Cuore di Gesù. E quale è il commento che ne fa leggere nella sua Officiatura? II commento che ne fanno tre grandi dottori della Chiesa: S. Agostino, S. Giovanni Grisostomo e S. Bonaventura. Ed anzi tutto quello di S. Agostino, che così spiega il ferimento del costato di Gesù Cristo e l’apertura del suo Sacratissimo Cuore: « Di una parola assai espressiva ha fatto uso l’Evangelista; giacché non disse già che il soldato percosse o ferì, o fece altro, ma sebbene che il soldato aperse con la lancia il fianco del Signore, affinché si intendesse che ivi si è aperta in tal modo la porta della vita, poiché dall’apertura del Cuore di Gesù Cristo ne sono usciti i Sacramenti, senza dei quali non si può entrare a quella vita che è sola vera vita, la vita eterna. » Così il grande Vescovo d’Ippona. Ora che cosa vi ha di più chiaro, pur tacendo di altri commenti fatti nello stesso senso da S. Cipriano, da S. Ambrogio, da S. Giovanni Crisostomo, e da altri ancora, per farci riconoscere che i Sacramenti della Chiesa sono il più vero, il più grande, il più vantaggioso effetto dell’amore del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo per noi? Ma notiamo però che se nel Sangue e nell’acqua che uscirono dalla ferita del Divin Cuore sono raffigurati in genere tutti i Sacramenti, e cioè nell’acqua i Sacramenti così detti dei morti, che ci lavano e mondano dai peccati, e nel Sangue i Sacramenti dei vivi, che accrescono in noi la grazia e i meriti per salvarci, secondo le spiegazioni istesse dei Sacri Dottori sono raffigurati in modo specialissimo i Sacramenti che ci rimettono i peccati, il Battesimo cioè e la Penitenza, e il Sacramento che nutre e disseta l’anima nostra, la SS. Eucaristia. Di questi adunque è particolarmente simbolo la ferita del Sacratissimo Cuore; e di questi a preferenza dobbiamo occupare la nostra mente nel riandare le prove d’amore di Gesù Cristo per noi. E lasciando di trattare del Battesimo perché grazie a Dio già l’abbiamo tutti noi ricevuto, né più ci occorre di riceverlo altra volta, passiamo tosto a trattare della Penitenza ed a riconoscerne il grande benefizio.

I. Sebbene misticamente, cioè in modo occulto, ma pur vero, il Sacramento della Penitenza, come tutti gli altri Sacramenti sia uscito dalla ferita del Cuore di Gesù, tuttavia questo Sacramento in modo manifesto non fu istituito da Gesù Cristo che dopo la sua Risurrezione. Allora apparendo Egli agli Apostoli, che stavano nel cenacolo disse loro in tono solenne di autorità: Come il Padre mandò me, così Io mando voi, vale a dire con quello stesso potere sopra il peccato con cui mandò me il mio Padre celeste, così Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo; ricevetelo cioè per ben esercitare il grande potere che io vi affido. I peccati saranno rimessi a coloro ai quali li rimetterete e saranno ritenuti a coloro ai «quali li riterrete. E cioè coloro che dopo aver manifestati a voi i loro peccati riconoscerete degni di perdono li perdonerete, coloro che riconoscerete indegni, non li perdonerete: quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis retenta sunt. (Io. xx, 22, 25) Con queste parole pertanto Gesù Cristo istituiva il Sacramento della Penitenza, ne designava il ministro, indicava implicitamente il modo con cui questo Sacramento dovevasi amministrare e ne denotava l’ammirabile effetto. Ed oh quale bontà, quale misericordia dimostrava per tal guisa verso di noi Gesù Cristo. Ed in vero G. Cristo avrebbe potuto lasciare del tutto di istituire questo Sacramento, istituendo solo per la remissione del peccato originale, col quale nasciamo, il Sacramento del Battesimo, stabilendo poi che qualora dopo di aver ricevuto questo Sacramento da bambini, giunti all’uso di ragione noi l’avessimo personalmente offesi, andassimo irreparabilmente perduti! E stabilendo le cose per tal guisa Egli non sarebbe ancor venuto meno alla sua bontà e misericordia, perché in tal guisa ci avrebbe pur sempre dato il gran mezzo di diventare Cristiani, figliuoli di Dio ed eredi del paradiso. Ma se Gesù Cristo avesse così stabilito, quanti e quanti Cristiani sarebbero tuttavia andati perduti! Forse, chi sa? nessuno tra di noi stessi che ora stiamo qui a considerar la misericordia infinita del Divin Cuore, nessuno tra di noi potrebbe più sperare di salvarsi, imperocché non sono veramente rare, rarissime, quelle anime che conservano per tutta la vita l’innocenza battesimale? .Ma Gesù ha veduto questo grande, questo immenso rischio, a cui la più parte degli stessi Cristiani sarebbe andata incontro, epperò con una bontà, con una misericordia infinita non solo ha istituito il Battesimo per toglier dall’anima nostra il peccato originale, ma ancora la Penitenza per togliere dall’anima nostra tutti o sempre i nostri peccati attuali. E qui avvertite che ho detto nient’altro che la verità nell’asserire clic il Sacramento della Penitenza è per togliere tutti e sempre i nostri peccati attuali. Perciocché per quanto siano numerosi i nostri peccati, fossero pure numerosi come le stelle del cielo e le arene del mare; per quanto fossero gravi, fossero pur gravi tutti come il delitto di Caino, il tradimento di Giuda, le nefandità di Nerone, i peccati nostri per virtù di questo Sacramento, sempre che noi vi portiamo le disposizioni richieste, possono sempre essere tolti del tutto dall’anima nostra e perdonati da Dio. E non una volta sola in tutta la vita, non due, non tre, non dieci, non cento, ma quante e quante volte noi con cuore veramente pentito ci presentiamo al ministro di Dio a confessarli. Ah questa bontà, questa misericordia di Gesù Cristo si può chiamare davvero bontà eccessiva, perciocché pur troppo ci saranno peccatori e peccatrici, che ne abuseranno indegnamente; ma Egli ebbe più caro di permettere che vi sia qualche sciagurato che ne abusi, anziché non dare tutto l’agio, tutta la possibilità alle anime pentite dei loro peccati e delle loro ricadute di sollevarsi dalle loro pene, di liberarsi dalle loro angustie. Ed ecco un’altra ragione per cui nel Sacramento della Penitenza risplende vivissima la bontà e la misericordia del Cuore di Gesù. È un fatto innegabile che l’uomo commettendo il peccato perde sullo stesso punto la pace interiore dell’anima, e per conseguenza la vera felicità, che come dice giustamente S. Agostino, consiste nella calma di tutti i suoi desideri e movimenti. Chi resiste a Dio e può aver pace? si domanda il santo Giobbe. Quis resistit ei, et pacem habuit? (Iob. IX) Non appena la legge di Dio è stata violata e la colpa fu commessa, sorge in fondo all’anima dell’uomo uno straziante rimorso che prende dì e notte ad accusarlo ad agitarlo e a tormentarlo co’ suoi terribili rimproveri. Indarno per tentare di non sentirlo ei fa di tutto per soffocare l’istinto che lo porta a riconoscere il male; indarno ci si appiglia ai rumori del mondo, alle agitazioni della vita, all’ebbrezza di altri peccaminosi piaceri, per dimenticare che è colpevole; indarno sospira, ricerca, invoca di bel nuovo la pace: essa più non si dà a lui fino a che è nello stato di peccatore; l’amarezza e l’infelicità soltanto egli incontrerà ovunque sul suo cammino, ad ogni tratto a ripetergli: « Sciagurato! potevi operare il bene, ed invece hai commesso il male! potevi vivere sicuro del tuo eterno destino, ed ora invece hai da tremare che Dio ti punisca e ti mandi eternamente perduto! » Ora in questo stato così orribile, a riacquistare la pace perduta, non vi ha nulla per l’uomo di più naturale quanto il sentire il bisogno di manifestare ad altri il segreto che lo strazia, in quella guisa che l’ammalato oppresso dalla copia dei cattivi umori sente la necessità di rigettarli per esserne alleviato. E questo bisogno è così imperioso che l’uomo colpevole, non potendo altrimenti manifestarsi, e pur sentendosi costretto da una forza arcana a farlo, si inoltra talora nell’oscurità di una caverna, o si addentra nel folto di un bosco, o si spinge nell’alto del mare e con i flutti, o con le piante, o con i sassi sfoga l’ambascia dell’anima sua. Spesse volte anzi, rifiutando l’impunità che gli promette il silenzio si presenta da se stesso ai giudici, preferendo la punizione della colpa allo strazio morale che questa gli reca al cuore. Or ecco perché lo stesso Socrate presso Platone, benché filosofo pagano diceva: « che avendo commessa un’ingiustizia, che è il maggiore dei mali, il mezzo sovrano per esserne sciolti e riacquistare la pace, si è l’andare prontamente a farne la manifestazione al proprio giudice e subirne la punizione. » (PLAT. Giorgias, XXXVI) Ecco perché la manifestazione delle proprie colpe, fin dalla prima di esse che si commise, si trova presso tutti i popoli, anche i più selvaggi, sanzionata dalle pubbliche leggi e dai riti di Religione. Ecco perché massime tra il popolo giudaico questa manifestazione era prescritta e regolata per tal guisa, da sembrare una vera confessione; tanto è vero che gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, anche prima della venuta di Gesù Cristo, hanno creduto, come disse lo stesso Cicerone, essere la manifestazione delle proprie colpe il miglior rimedio alla malattia del colpevole. – Se tale adunque è la tendenza dell’umana natura, che cosa ha fatto Gesù Cristo istituendo la confessione? Scrutando a fondo l’umana natura, affine di appagarla nelle sue esigenze, Egli ha fatto quanto era per lei confacente, giacché la confessione non è altro che la manifestazione delle malattie nascoste in fondo all’anima al medico che le può guarire, non è altro che la rivelazione delle colpe che agitano il cuore umano a quel Giudice che assolvendolo dalle medesime, gli può ridonare la pace e la felicità. Ma notate bene, o miei cari, quale medico e quale giudice, ci ha dato qui Gesù Cristo; il più omogeneo, il più illuminato, il più discreto, il più indulgente, il più rassicurante, il più conforme insomma alle condizioni della nostra stessa natura. Ed anzi tutto il più adatto, perciocché nella confessione non è Iddio colui che viene a ricevere visibilmente la manifestazione delle nostre colpe. Gesù Cristo conosceva troppo bene come al cospetto della maestà influita di Dio non solo non avremmo osato articolare una sola parola, ma saremmo agghiacciati di spavento. Non è neppure un Angelo, perché troppo eccellente per la sua natura, troppo splendido per la sua purezza, non avrebbe ancora ispirato in noi la necessaria confidenza, né ci sarebbe ancora bastato il coraggio di rivelargli le nostre iniquità. Ma egli è un uomo, bensì ministro di Dio, ma pure della nostra identica natura, fragile come noi, come noi nella condizione di peccatore, epperciò non solo il più atto ad ingenerare in noi la confidenza, ma ancora il più facile ad usare verso di noi quella misericordia che abbisogna per se stesso; un uomo che ad ogni modo deve prendere in sé le viscere della misericordia di Dio e trattarci con la carità più affettuosa e più ardente, e addolorandosi pure in cuor suo dei nostri peccati perché offesa di Dio, non sdegnarsi punto contro di noi, anzi compatirci e compassionarci. Ah! se certi peccati li manifestassimo al nostro padre, noi dovremmo temere che egli avesse da pronunciare contro di noi una maledizione; se alla nostra madre, che ella avesse a morire di angoscia, e se al nostro amico che, tutto pieno di sdegno, ci avesse ad abbandonare all’istante. Ma invece manifestandoli al ministro di Dio con umiltà e sincerità, non dobbiamo aspettarci altro che di essere trattati colla massima benignità e compassione. E intanto con qual sicurezza egli, conosciuto le cause dei nostri mali appresta il rimedio ed indica i mezzi per espiarli! Con quale sincerità lacera il velo, dietro al quale il nostro amor proprio nasconde le sue passioni favorite e ne mostra tutta l’enormità! Con quale precisione ci illumina sulla natura e sull’estensione di certi obblighi tanto indispensabili, quanto difficili e complicati! Con quale esperienza ci guida per la via del dovere, della virtù della perfezione e della santità! Perciocché Gesù Cristo ha voluto che le labbra di questo suo ministro custodissero la scienza. Che dire poi della sua prudenza, della sua discrezione, della sua segretezza? E qual è il medico, qual è il giudice, da cui non abbiamo a temere la pubblica rivelazione delle nostre malattie e delle nostre colpo? Qual è anzi il tribunale in cui non si facciano per regola di pubblica ragione i delitti dei condannati ? E non è questo il tormento maggiore di un colpevole l’essere pubblicamente infamato? E Gesù Cristo lo sapeva benissimo, epperò questo non accade nel Sacramento della Confessione. Noi andiamo a gettarci ai piedi del ministro di Dio, gli apriamo il nostro cuore colpevole, lo abbandoniamo anzi nelle sue mani sacerdotali. Ed egli se ve n’ha bisogno, lo scruta minutamente, non già per inasprirne crudelmente le piaghe, ma solo per medicarle con l’unzione della sua carità e della grazia di Dio. E dopo che egli tutto ha conosciuto anche i più reconditi pensieri e desideri del cuor nostro, le sue labbra si chiudono ad un silenzio, che non sarà violato mai, neppure in vista del martirio, sia in forza della legge formidabile che lo impone, sia più ancora per la grazia di Gesù Cristo, che da diciannove secoli custodisce la bocca dei suoi Sacerdoti. Che anzi non solo il ministro di Dio non rivelerà mai con alcun pregiudizio della nostra fama le colpe che gli abbiamo manifestate, ma terminata la confessione, avendo pur anche a trattare con noi, egli si diporterà con noi come se nulla mai avesse inteso dalla nostra confessione, quando pure in essa gli avessimo manifestati i più enormi delitti. E da ultimo questo ministro così omogeneo, così illuminato, così discreto, sarà ancora per noi il più indulgente e il più rassicurante. È bensì vero che egli potrebbe non perdonare, perché egli ha pure questa, facoltà. Ma questa facoltà egli non può esercitarla a suo capriccio; e sol che egli veda in noi le necessarie disposizioni, Gesù Cristo gli ha imposto di perdonarci senz’altro. Quando tu hai confessato al mondo la tua colpa, te ne sei pentito al suo cospetto, l’hai ben anche espiata, il mondo forse ti dirà allora d’averti perdonato. Ma lo credi tu davvero? Ah! ben puoi temere del contrario. Quel marchio di disonore con cui ha bollato un giorno la tua fronte, ben di rado te lo cancella, anzi per regola più ordinaria lo imprime ancora sulla tua tomba e sulla tua memoria. Ed ecco perché non ostante che, dominato dall’istinto, tu ti sia forse anche spontaneamente manifestato, tu sei costretto a pentirti di quella manifestazione e ad adirarti teco stesso perché non hai celato con ogni mezzo possibile la tua colpa. Ma nel Sacramento della penitenza invece tu dovresti adirarti quando non ti fossi manifestato del tutto, perché è allora appunto che non saresti stato perdonato; ma quando tu hai rivelato con pentimento tutto che di grave pesava sull’anima tua ed hai inteso a dirti: « Va in pace, i tuoi peccati ti sono stati rimessi; » allora tu sei stato perdonato davvero, il peccato è stato tolto e per sempre dall’anima tua. E tu lo puoi ritenere con certezza, ne puoi essere sicuro: perciocché Gesù Cristo ben riconoscendo come la nostra natura sensibile avrebbe anche in questo caso, come in molti altri, avuto bisogno di una prova esterna e sensibile della certezza del perdono, non ha voluto che la confessione consista soltanto nella manifestazione delle nostre colpe fatta a Dio direttamente nell’interno del nostro cuore, perché Iddio che non si vede e che non si manifesta, come ci avrebbe assicurati del perdono! come ci avrebbe accertati che i gemiti e le lacrime delle nostre contrizioni sono state da lui bene accolte! ed in questa formidabile incertezza, quale angoscia non avrebbe continuato a tormentare l’anima nostra? Ma Gesù Cristo volle invece che la confessione si facesse esternamente al sacerdote, perché egli pronunziando sopra di noi in modo esteriore ed efficace la sentenza del perdono; per l’immenso potere conferitogli, noi ci intendessimo come a dire da Dio in modo sensibile: « Ora non aver più alcun timore; come il mio Sacerdote ti ha perdonato, così ti ho perdonato Io; la mia giustizia non richiede più nulla al di là delle condizioni e delle soddisfazioni che egli giustamente ha creduto di importi; le mie braccia sono aperte, vieni pure che io ti stringa al mio cuore e ti stampi in fronte il bacio del perdono. » Ah! ricevere il perdono da Dio delle nostre colpe ed esserne moralmente sicuri, ecco ciò che nella confessione ci ridona la pace e la felicità. Ed è allora che sebbene ci rimanga in fondo al cuore un dispiacere tranquillo d’aver offeso Iddio, ci alziamo tuttavia dal tribunale di penitenza liberi e leggeri come se avessimo deposto il più pesante fardello, e raggianti della contentezza e della gioia viva. O anime penitenti, che qui siete ad ascoltarmi, ditemi in verità, quando un dì, tocche dalla grazia di Dio, conosciuta la deformità orribile della vostra vita disordinata e piena di afflizioni, pentite sinceramente delle vostre colpe, andaste a deporlo in un seno sacerdotale e sentiste, mercé l’assoluzione, grondare su di voi il Sangue di Gesù Cristo a lavarvi e perdonarvi, avete voi mai trovato dei momenti più deliziosi, avete voi mai gustata una felicità così grande? È bensì vero adunque che come nel prendere la medicina non si può non sentire qualche po’ di disgusto, e nel manifestare altrui anche spontaneamente la propria reità non si può non provare una qualche ripugnanza, così nel valersi della confessione sacramentale non è possibile non sottostare a una certa qual pena. Ma come le nausee che prova il inalato sotto l’azione del farmaco si mutano presto in calma ed in gioia, e come la manifestazione della propria colpevolezza non lascia di recare qualche sollievo, così non appena nella Confessione l’uomo peccatore si sbarazza dei peccati che terribilmente lo travagliano, la pace, quel dono così prezioso e così stimabile, che supera tutti i godimenti materiali e senza della quale i godimenti materiali valgono nulla, entra come fiume impetuoso e benefico a rallegrare il cuor dell’uomo e a ridonargli quella felicità che nella sicurezza del perdono e del possesso della grazia di Dio produce una beatitudine, che è saggio ed anticipazione della beatitudine celeste. Or bene, o miei cari, da tutto ciò non è manifesto quanto fu grande la bontà di Gesù Cristo nel metter fuori dalla ferita del suo Cuor Divino il Sacramento della penitenza, Sacramento sì conformo all’umana natura?II. — Ma questa bontà risplende ancora per ben altri lati. Tutti gli uomini che vengono al mondo, senza eccezione di sorta, sono tutti destinati al cielo, e a raggiungere questa sublime destinazione non si frappone che un ostacolo, il peccato. Quaggiù la povertà, l’infermità, la deformità della persona, la bassezza dei natali, la miseria ed altre cause ancora possono proibirci l’entrata in molti luoghi ed in molti convegni, ma tutto ciò non c’impedirà di entrare in cielo, ci potrà anzi servire di raccomandazione per entrarvi; solo la colpa, nient’altro che la colpa ci può escludere e per sempre da quel beato regno. Che gran ventura adunque è per noi, quando avendo sgraziatamente commesso la colpa potremo convenientemente espiarla, ed espiandola cancellarla dall’anima nostra, e cancellandola renderci degni di bel nuovo della nostra eterna destinazione! Or ecco qui, dove per un altro lato risplende la bontà e l’amore del Cuore di Gesù Cristo per noi nell’avere dato la Confessione, poiché per essa ci diede il mezzo più acconcio ad espiare degnamente le colpe nostre. – Ed in vero, il principio di ogni peccato, come dice la Sacra Scrittura, è la superbia: initium onmis peccati superbia. (Eccl, x, 14) Non vi ha peccato alcuno nel quale l’uomo, che lo commette, non si levi orgoglioso contro di Dio, suo Creatore, suo sovrano e suo padre per dirgli: Non serviam; non ti voglio servire. Inoltre ogni peccato che comincia dalla superbia va a finire nel godimento materiale di qualche miserabile e fuggevole soddisfazione dei sensi. Questo è lo spaventevole mistero del peccato. Se adunque il peccato è orgoglio e soddisfazione dei sensi, con quali mezzi potrà e dovrà essere espiato? Non altrimenti che dai suoi contrari, vale a dire dall’umiliazione dello spirito e dal castigo dei sensi. Non altrimenti, no, perché la divina giustizia, che non può venir meno neppure per la divina misericordia, a perdonare il peccatore non può non esigere che egli si umilii e si castighi. Vi ha bisogno adunque che l’azione orgogliosa e piacevole ai sensi, quale fu il peccato, sia degnamente riparata da un’azione umiliante ed affliggente. E quale sarà quest’azione? Un rande filosofo cristiano ha scritto che « la coscienza universale riconosce nella confessione spontanea una forza espiatrice ed un merito di grazia, e che su questo punto non v’è che un sentimento, dalla madre, che interroga il suo fanciullo sopra un vaso rotto o sopra qualche ghiottoneria mangiata contro il divieto, al giudice, che interroga il ladro e l’assassino. » (DE MAISTRE. Del Papa, lib. III, c. 4) Sì, tutti riconoscono che il perdono non si ha da concedere se non a chi essendo pentito del male commesso, incomincia dal confessarlo e dal credersi degno di essere punito. La confessione adunque, la manifestazione spontanea delle nostre colpe, la disposizione ad espiarla con la debita penitenza, ecco l‘azione umiliante ed affliggente cui dobbiamo sottostare per essere perdonati da Dio. Ma perché questa manifestazione sia umiliante davvero a chi dovremo farla noi? Sì, io lo so, non mancano certi spiriti ignoranti e superbi che vanno dicendo: « Non potrebbe forse Iddio contentarsi che noi manifestassimo a Lui le nostre colpe, e che con Lui solo, senza bisogno di ricorrere ad altri, regolassimo le nostre partite? » Ma ciò, o miei cari, non sarebbe abbastanza conforme alla divina maestà oltraggiata, perché non vi sarebbe in noi un’umiliazione adeguata alla superbia del peccato. Ed in vero che cosa ci costerebbe pentirci in segreto ed in segreto confessarci a Dio solo? Nulla, menoche nulla. E Dio, che odia il peccato di un odio essenziale, Dio che rifulge per la sua santità e per la sua giustizia, avrebbe a contentarsi di questa umiliazione da nulla perdarci il suo perdono? Ed in questa umiliazione che è già nulla per il nostro spirito, quale castigo subirebbero i nostri sensi che devono pur essere castigati? Sapremmo noi ingiungere loro la dovuta penitenza? Il nostro amor proprio ci lascerebbe agire con giustizia? Il confessarsi adunque a Dio soltanto potrebbe ben parere maggior misericordia, ma non sarebbe in realtà, anche solo perché non umiliandoci e castigandoci abbastanza, non ci farebbe abbastanza comprendere la malizia infinita della colpa, né ce la farebbe abbastanza intestare e fuggire per l’avvenire. Occorre adunque che questa manifestazione, benché non in pubblico, per non violentare soverchiamente la nostra natura, sia fatta tuttavia apertamente ad un uomo, rappresentante di Dio e suo ministro, affinché noi che in nessun’altra guisa maggiormente ci umiliamo che facendo palese ad un altro uomo la nostra miseria, quella miseria che più d’ogni altra ci degrada e ci avvilisce, in questa umiliazione così profonda veniamo meglio a conoscere e riparare l’orgoglio che vi fu nel peccato e l’oltraggio che per esso facemmo al nostro Dio, e maggiormente lo detestiamo; ed in questa umiliazione che ci fa piegar le ginocchia e chinare la fronte dinnanzi ad un altro uomo e sottostare alle penitenze che egli crede di imporci, veniamo meglio a punire ed espiare la soddisfazione colpevole che si presero i nostri sensi peccando. La confessione adunque, la manifestazione delle nostre colpe al sacerdote sia pur umiliante, come si deve concedere, è pur tuttavia il mezzo più semplice, più proprio, più naturale di togliere da noi il peccato, di riconciliarci con Dio e di riguadagnare i diritti alla nostra eterna destinazione; e lo è appunto perché tanto ci umilia. Sì, perché tanto costa all’uomo scoprire tutta la malizia e la bruttura del suo cuore ad un altro uomo che la ignora, tanto più che satana, come dice S. Giovanni Crisostomo, ingrandisce fuor di misura la ripugnanza per la confessione, rendendoci tanto timidi e vergognosi a manifestare le colpe quanto ci aveva fatti arditi e sfacciati a commetterle, e persino a vantarcene all’altrui presenza, perché noi sacrifichiamo in tal guisa il nostro orgoglio, perciò noi siamo da Dio perdonati. Questa confusione che noi subiamo, questa vergogna, alla quale noi volontariamente ci sottomettiamo, è una vergogna ed una confusione salutare, che ci apporta la grazia di Dio e ci rende atti alla gloria del cielo: Est confusio adducens gloriavi et gratiam. (Eccl. IV) Certamente, o miei cari, non è questa nostra umiliazione per sé sola che adegui la malizia della colpa e ce ne ottenga il perdono. Quando tutti gli uomini si riducessero in polvere, non si umilierebbero abbastanza dinanzi a Dio, né gli darebbero il compenso degna di una sola colpa grave. Ciò che propriamente adegua gravezza infinita dei nostri peccati è l’umiliazione infinita cui volle assoggettarsi per noi Gesù Cristo coi misteri ineffabili della sua Incarnazione, Passione e Morte. Ed è propriamente solo per i meriti infiniti acquistati da Gesù Cristo che noi dobbiamo confidare di essere perdonati da Dio delle nostre colpe. Ma è pur sempre vero che alle umiliazioni ed ai patimenti di Gesù Cristo bisogna aggiungere le umiliazioni ed i patimenti nostri, essendo questo l’unico mezzo di renderci partecipi de’ suoi meriti infiniti. Ed è vero perciò ci la confusione e la vergogna nostra nella confessione, impregnata della umiliazione infinita di Gesù Cristo, è quella che ci placa la collera divina, appaga la divina giustizia, ci riamica con Dio e ci riapre le porte del cielo. Ecco adunque come 1° confessione, che per questo lato non sembra altro che la conseguenza della divina giustizia, è ad un tempo l’espressione più viva della divina misericordia, perciocché mentre per essa paghiamo alla divina giustizia in modo acconcio il nostro debito, conseguiamo altresì più prestamente, più sicuramente, più efficacemente la divina misericordia. Ecco come  Gesù Cristo, cavando fuori dalla ferita del Cuor suo Sacratissimo la Confessione, dandoci in essa il miglior mezzo per riparare il peccato, ci ha dato altresì una delle prove più belle, più grandi e più vere della sua bontà e del suo amore per noi. Egli ha fatto qui come il padre che, amando sinceramente il figlio, lo umilia e lo percuote per i suoi mancamenti, non già per la gioia crudele di vederlo umiliato e percosso, ma perché, subendo il figlio il meritato castigo, ei possa avere di nuovo la consolazione di stringerlo al suo cuore paterno e reintegrarlo in tutti i diritti della sua eredita.

III. — Finalmente, o miei cari, la bontà infinita del Cuore di Gesù nell’averci dato la Confessione si rivela ancora perciò che in essa ci ha dato il gran mezzo per rinnovare e perfezionare l’individuo e con l’individuo la società. La legge cristiana è per eccellenza legge di perfezione: essa si ritrova e si compendia in quella gran parola di Gesù: Siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste: Estote per/ecti, sicut perfectus est Pater vester, qui in cœlis est. Ma questa legge, che Gesù Cristo ha emanato con tanta chiarezza non è altro in fondo in fondo che la legge di natura che Egli ha stampato sopra di ogni essere. Noi adunque siamo tenuti alla perfezione, e non solo alla perfezione materiale ed intellettuale, ma molto più alla perfezione spirituale, in quanto che signore e sovrano di tutto il nostro essere è lo spirito. E questo spirito non altrimenti si perfeziona che adornandolo di quelle virtù le quali consistono nell’abitudine di evitare il male e di fare il bene, anzi il maggior bene possibile. Ma a compiere quest’opera di morale perfezionamento, basterà egli l’uomo da sé? No, senza dubbio: Egli abbisogna dell’aiuto della grazia di Dio, aiuto però che Iddio all’uomo non lascia mancar mai. E questo aiuto, di cui tuttavia per regola ordinaria Iddio vuol essere richiesto, o che non concede se non in premio di qualche merito, è quello pure che dà all’uomo in modo sovrabbondante nella confessione, essendo la confessione ancor essa una di quelle fonti salutari, di cui parlava il Profeta quando ci assicurava che con gaudio avremmo attinto le acque della grazia alle fonti del Salvatore: Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris. Ed in vero non è propriamente la confessione quella che anzi tutto rinnova l’uomo colpevole? Ecco lì un povero peccatore gravato di ogni iniquità: la sua anima dinnanzi agli occhi di Dio, a cagione della sua bruttezza è divenuta oggetto di nausea e di schifo; essa ha perduto il bell’ornamento della grazia e con esso tutti i meriti delle opere buone già compiute; è scaduta dal diritto del cielo ed è precipitata nel potere di satana. Ma questo povero peccatore, tocco della grazia di Dio, va a gettarsi ai piedi del suo ministro, col pentimento sincero delle sue colpe gliene fa l’umile confessione, il sacerdote, fremendo in spirito di sua indegnità, alza la mano grondante il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo e pronuncia le parole dell’assoluzione. Ed ecco l’anima di quel Cristiano tutto ad un tratto ripigliare la sua bellezza ed il suo splendore, essere riadorna della grazia di Dio e riacquistare tutti i meriti perduti, rompere le catene della schiavitù infernale per rientrare nella libertà dei figliuoli di Dio, diventare di nuovo amica di Dio, degli Angeli e dei Santi, e riavere tutti i diritti alla beatitudine del cielo. Ah dite, si può immaginare una rinnovazione più bella, più grande, più ammirabile di questa? – Tuttavia non è questa rinnovazione soltanto che avviene nel Sacramento della penitenza, perciocché in questo Sacramento non vi è soltanto il pentimento e la manifestazione delle colpe per parte del penitente, e l’assoluzione per parte del Confessore, ma vi ha ancora l’ammaestramento individuale del legge cristiana, delle virtù e dei doveri propri ad ogni stato particolare. Sì, è vero, noi possiamo bene essere ammaestrati intorno agli obblighi della nostra fede da queste cattedre pubbliche di verità, dove i Sacerdoti parlano pur sempre a noi di Dio, ma per regola ordinaria da queste cattedre pubbliche non siamo ammaestrati che in modo generale e sopra i doveri comuni a tutti i fedeli. Lì invece nel Sacramento della penitenza, il Sacerdote, dopo che il impenitente gli ha manifesta le sue colpe e dopo che egli stesso, se l’ha creduto necessario si è fatto a scrutarne le cause e le occasioni, che fa egli ancora? Si fa ad illuminarlo con la luce delle sue acconce riflessioni, delle sue giuste ammonizioni, dei suoi santi consigli. E così a ciascuno in particolare addita la via da tenere, i pericoli da fuggire, le speciali virtù da praticare e i mezzi da adoperare. E così ancora il sacerdote, questo amico che ama sinceramente il bene di ogni anima, questo amico che non tollera ma compisce, che non adula ma incoraggia, che non scusa ma corregge, che non nasconde insomma la verità, ma la dice con un amore divino, intende non solo a rinnovare, ma ad abbellire e perfezionare le anime di coloro che si confessano. E difatti dopo gli ammaestramenti di questo amico così affezionato così sincero, quali meraviglie non si vedono? Senza dubbio, non tutti quelli che si confessano, sia perché non tutti si confessano come dovrebbero, e sia anche perché la confessione non rende impeccabili, vanno realmente operando in se stessi la loro perfezione, ma egli è certo tuttavia che se vi hanno dei giorni che si mantengono casti in mezzo ai più sfrenati eccitamenti di corruzione, delle fanciulle che resistono innocenti alle seduzioni del mondo, delle donne che compiono con nobiltà i loro doveri di spose e di madri cristiane, degli uomini che sono onesti nel vero senso della parola, che sono umili, pazienti, caritatevoli, generosi; se vi hanno anzi di coloro che nell’uno e nell’altro sesso avendo rinunciato alla propria volontà, ai propri averi, alle proprie famiglie, se ne vivono appartati dal mondo attendendo unicamente a rendersi veramente perfetti secondo il consiglio di Gesù Cristo, no, non li troverete altrimenti se non tra coloro che si confessano. Quelli che non usano della confessione o per essere acattolici o per essere Cristiani indifferenti e cattivi potranno bene farvisi innanzi ammantati della virtù, ma voi non penerete a riconoscere che la loro virtù vana ed apparente, è una virtù superba e sterile, o tutt’al più una virtù puramente umana, che non varrà mai a sollevarli una linea al di sopra di loro stessi e meno ancora ad inspirare in essi l’energia per rinnegare se stessi ed immolarsi a prò degli altri. – Ma nel mentre la confessione rinnova e perfeziona l’individuo che ne usa, tende altresì a rinnovare e perfezionare la società istessa. Perciocché la società non è essa forse l’aggregato di individui? Se per ragione adunque della confessione la società ha nel suo seno degli individui che operano il bene e vivono virtuosamente, non ne risentirà ancor essa il benefico influsso? Se» anzi vi fosse una società, i cui individui tutti si confessassero frequentemente e bene, non si potrebbe credere di vedere in essa una società perfetta? Sì, senza alcun dubbio; e in tale società per il rispetto all’autorità ed alla proprietà, per la carità vicendevole, che vi regnerebbe, tornerebbero inutili i gendarmi e si potrebbero diroccare le prigioni. Certamente i poteri umani con le leggi che emanano e con le punizioni che infliggono ai loro trasgressori, riescono fino a un certo punto a impedire e menomare i delitti. Bla niuno è che non vegga quanto numerosi e quanto gravi altresì siano i delitti che o per una o per altra ragione riescono a sfuggire all’azione delle leggi e delle punizioni. E così quella società che, pure arma ed impiega una metà di se stessa a governare l’altra metà, non riesce ancora a tener lontane da sé le invasioni della colpa e del disordine. Ma a ciò, cui non varrebbe neppure la società intera armata e spiegata contro di un solo individuo, perché questo solo individuo potrebbe se non altro covare in cuore mille iniqui pensieri contro la società, senza che essa li conoscesse, a ciò basterebbe la confessione, quella confessione in cui si raccomanda all’individuo di essere buono e virtuoso non solo per sé, ma ancora per la famiglia e per la società, quella confessione in cui si ingiungono non solo le virtù private, ma anche le virtù sociali e pubbliche, vale ai dire il rispetto ad ogni autorità costituita, il riguardo all’altrui proprietà, la restituzione del mal tolto, il perdono delle offese, il soffocamento dell’odio, la distruzione dell’egoismo, l’esercizio della carità, l’orrore per il vizio e la conseguente abolizione del libertinaggio. Tale sarebbe il benefizio che alla società renderebbe la confessione se fosse universalmente usata; tale è il benefizio che essa rende secondo la misura con cui è praticata; tale e mille volte più grande, perciocché quei sacerdoti, quei frati e quelle suore, che il mondo ingrato disprezza e tollera in pace perché non riesce a distruggerli, ma che pure lavorano indefessamente a bene della società, curandone tutte le piaghe, confortandola ne’ suoi bisogni e nelle sue infermità, accorrendo a soccorrerla nelle sue calamità e sempre istruendone i figli ignoranti, assistendo negli ospedali i suoi infermi, accogliendo negli ospizi i suoi orfani e i suoi vecchi, usando verso di essi le cure più affettuose e materne, questi uomini religiosi, dico, sono uomini tutti sostenuti, incoraggiati, rafforzati nella loro vita di sacrifizio per una società, benanco sconoscente, dalla voce di Dio che per il tramite del sacerdote ascoltano nella confessione. O vantaggi! o benefizi di questa divina istituzione! E chi mai riflettendovi alquanto non vede risplendere in essa tutta la bontà, tutto l’amore del Cuore di Gesù Cristo per gli uomini, e non vorrà corrispondere ad amore così grande col valersi sempre e bene di un tanto Sacramento? E come mai si potranno ancora comprendere coloro (e il loro numero è grande), che credendo all’esistenza di un Sacramento istituito da Gesù Cristo per risuscitarci, quando siamo morti alla vita eterna, amano meglio rimanere e sprofondarsi nelle tenebre, anziché ricorrere a questo rimedio infallibile, che hanno tra mano? Che dire di coloro che pur accostandosi a questo rimedio, lo convertono in fatale veleno col non portarvi la umiliazione dovuta, il dolor vero dell’animo, il proposito fermo di non cader più in peccato, col tacere volontariamente dei gravi peccati, la cui manifestazione è assolutamente indispensabile? Che dire soprattutto di quegl’insensati, i quali, invece di cadere in ginocchio davanti a questo capolavoro della divina clemenza, innanzi a questo frutto sempre duraturo della Passione di Gesù Cristo, si sollevano per esso a deridere, a bestemmiare, a calunniare la Chiesa, ad insultare, a vilipendere, ad odiare il sacerdozio? Ah! certamente non sarà così almeno di alcuno di noi, devoti del Sacro Cuore di Gesù! Sì, o Gesù clementissimo, noi apprezzeremo, esalteremo, benediremo mai sempre una prova sì grande del vostro amore. Sì, noi verremo ogni qual volta ne saremo in bisogno a questa fonte di misericordia e di salute che avete fatto zampillare dal vostro Cuore ferito. Noi ci verremo con la dovuta umiltà, con la dovuta sincerità, col dovuto pentimento delle nostre colpe. E voi, o pietosissimo Samaritano, degnatevi per mezzo di questo Sacramento di versare sempre copioso il balsamo della vostra grazia sopra le piaghe dell’anima nostra, di medicarle, di guarirle perché sani di mente e di cuore possiamo darci interamente al vostro servizio ed al vostro amore.

LA GRAZIA (Note di Teologia Ascetica) -1-

LA GRAZIA

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (1)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

CAPITOLO II.

Natura della vita cristiana.

88. Essendo la vita soprannaturale una partecipazione della vita di Dio per i meriti di Gesù Cristo, viene talora definita la vita di Dio in noi o la vita di Gesù in noi. Queste espressioni sono giuste, se si bada a spiegarle bene in modo da evitare ogni cenno di panteismo. Noi infatti non abbiamo una vita identica a quella di Dio o di Nostro Signore, ma una somiglianza di questa vita, una partecipazione finita, benché reale, di questa vita. – Possiamo dunque definirla: una partecipazione della vita divina, conferita dallo Spirito Santo che abita in noi, in virili dei meriti di Gesù Cristo, e che noi dobbiamo coltivare contro le tendenze che le si oppongono.

89. E chiaro quindi che la vita soprannaturale è una vita in cui Dio ha la parte principale e noi la parte secondaria. Dio, la terza Persona della SS. Trinità (che si chiama anche Spirito Santo), viene personalmente a conferirci questa vita, perché Egli solo può farci partecipare alla sua stessa vita. Ce la comunica per i meriti di Gesù Cristo (n. 78), che è causa meritoria,, esemplare e vitale della nostra santificazione. È quindi vero che Dio vive in noi, che Gesù vive in noi; ma la nostra vita spirituale non è identicaa quella di Dio o a quella di Nostro Signore; ne è distinta ed è solo simile all’una e all’altra. La vita nostra consiste nell’utilizzare i doni divini per vivere in Dio e per Dio, per vivere in unione con Gesù e imitarlo; e poiché resta in noi la triplice concupiscenza, noi non possiamo vivere che a patto di accanitamente combatterla; e avendoci inoltre Dio dotati d’un organismo soprannaturale, noi dobbiamo farlo crescere con gli atti meritorii e con la fervorosa frequenza dei Sacramenti. È questo il senso della definizione che abbiamo data; l’intero capitolo non ne sarà che la spiegazione e lo svolgimento e ci darà modo di trarre delle conclusioni pratiche sulla devozione alla SS. Trinità, sulla devozione e sull’unione al Verbo Incarnato, ed anche sulla devozione alla S. Vergine ed ai Santi che discende dalle loro relazioni col Verbo Incarnato. Benché l’azione di Dio e l’azione dell’anima si svolgano parallelamente nella vita cristiana, noi, per maggior chiarezza, tratteremo in due distinti articoli della parte di Dio e della parte dell’uomo.

ART. I

DELLA PARTE DI DIO NELLA VITA CRISTIANA.

Dio opera in noi sia per Se stesso, sia per mezzo della SS. Vergine, degli Angeli e dei Santi.

§ I . Della parte della SS. Trinità.

90. Il primo principio, la causa efficiente principale e la causa esemplare della vita soprannaturale in noi è la SS. Trinità, o, per appropriazione, lo Spirito Santo. Perché la vita della grazia, benché sia opera comune delle tre divine Persone, essendo opera ad extra, si attribuisce specialmente allo Spirito Santo, come opera d’amore.Ora questa adorabile Trinità contribuisce alla nostra santificazione in due modi: col venire ad abitare nell’anima nostra e col produrre un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l’anima, la abilita a fare atti deiformi.

I . L’abitazione dello Spirito Santo nell’anima.

91. Essendo la vita cristiana una partecipazione della vita stessa di Dio, è evidente che Egli solo la può conferire. E la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi interamente a noi, affinché possiamo rendergli i nostri ossequi, godere della sua presenza e lasciarci da Lui docilmente guidare a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo: è ciò che i teologi chiamano grazia increata.

Vedremo : 1° in che modo le tre divine Persone vivono in noi; 2° come dobbiamo diportarci verso di loro.

[Su questa verità fonda l’Olier la sua spiritualità: Catéchisme chrétien pour la vie intérieure, pp. 35, 37, 43 ed. 1906-1922. : “Chi è colui che merita di essere chiamato cristiano? Colui che ha in sé lo Spirito di Gesù Cristo… che ci fa vivere interiormente ed esteriormente come Gesù Cristo” — “Egli (lo Spirito S.) vi è col Padre e col Figlio, e vi diffonde, come abbiamo detto, gli stessi sentimenti, gli stessi costumi e le stesse virtù di Gesù Cristo.”]

1° IN CHE MODO LE DIVINE PERSONE ABITANO IN NOI.

92. Dio, come dice S. Tommaso (S. Theol., I , q. 8, a. 3), abita naturalmente nelle creature in tre modi diversi: con la sua potenza, nel senso che tutte le creature stanno soggette al suo dominio; con la sua presenza, in quanto che vede tutto, anche i più segreti pensieri del nostro cuore “omnia nuda et aperta sunt oculis eius“; con la sua essenza, perché opera dappertutto ed è dovunque la pienezza dell’essere e la causa prima di tutto ciò che è di reale nelle creature, comunicando loro continuamente non solo il moto e la vita ma lo stesso essere: “in ipso vivimus, movemur et sumus[Act. XVII, 28.].Ma la sua presenza in noi per mezzo della grazia è di ordine molto superiore e più intimo. Non è soltanto la presenza del Creatore e del Conservatore che regge gli esseri da Lui creati ma è la presenza della Santissima e Adorabilissima Trinità quale ci è rivelata dalla fede: il Padre viene in noi e vi continua a generare il Verbo; con lui riceviamo il Figlio, perfettamente uguale al Padre, sua immagine vivente e sostanziale, che non cessa di infinitamente amare il Padre come infinitamente ne è riamato; dal qual mutuo amore procede lo Spirito Santo, persona uguale al Padre e al Figlio, vincolo reciproco fra i due eppur distinto dall’uno e dall’altro.Quante meraviglie in un’anima in stato di grazia!La particolarità di questa presenza è che Dio non solo è in noi, ma si dà a noi, perché noi possiamo godere di Lui. Secondo il linguaggio dei nostri Libri Sacri, possiamo dire che, per mezzo della grazia, Dio si dà a noi come padre, come amico, come collaboratore, come santificatore, e che così Eglidiviene veramente il principio stesso della nostra vita interiore, la sua causa efficiente ed esemplare.

93. A) Nell’ordine della natura Dio è in noi come Creatore e sovrano padrone e noi non siamo che suoi servi, sua proprietà, cosa sua. Ma nell’ ordine della grazia Egli si dà a noi come nostro Padre, e noi siamo i suoi figli adottivi; mirabile privilegio che è il fondamento della nostra vita soprannaturale. – Questo continuamente ripetono S. Paolo e S. Giovanni: ” Non enim accepistis spiritum servitutis iterim in timore, sed accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus Abba (Pater). Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filli Dei[Rom. VIII, 15-16]”. Dio dunque ci adotta per figli, ma in modo assai più perfetto che non facciano gli uomini con l’adozione legale. Questi possono bene trasmettere ai figli adottivi il nome e le sostanze, ma non il sangue e la vita. ” L’adozione legale, dice con ragione il Cardinal Mercier, [la Vita interiore] è una finzione. Il figlio adottato viene considerato dai genitori adottivi come se fosse loro figlio e riceve da essi quell’eredità a cui avrebbe avuto diritto il frutto della loro unione; la società riconosce questa finzione e ne sancisce gli effetti; tuttavia l’oggetto della finzione non si trasforma in realtà… Ma la grazia dell’adozione divina non è una finzione… è una realtà. Dio largisce a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione, dice S. Giovanni: “Dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius[Giov. I, 12]. E questa filiazione non è nominale ma effettiva: “Ut filli Dei nominemur et simus“. Noi entriamo in possesso della natura divina, divinæ consortes naturæ“.

94. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione, ”consortes”, una somiglianza, un’assimilazione che fa di noi, non già degli dèi, ma degli esseri deiformi. Non è però men vero che essa non è una finzione ma una realtà, una vita nuova, non uguale ma simile a quella di Dio, e che, a detta della Sacra Scrittura, suppone una nuova generazione o rigenerazione: Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto… per lavacrum regenerationis et renovationis Spiritus Sancti… regeneravit nos in spem vivant… voluntarie enim genuit nos verbo veritatis».[Joan. III, 5; Tit., III , 5; 1 Petr., I, 3 ; Jac, I, 18]. Tutte queste espressioni ci mostrano che la nostra adozione non è puramente nominale ma vera e reale, benché molto bene distinta dalla filiazione del Verbo Incarnato. Ed è per questo che noi diventiamo di pieno diritto eredi del regno celeste, coere di di Colui che è nostro fratello maggiore: ” hæredes quidem Dei, cohæredes autem Christi… ut sit ipse primogenitus in multis fratribus ». O non è dunque il caso di ripetere le così soavi parole di S. Giovanni: ” Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus? (I Jann. III, 1). Dio quindi avrà per noi la premura, la tenerezza d’un padre. Egli stesso si paragona a una madre che non potrà mai dimenticare il figlio: “Numquid oblivisci potest mulier infantem suum, ut non misereatur filo uteri sui? Et si Illa oblita fuerit, ego tamen non obliviscar tui ” (Is. XLIX, 15). E l’ha ben dimostrato davvero, poiché, per salvare i figli decaduti, non esitò a dare e a sacrificare l’unico suo Figlio: Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenituni daret, ut omnis qui credit in eum non pereat, sed habeat vitam æternam” (Jann. III, 16). Ed è questo stesso amore che lo spinge a darsi interamente, fin d’ora e in modo abituale, ai figli adottivi, abitando nei loro cuori: “Si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus” (Joan., XIV, 23). Egli abita dunque in noi come Padre amantissimo epremurosissimo.

95. B) Dio si dà pure a noi come amico. L’amicizia aggiunge alle relazioni di padre e di figlio una certa uguaglianza, “amicitia æquales accipit aut facit“, una certa intimità, una scambievolezza d’affetto che porta seco le più dolci comunicazioni. – Relazioni appunto di questo genere la grazia pone tra Dio e noi; è vero che quando si tratta di Dio e dell’uomo non si può parlare d’uguaglianza vera, ma solo d’una certa somiglianza che però basta a stabilire una vera intimità. Dio infatti ci apre i suoi segreti; ci parla non solo per mezzo della Chiesa, ma anche interiormente per mezzo del suo Spirito: ” IIle vos docebit omnia et suggeret vobis omnia quæcumque dixero vobis ” (Jaon. XIV, 26). Quindi è che nell’ultima cena Gesù dichiara agli Apostoli che ormai non saranno più servi ma amici, perché Egli non avrà più segreti per loro: Iam non dicam vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus eius; vos autem dixi amicos, quia omnia quæcumque audivi a Patre meo, nota feci vobis” (Jaon. XV, 15). Sarà quindi una dolce familiarità quella che governerà ormai le loro relazioni, la familiarità che corre tra amici che siedono alla stessa mensa: Ecco che io sto alla porta e picchio; se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui ed egli con me: Ecce sto ad ostium et pulso; si quis audierit vocem meam et aperuerit mihi januam, intrabo ad illum et cœnabo eum illo, et ipse mecum” (Apoc. III, 20). Mirabile intimità a cui noi non avremmo mai osato aspirare se l’Amico divino non si fosse fatto avanti Lui per il primo. Eppure una tale intimità si è avverata e si avvera ogni giorno, non soltanto presso i santi, ma anche in quelle anime interiori che acconsentono ad aprire le porte dell’anima all’ospite divino. E ciò che ci attesta l’autore dell’Imitazione, quando descrive le frequenti visite dello Spirito Santo alle anime interiori, le sue dolci conversazioni con loro, le consolazioni e le carezze di cui le colma, la pace che fa regnare in loro, la stupenda familiarità con cui le tratta: “Frequens illi visìtatio eum nomine interno, dulcis sermocinatio, grata consolatio, multa pax, familiaritas stupenda nimis” (Imit. l. II, c.1, v. 1). Del resto la vita dei mistici contemporanei, di Santa Teresa del Bambin Gesù, di Suor Elisabetta della Trinità, della Beata Gemma Galgani e di tanti altri, ci prova che le parole dell’Imitazione si avverano tutti i giorni. È dunque vero che Dio vive in noi come un intimo amico.

96. C) Né vi resta ozioso ma vi opera come il più potente dei collaboratori. Sapendo bene che non possiamo coltivare da noi quella vita soprannaturale che pone in noi, Egli supplisce alla nostra impotenza, collaborando con noi per mezzo della grazia attuale. Abbiamo bisogno di luce per afferrare le verità della fede che dovranno ormai guidare i nostri passi? Verrà Lui, che è il Padre dei lumi, a illuminare il nostro intelletto sul nostro ultimo fine e sui mezzi per conseguirlo, e ci suggerirà buoni pensieri ispiratori di buone opere. Abbiamo bisogno di forza onde voler sinceramente dirigere la nostra vita verso il nostro fine, volerlo energicamente e costantemente? Ed Egli ci darà quel concorso soprannaturale che ci abilita a volere e ad eseguire le nostre risoluzioni, “operatur in vobis et velle et perficere” (Fil. II, 13). Se si tratta di combattere le nostre passioni o di disciplinarle, di vincere le tentazioni che talora ci assediano, Egli pure ci darà la forza di resistervi e di trarne profitto per rassodarci nella virtù: “Fidelis est Deus qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam eum tentatione proventum (1 Cor., X, 13).Quando, stanchi di fare il bene, ci sentiremo tratti allo scoraggiamento e alla fiacchezza, Egli ci si avvicinerà per sorreggerci e assicurare la nostra perseveranza; Colui che in voi cominciò l’opera della vostra santificazione, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù; qui cœpit in vobis opus bonum, ipse perficiet usque in diem Christi Jesu” (Philip., I, 6). Insomma, noi non saremo mai soli, anche quando, privi di consolazione, ci crederemo abbandonati; la grazia di Dio sarà sempre con noi a patto che noi acconsentiamo a lavorar con lei: ” Gratia eius in me vacua non fuit, sed abundantius illis omnibus laboravi: non ego autem, se gratia Dei mecum…” (1 Cor., XV, 10). Appoggiati su questo onnipotente collaboratore, saremo invincibili, perché tutto noi possiamo in Colui che ci conforta: “Omnia possum in eo qui me confortat” (Philip., IV, 13).

97. D) Questo collaboratore è nello stesso tempo un santificatore: venendo ad abitare nell’anima nostra, la trasforma in un tempio santo ornato di tutte le virtù: “Templum Dei sanctum est: quod estis vos”. (1 Cor., III, 17).Il Dio infatti che viene in noi con la grazia, non è il Dio della natura, ma il Dio vivente, la SS. Trinità, sorgente infinita di vita divina, e che altro non chiede che farci partecipare alla sua santità; è vero che talora questa abitazione è attribuita, per appropriazione, allo Spirito Santo, perché è opera d’amore; ma, essendo operazione ad extra, è comune alle tre Persone divine. Ecco perché S. Paolo ci chiama indifferentemente tempii di Dio e tempii dello Spirito Santo: ” Nescitis quia templum Dei estis et Spiritus Dei habitat in vobis? ” (1 Cor. III, 10). – L’anima nostra diviene dunque tempio del Dio vivente, un sacro recinto riservato a Dio, un trono di misericordia donde si compiace di distribuire i suoi favori celesti e che Egli adorna di tutte le virtù. Descriveremo presto l’organismo soprannaturale di cui ci dota. Ma è evidente che la presenza in noi del Dio tre volte Santo, quale abbiamo descritta, non può essere che santificante, e che l’Adorabile Trinità che vive e opera in noi diviene veramente il principio della nostra santificazione, la sorgente della nostra vita interiore. E ne è pure la causa esemplare, poiché, essendo figli di Dio per adozione, dobbiamo imitare il Padre. Il che del resto intenderemo meglio spiegando come dobbiamo diportarci verso le tre divine Persone che abitano in noi.

2° I NOSTRI DOVERI VERSO LA SS. TRINITÀ CHE VIVE IN NOI.

98. Possedendo un tesoro cosi prezioso come la SS. Trinità, bisogna pensarvi spesso, “ambulare cum Deo intus“. Or questo pensiero fa nascere tre principali sentimenti: l’adorazione, l’amore, l’imitazione.

99. A) Il primo sentimento che scaturisce come spontaneamente dal cuore è quello dell’adorazione: ” Glorificate et portate Deum in corpore vestro ” (1 Cor. VI, 20). Come, infatti, non benedire, glorificare, ringraziare quest’ospite divino che trasforma l’anima nostra in un vero santuario? Dopoché Maria ebbe ricevuto nel casto suo seno il Verbo Incarnato, la sua vita non fu più che un perpetuo atto d’adorazione e di riconoscenza: Magnificat anima mea Domininum …fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus“; e tali pure sono i sentimenti, benché in grado minore, di un’anima che prende coscienza dell’abitazione dello Spirito Santo in lei: capisce che essendo tempio di Dio, deve incessantemente offrirsi come ostia di lode alla gloria delle tre divine Persone, a) Al principio delle proprie azioni facendo il segno di croce “ … in nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti”, consacra loro ogni sua opera; terminandole, riconosce che tutto il bene da lei fatto si deve ad esse attribuire: Gloria Patri et Filio et Spiritili Sancto. b) Ama ripetere quelle preghiere liturgiche che ne celebrano le lodi: il Gloria in excelsis Deo, che esprime così bene tutti i sentimenti di Religione verso le divine Persone e specialmente verso il Verbo Incarnato; il Sanctus che proclama la santità divina; il Te Deum, che è l’inno della riconoscenza, c) Alla presenza di quest’ospite divino, molto amorevole senza dubbio ma che non cessa d’essere Dio, riconosce umilmente l’intera sua dipendenza da Colui che è il suo primo principio e il suo ultimo fine; la sua incapacità a lodarlo come Egli si merita, e questo sentimento si unisce allo Spirito di Gesù che solo può rendere a Dio quella gloria a cui ha diritto : “Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, perché noi non sappiamo che dobbiamo chiedere nelle nostre preghiere secondo i nostri bisogni; ma lo Spirito prega Egli stesso per noi con gemiti inenarrabili; ” Spiritus adiuvat infirmitatem nostram; nam quid oremus sicut oportet, nescimus; sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus(Rom. VIII, 26).

100. B) Dopo avere adorato Dio e proclamato il proprio nulla, l’anima si abbandona al sentimenti del più confidente amore. Per quanto sia infinito, pure Dio si abbassa a noi, come il padre più amoroso verso il proprio figlio, e c’invita ad amarlo e a dargli il cuore: Præbe, fili, cor tuum mihi(Prov., XXIII, 26). questo amore Egli potrebbe esigerlo imperiosamente ma preferisce chiederlo dolcemente, affettuosamente, perché vi sia, a così dire, più spontaneità nella nostra risposta, più abbandono filiale nel nostro ricorso a Lui. E come non rispondere con confidente amore a tanti e sì delicati riguardi, a tante così materne sollecitudini? Sarà un amore penitente, per espiare le nostre troppo numerose infedeltà passate e presenti; un amore riconoscente, per ringraziare quest’insigne benefattore, questo collaboratore premuroso che lavora l’anima nostra con tanta assiduità; ma principalmente un amore d’amicizia, che ci farà conversare dolcemente col più fedele e più generoso degli amici, ci farà caldeggiare tutti i suoi interessi, procurarne la gloria e farne benedire il santo Nome. Non sarà quindi un semplice sentimento affettuoso, ma un amore generoso, che va fino al sacrifizio, all’oblio di sé, alla rinunzia della propria volontà, per sottomettersi ai precetti e ai consigli divini.

101. C) Quest’amore ci condurrà dunque all’imitazione dell’adorabile Trinità in quel grado che è compatibile con l’umana debolezza. Figli adottivi d’un Padre tre volte Santo, tempii viventi dello Spirito Santo, intendiamo meglio la necessità di rispettare il nostro corpo e la nostra anima. Tale era la conclusione che l’Apostolo inculcava ai discepoli: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo sperderà; poiché santo è il tempio di Dio che siete voi; Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Si quis autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei sanctum est quod estis vos(1 Cor. III, 16). L’esperienza prova che per le anime generose non v’è motivo più potente di questo per allontanarle dal peccato ed eccitarle alla pratica delle virtù; infatti, non si deve forse purificare e ornare continuamente un tempio ove risiede il Dio tre volte Santo? Del resto quando Nostro Signore volle proporci un ideale di perfezione, non andò a cercarlo fuori della SS. Trinità: “Siate perfetti, Egli dice, come è perfetto il vostro Padre celeste: “Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester celestis perfectus est(Matth., V, 48). A prima vista, quest’ideale sembra troppo elevato; ma quando ci ricordiamo che siamo figlia dottivi del Padre, e che Egli vive in noi per imprimervi la sua immagine e collaborare alla nostra santificazione, capiamo bene che nobiltà obbliga e che abbiamo il dovere d’avvicinarci sempre più alle perfezioni divine. Specialmente per praticar la carità fraterna Gesù ci chiede di avere dinanzi agli occhi quel perfetto modello che è l’indivisibile unità delle tre divine Persone: “Che siano tutti una cosa sola, come Tu sei in me, o Padre, e Io in te, che siano anch’essi una cosa sola in noi; Ut omnes unum sint, sicut tu, Pater, in me et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint(Joan. XVII, 21). Tenera preghiera, di cui san Paolo si faceva eco quando supplicava i cari discepoli di non dimenticare che, essendo un solo corpo e un solo spirito, non avendo che un solo ed unico Padre che abita in tutti i giusti, dovevano conservare l’unità dello spirito col vincolo della pace. (Ephes. IV, 3-6). Riepilogando possiamo conchiudere che la vita cristiana consiste prima di tutto in una unione intima, affettuosa e santificante colle tre divine Persone, che ci conserva nello spirito di Religione, d’ amore e di sacrifizio.

II. Dell’ organismo della vita cristiana.

102. Le tre divine Persone che abitano nel santuario dell’anima nostra si dilettano di arricchirla di doni soprannaturali e ci comunicano una vita simile alla loro, che si chiama la vita della grazia o vita deiforme. Ora in ogni vita vi è un triplice elemento: un principio vitale che è, per cosi dire, la sorgente della vita; delle facoltà che fanno produrre operazioni vitali; e in fine degli atti, che ne sono l’espansione e contribuiscono al suo accrescimento. Nell’ordine soprannaturale, Dio, che vive in noi, produce nelle anime nostre questi tre elementi, a) Ci comunica dapprima la grazia abituale, che fa in noi l’ufficio di principio vitale soprannaturale e divinizza, a così dire, la sostanza stessa dell’anima nostra, rendendola atta, benché remotamente, alla visione beatifica e agli atti che la preparano.

103. b) Da questa grazia sgorgano le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, che perfezionanole nostre facoltà e ci danno il potere immediato difare atti deiformi, soprannaturali e meritori.

C) Per mettere in moto queste facoltà, Dio concede le grazie attuali, che illuminano la nostra intelligenza, fortificano la nostra volontà, ci aiutano ad operare soprannaturalmente e ad aumentano così il capitale di grazia abituale che ci ha compartito.

104. Questa vita della grazia, benché distinta dalla vita naturale, non è semplicemente a lei sovrapposta ma la compenetra tutta quanta, la trasforma e la divinizza. Si assimila tutto ciò che vi è di buono nella natura, nell’educazione nelle abitudini acquisite; perfeziona e soprannaturalizza tutti questi elementi volgendoli verso l’ultimo fine, che è il possesso di Dio per mezzo della visione beatifica e dell’amore che l’accompagna. – Spetta a questa vita soprannaturale il dirigere la vita naturale, in virtù del principio generale già esposto al n. 54, che gli esseri inferiori sono subordinati agli esseri superiori. Non può durare né svilupparsi se non a patto di dominare e serbar sotto la sua influenza gli atti dell’intelligenza, della volontà e delle altre facoltà; con ciò non distrugge né diminuisce la natura, ma anzi la esalta e la perfeziona. Il che dimostreremo, studiandone per ordine i tre elementi.

[1. Continua …]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/08/la-grazia-note-di-teologia-ascetica-2/

SALMI BIBLICI: “QUEMADMODUM DESIDERAT CERVUS” (XLI)

SALMO 41:”QUEMADMODUM desiderat cervus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 41 (1)

In finem. Intellectus filiis Core.

[1] Quemadmodum desiderat cervus

ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus.

[2] Sitivit anima mea ad Deum fortem, vivum; quando veniam, et apparebo ante faciem Dei?

[3] Fuerunt mihi lacrimæ meæ panes die ac nocte, dum dicitur mihi quotidie: Ubi est Deus tuus?

[4] Hæc recordatus sum, et effudi in me animam meam, quoniam transibo in locum tabernaculi admirabilis, usque ad donum Dei, in voce exsultationis et confessionis, sonus epulantis.

[5] Quare tristis es, anima mea? et quare conturbas me? Spera in Deo, quoniam adhuc confitebor illi, salutare vultus mei, et Deus meus.

[6] Ad meipsum anima mea conturbata est; propterea memor ero tui de terra Jordanis, et Hermoniim a monte modico.

[7] Abyssus abyssum invocat, in voce cataractarum tuarum; omnia excelsa tua, et fluctus tui super me transierunt.

[8] In die mandavit Dominus misericordiam suam, et nocte canticum ejus;

[9] apud me oratio Deo vitæ meæ. Dicam Deo: Susceptor meus es; quare oblitus es mei? et quare contristatus incedo, dum affligit me inimicus?

[10] Dum confringuntur ossa mea, exprobraverunt mihi qui tribulant me inimici mei, dum dicunt mihi per singulos dies: Ubi est Deus tuus?

[11] Quare tristis es, anima mea? et quare conturbas me? Spera in Deo, quoniam adhuc confitebor illi, salutare vultus mei, et Deus meus.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLI (1)

Ardente desiderio di Davide di giungere alla visione di Dio, eterna felicità, trovandosi nei travagli dell’esilio. Nel suo desiderio si ravvisano gli argomenti dell’amor di Dio. — I figliuoli di Core, a cui  davasi il Salmo a cantare, doveano intendere essi  e far intender agli altri i sensi del Salmo stesso.

Per la fine; salmo d’intelligenza ai figliuoli di Core.

1. Come il cervo desidera le fontane di acqua, così te desidera, o Dio, l’anima mia. (2)

2. L’anima mia ha sete di Dio forte, vivo; e quando sarà ch’io venga, e mi presenti dinanzi alla faccia di Dio?

3. Mio pane furono le mie lacrime e notte e giorno, mentre a me si diceva: il Dio tuo dov’è?

4. Tali cose teneva io in memoria; ma dilatai in me l’anima mia; perocché io passerò al luogo del tabernacolo ammirabile, fino alla casa di Dio: dove voci di esultazione e di laude, festosi suoni di que’ che sono al banchetto.

5. Perché mai, o anima mia, sei tu afflitta, e perché mi conturbi? Spera in Dio, perocché ancora canterò le laudi di lui, salute della mia faccia e mio Dio.

6. Dentro di me è turbata l’anima mia; per questo mi ricorderò di te nel paese, che è dal Giordano fino a Hermon e alla piccola collina.

7. L’abisso chiama l’abisso al rumore delle tue cateratte. Tutte le tue procelle e i tuoi flutti son passati sopra di me. (3)

8. Nel giorno il Signore ordinerà che venga la sua misericordia, e la notte a lui darò laude. Meco avrò l’orazione a Dio, che è mia vita;

9. Dirò a Dio: Tu se’ mio aiuto. Perché ti sei scordato di me, e perché vo io contristato, mentre il nimico mi affligge?

10. Mentre sono spezzate le ossa mie, dicono a me improperii que’ nemici che mi perseguitano; dicendomi ogni dì: dov’è il tuo Dio?

11. Anima mia, perché ti rattristi e ti conturbi? Spera in Dio, perocché ancora canterò le lodi di lui, salute della mia faccia e Dio mio.

(1). Il secondo Libro dei Salmi, che comincia dal XLI, comprende trent’uno salmi, dei quali i primi 8 sono dei figli di “Core”, e tutti gli altri, eccetto il 49 di Asaf, ed il 71, attribuito a Salomone, sono di Davide, di cui quasi tutti portano il nome. Questa collezione sembra essere stata compilata verso il ventesimo anno del regno di Ezechia, dai figli di Core, il cui nome si trova in cima ai primi salmi di questo libro. Essi avrebbero aggiunto ai loro, quelli che si conservano per tradizione orale o in famiglie separate, tra i musicisti del tempio. Nei salmi di questo libro Dio è designato ordinariamente con la parola Elohim, e raramente con Jehovah, al contrario dei primi libri (si comparino soprattutto i salmi XIII e LII, che non sono che uno solo), benché quasi tutti in questo secondo libro siano di Davide, come molti salmi del primo libro. Questo deriva dal fatto che la seconda raccolta è stata fatta in un periodo in cui la parola Jehovah cominciava ad essere per i Giudei il nome ineffabile, e quindi, nei Salmi, fino ad allora conservati solo dalla tradizione orale, la parola Elohim aveva già rimpiazzato il nome che non era più permesso pronunziare. Ora i Salmi sono scritti così come si cantavano allora. I salmi dal XLI al XLVIII sembrano essere riconducibili ai tempi di Ezechia, durante l’invasione di Sennacherib (Re, XVIII, 19, Paral. XXXIII, Ezech. XXXVI, 27). I Salmi XLI, XLVIII, salvo il XLIV ed il XLVIII, hanno un doppio senso letterale. Secondo il primo, essi cantano lo stato della Giudea prima e dopo la disfatta di Sennacherib. Nel secondo, essi abbracciano tutta la storia della Chiesa dalla caduta di Adamo fino all’ultimo giudizio. Tutti, salvo l’ultimo, possono applicarsi alle due venute di Gesù-Cristo, e soprattutto la seconda, alla quale si riferisce il Salmo XLVIII (Le Hir.). – Questi Salmi presentano tutte le bellezze più grandi, così come grandi difficoltà.

(2). La noia dell’isolamento nel rimpianto ardente della patria assente, la descrizione della terra straniera e la sua comparazione malinconica con il suolo natale, la speranza nell’avvenire, la speranza del ritorno mista e confusa al ricordo del passato in un toccante abbraccio: tali sono questi due Salmi, o piuttosto tali sono questi due Salmi XLI e XLII, pieni di tenerezza e di dolci lacrime, e da cui alcune armoniose rimembranze sono tutti i giorni ripetute nella Messa.

(3) Come l’abisso risponde all’abisso nel giorno in cui rumoreggiano la sue cataratte, esse, così dirompenti e come ondate, cioè le tribolazioni, sono passate sopra di me.

Sommario analitico

Davide, dopo aver considerato nei due Salmi precedenti la Passione e la Resurrezione di Gesù-Cristo, esprime qui l’ardente desiderio di provare l’eterna felicità contemplando il Salvatore nei cieli.

I. Egli esprime la vivacità, l’ardore dei suoi desideri, con l’aiuto di una doppia analogia.

1° del cervo che corre verso le sorgenti di acqua viva (1), 2° di un uomo che prova una sete ardente e come una sorta di impazienza sempre più grande di comparire davanti a Dio (2).

II – Egli fa conoscere la grandezza del suo dolore a causa del ritardo impiegato nel compirsi dei suoi desideri:

1° le sue lacrime scorrono notte e giorno (3); 2° la sua anima si scioglie in ferventi preghiere (4); 3° tuttavia conserva la speranza di vedere i suoi voti esauditi ed indica come essi saranno.

III – Egli si considera come in balìa alla tempesta, ed enumera tutte le ondate dalle quali è travolto:

1° egli è agitato da ondate di tristezza interiore, e ne indica i rimedi: – a) la speranza in Dio; – b) il suo amore e le sue lodi (5), c) – il pensiero che è il nostro Sanatore ed il ricordo cosante della sua presenza (6).

2° Egli è stato scosso dalle tentazioni raddoppiate del demonio (7).

3° Ha visto piombare su di lui tutte le calamità, sia quelle inviate direttamente da Dio, sia quelle che Egli ha semplicemente permesse. Ne attende il rimedio nella misericordia di Dio che: – a) dà una nuova forza all’anima; – b) la porta ad indirizzare a Dio ferventi preghiere; – c) produce una intera e perfetta fiducia in Dio (8, 9).

4° I flutti che lo circondano sono gli attacchi che gli portano i suoi nemici, i loro oltraggi, le loro derisioni, i loro rimproveri. Il rimedio è – egli lo ripete – la speranza in Dio che dissipa ogni tristezza (10, 11).

Spiegazioni e Considerazioni

I . — 1, 2.

ff. 1. – È normale per coloro che amano, non tenere il proprio amore segreto, ma far conoscere a tutti quelli che li circondano, l’ardore dal quale sono animati; perché l’amore è per sua natura come una fiamma ardente, che l’anima non può nascondere. Siccome la parola è incapace di esprimere il suo amore, il Re-Profeta cerca da ogni parte un esempio che possa farci comprendere questo amore e farci parte dei suoi trasporti (S. Chrys.). – Ma perché il salmista sceglie il cervo come termine di paragone? Il cervo possiede quattro qualità rimarchevoli: innanzitutto esso è nemico dei serpenti ed è continuamente in lotta con essi; in secondo luogo, quando è inseguito dai cacciatori, acquisisce una rapidità nella corsa sulle alte montagne più alte; poi esso osserva, per naturale istinto, quel che l’Apostolo raccomanda ai Galati, cioè « … portare i pesi gli uni degli altri », perché quando i cervi camminano nel branco, o attraversano i fiumi a nuoto, appoggiano la testa sui loro vicini; infine, affaticato dalla lotta contro i serpenti, o per le corse sulle alte montagne, cerca ardentemente l’acqua dalle fonti. Così è colui che ama Dio! (Bellarm.). – « Immaginate questo cervo che, inseguito da una muta di cani, non abbia più fiato, né gambe; come si getta avidamente sull’acqua che cerca, con quale ardore si slancia e si immerge in questo elemento. Sembra come se volesse volentieri fondere e tramutarsi in acqua, per gioire più pienamente di questa frescura. Oh! Quale unione del nostro cuore a Dio nell’alto del cielo dove, dopo questi desideri infiniti del vero bene, non più asserviti a questo mondo, troveremo la sorgente potente e vivente. Ecco allora, così come si vede un lattante affamato, incollato al fianco della madre e attaccato alla sua mammella, sollecitare avidamente questa dolce fontana di soave e desiderato nettare, e sembra quasi che voglia immergersi tutto nel seno materno, e succhiare il petto nel suo, così sarà la nostra anima, assetata totalmente dalla bruciante sete del bene, quando incontrerà la sorgente inesauribile nella Divinità, o vero Dio! Quale santo e divino ardore l’unirsi ed il congiungersi a queste mammelle feconde di ogni bontà, per essere tutto inabissato in essa ed essere un tutt’uno in noi » (S. Franc. De Sales, T. de l’am. de Dieu. L. III, C. XI.). – Dove si è mai visto questo desiderio di comparire davanti a Dio così vivamente espresso? Se non fosse soprannaturale, lo si troverebbe nelle preghiere di altre religioni; ma non è così, non lo sarà mai. Orazio predice ad Augusto che sarà un “dio”, cosa che è più che vedere Dio, ma gli consiglia di non affrettarsi, malgrado tutto il piacere che si possa avere nell’essere nell’olimpo: egli ha ragione, non occorre essere “dio” in questo modo se non il più tardi possibile (La Harpe). – Tutti, santi e peccatori, perfetti ed imperfetti, giovani e vecchi, innocenti o penitenti, uomini solitari o gente mondana, tutti devono incontrarsi nel santuario di questo amore di desiderio, tutti devono attingere alle acque di queste sorgenti celesti. Quale creatura ragionevole potrebbe non desiderare Dio con un ardore infinito ed irresistibile? Quale intelligenza creata non prova il bisogno di essere inondato dalla sua dolce luce? Quale volontà creata non langue in attesa dal momento in cui sarà abbracciata dal fuoco del suo amore estatico? Daniele è chiamato nella scrittura l’uomo del desiderio, magnifico titolo che ricorderà fino alla fine dei tempi l’ardore con il quale il Profeta cercava Dio. Come sarebbe bello vedere con gli occhi di qualche sublime intelligenza, come questo desiderio di Dio faccia la bellezza e l’ordine di tutta la sua creazione che tende verso di Lui, sia negli empirei spirituali della santità angelica, sia attraverso la terra ed i mari, le montagne e le valli del nostro pianeta, delle intelligenze e delle volontà senza numero, ognuna tracciante la propria strada nel movimento generale! È questo desiderio che salva e giustifica, che dà la corona e la gloria; è questo amore che i tremori di una santa paura rendono più elevato e squisito. È un amore che non solo ci fa desiderare Dio, ma ce Lo fa desiderare sopra ogni altra cosa, unicamente e sempre con intensità. Senza tiranneggiarci, esso ci attira a cercare esclusivamente Dio in tutte le cose di quaggiù, e a sospirare presso di Lui come se fosse Egli solo il magnifico avvenire che colmerà le nostre speranze nella vita futura (Faber, Le Createur et la creat., p. 184).

ff. 2. – Il cervo desidera le sorgenti d’acqua per dissetarvisi o per bagnarvisi, noi lo ignoriamo. Ascoltate cosa dice in seguito, ed il vostro dubbio cesserà: « La mia anima ha sete del Dio vivente ». Ma qual è questa sete? « Quando verrò e apparirò davanti al cospetto di Dio? » Ecco la mia sete di venire ed apparire davanti a Dio. Io ho sete nel mio viaggio, io ho sete nella mia corsa: arrivando sarò assetato. Ma: « quando arriverò? ». Ciò che è sollecito per Dio, è lento nell’arrivare per colui che desidera (S. Agost.). – Il profeta non dice: la mia anima ama Dio, o che abbia un’affezione per Dio; per meglio esprimerci la vivacità del suo amore, lo compara al bisogno della sete, per farci comprendere l’ardore e la continuità di questo amore. « La mia anima ha sete del Dio forte e vivente ». Sembra per far intendere questi rimproveri più in alto alle orecchie di coloro che sospirano dietro alle cose di questa vita. Perché questa passione insensata per la materia? Perché questo amore per le cose deperibili? Perché questa ambizione di gloria? Perché questi desideri della voluttà? Nessuna di queste cose dura e vive eternamente; esse tutte passano e spariscono con rapidità; esse sono più vane dell’ombra, più ingannevoli dei sogni, appassiscono e cadono più rapidamente dei fiori di primavera. Le une, in effetti, periscono per noi in questa vita, le altre ci lasciano anche prima di questo termine fatale. Il possesso ne è incerto, l’uso di breve durata, ed il cambiamento rapido. In Dio al contrario, nulla di simile: Egli vive e dimora eternamente, e non è soggetto ad alcun cambiamento, ad alcuna vicissitudine. Lasciamo tutte le nostre cose fragili ed effimere, per riporre il nostro amore solo in Colui la cui esistenza è eterna (S. Chrys.). – Desideriamo allora anche noi attingere vivamente alle sorgenti del Salvatore. In Lui ci sono diverse sorgenti, benché unica sia la sorgente; e San Bernardo si prende cura di nominarle: sorgente di misericordia, per lavare le nostre anime, sorgente di saggezza per estinguere la loro sete; sorgente di grazia, per fecondarle; sorgente bruciante di amore per riscaldarle. Ma a queste quattro prime, bisogna aggiungerne una quinta, quella sulla quale poggia l’eterna felicità, quella che Davide aveva visto in questo versetto del salmo: « … la mia anima ha sete di Dio, che è la sorgente vivente » (S. Bern.). – « Quando verrò e comparirò davanti a Dio? ». Vedete un’anima tutta infuocata e consumata dall’amore. Davide sa che egli deve vedere Dio all’uscita da questa vita, ma non può attendere questo momento, egli non può soffrirne il ritardo, e si mostra qui animato dallo stesso spirito dell’Apostolo, al quale la lunghezza del pellegrinaggio di questa vita strappa dei gemiti (S. Chrys.). – Quali sentimenti di intima dolcezza, di gioia ineffabile inondano e penetrano la nostra anima, quali lacrime rallegrano il nostro cuore, quando al ritorno da un lungo viaggio noi scorgiamo da lontano, sotto un cielo brumoso, su di un triste lido, la povera casa dove ci attende nostro padre, nostra madre; quando noi riconosciamo la nostra stessa madre che viene sulla soglia a contemplare questa strada alla quale ella da tanto tempo richiede suo figlio! E queste non sono che le gioie della terra. Che sarà, dunque, mio Dio, cosa sarà il ricordo di tutte le cose felici in questo mondo, quando noi ritorneremo non più nella casa di fango dei nostri genitori mortali, ma a questa casa che non è fatta da mani d’uomo, alla casa che vi siete preparata per l’eternità nei cieli; non più nel pergolato di questa vita piena di offese, ma nel palazzo della nostra santa origine e delle vostre immortali grandezze; … ma a Maria, la Madre del vostro amore le immortali grandezze; ma a Maria, la Madre del vostro amore, … a Gesù, che ha tanto sofferto per riscattarci; … ma a Voi per l’eternità, nostro Padre e Padre della nostra eternità! (L.V., Rome et Lorette, p. 180). « Quando verrò, e quando comparirò al cospetto di Dio? Quando spinterà questo giorno felice? … giorno di liberazione e di beatitudine senza fine? Quando cesserà il tempo dell’esilio, il tempo della speranza e delle lacrime? Quando vedrò declinare le ombre che nascondono ai miei sguardi la faccia di Dio che io amo? »

II. — 3, 4.

ff. 3. – Finora, mentre medito, corro, sono in cammino, prima che venga, che compaia davanti a Dio, « … le mie lacrime sono state per me un pane, giorno e notte » , quando mi si dice ogni giorno: « dov’è il tuo Dio? ». Le mie lacrime – egli dice – sono state per me non amarezze, ma un pane. Queste lacrime mi erano dolci nella sete in cui ero quando cercavo questa fonte alla quale non potevo ancora bere, e mangiavo con avidità le mie lacrime; perché egli non ha detto: le mie lacrime sono per me diventate una bevanda, per timore di sembrare di averle desiderate così come le sorgenti delle acque, ma conservando questa sete che brucia e mi precipita verso le sorgenti delle acque, le mie lacrime sono diventate il mio pane in tutto il tempo in cui stavo lontano dalla mia meta. E mangiando le sue lacrime, senza alcun dubbio, egli ha via via sempre più sete delle sorgenti. In effetti, giorno e notte, le mie lacrime sono diventate il mio pane. Gli uomini mangiano durante il giorno questo nutrimento che si chiama pane, e la notte dormono. Ma il pane delle lacrime è mangiato giorno e notte, sia che consideriate il giorno e la notte da un punto di vista temporale, sia che consideriate il giorno come le prosperità, e la notte come le avversità di questo secolo. In tale prosperità o nelle avversità, io verso le lacrime del mio desiderio, e nulla perdo dell’avidità del mio desiderio, ed anche quando tutto nel mondo è bene, tutto è male, finché io non compaia al cospetto di Dio. Perché sforzarmi di essere felice, in qualche modo, del giorno, se qualche prosperità del mondo mi sorride? Non è deludente? Transitoria, corruttibile, mortale? Non è forse temporanea, cangiante, passeggera? Non porta più delusione che diletto? Perché dunque, anche in seno a questa prosperità, le mie lacrime non sarebbero il mio pane? Perché, anche quando la felicità di questo mondo brilla intorno a noi in tutto il suo splendore, finché siamo in questo corpo, noi viaggiamo lontano da Dio (II Cor. V, 6). Ed ogni giorno mi si dice: « dov’è il vostro Dio »? Costui mi mostra il suo Dio col dito, stende il suo dito verso qualche pietra e dice: ecco il mio Dio, « … dov’è il vostro Dio? » Se io rido di questa pietra, e se colui che me l’ha mostrata arrossisce, egli distoglie lo sguardo da questa pietra, guarda il cielo, e mostrando col dito forse il sole, dice ancora: ecco il mio Dio, « dov’è il vostro Dio »? Egli trova quel che può mostrare ai suoi occhi di carne; dal mio canto, non è che io non abbia nulla da mostrargli, ma egli non ha gli occhi con i quale vedere ciò che potrei mostrargli. Egli ha potuto mostrare il sole, che è il suo “dio”, ai miei occhi di carne, ma con quali occhi mostrargli Colui che ha fatto il sole? (S. Agost.). – Talvolta le lacrime non hanno una causa precisa: ci sono lacrime in tutto l’universo, ed esse ci sono così naturali, benché non abbiano causa, esse colerebbero senza causa, per il solo fascino di questa ineffabile tristezza di cui la nostra anima è pozzo profondo e misterioso. (Lacord. I, Conf. T. 1, p. 47). – Si piange come il bambino nella culla, senza saperne il perché; si piange perché si è esiliati, e nell’esilio il sentimento della patria bagna le palpebre, anche quando non ci sia un ricordo distinto e presente. Si piange perché nulla ci soddisfa completamente: il miglior latte contiene un misto di assenzio, il vino più dolce possiede delle gocce di amarezza. Chi mi dirà la causa di queste lacrime? « … è – scrive Bossuet – quel che non si può dire ». Non è vero, prendendo in altro senso il pensiero di Virgilio, che ci sono dappertutto lacrime nelle cose, « sunt lacrymæ rerum ». – Ci sono lacrime più preziose, più feconde, lacrime divine, che sembrano cadere dal cielo nel cuore dell’uomo. Sono le lacrime di un cuore amante, di un cuore che è proteso al cuore di Dio, e che piange perché Lo ama. Non ne abbiamo mai versate di queste lacrime profumate, … come le chiama santa Caterina? Ne avremmo dovuto spargere se non altro all’epoca della nostra prima Comunione, dopo un ritiro, in una orazione fervente, in quei giorni di luce inopinata in cui Dio sembra voler entrare bruscamente nel nostro cuore? E non parlo solo delle lacrime esteriori; quello che voglio specialmente designare, sono le lacrime misteriose che scendono nel silenzio di un cuore liquefatto d’amore, lacrime immateriali, invisibili, che gli Angeli appena percepiscono, ma che Dio distingue e riceve con gioia, come la più pura essenza dell’anima! Siete Voi che io saluto, che vorrei poter adorare come questo liquore balsamico che fuoriesce da certe piante nei paesi orientali! Voi ne discendete sempre: non è necessario che il tronco che vi contiene sia tagliato col ferro, è sufficiente solo che le sue foglie siano agitate dalla più leggera brezza d’amore (Mgr. Landriot, Béat. Ev. XVIII Conf.).

ff. 4. –  Tuttavia, a forza di sentir dire ogni giorno: « dov’è il vostro Dio? », a forza di nutrirmi tutti i giorni delle mie lacrime, io ho meditato giorno e notte su tutto ciò che ho inteso: « … dov’è il vostro Dio »? Io ho anche cercato il mio Dio, per non essere ridotto a credere solo in Lui, ma per vederlo in qualche modo, potendo. Io vedo in effetti ciò che ha fatto il mio Dio, ma Egli che ha fatto tutte queste cose, io non Lo vedo. Ma poiché sospiro come il cervo presso le fonti d’acque; poiché il mio Dio è la sorgente della mia vita; infine poiché le meraviglie invisibili di Dio siano comprese e percepite con l’aiuto delle meraviglie visibili che Egli ha creato (Rom. I, 30), cosa farò per ritrovare il mio Dio? Io consideravo la terra, la terra che Egli ha creato. Grande è la bellezza della terra, ma la terra ha Qualcuno che l’ha fatta; grandi sono le meraviglie delle semenze e delle generazioni, ma tutte queste cose hanno un Creatore. Io contemplo l’immensità dei mari che circondano le terre: io sono stupefatto, ammiro e cerco Chi le abbia fatte. Alzo i miei occhi al cielo verso la magnificenza degli astri: ammiro lo splendere del sole che produce il giorno, e la luna, che consola le tenebre della notte; tutte queste cose sono meravigliose, sono degne di ogni lode, o piuttosto confondono il nostro spirito: esse non appartengono più alla terra, essendo delle cose tutte celesti; e pertanto la mia sete non si arresta ancora là: io ammiro queste bellezze, le lodo, ma io ho sete di Colui che le ha fatte. (S. Agost.). – « Io ho allargato l’anima mia al di sopra di me stesso », e non mi resta più nulla da desiderare se non il mio Dio. In effetti è là, al di sopra della mia anima, che è la casa del mio Dio. Là Egli abita, da lì mi vede, da lì mi ha creato, da lì mi governa, provvede ai miei bisogni, da lì mi chiama, mi dirige, mi conduce, mi volge al porto. Ora, Colui che possiede nel più alto dei cieli una casa invisibile, ha anche una tenda sulla terra. La sua tenda sulla terra è la sua Chiesa, ancora in cammino. È là che bisogna cercarlo perché nella tenda si trova la strada che porta alla casa. In effetti, quando ho allargato la mia anima al di sopra di me, per raggiungere il mio Dio, perché l’ho fatto? « Perché io entrerò nel luogo del tabernacolo ». In effetti, fuori dal luogo del tabernacolo, io non potrei che ingannarmi cercando il mio Dio. « perché io entrerò nel luogo del tabernacolo meraviglioso, fino alla casa di Dio ». Nel presente, in effetti, io ammiro molte cose nel tabernacolo. Quali incomparabili meraviglie ammiro in questo tabernacolo! Perché il tabernacolo di Dio sulla terra, è formato dagli uomini fedeli. Io ammiro in esso la maniera in cui i loro membri sono loro sottomessi, perché il peccato non regna in essi per asservirli al desiderio del male e perché non abbandonino i loro membri al peccato, come strumento di iniquità, ma li offrano al Dio vivente con le loro buone opere. (Rom. VI, 12). – Io ammiro quando l’anima serve Dio, come i membri del corpo combattono per Dio; io vedo l’anima stessa obbedire a Dio, che regola le opere che devono compiere, frenando le cupidigie, respingendo l’ignoranza, procedendo nelle più dure e penose sofferenze, trattando gli altri con giustizia e carità. Ammiro anche queste virtù nell’anima, ma io non sono che nel luogo del tabernacolo. Io passo oltre, e per quanto mirabile sia questo tabernacolo, io sono stupefatto quando giungo alla casa di Dio (S. Agost.). – « In mezzo ai canti di allegrezza e di lode, in mezzo ai concerti che celebrano la gioia delle feste ». Quando in mezzo a noi si celebra qualche splendida festa, vi è l’abitudine di riunire, davanti casa, dei suonatori di strumenti, dei cantori, dei musicisti utilizzati nelle feste per eccitare al piacere, e quando noi li ascoltiamo, cosa diciamo passando? Cosa si fa là? E ci si risponde: vi si celebra una nascita o le nozze, di modo che questi canti non sembrano inopportuni ed il piacere trovi la sua scusante nella festa che vi si celebra. Nella casa di Dio c’è una festa continua. In effetti, non vi si celebra nulla che sia passeggero. La festa eterna è celebrata dai cori degli Angeli; e il viso di Dio, visto allo scoperto, causa una gioia che nulla può alterare. Nessun inizio c’è a questo giorno di festa, nessuna fine che possa concluderlo. Da questa festa eterna e continua sfugge non so qual suono che giunge dolcemente alle orecchie del cuore senza che si mescoli a nessun brusio umano. L’armonia di questa festa incanta l’orecchio di colui che cammina in questa tenda e che contempla le meraviglie che Dio ha operato per la redenzione dei fedeli; ed essa conduce il cervo verso le sorgenti delle acque. (S. Agost.).

III. — 5-11.

ff. 5. – Benché talvolta noi perveniamo, camminando sotto l’impulso del desiderio che dissipa le nubi intorno a noi, ad intendere questi suoni divini, in modo da percepire con i nostri sforzi, qualcosa della casa di Dio, ciò nonostante, attratti per i piedi dalla nostra debolezza, ricadiamo ben presto nelle nostre abitudini e ci lasciamo introdurre alla nostra vita scostumata. Ed anche quando nell’avvicinarci a Dio, noi abbiamo trovato la gioia, ricadendo sulla terra, troveremo di cosa gemere. In effetti, questo cervo, questo giusto che mangia la sue lacrime notte e giorno, e che è guidato dal suo desiderio verso le sorgenti dell’acqua, cioè verso le dolcezze interiori di Dio che espande la sua anima sopra di lui, e marcia nel luogo di questa mirabile tenda fino alla casa di Dio, condotto dalle delizie del canto interiore che ha compreso, quand’anche giunga a disprezzare tutte le cose esteriori e a non desiderare che le cose interiori, questo giusto non è ancora che soltanto un uomo; egli ancora geme qui in basso, porta ancora una fragile carne, è ancora in pericolo in mezzo agli scandali del mondo. Egli ha dunque gettato uno sguardo su se stesso, ritornando per così dire nelle sue altezze; egli ha comparato le tristezze in mezzo alle quali si trova con le meraviglie che ha intravisto entrando nella casa di Dio, e che ha lasciato uscendone; e si sente dire: « … Anima mia, perché sei triste, e perché mi turbate? ». Ecco che già abbiamo gioito di una certa dolcezza interiore; ecco che nella parte più elevata del nostro spirito, noi abbiamo potuto intravedere, benché succintamente e di sfuggita qualche cosa di mirabile; perché dunque mi turbate ancora? Perché ancora siete triste? In effetti voi non avete dubbi circa il vostro Dio; non siete privo di risposte contro coloro che dicono « … dov’è il vostro Dio »? Ho già pregustato ciò che è immutabile; perché ancora mi turbate? « Sperate in Dio ». E la sua anima gli risponde in segreto: perché mi turbate, se non perché io non sono in questa dimora dove si gusta questa dolcezza e in seno alla quale io già sono stata trasportata come di passaggio? È che ora che io beva a questa sorgente senza nulla temere? Cosa fare al presente per non temere alcuno scandalo? Sono forse al presente in sicurezza contro le mie cupidigie? Il demonio, mio nemico, non tende tutti i giorni contro di me perfide insidie? E non volete che io mi turbi mentre sono nel mondo, ancora esiliato dalla casa di Dio? Allora, alla sua anima che lo turba e che gli chiede conto, per così dire, di queste turbe, esponendogli i mali di cui è pieno il mondo, egli risponde: « Sperate in Dio ». Aspettando, aspettate quaggiù nella vostra speranza; « perché la speranza delle cose che si vedono, non è più una speranza; ma se speriamo ciò che non vediamo, noi lo attendiamo con pazienza » (Rom. VIII, 24S. Agost.). – Diversi sono i tipi di tristezza: la tristezza di questo mondo, che proviene dal dolore di aver perso i beni del secolo; dell’attaccamento vivo a questi beni putrescenti; dell’impotenza nel non vedersi soddisfatte le passioni: è questa una tristezza criminale che ci accomuna agli empi e produce la morte. – Tristezza nell’umore, nell’aspetto, di disgusto delle cose di Dio, di turbamento e di inquietudine: tristezza imperfetta e talvolta dannosa. – Tristezza secondo Dio, che viene dal fatto che il giusto, persecutore irreconciliabile delle proprie passioni, si trova ancora perseguitato dalle ingiuste passioni degli altri. – Tristezza secondo Dio che « riempie il cuore dei fedeli », quando sui fiumi di Babilonia ed in mezzo ai beni passeggeri, essi sentono i loro esilio e piangono ricordando Sion, la loro cara patria. – Tristezza secondo Dio che soprattutto produce, dice l’Apostolo, una stabile penitenza; tristezza santa e salutare, semenza di gioia divina e di salvezza eterna (Dug. e Bossuet: Trist. des enf. de Dieu).

ff. 6. –  « La mia anima è turbata in me ». È turbata in Dio? Essa è turbata in me, essa è alleviata in Colui che è immutabile; essa è turbata in me, che sono soggetto a cambiamenti. Io so che la giustizia di Dio è stabile, io non so se la mia sia durevole, perché l’Apostolo San Paolo non sbaglia quando dice: « … colui che crede di essere in piedi, prenda cura di non cadere » (I Cor. X, 12). Dunque, poiché non mi piace impormi, io non pongo in me la mia speranza, e non amo essere in me turbato. Volete che essa non sia turbata? Che non resti in voi, dite al contrario: « Signore io ho elevato la mia anima a Voi » (Ps. XXIV, 1). Non riponete dunque la vostra speranza in voi, ma nel vostro Dio; perché se la mettete in voi, la vostra anima è turbata, poiché non trova in voi motivo di sicurezza. Dunque, poiché la mia anima è turbata in me, cosa mi resta se non di essere umile per evitare ogni presunzione? Cosa mi resta se non occupare l’ultimo posto; se non umiliarmi per essere elevato, se non nulla attribuirmi, affinché Dio mi doni ciò che mi è utile. Dunque, perché la mia anima in me è turbata, è l’orgoglio che produce questo turbamento, «a causa di ciò, io mi sono ricordato di voi, mio Signore, dalle rive del Giordano e dalla piccola montagna dell’Hermoniim ». Dove mi sono ricordato di voi? Da una piccola montagna e dalle rive del Giordano. Forse è dal Battesimo, ove si trova la remissione dei peccati? Nessuno in effetti corre alla remissione dei peccati, se non colui che si confessa peccatore, e nessuno si confessa peccatore se non umiliandosi davanti a Dio (S. Agost.).

ff. 7, 8. – Ecco l’espressione figurata per esprimere la grandezza delle afflizioni paragonate a tracimazioni d’acqua che si susseguono continuamente le une alle altre. – Orbene, secondo i Santi Padri, l’abisso della miseria degli uomini, attira l’abisso della misericordia. Nel senso opposto l’abisso della malizia del cuore umano attira l’abisso della giustizia divina. – O ancora, la profondità impenetrabile del cuore dell’uomo, richiede la profondità infinita della scienza di Dio stesso che sonda, come si dice, i reni ed il cuore di tutti gli uomini (Duguet). – Quando i flutti del mare si sollevano e minacciano una prossima morte, coloro che si vedono sul punto di essere ingoiati dalle furiose ondate, non sono più toccati da nessuna preoccupazione della terra, né dai piaceri dei sensi. Essi gettano fuori dal vascello tutte le cose per le quali hanno attraversato i mari, ed il desiderio di salvare la loro vita fa sì che considerino un nulla ciò che stimavano di più. È quel che succedeva al Profeta, quello che succede tutti i giorni alle anime afflitte che si trovano avvolte sotto i flutti della giustizia di Dio. Esse sono insensibili a tutto ciò che accade nel mondo, a tutti i vani piaceri del secolo (Idem). – Dopo che saranno passate queste grandi acque e questi orribili abissi, il Signore invia, nel giorno della prosperità, la sua misericordia nel visitarci e nel consolarci. È un bel giorno questo che sorge dopo una notte oscura. Questo felice cambio arriva per coloro che sono fedeli a Dio nel tempo dell’afflizione e che, in luogo di piangere e mormorare durante la notte della desolazione, Gli cantano un cantico di azioni di grazie.

ff. 9. 11. – « In me è la mia preghiera, etc. …»: io non andrò in effetti a comprare al di là dei mari le suppliche che devo fare a Dio; o, perché Dio mi esaudisca, non navigherò più in paesi lontani, per riportarne l’incenso ed i profumi; io non prenderò dal mio gregge delle vittime per offrirgliele in sacrificio: « in me è la mia preghiera al Dio della mia vita ». Io ho dentro di me la vittima da immolare, ho dentro di me l’incenso da offrire, io ho dentro di me il sacrificio per placare il mio Dio (S. Agost.). – « Dov’è il tuo Dio? ». Questa domanda ironica degli empi è ripetuta due volte in questo Salmo, e si sente che è una delle prove più difficili alle quali la pietà possa essere esposta. La più grande pena di Giobbe e di Tobia era questa domanda insolente che veniva loro rivolta all’apice della loro sofferenza: dov’è dunque il vostro Dio? Dove la vostra speranza? Dove sono le vostre elemosine? Gesù-Cristo ha voluto essere così l’oggetto di simili beffe: « … ha posto la sua fiducia in Dio, che Dio lo liberi se Lo ama ». Il mondo non cessa di utilizzare verso i servi di Dio quest’arma del sarcasmo e del ridicolo. Occorre prepararsi di buon ora a questo genere di combattimento, ove si trionfa solo con un’umile pazienza e con profondo sentimento dell’onore cristiano. Chi teme Dio sfida tutte le altre paure; chi spera in Dio disprezza tutte le altre speranze. Contro un tale uomo, il mondo è disarmato (Rendu). – Cosa mi interessano l’ignoranza, il disprezzo di questi beffardi di professione che mi dicono tutti i giorni: « … dov’è il vostro Dio? », dov’è la vostra aspettativa? Chi considera la vostra pazienza? Cosa è diventata la promessa del suo avvento? Cosa importano le loro risate e le loro negazioni, lasciamo loro i dubbi e le oscurità, i loro ristretti orizzonti, le loro aspirazioni limitate alla terra, il loro spirito che si imprigiona nei tempi, il loro cuore vuoto di Dio, la loro anima chiusa alla speranza, la loro vita cupa e desolata che si svolgerà con inutili rimpianti. Ma noi che abbiamo lo sguardo più fermo, che davanti abbiamo le più ampie prospettive, conserviamo la nostra fede e la nostra fiducia in Dio, e le nostre speranze eterne, con la parte migliore e più pura del genere umano (Mgr. Freppel). – Ah, senza dubbio, i nostri occhi, come quelli del Re-Profeta, si bagnano di lacrime a queste parole di insulto e di incredulità, ma queste lacrime, noi le riversiamo su di loro, perché essi non conoscono nulla del destino sublime dell’uomo, … non vedono nulla al di là della corruzione della morte e della polvere delle tombe; noi piangiamo su di essi, perché sono completamente estranei a questa alleanza spirituale che Dio ha voluto contrarre con gli uomini, perché essi sono senza speranze circa i beni promessi e come senza Dio in questo mondo; sono queste delle anime vuote di fede, legate alle loro basi, aperte solo al tumulto dei sensi ed al delirio delle passioni: noi piangiamo su di essi, perché quale spettacolo più deplorevole che vedere delle anime immortali dire a Dio: « … io non voglio la vostra immortalità; io amo piuttosto la morte, il niente ». Ma nello stesso tempo noi espandiamo la nostra anima fuori da noi stessi, e diciamo: noi passeremo un giorno nel luogo di questo tabernacolo mirabile, fino alla casa di Dio. Perché dunque, anima mia, ti rattristi per le loro beffe, e perché mi turbi? La testimonianza dei morti prova qualcosa contro i viventi? Cosa fa a noi Cristiani, l’essere accusati di illusione, di credulità, di vana speranza, da uomini che non hanno né la fede, né il senso delle cose di Dio? Sanno essi su cosa riposano le nostre speranze? Conoscono i fondamenti incrollabili della nostra credenza dell’immortalità? Possono farne delle congetture? Chi dice loro che siamo vittime di un miraggio ingannatore, che fissiamo gli occhi su queste sponde immortali come verso il termine della nostra traversata in questo mondo? Essi non sanno che la croce di Gesù-Cristo ci ha aperto queste immense regioni che noi percorriamo con passo fermo sotto la condotta dello Spirito di Dio; essi non sanno che la croce di Gesù-Cristo, ha unito questi due termini così lontani: la terra con il cielo; essi non hanno inteso come questa voce del cielo che ci ha detto: « … Beati coloro che muoiono nel Signore! » Da allora, dice lo Spirito Santo, essi si riposano dai loro lavori, perché le loro opere li seguono (Apoc. XIV, 13). – « Spera in Dio, anima mia, perché è Egli mia salvezza e mio Dio ». (Serm.)

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: 2 OTTOBRE, FESTA DEGLI ANGELI CUSTODI

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

[Da: I Sermoni del Curato d’Ars, trad. it. di Giuseppe D’Isengard, vol. IV, Torino, libreria del Sacro Cuore – 1907]

2 Ottobre.

FESTA DEI SS. ANGELI CUSTODI.

“Angeli eorum in cœlii semper vident faciem Patris mei, qui in cœlis est”

Gli Angeli di questi fanciulletti veggon continuamente il volto del mio Padre celeste.

(S. MATTEO XVIII, 10).

Qual bontà, miei fratelli, e qual tenerezza da parte di Dio! Non contento d’averci dato il suo Figliuolo unigenito, l’unico oggetto delle sue compiacenze, per sacrificarlo alla morte più crudele; non contento d’averci strappato alla tirannia del demonio, e averci chiamati alla gloriosa qualità di figli di Dio e scelti coeredi del suo regno, vuol di più mandare a ciascun di noi un Angelo dal cielo che ci custodisca in tutti i giorni della nostra vita. Quest’Angelo non deve abbandonarci, se prima non è comparso con noi dinanzi al tribunale di Gesù Cristo per rendergli conto di tutto ciò che avremo fatto. Sì, miei fratelli, gli Angeli nostri custodi sono i nostri amici più fidi, perché stanno con noi giorno e notte, in ogni tempo e in ogni luogo. La fede c’insegna che li abbiam sempre a fianco; il che fece dire a David, « che nulla ci potrà nuocere, poiché il Signore ha comandato ai suoi Angeli d’aver cura di noi » (Ps. XC, 11); e per far intender quanto sia grande la cura che hanno di noi, il profeta dice che ci portano tra le lor mani, come la madre porta il suo figlioletto. Ah! Dio previde i pericoli innumerevoli, a cui saremmo esposti sulla terra, tra tanti nemici che cercano tutti la nostra perdita. Sì, miei fratelli, i nostri Angeli custodi ci consolano nelle pene, ci avvertono quando il demonio ci si accosta per tentarci, presentano a Dio le nostre preghiere e tutte le nostre opere buone, ci assistono all’ora della morte e presentano le nostre anime al Giudice supremo. Oh! fratelli miei, quanti beni riceviamo pel ministero dei nostri buoni Angeli custodi. Per eccitarvi ad avere in essi grande fiducia, vi dimostrerò: 1° Quanto gran cura si pigliano di noi; 2° che cosa dobbiam fare per attestar loro la nostra riconoscenza.

I. — Voler dimostrare, fratelli miei, che esistono Angeli, sarebbe un perditempo. Fin dai primi giorni del mondo il commercio degli Angeli cogli uomini è così frequente, che la santa Scrittura ne fa menzione ad ogni momento. Bisognerebbe non aver ombra di buon senso per poterne dubitare. Quando Adamo era nel paradiso terrestre, il Padre celeste gli mandò i suoi Angeli per comunicargli i suoi voleri. Quando Adamo sgraziatamente peccò, un Angelo lo scacciò dal Paradiso, (Genesi III, 24 – dice, sì, che Dio pose un cherubino alla porta del paradiso terrestre, poiché Adamo ne fu cacciato; ma non parla punto delle comunicazioni precedenti del primo uomo cogli Angeli buoni. – Nota degli editori francesi). Quasi tutti i patriarchi e i profeti dagli Angeli vennero informati dei voleri del Signore. Vediamo anzi spesso Dio farsi rappresentare dagli Angeli. — Ma, direte forse, se si vedessero, si avrebbe in essi maggior confidenza. — Se ciò fosse stato necessario alla salute della nostra anima, Dio li avrebbe resi visibili. Ma ciò importa poco, perché nella nostra Religione conosciamo per via di fede, e ciò avviene perché tutti i nostri atti sian meritori. D’altra parte siam certi della loro presenza, come se li vedessimo cogli occhi nostri. Se desiderate sapere il numero degli Angeli e i loro uffici, vi dirò che sono innumerevoli; gli uni sono stati creati per onorare Gesù Cristo nella sua vita nascosta, sofferente e gloriosa, o per essere custodi degli uomini, senza cessar tuttavia di godere della divina presenza (« Angeli eorum (parvulorum sive hominum) in cœlis semper vident faciem Patria mei, qui in cœlis est». – S. MATTEO XVIII, 10). Altri sono occupati a contemplare le perfezioni di Dio e vegliano alla nostra conservazione, assicurandoci tutti i mezzi necessari per la nostra santificazione. Sebbene Dio solo basti a tutto, pure si vale del ministero degli Angeli pel governo del mondo. Alcuni sono costituiti protettori dei regni, altri degli imperi, ecc. Se consideriamo quanta cura ha Dio della nostra vita, dovremo concluder che l’anima nostra è pur qualche cosa di grande e prezioso, dacché a conservarla e santificarla si serve di quanto è nella sua corte di più grande. Ci ha dato il suo Figliuolo per salvarci. E il suo Figliuolo poi dà il suo Corpo e il suo Sangue a nutrimento delle anime nostre, si adatta a rimanere notte e giorno in mezzo a noi, e a ciascun di noi dà uno o anche parecchi Angeli, solo occupati di chiedergli per noi le grazie e gli aiuti necessari alla nostra salvezza. Non è vero, fratelli miei, che non abbiamo mai pensato bene a quel che siamo, a quel che vale l’anima nostra? Oh! quanto poco l’uomo conosce che cos’è e per qual fine fu creato!… Leggiamo nella santa Scrittura che il Signore diceva al suo popolo: « Vi manderò il mio Angelo, perché vi guidi in tutti i vostri passi » (Es. XXIII, 20). Oh! miei fratelli, chi potrà numerare le grazie che riceviamo per la protezione dei nostri Angeli custodi? Sì, essi ci consolano nelle afflizioni. Quando Agar, dice la Scrittura, fu cacciata dalla casa del suo padrone, si ritirò in un deserto, e siccome quivi s’abbandonava alla tristezza, il Signore le mandò un Angelo che la consolasse e le dicesse: « Non ti lasciar andare alla disperazione, ma torna alla casa del tuo padrone, e sii più sottomessa » (Gen. XVI, 9).Un Angelo fu mandato dal Signore a Lot per dirgli che uscisse subito dalla città di Sodoma, prima che il Signore vi facesse cadere il fuoco dal cielo (ib. XIX). Gli Angeli preservarono dalle fiamme i tre giovanetti nella fornace di Babilonia (Dan. III), e chiusero le fauci dei leoni per impedir loro di divorare Daniele profeta (ibid. VI, 22).Gli Angeli, fratelli miei, sono ben lieti di assisterci nelle cose nostre, se queste sono secondo il beneplacito di Dio: e ne abbiamo un bell’esempio nella persona del giovine Tobia. Suo padre lo mandò a Bages per richiedere il suo denaro: non conoscendo la via, Dio gli mandò l’arcangelo Raffaele, che gli si presento sotto l’aspetto d’un giovine (Tob. V, 5). Tobia gli chiese, se conosceva la strada per andare a Bages. L’Angelo rispose che la conosceva, e conosceva anche Gabelo presso il quale doveva andare. Il giovane, lietissimo, corre a dire al padre che aveva trovato un uomo che sapeva la via per Rages e conosceva Gabelo. L’Angelopartì dunque con Tobia, e gli diede tutte le intormazioni necessarie pel suo viaggio. Durante il cammino, essendo Tobia andato sulle sponde del Tigri, parve che un pesce enorme venisse contro di lui per divorarlo. Ricorse subito al suo protettore senza sapere che fosse un Angelo; e questi gli disse: « Non temere, ma tiralo a te ». E tosto il pesce morì. Gli disse pure: « Prendi il fiele e portalo teco: ne fregherai gli occhi del padre tuo, e così gli renderai la vista ». Lo condussepoi presso Raguele, suo parente, ove tutto si conchiuse pel meglio. Gli salvò anche la vita incatenando il demonio. Tornati che furono, il giovine Tobia, non sapendo come compensare tanti benefizi, disse a suo padre: « Padre mio, quando pur dessimo alla mia guida la metà di quanto abbiamo portato, non basterebbe in ricompensa di tutti i servigi che m’ha reso nel viaggio: m’ha condotto e ricondotto sano e salvo, m’ha liberato da un mostro che stava per divorarmi, ha riscosso egli in persona il denaro che Gabelo ci doveva, m’ha fatto prendere in moglie una donna secondo il cuore di Dio, finalmente ha impedito al demonio di darmi la morte, come ai sette mariti ch’essa aveva sposato prima di me ». Or volendo il padre fargli accettare la metà di quanto avevano portato, l’Angelo si fece conoscere e disparve. Essi poi, per mostrare a Dio la loro riconoscenza, stettero lungo tempo prostrati con la faccia per terra. Vedete, fratelli miei, quanta cura hanno gli Angeli di noi, se abbiamo in essi confidenza?… Della protezione del nostro angelo custode abbiamo pure un bell’esempio in S. Agnese, vergine e martire (RIBADENEIRA al 21 di Gennaio). Siccome apparteneva a una grande famiglia romana, fu chiesta in isposa da Procopio, figlio di Sinfronio, allora prefetto della città. Agnese, che s’era già data a Gesù Cristo, rifiutò tal partito, sebbene per lei vantaggioso. E non temette di dire a Procopio, venuto in persona a visitarla: « Ritirati, tiranno, stimolo di peccato, pietra di scandalo e pascolo di morte, e non pensare ch’io voglia essere infedele a Gesù Cristo, mio sposo. Il mio cuore è tutto suo: Egli è buono, è bello, ha quanti pregi possono desiderarsi ». Il prefetto la fece chiamare e la scongiurò a non ricusare di maritarsi al suo figliuolo; che, se rifiutasse, la farebbe trascinare in un luogo infame, ove perderebbe quella purezza che le stava tanto a cuore di conservare. Agnese rispose al prefetto: «Non v i affannate: non temo nulla: ho mio custode un Angelo, che avrà cura di me, e in maniera prodigiosa prenderà la mia difesa ». Vedendo che non poteva conseguire il suo scopo, il magistrato ordinò che fosse spogliata delle sue vesti, e trascinata così per tutta Roma per esser poi data in balìa dei libertini. Per un miracolo dell’onnipotenza di Dio i suoi capelli crebbero a segno, che bastarono a coprire il suo corpo. Arrivata al luogo infame, il suo Angelo custode le si fece vedere visibilmente per difenderla e ricoprirla d’una veste candida come la neve; e in pari tempo, quell’antro di impurità fu illuminato da una luce più splendente che il sole. I libertini entrarono là; ma, stupiti di tante meraviglie, e colpiti di spavento vedendo quell’Angelo d’incomparabile bellezza, tutti si convertirono. Procopio volle venire alla sua volta a sfidar tutti quei prodigi; ma l’Angelo che custodiva Agnese, lo colpì e cadde morto a’ piedi della santa. Il prefetto della città, informato che suo figlio era morto in quel luogo infame, venne da Agnese maltrattandola « qual furia uscita dall’inferno, mostro nato a perdizione de’ mortali ». Agnese rispose che non essa aveva fatto morir Procopio, ma egli stesso con la sua sfrontatezza era stato causa della propria morte. Perciò il suo Angelo custode l’aveva colpito quando appunto stava per rapirle il tesoro della sua purità. Tuttavia la santa, volendo far conoscere al magistrato la potenza del suo sposo, e mostrargli che i Cristiani sapevano rendere ben per male, risuscitò Procopio, che corse per tutta Roma, ripetendo senza posa che il Dio de’ Cristiani era il solo vero Dio.. . Quest’esempio dimostra quanto grandi aiuti e quante grazie riceviamo dai nostri buoni Angeli custodi, seppure abbiano la buona sorte d’avere in essi grande fiducia, soprattutto nelle tentazioni e nei pericoli… Ma, direte forse, quand’è che Dio ci manda dal cielo i nostri Angeli custodi? — Appena le nostre anime son create, fratelli miei, ossia appena i nostri corpi sono in tal condizione da poterli ricevere, sicché una madre incinta ha il proprio angelo custode ed anche quello del figliuolo che porta nel suo seno, il quale veglia perché nulla possa togliergli la vita prima che abbia ricevuto il santo Battesimo. Bisognerebbe esser capaci d’intendere, fratelli miei, quanto sia grande la gioia de’ nostri Angeli custodi, quando siam portati alla chiesa per ricevere il santo Battesimo. Con qual gioia scrivono il nostro nome nel libro della vita! È fuor d’ogni dubbio che abbiamo intorno gran quantità di demoni per farci cadere in peccato; e se l’Angelo custode non fosse accanto a noi per difenderci, soccomberemmo ad ogni assalto che il demonio ci muove. L’Angelo nostro custode ci fa scorgere la tentazione; egli c’ispira ad invocare l’aiuto di Dio, e ci richiama alla mente il pensiero della sua santa presenza per farci temere il peccato. Se sgraziatamente vi cadiamo, i nostri Angeli custodi vanno a gettarsi a’ piedi di Dio e gli domandano grazia per noi. Infatti dopo ogni peccato sentiamo d’ordinario il rimorso d’aver fatto male, e promettiamo a Dio di non più ricadervi. Senza dubbio l’Angelo custode, con le sue preghiere, ci ottiene questa grazia. Se ci vede insensibili alle offese che abbiam fatto a Dio, ci minaccia i castighi della divina giustizia: ci fa pensare alla morte e al rammarico che avremo in quell’ora d’aver fatto male. Ci fa pensare a qualche morte subitanea o spaventosa. Il pensiero del giudizio c’incalzerà, e quello dell’inferno ci si fisserà nel cuore a straziare l’anima nostra, e così ci costringerà in certo modo a non rimaner più a lungo in peccato. – I nostri Angeli custodi, fratelli miei, ci accompagnano dappertutto. È narrato nella storia che un giovane vedeva in modo sensibile il suo Angelo custode. Quando entrava in chiesa l’Angelo vi entrava sempre prima di lui. Appena fu prete, l’Angelo non volle più passare pel primo; si vedeva talora quel sacerdote parlare e rimaner lungo tempo sulla porta. Gli si domandò perché. « Prima ch’io fossi prete, rispose, il mio Angelo sempre mi entrava innanzi; ora non vuol entrar più, se io non entro pel primo » (HAMON, Vita di S. Francesco di Sales, T. I , p. 468). Ah! fratelli miei, se quando veniamo in chiesa ricordassimo che i nostri Angeli custodi ci precedono, con qual rispetto vi verremmo! Con qual modestia assisteremmo alla santa Messa, pensando che abbiamo a fianco un Angelo custode prostrato dinanzi al Dio di ogni grandezza! Con qual sollecitudine l’incaricheremmo di offrire a Gesù Cristo le nostre preghiere! Si narra pure che un giovane prìncipe inglese aveva abbandonato il suo palazzo per ritirarsi in un deserto. Dio, per mostrargli quanto ne fosse contento, gli concesse la lieta sorte di vedere ogni mattina ed ogni sera il suo Angelo custode. Di S. Francesca (Romana) si racconta che vedeva continuamente il suo Angelo custode in forma d’un fanciullo d’incomparabile bellezza, il cui volto era così risplendente che spesso di notte alla luce ch’esso spandeva poteva leggere il suo ufficio. L’Angelo era così sollecito di condurla alla perfezione, che, se nella sua solitudine per un momento si fosse lasciata andare a pensieri inutili, o le fosse sfuggita nella conversazione una parola oziosa, ei le faceva conoscere la sua colpa con lo sparire. Allora, tutta piena di confusione e di dolore per avere allontanato da sé il suo fedele custode, piangeva amaramente, pregando Iddio ad aver pietà di lei e promettendogli di correggersi. Dopo aver pianto qualche poco, vedeva ricomparire il suo Angelo custode, a cui esprimeva il suo cordoglio per averlo costretto ad allontanarsi. Se avveniva che chi era con la santa le dicesse qualche parola che potesse ferire anche menomamente la carità, manifestava la pena che ne sentiva, coprendosi il volto con le mani (RIBADENEIRA, al 9 marzo) … Fratelli miei, quantunque noi non vediamo, come lo vedeva questa santa, il nostro Angelo custode, pur siamo egualmente certi d’averlo vicino a noi per vegliare alla conservazione dell’anima nostra. Ohimè! di quali torture e di quali amarezze dobbiamo abbeverarlo conducendo vita così perversa! Che cosa deve pensare l’Angelo custode di chi non fa Pasqua, né si confessa? O d’una persona avanzata in età che si avvoltola continuamente nel peccato dell’impurità? Ah! mio Dio, se gli Angeli fossero capaci di patire, non sarebbero infelici al pari dei riprovati che ardono nell’inferno? Come mai gli Angeli, così puri, possono restare vicini a questi infami? Gli Angeli sì caritatevoli possono rimanere a fianco d’uomini vendicativi e pieni di malanimo? Gli Angeli così umili, possono accompagnare un superbo? Come può un Angelo, che ama Dio, esser felice con un empio, con un incredulo, che nega tutto e non crede a nulla? Possibile che siamo così cattivi e così ingrati verso amici così benefici, così fedeli a non lasciarci neppur per un istante? Sappiamo che i nostri Angeli custodi si danno gran pensiero di consolarci nelle nostre pene e nei nostri patimenti. – Leggiamo nella santa Scrittura (Gen. XXVIII) che Giacobbe, fuggendo il furore di suo fratello, s’addormentò lungo la via. Iddio per consolarlo gli mostrò in visione una scala, che andava dalla terra al cielo; e vedeva per essa Angeli che salivano e scendevano per offrire a Dio le nostre preghiere e riportarne le grazie da noi domandate. L’Angelo che aveva condotto e ricondotto il giovane Tobia, poiché si fu fatto conoscere disse a Tobia padre: « Quando pregavi piangendo e sepellivi i morti, io medesimo presentavo al Signore le tue opere buone » (Tob. XII, 12). Nella vita di S . Nicola da Tolentino (RIBADENEIRA, al 10 settembre) si narra che, ne’ due mesi della sua malattia, quattro Angeli stavano tutta la notte nella sua stanza, e cantavano sì dolce melodia che gli faceva dimenticare i suoi patimenti. Gli ultimi sei giorni prima della sua morte vi stettero giorno e notte: e quanti ebbero la bella sorte d’entrar nella sua camera, ebbero pur la consolazione d’udirne il canto. Gli angeli condussero seco l’anima sua in cielo. Mentre S. Liduina pativa atrocissimi dolori, le apparve un Angelo di sì grande bellezza che dimenticò le sue sofferenze (RIBADENEIRA, al 14 di Aprile). Possiam dire che gli Angeli si dilettano di renderci tutti i servigi di cui sono capaci, e che sta loro grandemente a cuore di farci aver parte alla loro felicità. Per essi vi è tra cielo e terra un santo commercio. Dio si servì spesso del ministero dei santi Angeli nei più importanti avvenimenti. Per mezzo loro istruiva i patriarchi e i profeti, per mezzo loro parlava al suo popolo. Leggiamo nella santa Scrittura che il Signore mandò il suo Angelo per dire in suo nome agli Israeliti: « Vi ho tratto fuori dall’Egitto e vi ho fatto entrare nella terra promessa e vi ho dato parola che non vi abbandonerò mai, ma a patto che mi foste fedeli. Voi non avete voluto udir la mia voce; perché avete fatto così? E appunto a cagione delle vostre infedeltà e del niun conto che avete fatto delle mie grazie, non vi ho difeso contro i vostri nemici » (Lev. XXVI, 13-17). Gli Israeliti, udendo queste parole dell’Angelo, mandarono lamentevoli grida, e versarono molte lacrime pregandolo di aver pietà di loro e non abbandonarli. Vediamo ancora che tutti gli uomini, i quali furono grandi sulla terra, furono annunziati dagli Angeli: Un angelo annunziò la nascita di Sansone, vendicatore del popolo di Dio (Giud. XIII, 3). Un Angelo annunzio la concezione di S. Giovanni (S. Luc. I, 13). Un Angelo annunziò la concezione del Salvatore (Ibid. I, 31); un Angelo né annunziò ai pastori la nascita (Ibid. II, 19), un Angelo intimò a Giuseppe di fuggire in Egitto (S. Matth. II, 13). Un Angelo pure consolò Gesù nella sua agonia nell’orto degli olivi (S. Luc. XXII, 43), gli Angeli seppellirono ed accompagnarono il corpo della SS. Vergine dopo la sua morte. Gli Angeli accompagneranno il Signore nell’estremo giudizio (S. Matth. XXV, 31). « Ciò posto, fratelli miei, se ciascuno dev’essere onorato secondo la sua dignità, dice S. Bernardo, qual onore e qual lode non dovremo rendere ai nostri Angeli custodi, la cui natura è sì perfetta, la cui santità cosi eminente, e di cui è sì splendida la gloria? » Ma più di tutto deve muoverci a venerazione verso di essi la loro inviolabile fedeltà a Dio. La loro innocenza non fu macchiata mai neppur della macchia più lieve, il loro amore e il loro zelo rimasero sempre costantemente gli stessi. Se amassimo Dio veramente, fratelli miei, quanto ci rallegreremmo perch’Egli riceve da questi spiriti beati lodi così perfette! Ohimè! quanto imperfette sono le lodi anche di quelli tra noi che lo amano di più! Quante distrazioni nel trattenerci con Dio! Nulla invece è capace di distrarre gli Angeli dalla presenza di Dio: tanto sono assorti nella contemplazione della sua grandezza! l’anno senza interruzione risuonare le volte de’ cieli di (mesto cantico di letizia: « Santo, santo, santo il Signore Dio degli eserciti: a Lui sia reso onore, gloria ed adorazione ne’ secoli de’ secoli » (Apocalisse, IV, 8). – Dico altresì che i nostri Angeli custodi son fedelissimi a soccorrerci nelle afflizioni. Negli Atti degli Apostoli (Act. XII) leggiamo questo fatto. S. Pietro, ch’era stato imprigionato per ordine d’Erode, dormiva tra i due soldati che gli facevano guardia la notte, ed era la vigilia del giorno in cui si doveva farlo morire; ad un tratto gli appare un Angelo, lo sveglia, spezza le sue catene, egli apre le porte del carcere dicendo: « Levati su prontamente, e seguimi ». Guidato dall’Angelo, uscì di prigione, e andò a battere alla porta della casa ov’erano adunati i discepoli. Una fantesca, udita la voce di Pietro, non potendo frenar la gioia, senza aprir la porta corse ad annunziare che Pietro era là. Non le si volle credere: chi la trattava di dissennata, chi credeva che fosse un Angelo. Ma Pietro, entrato, narrò a tutti i suoi fratelli che cosa aveva fatto il suo Angelo custode per liberarlo. Vediam pure che Dio mandava spesso i suoi Angeli a dare aiuto ai martiri. Così ai quaranta martiri di Sebaste gli Angeli recarono le corone, il che fu cagione che anche colui che li custodiva si convertisse vedendo quel prodigio (RIBADENEIRA, al 10 Marzo). – Il santo re David, che conosceva quanto siano gradite a Dio le loro lodi, invitava gli angeli a lodarlo e benedirlo dicendo: « Benedite il Signore voi tutti che siete ministri delle sue volontà » (Ps. CII, 21). Seguiamo l’esempio di questo santo re, fratelli miei, e preghiamo spesso gli Angeli a lodare e adorare Dio per noi; preghiamoli di prendere vicino a Lui il nostro posto per ringraziarlo di tutte le grazie che ci ha fatto nel corso della vita. Chiediamo ad essi che preghino Iddio a mutare i nostri cuori e farne cuori tutti celesti.

II — Per meritare la buona ventura della protezione dei nostri Angeli custodi, dobbiamo invocarli spesso, rispettarli assai e soprattutto cercar d’imitarli in tutte le nostre azioni. La prima cosa, in cui dobbiamo imitarli, è il pensiero della presenza di Dio: conforme al loro esempio non perdiamolo di vista mai. Ah! fratelli miei! se avessimo questa bella sorte, quanti peccati di meno!… Infatti se fossimo ben compresi del pensiero della presenza di Dio, come potremmo trascorrere al male? Oh! quanto più gradite a Dio sarebbero le nostre virtù e tutte le nostre opere buone! Non avremmo più rispetto umano, né mire umane. Se rammentassimo sempre la presenza di Dio, come avremmo cuore di rimanere in peccato, considerando quanto facciamo soffrire Gesù Cristo? Come potremmo voler male al nostro prossimo, pensando che Dio, la cui bontà è influita, osserva, legge ed ascolta tutti i movimenti del nostro cuore? Perciò Iddio, volendo elevare ad alta perfezione il patriarca Abramo, gli disse: « Abramo, vuoi esser perfetto? Cammina alla mia presenza » (Gen. XVII, 1). Come può essere che ci dimentichiamo sì facilmente di Dio, mentre l’abbiamo sempre dinanzi! Perché non siamo pieni di rispetto e di riconoscenza verso i nostri Angeli che giorno e notte ci sono compagni? Principi della corte celeste!… O mio Dio, siam pur felici! … Ma come siam lontani dall’intenderlo! — « Son troppo meschino, direte forse, per meritarlo ! » — Non solo, miei fratelli. Dio non vi perde di vista neppur un istante, ma vi dà un Angelo che guidi continuamente i vostri passi. Oh! felicità troppo grande, ma dagli uomini troppo poco conosciuta! Dobbiamo pure imitare il loro amore verso Dio. La sua gloria sta ad essi tanto a cuore, che quando sgraziatamente cadiamo in peccato, ci precipiterebbero nel profondo dell’inferno, se Dio non proibisse loro di punirci. Vorrebbero piuttosto esser gettati in mezzo ai dannati, che spiacere a Dio anche nella minima cosa. Perciò Nostro Signor Gesù Cristo ci dice che provano immensa gioia quando un peccatore si converte (S. LUCA XV, 10). Or se la conversione d’un peccatore rallegra tutta la corte celeste, qual gioia per questi ministri di pace, fratelli miei, quando vedono regnare tra noi quella carità che li congiunge a Dio in cielo! Dobbiamo certamente aver gran divozione a tutti gli Angeli, perché tutti s’occupano della nostra salute; ma particolar divozione dobbiamo avere ai nostri santi Angeli custodi per le grandi cure che hanno di noi e il grande desiderio onde sono accesi di condurci al cielo. Non possono lasciarci soli un istante per timore che il demonio c’inganni. Oh! qual felicità e quale consolazione, quando andiamo al riposo, sapere per fede che il nostro Angelo custode veglia durante la notte a nostra conservazione, e che la passerà tutta intera a pregare per noi! Qual gioia sapere che, quando usciamo di casa, non siamo mai soli per via! Gli antichi avean sì vivo il pensiero delia presenza degli Angeli custodi, che non salutavano alcuno senza insieme salutare il suo Angelo custode; e di qui viene pure l’antica usanza di dire ad una persona, quantunque sola: Saluto voi e la compagnia! Qual compagnia, se non quella dell’Angelo custode. Ma si dice senza riflettere. Poiché i nostri Angeli custodi non ci abbandonano mai. Dobbiamo essere docili agli ammonimenti che ci danno. Un solitario aveva spinto le sue penitenze a sì alto grado di rigore, che non poteva più reggersi in piedi. Siccome l’acqua, che doveva cercare, era molto lontana, diceva tra sé: « Poiché devo durar tanta fatica per andare a prender l’acqua, avvicinerò alla fontana la mia colletta ». Mentre era intento a questo pensiero, udì una voce che diceva: uno. due. tre », come di persona die contasse qualche cosa. Stupito di questo parlare, si volta e vede il suo Angelo custode, che contava i suoi passi, dicendo che il Signore glielo aveva comandato, e che nessuno ne sarebbe perduto. Il santo, vedendo che quella sua fatica era gradita a Dio, invece d’avvicinar la colletta, l’allontanò di più per acquistar maggior merito (Vite dei Padri del deserto). Ohimè! siam pur disgraziati, poiché non facciamo per Iddio tutte le nostre azioni! Quanto guadagneremmo pel cielo e qual consolazione daremmo al nostro Angelo custode! E quanto ci troveremmo ricchi all’ora della morte! Ohimè! Fratelli miei, quante volte i nostri peccati hanno costretto i nostri Angeli buoni ad allontanarsi da noi, cioè lasciarci in balìa de’ nostri nemici, che sono il demonio e le nostre passioni! Un’altra grazia riceviamo da essi, quando, essendo noi in peccato, destano senza posa nel nostro cuore rimorsi, e, siccome sono continuamente vicini a Dio, lo scongiurano a non lasciarci morire in tale stato. Allontanano da noi ogni occasione, e adoperano ogni sorta di mezzi per rimetterci in istato di grazia. Ci consolano nelle afflizioni e nelle persecuzioni. Ne abbiamo un bell’esempio nella storia di S. Vittore (RIBADENEIRA, ai 21 di Luglio. S. Vittore di Marsiglia.). Il suo Angelo custode gli si faceva vedere visibilmente per incoraggiarlo a soffrire il martirio, facendogli vedere la gloria grande che gli era preparata in cielo, e come si rendeva gradito a Dio. Perciò vediam pochi martiri, che abbiano sofferto con pari coraggio e pari gioia. Questo gran santo era soldato e viveva ai tempi di Diocleziano e Massiminiano. Questi due imperatori promulgarono l’editto che, chiunque non adorasse gli idoli, morrebbe tra i più crudeli supplizi. Vedendo che parecchi cristiani cominciavano a vacillare, Vittore andava di prigione in prigione, ove parecchi n’erano già rinchiusi, per accenderli del desiderio del martirio, ed anche li accompagnava al luogo del loro supplizio. Le sue parole avevano tanta forza e tanta grazia, che i martiri pareva non soffrissero punto, purché avessero accanto Vittore. Diceva loro: « Coraggio, amici miei, il cielo v’aspetta. Vedete Gesù Cristo che vi tende la mano; spregiate la vita che dura sì poco; innalzate verso il cielo i vostri cuori, e Gesù Cristo vi darà forza per combattere e vincere ». L’imperatore Massimiano, spinto dall’odio del nome cristiano, fa citare Vittore e ordina che sia attaccato ad un cavallo indomito, e trascinato per tutta la città: poi lo fa battere con le verghe, talché il corpo del santo era ridotto a un brano informe di carne. In mezzo a questi supplizi pregava Iddio che lo sostenesse con la sua grazia. Gesù Cristo, impietosito pei suoi patimenti, gli apparve con la sua croce e gli disse: « Coraggio, Vittore, io son Gesù Cristo, sono il tuo rifugio: non temere: sarò con te sino alla fine: abbi coraggio ». – Qualche tempo dopo gli apparve nella sua prigione il suo Angelo custode, gli tolse le catene, e lo consolò facendogli gustare anticipatamente le dolcezze che il Signore gli preparava in cielo. Poscia gli disse: « Esci di prigione, e fatti vedere all’imperatore, affinché sappia in che modo il Signore si prende cura di quei che lo servono ». Uscì di fatto. Il tiranno, stupito in vederlo, gli chiese chi l’aveva liberato. « Gesù Cristo, rispose, ha spezzato le mie catene pel ministero degli Angeli ». Massimiano fece ricondurre Vittore in prigione. Ma gli riapparve l’Angelo stesso, e riempì il carcere di sì viva luce, che tutti i prigionieri, che v’erano rinchiusi, domandarono istantemente il santo Battesimo. L’imperatore, informato di tutti questi prodigi, fece schiacciare Vittore con una enorme macina da mulino. Allora il suo Angelo custode ne condusse l’anima trionfalmente in cielo, ove Dio l’aspettava per darle la ricompensa. Perché dunque, fratelli miei, nelle tentazioni e nelle persecuzioni abbiam sì poco coraggio? A h ! perché facciamo assegnamento soltanto su noi medesimi, e non ricorriamo ai nostri Angeli custodi, che domanderebbero a Dio per noi la grazia di uscir vittoriosi, dai nostri combattimenti. Dico pure che, quando preghiamo, dobbiamo unirci bene ai nostri Angeli custodi, perché sono cosi accetti a Dio che Gesù Cristo non può ad essi negar nulla. Siam certi d’averli a fianco quando preghiamo, e specialmente quando ascoltiamo la santa Messa. Un discepolo di S. Giovanni Crisostomo ci narra che moltissime volte, mentre gli serviva la Messa, vedeva la casa di Dio piena d’una moltitudine d’Angeli; parte erano prostrati dinanzi al Corpo adorabile già presente sull’altare; parte andavano per la chiesa per ispirare ai fedeli il rispetto e l’amore, che dovevano avere per Gesù Cristo. Il diacono Pietro riferisce di S. Gregorio il fatto seguente: « Un giorno, nel tempo della Messa, giunto che fu a quelle parole che dice il celebrante: Pax Domini sit semper vobiscum: la pace del Signore sia sempre con voi, si udiron gli Angeli dir con voce risonante per modo che fu udita da tutti gli astanti: Et cum spiritu tuo: e col tuo spirito ». Perciò da quel tempo, quando il Sommo Pontefice celebra la Messa in pubblico, niuno risponde: Et cum spiritu tuo, per serbar memoria di quel miracolo. I nostri Angeli custodi non dimenticheranno poi segnar nel libro della vita tutte le nostre azioni buone per presentarle a Dio nel punto in cui saremo giudicati. Essi son depositari di tutto il bene da noi fatto in tutto il corso della nostra vita; essi, nel momento terribile della morte, ci ispireranno grande fiducia, e ci procureranno la bella sorte di ricevere gli ultimi Sacramenti. I nostri Angeli custodi chiedono a Dio per noi gran dolore dei nostri peccati. Raccogliamo tutto in due parole, fratelli miei: i nostri buoni Angeli custodi, dopo esserci stati compagni per tutta la nostra vita, dopo avere usato tutti i mezzi possibili o per farci uscir dal peccato o per farci perseverare nella grazia, conducono alfine le anime nostre trionfalmente in Paradiso. Se ne dubitate, udite Gesù Cristo il quale dice che gli Angeli recarono l’anima di Lazzaro nel seno d’Abramo, ch’è il luogo di salvazione. S. Antonio ci dice d’aver veduto l’anima di S. Paolo, primo eremita, portata in cielo dagli Angeli. – Ohimè! miei fratelli, chi potrà deplorare abbastanza la sciagura di quei Cristiani, che neppur sanno se abbiano un Angelo custode; e che lasceranno forse passare un tempo notevole senza ringraziare Iddio delle grazie che loro concede per la protezione del loro Angelo custode, o senza dire in suo onore un Pater ed Ave. Ah! non ci meravigliamo d’avere sì poco zelo per la gloria di Dio e la salute delle nostre anime! È perché il nostro Angelo custode ci abbandona a noi stessi in pena delle nostre ingratitudini; perciò facciamo molto male e poco bene. Ohimè! quanti Cristiani sono dannati per aver tenuto in niun conto i loro Angeli custodi. Quali rimproveri all’ora della morte, quando, nell’udirci implorare il suo soccorso, ci dirà, come a quel moribondo di cui si parla nella storia: « Va. sciagurato, non avesti per me che dispregio; perciò Dio m’ha comandato d’abbandonarti alla potenza dei demoni, di cui fosti servo fedele ». Ohimè! quant’è grande, mio Dio, il numero di costoro!… Vedete, fratelli miei, quanto la Chiesa desidera che abbiamo gran devozione verso gli Angeli. Ogni anno, nel mese d’Ottobre, celebra una festa in onore de’ santi Angeli e particolarmente de’ santi Angeli custodi. Com’è possibile dimenticare, fratelli miei, questi Angeli protettori, che ci son sempre a fianco e non ci abbandonano neppure un momento? Cerchiamo di ringraziare spesso Dio di questa grazia, e di ricorrere ad essi di frequente nelle nostre pene, nelle nostre malattie, nei nostri affanni, nelle nostre afflizioni. Sono i nostri migliori amici, ci amano e non si staccano da noi tinche non ci abbiano condotti in cielo. Cerchiamo di far di tratto in tratto qualche preghiera, qualche elemosina, e di far celebrare una Messa in loro onore; soprattutto lo facciano i padri e le madri per attirare sui loro figli e sui loro domestici la protezione de’ santi Angeli. Oh! se saranno fedeli a «presta pratica vedranno ben presto regnare nelle loro famiglie la pace e l’unione tra tutti i membri che le compongono; ma soprattutto la Religione, che li renderà felici in questo mondo aspettando d’esser felici nell’altro. Questa felicità vi desidero.

DELLA PRESENZA DI DIO

[S. A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e virtù cristiane; vol. II, Marietti ed. – Torino, 1917

– Trattato IV

DELLA PRESENZA DI DIO

CAPO I.

Dell’eccellenza di questo esercizio e dei gran beni che sono in esso.

“Quærite Dominum, et confìrmamini: quærite faciem ejus semper”

(Ps. CIV, 6).

Cercate Dio con fortezza e con perseveranza, dice il profeta David: cercate sempre la sua faccia… La faccia del Signore dice S. Agostino che è la presenza del Signore (D. Aug. super Psal. CIV): e così cercare la faccia del Signore sempre, è camminar sempre alla sua presenza, volgendo il cuore a Lui con desiderio e con amore. Isichio nell’ultima Centuria (e lo apporta anche il glorioso S. Bonaventura: D. Bonav. tom. 2 opusc, lib. 2 de prof. Relig. c. 20) dice, che lo star sempre in questo esercizio della presenza di Dio, è cominciare ad esser di qua beati; perché la beatitudine dei Santi consiste in veder Dio perpetuamente, senza giammai perderlo di veduta. Or giacché in questa vita non possiamo veder Dio chiaramente, né come Egli è, perché questo è proprio dei Beati; almeno imitiamoli nel modo nostro e secondo quello che comporta la nostra fragilità, procurando di star sempre riguardando, riverendo e amando Dio. Di maniera che siccome Dio Signor nostro ci creò per avere a stare eternamente alla sua presenza nel cielo, ed ivi goderlo; così volle, che avessimo qui in terra un ritratto e un saggio di quella beatitudine, camminando sempre alla sua presenza, contemplandolo e riverendolo, sebbene all’oscuro: Videmus nunc per speculum in ænigmate: tunc autem facie ad faciem (1 Cor. XIII, 12): Adesso il veggiamo e contempliamo noi per mezzo della Fede come per mezzo di uno specchio; di poi lo vedremo alla scoperta e a faccia a faccia: Ista est meritum, illa præmium: Quella vista chiara, dice Isichio, è il premio e la gloria e beatitudine che aspettiamo; quest’altra oscura è merito per mezzo del quale abbiamo da arrivare a conseguir quella. Ma infine al modo nostro imitiamo i Beati, procurando di non perdere mai Dio di veduta nelle nostre operazioni, siccome gli Angeli santi i quali sono mandati per nostro aiuto, per nostra custodia e nostra difesa, s’occupano in tal maniera in questi ministeri in prò nostro che mai non perdono Dio di vista; come lo disse l’Angelo Raffaello a Tobia: Videbar quidem vobiscum manducare et bibere: sed ego cibo invisibili, et potu, qui ab hominibus videri non potest, utor (Tob. XII, 19. 1) : Pareva bene che io stessi mangiando e bevendo con voi altri; ma io uso un altro cibo invisibile ed un’altra bevanda che non può esser veduta dagli uomini. Stanno gli Angeli santi del continuo come nutrendosi e sostentandosi di Dio: Semper vident faciem Patris mei, qui in cœlis est (Matth. XVIII, 10.): così noi altri sebbene mangiamo, beviamo, trattiamo e negoziamo cogli uomini, e pare che ci occupiamo e tratteniamo in questo; abbiamo non dimeno da procurare, che non sia questo il nostro cibo né il nostro trattenimento, ma un altro invisibile che gli uomini non veggono; cioè lo star sempre riguardando ed amando Dio e facendo la sua santissima volontà.Grand’esercizio fu quello che praticarono quei Santi e Patriarchi dell’antica legge in ordine a questo punto del camminare sempre alla presenza di Dio: Providebam Dominum in conspeciu meo semper; quoniam a dextris est mihi ne commovear (Ps. XV, 8). Non si contentava il reale Profeta di lodar Dio sette volte il giorno; ma sempre procurava di tenerlo presente. Era tanto continuo questo esercizio in quei Santi, che era anche comune linguaggio loro il pregiarsi di questo, soliti di spesso dire: Vivit Dominus, in cujus conspectu sto (III Reg. XVII, 1; – IV. Reg. III, 11): Vive il Signore, alla cui presenza io sto. Sono grandi i beni e le utilità che risultano dal camminar sempre alla presenza di Dio, considerando che Egli ci sta guardando; e perciò lo procuravano tanto quei Santi, perché questo basta a fare, che uno sia molto ben regolato e molto composto in tutte le sue azioni. Dimmi un poco, qual è quel servo che dinanzi agli occhi del suo padrone non proceda con molta puntualità? Ovvero qual servo si trova tanto sfacciato, che alla presenza del padrone non faccia quello che esso gli comanda, o ardisca di offenderlo sotto ai suoi occhi? ovvero qual sarà quel ladro a cui basti l’animo di rubare, mentre vede, che il Giudice gli sta guardando alle mani? Ci sta guardando Dio, il quale è nostro giudice ed è onnipotente, che può far che la terra s’apra e che l’inferno inghiottisca chiunque lo fa sdegnare contro di sé, e alcune volte l’ha fatto. Or chi ardirà di muoverlo a sdegno? E così S. Agostino diceva: Quando io, Signore, considero attentamente, che mi state sempre guardando e vegliando sopra di me notte e giorno, con tanta cura, come se in cielo e in terra voi non aveste altra creatura da governare che me solo: quando considero bene, che tutte le mie operazioni, pensieri e desideri, sono patenti e chiari dinanzi a voi, mi riempio tutto di timore e mi copro di vergogna (D. Aug. c. 14 soliloq.). Certo ci mette in grand’obbligo di viver giustamente e rettamente il considerare, che facciamo tutte le cose dinanzi agli occhi del Giudice che vede il tutto e a cui nessuna cosa si può celare. Se la presenza d’un uomo grave ci fa star composti, che farà la presenza di Dio?S. Girolamo sopra quello che Dio dice di Gerusalemme per mezzo del profeta Ezechiello, Meique oblita es (Ezech. XXII. 12), Ti sei dimenticata di me, dice: Memoria enim Dei excludit cuncta flagitia: La memoria di Dio esclude tutti i peccati. L’istesso dice sant’Ambrogio (D. Ambr. lib. de fide resurr. tom. 4). E in un altro luogo dice S. Girolamo: Certe quando peccamus, si cogitaremus Deum videre, et essa præsentem, numquam, quod ei displiceret, faceremus (D. Hieron. in Ezecb. 8 circa illum, Dicunt enim, non videbit Dominus nos). E’ tanto efficace mezzo la memoria di Dio e il camminar alla presenza sua, che se considerassimo che Dio è presente e che ci sta guardando, non ardiremmo mai di far cosa che gli dispiacesse. Alla peccatrice Taide bastò questo solo per lasciare la sua mala vita e andarsene all’eremo a far penitenza, come abbiamo detto di sopra (tract. V, c. 19). Diceva il santo Giob: Nonne ipse considerat vias meas, et cunctos gressus meos dinumerat (Job XXXI, 4)? Dio mi sta guardando come testimonio di veduta e mi va contando i passi; e chi ardirà mai di peccare né di far cosa mal fatta? – Per lo contrario tutto il disordine e tutta la ruina dei tristi nasce dal non ricordarsi che Dio è presente e che gli sta guardando, secondo quello che tante volte replica la Scrittura divina in persona degli uomini cattivi: Et dixisti: Non est, qui videat me ((3) Isa. XLVII, 10) — Non videbit novissima nostra (Jerem. XII, 4).E così lo notò san Girolamo sopra quel capo 22 di Ezechiello, ove il Profeta, riprendendo Gerusalemme di molti suoi vizi e peccati, viene a conchiudere, che la cagione di tutti essi era l’essersi dimenticata di Dio: e questa stessa cagione nota la Scrittura in molti altri luoghi. Siccome un cavallo senza freno si va a precipitare e una nave senza chi la governi si va a perdere; così levato via questo freno, l’uomo se ne va dietro ai suoi appetiti e alle sue passioni disordinate: Non est Deus in conspectu ejus: inquinata! sunt viæ illius in omni tempore (Psal IX, 26), dice il profeta David: Non tiene Dio dinanzi a’ suoi occhi, non lo considera presente dinanzi a sé; e perciò le vie sue, cioè le sue operazioni, sono macchiate di colpa in ogni tempo.Il rimedio che il beato S. Basilio in molti luoghi dà contra tutte le tentazioni e’ travagli, e contra tutte le cose e occasioni che ci si possono presentare, è la presenza di Dio (D. Basil, II. reg. brev. et in reg. fus. disput.). Onde se vuoi un mezzo breve e compendioso per acquistare la perfezione, il quale contenga e rinchiuda in sé la forza e l’efficacia di tutti gli altri mezzi, questo è desso, e per tale lo diede Dio ad Abramo: Ambula coram me, et esto perfectus (Gen. XVII, 1): Cammina alla mia presenza, e sarai perfetto. In questo, come in altri luoghi della sacra Scrittura, l’imperativo si piglia pel futuro, per significare l’infallibilità del successo. E cosa tanto certa, che sarai perfetto se andrai sempre riguardando Dio e se starai avvertito ch’Egli ti sta guardando; che da quest’ora ti puoi tenere pertale. Perché, siccome le stelle dall’aspetto del sole che hanno presente, e in cui stanno rivolte, traggono lume per risplendere dentro e fuori di sé, e virtù per influire nella terra; così gli uomini giusti i quali sono come stelle nella Chiesa di Dio, dall’aspetto del medesimo Iddio, dal mirarlo presente, e dal volgere il loro pensiero e desiderio a Lui, traggono lume col quale nell’interiore che Dio vede risplendono con vere e sode virtù, e nell’esteriore che veggon gli uomini risplendono con ogni decenza e onestà; e ritraggono virtù e forza per edificare e santificar altri. Non è cosa nel mondo che esprima tanto propriamente la necessità che abbiamo di star sempre alla presenza di Dio, quanto questa. Guarda la dipendenza che ha la luna dal sole, e la necessità che ha di star sempre rimpetto ad esso. La luna da sé non ha lume; ha solo quello che riceve dal sole, secondo l’aspetto col quale lo guarda; e opera nei corpi inferiori secondo il lume che riceve dal sole: e così i suoi effetti crescono e scemano secondo che ella stessa va crescendo e scemando: e quando si pone dinanzi alla luna qualche cosa che le impedisca l’aspetto e la vista del sole; subito nell’istesso punto si ecclissa e perde la sua luce, e con essa ancora gran parte dell’efficacia d’operare che aveva mediante il lume che riceveva dal sole. L’istesso accade nell’anima rispetto a Dio che è il suo sole. Perciò i Santi ci esortano a questo esercizio. S. Ambrogio e S. Bernardo trattando della continuazione e perseveranza che deve essere in noi intorno ad esso, dicono: Sicut nullum est momentum, quo homo non utatur vel fruatur Dei bonitate et misericordia; sic nullum debet esse momentum, quo eum præsentem non habeat in memoria (Ambr. lib. de dign. cond. bum. c. 2; D. Bernard, c. 6, medit.): Siccome non v’è punto né momento nel quale l’uomo non goda della bontà e misericordia di Dio; così non vi ha da esser punto né momento nel quale non abbia Dio presente nella sua memoria. E in un altro luogo dice S. Bernardo: In omni actu vel cogitatu suo sibi Deum adesse memoretur; et omne tempus, quo de ipso non cogilat, perdidisse se computet (S. Bern. in spec. mon.): In tutte le sue operazioni e in tutti i suoi pensieri ha da procurare il Religioso di ricordarsi, che ha Dio presente: e tutto il tempo che non pensa a Dio ha egli da tenerlo per perduto. Mai non si dimentica Dio di noi altri: sarà ben di ragione che noi altresì procuriamo di non mai dimenticarci di lui. S Agostino sopra quelle parole del Salmo 31, Firmabo super te oculos meos, dice: Non a te auferam oculos meos; quìa et tu non aufers a me oculos tuos (D. Aug. In Ps. XXXI, 8): Non leverò, o Signore, gli occhi miei da te; perché tu non levi mai i tuoi da me: sempre li terrò fermi e fissi in te, come faceva il Profeta: Oculi mei semper ad Dominum (Ps. XXIV, 15). S. Gregorio Nazianzeno diceva: Non tam sæpe respirare, quam Dei meminisse debemus (D. Greg. Naz. in I orat. Theol.): Tanto spesso e tanto frequente ha da esser il ricordarci di Dio, quanto il respirare, e anche più. Perché siccome ad ogni momento abbiamo necessità di respirare, per rinfrescare il cuore e per temperare il calor naturale, cosi abbiamo necessità di ricorrere in ogni momento a Dio coll’orazione, per raffrenare il disordinato ardore della concupiscenza che ci sta stimolando e incitando al peccare.

CAPO II.

In che cosa consiste quest’eserciziodi camminar sempre alla presenza di Dio.

Per poter noi cavar maggior frutto da quest’esercizio, bisogna che dichiariamo in che cosa consiste. In due punti consiste, cioè in due atti, l’uno dell’intelletto e l’altro della volontà. Il primo atto è dell’intelletto, poiché questo sempre si ricerca e si presuppone per qualsivoglia atto della volontà, siccome insegna la filosofia. La prima cosa dunque ha da essere il considerare con l’intelletto, che Dio è qui e in ogni luogo; che riempie tutto il mondo; e che sta tutto in tutto, e tutto in qualsivoglia parte di esso, e tutto in qualsivoglia creatura, per piccola che sia. Su questo si ha a fare un atto di fede, perché questa è una verità che la Fede ci propone per crederla: Non enim longe est ab unoquoque nostrum. In ipso enim vivimus, et movemur, et sumus (Ex Act. XVII, 27, 28), diceva l’Apostolo san Paolo: Non avete da immaginarvi Dio come lontano da voi, o come fuori di voi; perché è dentro di voi. S. Agostino dice di sé medesimo (lib. X Conf.): « Signore, io cercava fuori di me quello ch’aveva dentro di me. » Dentro di voi sta Egli. Più presente, più intimo e più intrinseco è Dio in me, che non sono io stesso. In esso viviamo, ci moviamo, e abbiamo l’essere: Egli è quegli che dà vita a tutto quello che vive; e quegli che dà forza a tutto quello che opera; e quegli che dà l’essere a tutto quello che è. E s’Egli non istesse presente, mantenendo tutte le cose, tutte lascerebbono d’ essere e si ridurrebbono al niente. Considera dunque, che sei tutto pieno di Dio, e circondato da Dio, e che stai come nuotando in Dio. Quelle parole, Pieni sunt cæli et terra gloria tua (Is. VI, 3), sono molto a proposito per questa considerazione: i cieli e la terra, o Signore, sono pieni della vostra gloria. – Alcuni per attuarsi meglio in questo esercizio considerano tutto il mondo pieno di Dio, come infatti Egli è: indi immaginano se stessi in mezzo di questo mare immenso di Dio, circondati da esso per ogni parte, in quel modo che starebbe una spugna in mezzo al mare, tutta inzuppata e piena d’acqua, e oltre di questo circondata d’acqua da tutte le bande. E non è questa cattiva similitudine rispetto al corto nostro intelletto; ma con tutto ciò ella stessa è assai debole e scarsa, e non arriva ad esprimere a sufficienza quel che diciamo; perché questa spugna in mezzo del mare se sale in alto trova fine; se cala al basso trova terra; se va da un canto all’altro trova lido; ma in Dio non troverà niuna di queste cose : Si ascenderò in cælum, tu illic es: si descendero in infernum, ades. Si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris, etenim illuc manus tua deducet me, et tenebit me dextera tua (Psal. CXXXVIII, 8, 9, 10). : S’io salirò in cielo, ivi sei Tu, Signore; e se me ne calerò sino all’inferno, pur vi sei; e se prenderò ali e me ne passerò di là dal mare, colà mi condurrà e mi terrà la tua potente mano. Non vi è fine o termine in Dio, perché è immenso e infinito. Inoltre la spugna, per esser corpo, non può esser totalmente penetrata dall’acqua la quale è un altro corpo; ma noi altri siamo in tutto e per tutto penetrati da Dio il quale è puro spirito. Pur finalmente queste ed altre simili comparazioni, ancorché scarse e manchevoli, aiutano e sono a proposito per farci comprendere in qualche modo l’immensità infinita di Dio, e come Egli è presente e sta intimamente dentro di noi e in tutte le cose. – E per questo le apporta S. Agostino (D. Ang. ep 57 ad Dard. et lib. 7 Confess. c. 5). Ma è d’avvertire in questo esercizio, che per questa presenza di Dio non fa di bisogno il formarci entro di noi alcuna sensibile immagine o rappresentazione di Dio, a forza di fantasia, figurandoci, che Egli ci stia a lato, o da un’altra banda determinata, né immaginarselo nella tale o tal altra forma o figura. Vi sono alcuni che s’immaginano di avere avanti di sé, ovvero al lato loro, Gesù Cristo nostro Redentore, che vada, o stia con essi, e gli stia sempre mirando in ciò che fanno: e in questa maniera stanno sempre alla presenza di Dio. Altri di questi s’immaginano Cristo crocifisso, che stia sempre loro dinanzi; altri se l’immaginano legato alla colonna; altri nell’orto in atto di far orazione e di sudar sangue; altri se l’immaginano in qualche altro passo della Passione, o in qualche mistero gaudioso della sua santissima Vita, secondo quello che suole più muovere ciascuno: ovvero per qualche tempo se l’immaginano in una azione e per qualche altro in un’altra. E ancora che questa sia cosa molto buona, se si sa fare; nondimeno, ordinariamente parlando, non è questo quello che più ci conviene e ci è più utile: perché tutte queste figure e immaginazioni di cose corporali straccano, e aggravano, e rompono assai la testa. Un S. Bernardo e un S. Bonaventura dovevano saper far questo d’altra maniera che noi, e vi trovavano gran facilità e quiete; e così se n’entravano in quei buchi delle Piaghe di Cristo e dentro al suo Costato, e quello era il loro ricovero, il loro rifugio e riposo, parendo loro d’udir quelle parole dello Sposo ne’ Cantici (Cant., II, 13, 14): Surge, amica mea, speciosa mea, et veni, columba mea, in foraminibus petræ, in caverna maceriæ. Altre volte s’immaginavano il piè della croce piantato e conficcato nel loro cuore, e stavano ricevendo nella loro bocca con grandissima dolcezza quelle gocciole di sangue che stillavano e scorrevano come da aperti fonti dalle Piaghe del Salvatore. Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris (Isa. XII, 3). Facevano que’ Santi queste cose molto bene, e se ne stavano benissimo; ma se tu te ne vorrai stare tutto il giorno in queste considerazioni e con questa presenza di Dio, potrà essere, che, per un giorno e per un mese che tu lo faccia, perda tutto l’anno d’orazione; perché ti ci romperai il capo. Ben si vedrà quanta ragione abbiamo d’avvertire questa cosa; poiché anche per formarci la composizione del luogo, che è uno de’ preludi dell’orazione col quale ci facciamo presenti a quello che abbiamo da meditare, immaginandoci, che realmente quella cosa si faccia ed accada allora sotto i nostri occhi, avvertono quei che trattano dell’orazione, che non ha la persona da fissare né attuar molto l’immaginazione nella figura e rappresentazione di queste cose corporali che pensa; acciocché non si rompa la testa, e per guardarsi da altri inconvenienti d’illusioni che potrebbero occorrere. Ora se per un preambolo dell’orazione che si fa in così breve spazio di tempo, e stando uno quieto e posato, senza avere altra cosa che fare, vi bisogna tanta avvertenza e circospezione; che sarà volendosi tutto il giorno, e fra le altre occupazioni, ritenere questa composizione di luogo e queste materiali rappresentazioni? Quella presenza adunque di Dio della quale trattiamo adesso, esclude tutte queste immaginazioni e considerazioni, ed è molto lontana da esse; perché ora trattiamo della presenza di Dio in quanto Dio, il quale dico primieramente che non vi è bisogno di fingerselo presente, ma solamente di crederlo, perché questo è verissimo. Cristo nostro Redentore in quanto uomo sta in cielo e nel santissimo Sacramento dell’Altare; ma non istà in ogni luogo: onde quando c’immaginiamo presente Cristo in quanto uomo, questa è un’immaginazione che noi altri fingiamo; ma in quanto Dio è qui presente, e dentro di me, e in ogni luogo, e riempie ogni cosa: Spiritus Domini replevit orbem terrarum (Sap. I, 7). Non abbiamo dunque bisogno di fingere quello che non è; ma di attuarci in credere quello che è. Dico in secondo luogo, che l’umanità di Cristo si può bensì immaginare e figurare con l’immaginazione, perché ha corpo e figura; ma Dio, in quanto Dio, non si può immaginare né figurare com’Egli è; perché non ha corpo né figura, essendo puro spirito. Né anche un Angelo né la nostra propria anima possiamo immaginarci come sien fatti, perché sono spiriti; quanto meno potremo immaginarci né formarci concetto alcuno del come sia fatto Dio! – In che modo dunque abbiamo noi da considerare Iddio presente? Dico, che solamente col fare un atto di fede, presupponendo, che Dio è qui presente, poiché la Fede ce lo dice, senza voler sapere come né in che modo ciò sia: siccome dice san Paolo che faceva Mosè, il quale invisibilem tamquam videns sustinuit (Ebr. XI, 27) : Essendo Dio invisibile, egli lo considerava e lo teneva presente come se lo vedesse, senza voler sapere né immaginarsi come Egli fosse fatto: come quando uno sta parlando col suo amico di notte, senza voler cercare com’egli sia fatto né ricordarsi di questo, gode unicamente e dilettasi della conversazione e presenza dell’amico che sa esser ivi presente. In questa maniera abbiamo noi da considerare Dio presente: ci basti sapere, che il nostro amico è qui presente per godere della sua presenza. Non ti fermare a voler guardare come Egli sia fatto, che non ci affronterai, essendo di notte adesso per noi altri: aspetta, che si faccia giorno, e quando apparirà la mattina dell’altra vita, allora Egli si manifesterà, e potremo vederlo chiaramente com’Egli è fatto: Cum apparuerit, similes ex erimus; quoniam videbimus eum sicuti est (1 Giov. V, 2). Per questo Dio apparve a Mosè nella nuvola e nell’oscurità: non vuole che tu lo vegga; ma solamente che creda ch’Egli è presente. – Tutto questo che abbiamo detto appartiene al primo atto dell’intelletto che si ha da presupporre. Ma bisogna avvertire, che la principal parte di questo esercizio non consiste in questo; perché non si ha da occupare solamente l’intelletto, considerando Dio presente; ma s’ha da occupare anche la volontà, desiderando e amando Dio, e unendosi con esso: e in questi atti della volontà consiste principalmente quest’esercizio. Del che tratteremo nel capo seguente.

CAPO III.

Degli atti della volontà ne’ quali principalmenteconsiste quest’esercizio: e come abbiamoda esercitarci in essi.

S. Bonaventura nella sua mistica Teologia (D. Bonav. via 3 et in ep. 15 memorial, c. 22) dice, che gli atti della volontà con i quali in questo santo esercizio abbiamo da alzare il cuore a Dio, sono certi accesi desideri del cuore co’ quali l’anima desidera unirsi con Dio con perfetto amore; certi affetti infiammati, certi sospiri vivi delle viscere co’ quali ella chiama Dio; certi moti pii e amorosi della volontà co’ quali, come con ali spirituali, si stende ed alza in alto, e si va accostando e unendo più a Dio. Questi desideri e affetti del cuore veementi ed accesi, sono dai Santi chiamati aspirazioni; perché con essi l’anima s’alza a Dio, che è l’istesso che aspirare a Dio: ed anche, come dice S. Bonaventura (D. Bonav. ubi supra), perché  siccome respirando ricaviamo e tramandiamo senz’alcun altro atto deliberato il fiato dalla parte più intima del nostro corpo; così con gran prestezza e alle volte senza deliberazione, o quasi senza essa, caviamo questi accesi desiderii dall’intimo del nostro cuore. Queste aspirazioni e questi desiderii vengono dall’uomo espressi concerte brevi e frequenti orazioni che chiamano giaculatorie; Raptim jaculatas, dice S. Agostino (D. Aug. ep. ad Probam, quæ est 121); perché sono come certi dardi e saette infocate ch’escono dal cuore e in un punto si lanciano e drizzano a Dio. Usavano assai queste orazioni quei Monaci dell’Egitto, come dice Cassiano: Breves quidem, sed creberrimæ (Cass. Lib. 2 de ist. renunt.); e le stimavano e ne facevano gran conto; sì perché, come sono brevi, non istraccano il capo; sì anche perché si fanno con fervore e con spirito elevato, e in un punto si trovano nel cospetto di Dio; e così non danno tempo al demonio di frastornare colui che le fa, né di mettergli nel cuore impedimento alcuno. Dice S. Agostino certe parole degne di considerazione per tutti quelli che fanno profession d’orazione: Ne illa vigilans et erecta intentio, quæ tam necessaria est oranti, per productiores moras hebetetur (S. Aug. ep. ad Probam.); e le quali mostrano l’utilità di queste giaculatorie le quali servono acciocché quella vigilante e viva attenzione che è necessaria per orare colla dovuta riverenza e rispetto, non si vada rimettendo e perdendo, come suol avvenire nell’orazion lunga (S. Chrys. hom. 79). Ora con queste orazioni giaculatorie procuravano que’ santi Monaci di star sempre in questo esercizio, alzando molto spesso il cuore a Dio e trattando e conversando con esso Lui (Abbas Isaac collat. 10, c. 10). Questo modo di stare alla presenza di Dio è comunemente più a proposito per noi altri, più facile e più utile. Ma bisognerà dichiarar meglio la pratica di questo esercizio. Cassiano la mette in quel versetto, Deus, in adjutorium meum intende: Domine, ad adjuvandum me festina (Ps. LXIX), che la Chiesa replica nel principio di ciascuna Ora Canonica. Se cominci qualche affare pericoloso, chiedi a Dio che t’aiuti per uscirne bene. Signore, rivolgiti in aiuto mio: Signore, non tardare ad aiutarmi. Per ogni cosa abbiamo necessità del favor del Signore, e così sempre glielo abbiamo d’andare chiedendo. E dice Cassiano, che questo versetto è meraviglioso e molto a proposito per esprimere tutti i nostri affetti inqualsisia stato e in qualsivoglia occasione, o accidente nel quale ci veggiamo; perché con esso invochiamo l’aiuto di Dio; con esso ci umiliamo e riconosciamo la nostra necessità e miseria: con esso ci alziamo su e confidiamo di esser uditi e favoriti daDio; con esso ci accendiamo nell’amor del Signore che è il nostro rifugio e il Protettor nostro. Per quante battaglie e tentazioni ti si possono presentare, dice Cassiano, hai qui in pronto un fortissimo scudo, una corazza impenetrabile, e un muro inespugnabile: e così l’hai da portar sempre nella bocca e nel cuore; e questa ha da essere la tua continua e perpetua orazione, e il tuo camminare e star sempre alla presenza di Dio. S. Basilio mette la pratica di questo esercizio nel prendere occasione da tutte le cose di ricordarci di Dio. Se mangi, ringrazia Dio: se ti vesti, ringrazia Dio: se esci in campagna, o vai all’orto, o al giardino, benedici Dio che l’ha creato: se guardi il cielo, se guardi il sole, e tutto il resto, loda il Creatore di ogni cosa: quando dormi, ogni volta che ti svegli, alza il cuore a Dio (D. Basil. hom. in mart. Julitam). Altri, perché nella vita spirituale vi sono tre vie; una purgativa, che appartiene ai Principianti; un’altra illuminativa, che appartiene a’ Proficienti; e un’altra unitiva, che appartiene a’ Perfetti; mettono tre sorte d’aspirazioni e d’orazioni giaculatorie. Alcune sono indirizzate a conseguire il perdono de’ peccati e a purgare l’anima da’ vizi e dagli affetti terreni; e questea ppartengono alla via purgativa. Alcune altre sono indirizzate all’acquisto della virtù, al vincer le tentazioni, e ad incontrare di buon grado difficoltà e travagli per la virtù; e queste appartengono alla via illuminativa. Alcune altre poi sono indirizzate ad acquistar l’unione dell’anima con Dio mediante un legame di perfetto amore; e queste appartengono alla via unitiva; acciocché ciascuno s’applichi a questo esercizio proporzionatamente al suo stato e alla disposizione in cui troverassi. Ma quanto a questo, sia pur uno quanto si voglia perfetto, si può esercitare nel dolore de’ peccati, e in chieder a Dio il perdono di essi e grazia per non offenderlo mai, e sarà esercizio molto buono e molto grato a Dio. E questo tale, e quegli altresì che attende a purgar l’anima sua da’ vizi e dalle passioni disordinate, e ad acquistare le virtù, si potrà anche esercitare in atti di amor di Dio, per far questo stesso con maggiore facilità e soavità. E così tutti, in qualunque stato si trovino, possono indifferentemente per questo esercizio frequentare questi atti, dicendo: O Signore, non vi avessi mai offeso! Non permettete, Signore, che io vi offenda giammai. Morir sì, ma non peccare. Piaccia alla Divina Maestà Vostra, che più tosto io muoia ben mille volte, che mai cada in peccato mortale. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio, ringraziandolo dei benefici ricevuti, così generali come particolari, o chiedendo qualche virtù; quando profonda umiltà; quando perfetta ubbidienza; quando carità; quando pazienza. Alcune altre volte può uno alzare il suo cuore a Dio con atti d’amore e di conformità alla volontà sua santissima, come dicendo: Dilectus meus mihi, et ego illi (Cant. II, 16): — Non mea voluntas, sed tua fiat (Luc. XXII, 42) :Quid enim mihi est in cœlo et a te quid volui super terram (Ps. LXXII, 24)? Queste ed altre simili sono tutte buone aspirazioni ed orazioni giaculatorie, per istare sempre in questo esercizio della presenza di Dio: e le migliori e più efficaci sogliono essere quelle che il cuore mosso da Dio concepisce da se stesso, benché non sia con parole tanto eleganti e tanto ben composte come quelle che abbiamo dette. Né meno è necessario, che siano molte e diverse queste orazioni: perché una sola reiterata spesso e con grande affetto può bastare ad uno per far quest’esercizio molti giorni e anche tutta la vita. Se ti trovi bene coll’andar dicendo sempre quelle parole dell’apostolo S. Paolo: Signore, che cosa volete ch’io faccia? (Act. IX, 6) o quelle della Sposa: Il mio Diletto per me, ed io per esso: o quelle del profeta David: Che cosa ho io da volere, Signore, né in cielo, né in terra se non voi (PS. LXXII)? non hai bisogno d’altro: trattienti in questo, e sia questo il tuo continuo esercizio e il tuo camminare e stare alla presenza di Dio.

CAPO IV.

Si dichiara anche meglio la pratica di questoesercizio, e si propone un modo di camminare e stare alla presenza di Dio molto facile ed utile, e di gran perfezione.

Fra le altre aspirazioni ed orazioni giaculatorie che possiamo usare è molto principale e molto a proposito per la pratica di questo esercizio quella che c’insegna l’apostolo S. Paolo nella prima Epistola a que’ di Corinto: Sive manducatis, sive bibitis, sive aliud quid facitis; omnia in gloriam Dei facite (1 ad Cor. X, 31): O mangiate, o beviate, o facciate qualsivoglia altra cosa; ogni cosa fatela a gloria di Dio. Procurate in tutte le cose che farete, o quanto più frequentemente potrete, d’alzare il cuore a Dio, dicendo: Per Voi, Signore, fo questa cosa: per darvi gusto e per piacere a Voi, perché così Voi volete. La vostra volontà, Signore, è la mia, e il vostro gusto è il mio; né ho io altro volere, né altro non volere, che quello che voi volete, o non volete: questa è tutta la mia allegrezza, tutto il mio gusto, tutta la mia ricreazione, l’esecuzione e l’adempimento della vostra volontà, il piacere e dar gusto a voi: né v’è altra cosa che volere, né che desiderare, né in che metter l’occhio né in cielo né in terra. Questo è un modo molto buono di camminare e star sempre alla presenza di Dio molto facile ed utile, e di gran perfezione: perché è star in un continuo esercizio d’amor di Dio. E perché  in altri luoghi abbiamo toccato e per l’avvenire toccheremo di nuovo questa cosa, qui solamente voglio dire, che questo è uno de’ migliori e più utili modi di star sempre in orazione che vi siano e che possiamo usare. Né pare che vi manchi altra cosa per finire di canonizzare e di esaltare questo esercizio, che dire, che con esso staremo in quella continua orazione che Cristo nostro Redentore ricerca da noi, come abbiamo dal sacro Evangelio: Oportet semper orare, et non deficere (Luc. XVIII, 1): perciocché qual orazione può esser migliore che lo star sempre desiderando la maggior gloria ed onore di Dio, e lo starci sempre conformando alla volontà sua, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che vuole, o non vuole Dio, e che tutto il nostro gusto e la nostra allegrezza sia il gusto e la soddisfazione di Dio? Perciò dice un Dottore mistico (D. Dionys. Rich. Lib. 1 de contempi, c. 25), e con gran ragione, che colui che persevererà diligentemente in quest’esercizio con questi affetti e desideri interni, caverà da esso tanto frutto, che in breve tempo sentirassi mutato e cambiato il cuore, e proverà in esso particolare avversione al mondo e singolare affezione a Dio Questo è cominciare di qua ad essere cittadini del cielo e famigliari della casa di Dio. Jam non estis hospites et advenos; sed estis cives Sanctorum, et domestici Dei (Ad Ephes. II, 19). Questi sono quei celesti cortigiani che vide S. Giovanni che avevano il nome di Dio scritto nelle loro fronti, che è la continua memoria e presenza di Dio. Et videbunt faciem ejus, et nomen ejus in frontibus eorum (2 Apoc. XXII, 4) perché la loro conversazione non è più in terra, ma in cielo: Nostra autem conversatio in cœlis est (Ad Philipp, III, 20). — Non contemplantibus nobis quæ videntur, sed quæ non videntur: Quæ enim videntur, temporalia sunt; quæ autem non videntur, æterna sunt (II. ad Cor. IV, 18).Bisogna però avvertire in quest’esercizio,che quando facciamo questi atti, dicendo: Per voi, Signore, fo questa cosa, per amor vostro, e perché così voi volete, ed altri simili; abbiamo da farli e da dirli come chi parla con Dio presente, e non come chi volge il cuore, o il pensiero, a cosa lontana da sé, o fuori di sé. Questa avvertenza è di grande importanza in questo esercizio; perché questo è propriamente camminare e stare alla presenza di Dio, e questo è quello che rende quest’esercizio facile e soave, e fa che muova e giovi più. Ancora nelle altre orazioni, quando meditiamo Cristo in croce, o alla colonna, avvertono quei che trattano d’orazione, che non abbiamo da immaginarci, che quel Mistero operossico là in Gerusalemme e mille e tante centinaia d’anni sono; perché questo stracca più e non muove tanto; ma che dobbiamo immaginarci ogni cosa come presente, e che tutto segua qui dinanzi a noi, figurandoci di sentire i colpi de’ flagelli e le martellate onde furono confitti i chiodi. E se facciamo la meditazione della morte, dicono, che abbiamo da immaginarci di star già per morire disperati dai medici e con la candela in mano. Quanto dunque sarà più ragionevole, che in quest’esercizio della presenza di Dio facciamo questi atti che abbiamo detti, non come chi parla con chi è assente e lontano da noi; ma come chi parla con Dio presente; poiché lo stesso esercizio lo ricerca e realmente la cosa sta così.

CAPO V.

Di alcune differenze e vantaggi che sono nelfin qui proposto esercizio della presenza di Dio relativamente ad altri che si soglion proporre.

Acciocché si possa veder meglio la perfezione e l’utilità grande di questo esercizio e modo di camminare e di stare alla presenza di Dio, del quale abbiamo ragionato, e resti con ciò la cosa meglio dichiarata, noteremo ora alcune differenze o vantaggi che trovansi in questo esercizio, rispettivamente ad alcuni altri. – Primieramente, in altri esercizi che alcuni sogliono preporre di camminare e stare alla presenza di Dio, ogni cosa pare che sia atto d’intelletto e ogni cosa pare che finisca in immaginarsi Dio presente; ma questo presuppone quest’atto d’intelletto e di fede, che Dio sia presente, e passa avanti a fare atti d’amore di Dio, e in questo consiste principalmente: e questa seconda cosa senza dubbio è migliore e più utile che la prima. Siccome nell’orazione diciamo (tract. 5, c. 11), che non ci dobbiam fermare nell’atto dell’intelletto, che è la meditazione e considerazione delle cose, ma negli atti della volontà, cioè negli affetti e desideri della virtù e dell’imitazione di Cristo, o che questo ha da essere il frutto dell’orazione; così qui la parte principale, migliore, e più utile di quest’esercizio, sta negli atti della volontà: onde questa è la cosa nella quale abbiamo da insistere. – Secondariamente, il che viene in conseguenza di quello che abbiamo detto, quest’esercizio è più facile e più soave degli altri; perché negli altri vi bisogna discorso e fatica dell’intelletto e dell’immaginativa per rappresentarci dinanzi le cose, che è quello che suole straccare e rompere il capo alle persone, e così non può durar tanto; ma in quest’altro esercizio non vi bisogna discorso, ma affetti e atti della volontà, i quali si fanno senza stanchezza; perché sebbene è vero, che vi è pur qualche atto dell’intelletto, questo però si presuppone per mezzo della Fede, senza che ci stracchiamo per farlo sì espressamente, come quando adoriamo il santissimo Sacramento, che presupponiamo per mezzo della Fede, che sta ivi Cristo Salvator nostro, tutta la nostra attenzione e occupazione si volge ad adorare, riverire, amare e chiedere grazie a quel Signore che sappiamo che sta ivi; così passa la cosa in quest’esercizio. E quindi è, che per essere più facile, potrà uno durare e perseverare in esso più lungamente; perciocché anche agli infermi, i quali non possono fare molta orazione, siamo soliti dar per consiglio, che usino d’alzare spesso il cuore a Dio con alcuni affetti e atti della volontà, essendo che questi si possono far facilmente. Onde, quando bene non avesse in sé altro vantaggio quest’esercizio, che il potersi durare e perseverare in esso più che negli altri, lo dovremmo stimare grandemente; quanto più poscia essendovi tanti vantaggi? – In terzo luogo, e questo è un punto principale e molto qui da avvertirsi, l’esercizio della presenza di Dio non è solamente per fermarci in esso, ma ci deve servire di mezzo per far bene le nostre operazioni. Perché, se ci contentassimo d’aver solamente attenzione all’essere Dio presente, e con ciò nelle nostre operazioni ci trascurassimo, e facessimo mancamenti ed errori in esse, questa non sarebbe buona divozione, ma illusione. Sempre abbiamo da premere in questo, che quantunque teniamo fisso un occhio alla sovrana Maestà di Dio, l’altro nondimeno stia volto a far bene le opere per amor suo. E il considerare che stiamo alla presenza di Dio ci ha da servire di mezzo per far meglio e con maggior perfezione ciò che facciamo. Or questo si fa molto meglio con questo esercizio che con gli altri; perché con gli altri s’occupa assai l’intelletto in quelle figure corporali che uno si vuol rappresentare innanzi, o nei concetti che vuol ricavare dall’avere presente quel Signore che ha, e per ricavarne il buon pensiero molte volte la persona non guarda a quello che fa, e lo fa malamente; ma quest’esercizio, come in esso non vi è occupazione dell’intelletto, non impedisce punto l’esercizio delle opere, anzi aiuta assai a farle riuscire ben fatte, perché la persona le sta facendo per amor di Dio che la sta mirando; e così procura di farle in tal maniera e tanto bene, che possano comparire innanzi agli occhi di Dio, e non sia in esse cosa indegna della sua presenza. Intorno al qual punto abbiamo già di sopra spiegato (tract. 2, c. 3) come questo stesso è un altro modo molto buono, e molto utile, e proposto ancora dai Santi, di camminare e stare alla presenza di Dio: e così non istaremo qui a replicare.