IL SACRO CUORE DI GESÙ (18): Il Sacro Cuore di GESÙ e il povero.

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ – S. E. I. Torino, 1920]

Dicorso XVIII

Il Sacro Cuore di Gesù e il povero.

In un sogno rimasto celebre, il gran Papa Innocenzo III vide barcollare le mura della Chiesa di S. Giovanni in Laterano, Madre e Capo di tutte le altre Chiese del mondo, sì che pareva, che quel tempio dovesse cadere rovinando a terra. Ma un uomo, un uomo solo di meschina apparenza, si fece a sostenere l’edificio. Quest’uomo Innocenzo lo vide ben presto in realtà; era un povero, il padre di una immensa famiglia di poveri, S. Francesco di Assisi. Miei cari, ciò che secondo il sogno di Innocenzo III, fu il poverello di Assisi per la Chiesa di Gesù Cristo a quei tempi, è quello che dovrebbe essere mai sempre ogni povero per la Chiesa e per la società. Ed in vero, il povero dovrebbe sostenere la Chiesa e la società, facendosi anzi tutto il commentatore più eloquente del mistero di un Dio nato nella povertà, vissuto nella privazione, morto ignudo sulla croce. Dovrebbe sostenere la Chiesa e la società, professando e predicando agli altri poveri ed a tutti gli uomini, quanto vi ha di più arduo e di più perfetto, vale a dire l’amor di Dio, la rassegnazione ai divini voleri, la fiducia e l’abbandono nella divina Provvidenza, la mortificazione, l’umiltà, la penitenza. Dovrebbe sostenere la Chiesa e la società, animando i ricchi col suo spettacolo e con le sue umili preghiere, ad esercitare generosamente la carità, quella carità, che, ben intesa e ben praticata, checché si dica dai sognatori di matematiche uguaglianze o dagli ammiratori di contrasti meccanici, farebbe sola scomparire la cupidigia, radice di tutti i mali, la separazione e l’odio fra le classi sociali, e farebbe regnare in quella vece l’amore e l’universale fratellanza, insieme con la sola sollecitudine per i beni imperituri del Cielo. Ecco l’opera grande, immensa, a cui dovrebbe riuscire il povero, essendo stato questo il disegno della Divina Provvidenza nell’ordinale, che nel mondo vi fosse il povero. E di ciò ci assicura Gesù Cristo con le flamine di predilezione, che ebbe nel suo Cuore Sacratissimo per il povero. E se il povero non riesce a compiere la grand’opera, a cui fu destinato, non è per altra ragione, se non perché o egli o il ricco, o l’uno e l’altro ignorano, dimenticano, disprezzano quello, che Gesù Cristo col suo Cuore, tutto acceso di amore per il povero, ha insegnato, ha stabilito, ha praticato a prò del medesimo. Miei cari, abbiamo veduto ieri che cosa abbia fatto il Cuore di Gesù in vantaggio dell’operaio; vediamo oggi che cosa ha fatto in particolare per il povero; e così verremo sempre meglio a conoscere che Gesù Cristo fece quanto conveniva per far scomparire le grandi distanze sociali, ed affratellare tutti, grandi e piccoli, padroni ed operai, ricchi e poveri in un solo affetto sotto la dipendenza e la benedizione di un solo e medesimo Padre, Iddio. Che cosa adunque ha fatto Gesù Cristo a prò del povero, animato dalle fiamme amorose del suo Cuore? Ecco ciò che riconosceremo oggi.

I. — Nessuno di voi ignora, come si trovi pressoché in tutti la persuasione, che la ricchezza sia il più gran fattore della felicità. È vero ciò? Se ci fu un uomo, che abbia nuotato in mezzo alle prosperità del mondo, fu certamente Salomone. Egli ricchi palagi, egli numerose schiere di servi, egli ridotti a tributari moltissimi re, egli abbondanza di fertili terreni, egli un popolo fiorente nella pace per opulenza di traffico e di commercio, egli insomma secondo il mondo il più beato dei mortali. I re e le regine, traendo alla sua reggia, si partivano pieni di meraviglia d’avervi trovato mille volte più tanto di quel che suonava la fama. Eppure che diceva quel monarca? « Ho veduto e goduto di ogni bene che vi sia sotto la cappa del cielo, ed ho trovato, che tutto è vanità delle vanità, ed afflizione di spirito. » No, per quanto siano numerosi coloro, che credono diversamente, le ricchezze non rendono felici neppure su di questa terra, e tutt’altro che appagare il cuor dell’uomo, lo gettano in continue angustie. Quante volte il povero, gettando lo sguardo sopra i marmorei palagi, sopra i cocchi superbi, sopra le vesti sfarzose, sopra il portamento altero, sopra gli spassi continui, che il ricco si prende, sente a nascere in cuore il sentimento della più profonda invidia! Insensato! Egli ignora, che il più delle volte sotto quelle rose si nascondono pungentissime spine; che con tutta l’apparenza di quei godimenti, talora vi sono pel ricco tormenti inesprimibili, e che a togliere dall’animo una pena terribile, no, non basta il marmo, l’oro e l’argento sparsi a profusione nella propria casa, non basta l’abbondanza dei servitori in livrea e la varietà dei cavalli e delle carrozze; non basta il lusso sfrenato della mensa e del vestito, non basta il vortice delle danze e il tintinnio delle tazze spumanti! Tutto ciò varrà per qualche istante ad attutirlo, ma non già a levar via il dolore acutissimo di certe piaghe, che nelle famiglie del ricco sono talora ben più larghe e profonde, che non in quelle del povero. E che dire poi, quando le ricchezze, che già si posseggono, per certi animi abbietti non servono che di esca ad accendere in loro una più ardente passione di sempre accumularne delle altre? Oh quali e quanti affanni non esperimentano, a quali stenti non si assoggettano coloro tra gli uomini, che non mirano ad altro che far denari! Quante fatiche nelle botteghe, nei fondachi, nelle compagnie, nei viaggi? Quanti pensieri inquieti, se non sortiranno i guadagni, se falliranno le merci, se andranno a male quelle speculazioni, e quei giuochi di borsa! Quante notti senza sonno, quanti giorni senza pace, quanti pranzi senza sapore per giungere ai sospirati acquisti! Che se poi questi adoratori del dio oro riescono nei loro intenti, ed avranno riempite le loro casse forti, allargati i loro poderi, saranno allora contenti e felici? Appunto! È proprio allora, che si sta in continue e terribili ansietà. Si teme delle stagioni, si teme dei ladri, si teme dei servi, si teme degli amici, si teme degli stessi figliuoli. E per usare il linguaggio di S. Basilio dirò di più, che se latra un cane o si muove un topolino, si teme tosto che già siano in casa i ladri a far man bassa di quanto troveranno. E questa potrà chiamarsi felicità? Oh, ben a ragione, esclama S. Bernardo, ben a ragione le ricchezze sono chiamate spine nel Vangelo: esse sono veramente spine, che prima del loro acquisto pungono pel desiderio, che se ne ha; che dopo il loro acquisto pungono per la paura che si ha di perderle; e che se poi realmente si perdono, pungono ancora per la pena dì non più possederle. Ma il dire che le ricchezze non rendono felici è dir troppo poco. Bisogna aggiungere che le ricchezze non rare volte rendono del tutto infelici, perché non rare volte producono la massima delle miserie, la corruzione dei costumi. Il lusso, vale a dire l’ornamento eccessivo dell’uomo, del suo corpo, della sua casa, delle sue ville, di tutto ciò in cui può far bella mostra di sé, non sarebbe possibile senza le ricchezze. Ma dal lusso si ingenera la mollezza, che spinge l’uomo a distruggere quella proporzione meravigliosa che Iddio ha posto nell’aria, nella luce, nelle stagioni, e in tutti gli elementi esteriori, nell’intento di preservarsi da tutto ciò che gli può recare afflizione. E la mollezza non è forse una delle principali cause della sensualità, che fluisce per condurre alla depravazione? Sì, le ricchezze non di rado depravano i costumi; e la cosa è così manifesta per lo spettacolo che il mondo presenta anche oggidì, che non vi è affatto bisogno di fermarsi più oltre a dimostrarlo. Stando adunque così le cose, ecco perché Gesù Cristo venuto sulla terra per rimuovere di mezzo agli uomini la infelicità e procacciare ai medesimi la felicità vera, tenne una condotta o predicò una dottrina, la quale ebbe di mira di distaccarci propriamente dall’amore delle ricchezze e per l’opposto farci amare la povertà. « Essa, dice San Bernardo, non si trovava in cielo, ma abbondava sulla terra e l’uomo ne ignorava il valore; perciò il Figlio di Dio la elesse per sé, affine di renderla a noi preziosa. » Difatti, gettando lo sguardo sulla vita e sugli insegnamenti di Gesù Cristo, bisogna riconoscere, che al povero rivolse di preferenza le fiamme del suo Cuore e i pensieri della sua mente, e che il povero fu uno degli oggetti principalissimi delle sue divine preoccupazioni. Io contemplo Gesù, che nasce in una spelonca, ed appena nato è posto a giacere in una mangiatoia sopra un po’ di paglia. Quale povertà! Ma forse che essa viene dal caso, da necessità, da impotenza? No certamente; Gesù Cristo è nella povertà perché lo volle, e lo volle con volontà eterna, con volontà efficace di ciò che vuole. Secondo il corso naturale dello cose avrebbe dovuto nascere nella casetta di Nazaret, ma quella povertà non gli basta, e col censimento del romano impero mette sossopra il mondo, conduce a Betlemme la Madre sua, la costringe per mancanza di un albergo a ricoverarsi in una stalla, e là nel colmo dell’abbandono e della miseria, fa il solenne suo ingresso nel mondo. Gesù non ha semplicemente accettato la povertà, ma l’ha proprio voluta con libera e sovrana elezione. Ha veduto prima di nascere da una parte i ricchi, dall’altra i poveri; e padrone assoluto delle sue sorti, ha detto: Preferisco esser povero, ed il più povero di tutti i poveri. E in seguito? in seguito ha voluto vivere povero guadagnandosi per trent’anni di vita privata il pane col sudore della sua fronte, in una casetta povera, sotto l’ubbidienza di un povero falegname. Durante la sua vita pubblica tale è la sua povertà, che è costretto a dire: « Le volpi hanno le loro tane, e gli uccelli dell’aria i loro nidi; ma il Figliuol dell’uomo non ha dove posare la testa. » (MATT. VI, 20) E finalmente dopo una nascita povera, una vita povera, fa una morte da povero, spogliato persino delle sue vesti, sicché per seppellirlo fu necessario, che gli dessero per limosina un lenzuolo ed un sepolcro. Ma ciò non è tutto? Perciocché non contentandosi di prediligere ed onorare la povertà nella sua persona, la predilesse e l’onorò ancora nella persona altrui. Difatti sono i poveri, che chiama per i primi alla sua capanna, ed i poveri sono quelli, con cui passa la sua vita privata. Nella vita pubblica attesta di essere stato mandato dal Padre suo per evangelizzare i poveri: i poveri elegge a compagni della sua predicazione, a cooperatori dell’opera sua. Epperò le primizie del sacerdozio, la continuazione del suo apostolato, la via privilegiata dell’angelica perfezione, tutto ciò che vi ha di più grande, di più eletto, di più sublime ei lo riserva ai poveri. Quale differenza tra l’operare di Gesù Cristo e il sentimento del mondo! Il povero secondo il mondo è un proscritto, un rifiuto della natura, un misero, che si trascina per mezzo al fango ed alla polvere, e direi quasi un uomo colpevole, sicché chi lo degna di uno sguardo, si crede di onorarlo, e chi gli volge una parola di fargli una grazia. Gesù Cristo invece lo riguarda e lo tratta come l’uomo più degno di stima e di onore. Ah! certamente il Cuore di Gesù, così infiammato di amore per il povero, non poteva far di più a sua esaltazione. Ed in vero si osservi, che Gesù Cristo è l’eterna Sapienza, la quale non può ingannarsi affatto sul pregio delle umane condizioni; che Egli in tutta la sua condotta non ebbe altro di mira che glorificare il suo Padre celeste ed operare la saluto degli uomini; che infine essendo egli non solo vero uomo, ma pure vero Dio, tutto ciò che Egli ha fatto, partecipa alle sue divine grandezze ed acquista un valore infinito. Perciò adunque alza pure, o povero, alza santamente la testa; non ostante l’umile tua condizione esclama con gioia: Checché il mondo pensi di me, di me ha pensato bene la Sapienza Incarnata; e la mia povertà nella persona di Gesù Cristo ha servito a glorificare Iddio ed a salvare il mondo; e davanti a questa povertà cielo e terra si sono incurvati, angeli e uomini hanno piegato il ginocchio. E voi adulatori del popolo, provatevi se potete a fare di più per conciliargli stima ed affetto.

II. — Ma ben altro ancora, o miei cari, ha fatto Gesù Cristo a prò del povero. Un giorno, sedendo Egli sopra il dosso di una collina che costeggia il bel lago di Genezaret, apriva la sua bocca per pronunciare quel discorso che rimase il più celebre di tutti e per la sua estensione, e per la sua celeste dottrina e per l’accento di magistero, con cui venne da Lui pronunziato. Or bene questo discorso così sublime, che ha per base otto beatitudini, le quali sono la Magna Charta del nuovo regno di Dio, come comincia esso? Udite, e restatene attoniti: « Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. » Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum cælorum. ( MATT. v, 3 ) Ma come? Il mondo ha sempre gridato e continua a gridare: Beati i ricchi! e Gesù Cristo invece incomincia il suo più grande discorso col dire: Beati i poveri? Tant’è, perché  lo spirito di Gesù Cristo è diametralmente opposto allo spirito del mondo e se il mondo s’inganna ed è ingannatore nelle massime che predica ai suoi seguaci, Gesù Cristo invece è sapienza eterna e verità infallibile. Difatti benché questa parola fosse stata già decisiva, il Divino Maestro non lasciò tuttavia di allargarla, di spiegarla, di confermarla. Parlando delle ricchezze le chiamò mammona di iniquità, nemiche di Dio, cattivo demonio, e volgendosi ai ricchi, pronunziò contro di essi dei terribili guai, e fece conoscere il gravissimo pericolo, che, in opposizione ai poveri, correvano della loro eterna salute. « È più facile, Egli disse, che una grossa fune passi per la cruna di un ago, anziché un ricco si salvi. » E per comprovar meglio questa sentenza raccontava ancora la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro. Quegli ogni giorno banchettava splendidamente co’ suoi amici e intanto crudelmente negava al povero persino le briciole di pane che cadevano dalla sua mensa, tanto che i cani di questo avevano maggior compassione, perché venivano e gli leccavano le sue piaghe. Ma alla fine morirono e l’uno e l’altro; e il povero Lazzaro fu portato in seno di Abramo, mentre invece il ricco Epulone fu sepolto nel profondo dell’ inferno. Et sepultus est in inferno (Luc. XVIII, 22). Senza dubbio, le parole di Gesù Cristo vogliono essere intese esattamente. Perché altrimenti come spiegare che non pochi tra gli uomini si fecero santi, benché ricchi, nobili e potenti? Non era forse ricco nell’antica legge, un Abramo, che a testimonianza della Sacra Scrittura, per l’abbondanza dell’oro, dei greggi, degli armenti e dei servi appena poteva bastare la terra? Non erano ricchi Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Davide, Giosia ed altri? Nella legge nuova non furono ricchissimi, fortunati e grandi un S. Enrico imperatore, un S. Luigi re di Francia, un S. Ferdinando re di Castiglia, un S. Edoardo re d’Inghilterra, un S. Venceslao re di Boemia, un S. Stefano re d’Ungheria, un S. Casimiro della stirpe dei re di Polonia, una S. Matilde, una S. Adelaide, una S. Edvige, una S. Elisabetta, una S. Clotilde, una S. Radegonda, una S. Margherita, una Bianca di Castiglia, una Matilde di Canossa, una Francesca di Chantal, una Cristina di Savoia, e tante altre regine e nobilissime donne? Non è dunque propriamente contro le ricchezze, che Gesù Cristo si scagli come se fossero cattive in sé medesime, e di loro natura cagione di mali fra gli uomini. Le ricchezze in sé non sono né cattive, né proibite, e a chi saggiamente ne usa, come fecero i Santi, possono servire per procacciarsi grandi meriti per il cielo, e tanto maggiori, quanto più torna difficile vivere tra di esse senza attaccarvi il cuore e riporvi ogni speranza. Gesù Cristo si scaglia contro l’abuso, che ne fanno la più parte dei ricchi. Come pure non è contro di tutti i ricchi, ch’Egli pronunzi la sentenza di dannazione, ma solo contro di quelli, che o amando smodatamente le loro ricchezze, le vanno con sordida avarizia tesoreggiando, o disprezzandone lo scopo le gettano prodigamente nei piaceri e nei godimenti della vita. Così non è già a prò di tutti i poveri, che Egli assicuri l’eterna salvezza, ma solo a prò dei veri poveri di spirito, di coloro cioè che non sono tali per la loro pigrizia e pei disordini della loro vita, che non si lamentano del loro stato, che sopportano con pazienza le privazioni, a cui devono andar soggetti, e non guardano i ricchi con occhio di maligna invidia e non si fanno a chiedere con pretensione superba. Con tutto ciò è certissimo che la dottrina, sgorgata in proposito dal Cuore Santissimo di Gesù, ha gettato un fascio di luce sulla condizione del povero, mostrando ed assicurando, che la sua è per eccellenza una di quelle condizioni, che importano la eterna felicità. Ed ecco perché in seguito a questa gran parola si sono veduti non solo dei poveri a benedire alla loro povertà, ma dei ricchi, dei principi, dei sovrani, dei Pontefici spogliarsi volonterosamente delle loro ricchezze e scendere dal fastigio della loro grandezza. S. Antonio Egiziano, ancor giovane di età, avendo perduto i suoi genitori, benché nobile e ricchissimo, vende tutte quante le sue possessioni, ne distribuisce il prezzo ai poveri e sciolto così da ogni impedimento terreno, va nel deserto a menar vita del tutto celeste. S. Francesco di Assisi, perché troppo largo coi poveri, costretto dal padre a rinunziare ai beni di famiglia, si spoglia spontaneamente persino delle vesti e professa d’allora in poi la povertà più perfetta, chiamandola col nome di sua madre, di sua sposa, di sua padrona e di sua regina. S. Francesco Borgia, quando può rinunziare il suo ducato di Candia e ritirarsi dalla corte di re Carlo V, si stima fortunatissimo di diventar povero per amore di Gesù. Nessuna pietanza del suo re gli è mai parsa tanto gustosa come il primo pane che egli mangia dopo averlo ottenuto per elemosina. S. Pietro Celestino sublimato all’apice del sommo Pontificato, volontariamente vi rinunzia, posponendolo per amore a Gesù Cristo ad una vita umile, povera. Tutti costoro e cento e cento altri vollero appartenere con la maggior sicurezza possibile al numero di quei fortunati, pei quali Gesù Cristo ha detto: Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli! Ebbene, o miei cari, quando il Cuore di Gesù non avesse più fatto altro a prò del povero, non avrebbe già fatto tutto? Affidato alla parola di Gesù Cristo, quando pure il povero dovesse per ragione della povertà soffrire assai, ed anche presto morire, non dovrebbe incontrare volentieri il sacrifizio della sua stessa vita, che alla fin fine non è che un globo di fumo, sapendo di fare acquisto di quella vita, che non finirà più mai e sarà ricca di ogni bene?

III. — Ma è verissimo, che Iddio ha dato a tutti, e perciò anche al povero, l’istinto della propria conservazione, che anzi a tutti ne ha fatto espressamente una legge. E come potrà il povero seguire questo istinto e secondar questa legge quando egli o per la mancanza del lavoro, o per la debolezza o per l’infermità, o per la vecchiaia non potrà guadagnarsi il tozzo di pane per satollarsi? Dovrà egli in onta alla legge ed all’istinto abbandonarsi a perire miseramente di fame? Così era prima della venuta di Gesù Cristo. Già ebbi occasione di dirlo. I fanciulli, che nascevano deformi, od erano creduti soverchi nel seno della famiglia, venivano barbaramente gettati fuori di casa a morire d’inedia o in pasto ai cani. Gli infermi poi ed i vecchi erano riguardati come ingombro della famiglia e della società, e si poteva benanche, affine di sbarazzarsene rilegarli tutti dentro un’isola e lasciare, che presto senza alcun cibo finissero la vita. Ma venne Gesù Cristo e le cose quasi d’un tratto mutarono. Ecco degli asili per ricevere i fanciulli abbandonati. Ecco degli orfanotrofi per accogliere i figlioletti, che han perduto il padre e la madre. Ecco dei piccoli ospedali per allogarvi quei poveretti che nacquero con qualche deformità. Ecco delle scuole per i fanciulli poveri, dove imparano come i fanciulli dei ricchi, e forse assai meglio. Ecco degli ospedali per i malati poveri. Ecco degli ospizi e dei ricoveri per i vecchi poveri; ospedali, ospizi, ricoveri, dove tutti questi bambini, questi figlioletti, questi infermi, questi vecchi ricevono tali amorevolezze che si credono di avere a sé d’accanto degli Angeli e non delle creature di questo mondo. Ed ecco per di più queste dame, che se usano cavalli e carrozza non è che per recarsi a far visita ai poveri ed agli infermi, e con l’obolo generoso della carità cristiana sovvenire tanti bisognosi; ecco questi giovani, questi signori veramente nobili, questi soci di S. Vincenzo de’ Paoli, che si recano ancor essi

a confortare col danaro e con la parola i cuori di tante famiglie afflitte; ecco dei ricchi, che distribuiscono ogni giorno delle ingenti elemosine, ed eccone degli altri ancora, che non solo in sul morire coi testamenti, ma prima ancora, durante la loro vita, non si danno maggior cura, che di impiegare la massima parte dei loro averi nelle opere di beneficenza. Orsù, ditemi, trovate voi di siffatte cose presso l’antichità? No, non le troverete neppure presso il popolo più incivilito che vi fosse. A Roma voi troverete pure i ruderi del Palazzo dei Cesari, chiamato la montagna d’oro, tali e tante erano le ricchezze, che ivi si accumulavano; troverete le rovine del Colosseo e dei teatri, dove i patrizi e le matrone romane si adunavano gavazzando nel mirare dei poveri schiavi, che lottando gli uni contro gli altri, si toglievano miseramente la vita per divertire i signori; troverete gli avanzi di quei templi, all’ombra dei quali si commettevano le orge nefande del vizio; troverete i resti di quelle terme, ove i ricchi non solo nel bagno, ma nei lazzi, nelle ciance e nei divertimenti, cercavano di liberarsi dalla noia del far niente; anzi a Pompei troverete ben anche gli avanzi delle case del peccato, ma, ditemi troverete voi un sasso che possa dirvi: Io appartenni ad un asilo, ad un ospedale, ad un ospizio di carità? No, o miei cari. Tutto ciò era sconosciuto prima di Gesù Cristo. Or come mai Gesù Cristo ha ottenuto questo? In un modo semplicissimo; col fare uscire fuori dal suo Cuore, acceso di carità pel povero, una legge, non altrimenti espressa che con quattro brevi parole: Quod superest, date elæmosynam; (Luc. XI) « O ricchi: quello che vi sopravanza, datelo in elemosina. » Quello che vi sopravanza! Senza dubbio voi avete dei bisogni rispondenti allo stato di ricchezza in cui vi trovate. Soddisfate pure a questi bisogni legittimi; ma dopo che li avete soddisfatti, quanto vi resta non è più per voi, è per i poveri, giacché io non mi contento di dare al povero la sicurezza dell’eterna vita, ma voglio dargli ancora la sicurezza della vita presente, mercé il vostro superfluo. Ecco in sostanza quello che ha detto, che ha fatto Gesù Cristo. E per essere più sicuro di ottenere quanto comandava Egli non ha voluto lasciare di far conoscere al ricco la grandezza del premio, che avrebbe ricevuto per l’adempimento del suo dovere, e il gran castigo, che gli sarebbe stato inflitto per non averlo adempito. Date, egli disse, et dabitur vobis: date e sarà dato a voi: mensuram bonam et confertam et coagitatam, et supereffluentem dabunt in sinum vestrum: voi farete elemosina, ed in compenso riceverete una misura giusta e pigiata e scossa e colma. (Luc. VI, 38). Né crediate, che questa misura vi sia riservata solo nell’eternità: no, il centuplo lo riceverete anche quaggiù: Centumplum accipiet in tempore hoc, (MATT. XIX, 29 e MARC, X , 30) e non solo in beni spirituali, come spiegano i Santi Padri, ma anche i beni temporali. Ma ciò non è tutto; perché nel giorno della retribuzione eterna Io, volgendomi a voi, o ricchi elemosinieri, vi dirò: « Venite, o benedetti dal mio Padre celeste, possedete il regno preparato per voi fin dal principio del mondo. Imperocché io avevo fame e voi mi deste da mangiare, avevo sete e mi deste da bere, ero pellegrino e mi ospitaste, ero nudo e mi ricopriste, infermo e mi visitaste, carcerato e veniste a me. So bene, che allora voi meravigliati mi direte: Ma quando mai, o Signore, noi abbiamo fatto a Voi queste cose? Quando mai? Ogni volta, che avete fatto qualche cosa per qualcuno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatta a me. « Quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis minimi, mihi fecistis. » (MATT. XXV, 40) E per dirlo di passaggio almeno, ecco in seguito questo Divino Maestro verificare eziandio alla lettera la sua parola. Eccolo, nelle sembianze di un povero e nudo presentarsi ad un S. Martino, domandargli la elemosina e ricevutane una parte della sua clamide, farglisi poscia vedere nella notte seguente rivestito di quell’abito. Eccolo, sotto l’apparenza di un meschino, stendere la mano ad un S. Francesco di Assisi, ed avutane la carità manifestarglisi tutto splendido di luce celeste. Eccolo, come misero lebbroso farsi innanzi ad una S. Elisabetta, regina di Portogallo, da lei pietosamente raccolto, portato a casa, lavato, medicato, e coricato nel proprio letto, mostrarlesi come crocifisso nell’atto del più tenero affetto. Oh! tutto ciò Egli faceva per accrescere sempre maggior fede nella sua divina parola, e per renderci ognor più certi, che Ei ritiene e prenderà come fatto a sé tutto quello che si avrà fatto per qualcuno dei poveri. Quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis minimis, mihi fecistis. Ecco adunque il premio promesso ai ricchi dispensatori del loro superfluo ai poveri. Ma ecco altresì il castigo, che sarà inflitto a coloro, che negheranno ai poveri questo loro superfluo. Miei cari! Vi hanno gli Epuloni, che pur potendo largamente donare, perché anche scapricciandosi a lor talento non trovan modo di dar fondo alle loro ricchezze, tuttavia ai poveri Lazzari, che si umiliano loro dinanzi per domandare le briciole, che cadono dalla loro mensa, rispondono con dispetto e con disprezzo : « Eh, non c’è nulla, andate con Dio….» Ebbene! questi poveri Lazzari andranno con Dio davvero, ma vi andranno per dirgli la vostra durezza, per domandargli giustizia dei loro diritti calpestati, per attirare sul vostro capo la più terribile vendetta. Davide nei suoi Salmi (CXXXIX) aveva già scritto, che il Signore farebbe giustizia ai bisognosi e vendicherebbe i poveri: Cognovi quia facit Dominus iudicium inopis, et vendictam pauperum. Ma Gesù Cristo ha voluto confermare e spiegare Egli stesso questa parola ispirata al suo profeta. No, non si tratta soltanto di sciagure temporali, benché anche queste ordinariamente non manchino su quelle case ricche, su quegli uomini potenti, che non fecero alcun caso del povero; si tratta della sciagura eterna, si tratta dell’irrevocabile sentenza d’un giudizio senza misericordia a chi non fece misericordia. « Su, su, dirà il divin Giudice nel giorno estremo di ira, quante lagrime, o ricchi, avete voi asciugate? quanti poverelli nudi avete ricoperto? a quanti famelici avete dato pane? Voi li vedeste strisciarvi ai piedi come vermi, voi li udiste gridare in massa: abbiamo fame, dateci pane; voi li vedeste persino accendersi di sdegno pei vostri rifiuti e minacciare le vostre case, i vostri averi, la vostra vita, eppure…. non vi scuoteste, non vi faceste perciò più pietosi, anzi diveniste anche più crudeli; arrivaste sino al punto da nascondere il frumento, per asciugare quanto potevate le misere borse dei poverelli; ebbene: andate, o maledetti, al fuoco eterno, perché sono Io, che nella persona de’ miei poveri ero nudo, avevo fame, pativo infermità, e vi domandavo soccorso, e sono Io, a cui lo avete rifiutato: Discedite, maledicti, in ignem æternum. (MATT. xxv, 46) Così adunque Iddio castigherà quei ricchi avari, i quali non avranno praticato in vita il suo precetto: Quod superest, date elæmosynam. Il che lascia facilmente comprendere quanto più terribile ancora sarà il furore, con cui Gesù Cristo si scaglierà a far vendetta di quei poveri, che per le usure di barbari creditori o per i balzelli intemperanti di prepotenti governanti sono ridotti all’estrema indigenza. Nella vita di S. Francesco di Paola si legge, che trovandosi un giorno dinnanzi a Francesco I, re di Napoli, con santo ardire gli dicesse: Sire, col sovraccarico delle imposte e dei tributi, che tutti i giorni rinnovate sul vostro popolo è il pane delle vedove e degli orfani che voi rapite, è la sussistenza dei poveri, che divorate, è il loro sangue che succhiate…; e che dicendo queste ultime parole, premendo nelle sue mani parecchie monete d’oro del re, ne facesse, con insigne miracolo, gocciolare propriamente del sangue. Se è adunque sangue il denaro, che si estorce al povero popolo con ingorde usure, con imposte intolleranti e con esazioni ingiuste, sangue che si spreme dalle sue vene e dal suo cuore, pensino i crudeli usurai e i potenti della terra, che questo sangue sale sino al trono di Dio per gridare vendetta, e che a questo grido dei poveri, Dio, che è il loro Padre, fin d’ora si commoverà e si leverà su a vendicarli con improvvise rovine e con umilianti obbrobri, riservandosi tuttavia di pienamente vendicarli nell’altra vita, poiché sta scritto, che potentes potenter tormenta patientur, (Sap. VI, 7 ) i potenti saranno potentemente tormentati. Ecco adunque, come quel Dio, che giusta l’osservazione di S. Ambrogio, non è ingiusto, non è inconsiderato, non è impotente, avendo creato i ricchi ed i poveri, ha pensato agli uni e agli altri. Ecco come quel Dio, che riveste di tanta gloria il giglio del campo, che nutre gli uccelli dell’aria e provvede al vermicciatolo, che striscia nel fango, non ha lasciato di determinare la necessaria porzione ai poveri, dando in loro proprietà il superfluo dei ricchi. Certamente essi non sono in diritto di appropriarselo per sé, ma ne hanno vero diritto e i ricchi sono in dovere di darlo, perciocché la parola di Gesù Cristo: Quod superest, date elæmosynamnon è parola di solo consiglio, ma è parola di assoluto precetto. E così mentre il ricco ha da essere il protettore del povero, il povero è destinato ad essere il salvatore del ricco, porgendogli il mezzo di tramutare le sue ricchezze nell’acquisto del cielo, e si manifesta il gran segreto della divina Provvidenza, il giudice che ha in mano la sorte dei grandi ed accumula sopra di essi benedizioni o maledizioni, l’uomo misterioso e possente, alla cui voce Iddio s’inchina per chiudere o dischiudere i tesori della sua misericordia e far piovere ancora sui ricchi l’abbondanza o colpirli di sterilità e castigo. Ah! pur troppo la miseria cresce spaventosamente, non ostante la forza del precetto di Gesù Cristo; ma certi poveri ne accagionino anzi tutto se stessi, che anzi tempo si sono resi deboli, infermi, incapaci al lavoro nelle ubriachezze, negli stravizi, nei disordini senza numero e persino in un lusso ridicolo, per cui alle volte non avendo pane in casa, vogliono poi al di fuori far la figura del conte e della contessa; accagionino sé, che talora nel giuoco, nelle crapule e nelle disonestà consumano in breve ora il guadagno di una settimana e forse anche di mesi, di anni; accagionino sé, che non avendo voglia di lavorare, vorrebbero vivere tuttavia alle spalle del ricco, e poi ne accagionino… Ah! ricchi, che mi ascoltate: tenetelo ben fermo, che noi, Sacerdoti, ministri del Dio di carità, saremo ben lungi, checché ne voglian giudicare certi politici, dall’eccitare le turbe all’odio di classe. Ma con tutto ciò, a noi incomberà sempre il dovere di ripetervi con santa libertà le parole di Gesù Cristo e di farvi conoscere, che se nel mondo regna tanta miseria e il povero popolo sentendo più e più aggravare le sue calamità, scarno per fame, coperto di cenci, circondato dalle mogli lagrimose, dai figli ignudi, non avendo per casa che un antro, per letto che il terren nudo, perde la fede nella divina Provvidenza, e dice bestemmiando che Iddio non si cura punto delle sue necessità, e alza grida di esecrazioni ed arma la mano sdegnosa contro la società, in cui vive, ciò è pure per causa di non pochi di voi, che dimenticano, che non curano, che disprezzano il precetto di Gesù Cristo: Quod superest, date elæmosynam, date ai poveri, ciò che vi sopravanza. Io so bene, che certi ricchi si danno a credere, che questo non sia più che un consiglio, del quale possono a lor talento tener conto o no; so, che ve n’hanno di quelli i quali, pur intendendo la gravezza del vero comando, pretendono tuttavia di sottrarsi all’obbligo di praticarlo con dire, che appena appena posseggono quel che è loro necessario; so infine, che taluni si credono di aver soddisfatto al loro dovere, se hanno gettato una vil moneta a qualche misero pezzente, che li andò seccando lungo la via. Ma so altresì, che è dovere assoluto del ricco, non meno che del povero, studiare il Vangelo e praticarlo; so, che ben di spesso chi asserisce di avere il puro necessario è un mentitore solenne, che si abbandona tuttavia ad un lusso immoderato, a piaceri, a divertimenti incessanti, a conviti epuloneschi; e profonde argento ed oro ad un labbro che canta, ad un piede che guizza, e forse anche ad una peccatrice che vende l’onore; so che, chi avendo molto dà poco, è come se non desse nulla; opperò posso dire e ripetere con tutta certezza che, se il povero manca talora del necessario sostentamento, è proprio per cagione di certi ricchi, che non intendono, che non vogliono intendere il gran precetto della carità cristiana, intimato solennemente da Gesù Cristo. Non così certamente accadeva nella Chiesa primitiva, e sebbene il furore dei Cesari dannasse i ricchi Cristiani, oltreché alle prigioni, agli esili, ai patiboli, anche alla confisca di tutti i loro beni, pur tuttavia non veniva meno mai la elemosina ai poverelli, ed anzi pareva, che tra i fedeli la povertà non non si conoscesse neppur di nome. Ma quei primitivi Cristiani avevano altamente impressa nel cuore la dottrina di Gesù Cristo ed è perciò che, riguardando nei poveri altrettanti fratelli, ponevano con tanto disinteresse i loro beni in comunanza, e con tanta generosità li distribuivano. Non altrimenti operavano i Santi; i quali tanto solleciti di farsi i padri dei poveri, giungevano sino al punto da spogliarsi essi di tutto e spezzare i vasi d’oro e d’argento e le collane preziose per assisterli e beneficarli, come un S. Agostino, un S. Ambrogio, un Amedeo di Savoia; da servir loro in ginocchio, chiamandoli col nome di padroni, come le due sante regine Margherita di Scozia ed Elvige di Polonia; e da vendersi schiavi per dar in limosina il prezzo della loro persona, come un S. Paolino, un S. Serapione, un S. Pietro Telonario ed un S. Raimondo. O ricchi! io non vi dirò: fate lo stesso ancor voi. No, voi non siete obbligati a questo eroismo. Anzi senza entrare nelle case vostre, nelle vostre guardarobe, nei vostri scrigni, per vedere se sia realmente vero quello che dite, non aver nulla di superfluo, lasciando che ciò faccia la vostra coscienza, e un giorno al Divin tribunale Gesù Cristo giudice, ammettendo pure che sia così, io vi dico tuttavia: voi almeno avete occhi: impiegateli dunque a guardare amorevolmente il povero. Voi avete orecchi: impiegateli ad ascoltare le sue miserie. Voi avete lingua: impiegatela a confortarlo nella sue condizione. Voi avete mani, impiegatele a prestargli qualche servizio. Voi avete piedi: impiegateli a recarvi qualche volta in casa sua. Oh la carità non è tutta di pane: è il trattare con dolcezza, con affabilità, con domestichezza col povero è già una delle carità più fiorite, che voi gli possiate fare, e della quale lui, il povero, e Dio vi saranno grati. Ma no, non contentatevi di questo. Questo fate, questo non tralasciate, ma non questo solo, perché Io lo so, e voi lo sapete meglio di me, voi potete fare di più. Animo adunque! Facendo tacere in cuor vostro ogni futile e crudele pretesto, lasciate che parli solamente la voce della carità e del dovere. Studiate le miserie, che più aggravano la povera società, e affrettatevi con mano generosa a sovvenirle. Vi sono tanti vecchi, tante vedove, tanti orfani, tante fanciulle abbandonate, tanti bambinelli esposti, tanti infermi derelitti, tante famiglie sofferenti, che con le lacrime agli occhi chiedono aiuto. Vi sono tanti istituti, tanti orfanotrofi, tanti oratorii, tanti ospedali, tanti ricoveri, tanti ospizi che minacciando di finire la loro esistenza, si volgono a voi per rimanere in piedi. Vi sono pure tante povere chiese che mancano degli arredi più necessari per i divini misteri, tante popolazioni, che mancano di chiese, tanti paesi che mancano di sacerdote, perché tanti buoni giovani mancano del necessario per entrare nei seminari, e i seminari mancano dei mezzi per accettarli; vi sono insomma necessità molteplici, gravi, imperiose, che si schierano tutte dinnanzi a voi. Muovetevi a pietà: aprite le vostre mani, date con la massima generosità, e meritatevi così i grandi beni, che perciò Gesù Cristo vi ha promesso. Gli infelici da voi soccorsi con la eloquenza del­ le loro preghiere e delle loro opere parleranno a Dio per voi, in vita, e in morte, e quando già sarete alle porte dell’eternità, Gesù Cristo contemplando il frutto delle vostre beneficenze, che come onda incessante si verseranno ancor sui poveri, vi accoglierà festanti nel suo immenso Cuore e vi cingerà il capo di diadema immortale. Poveri! voi con la rassegnata sofferenza; ricchi! voi con la generosa beneficenza, avete in mano gli uni e gli altri la chiave del regno de’ cieli. E voi, o Cuore Santissimo di Gesù, che essendo infinitamente ricco vi siete fatto per nostro amore infinitamente povero, e ne avete insegnato la più sublime dottrina intorno alla povertà, fate che tutti apprezziamo altamente l’esempio vostro, e seguiamo fedelmente i vostri insegnamenti; che, se poveri, viviamo rassegnati in quello stato, in cui ci avete posti per vostra somiglianza; che, se ricchi, adempiamo la vostra volontà ed impieghiamo le nostre ricchezze a farci degli amici, che ci accolgano un giorno negli eterni tabernacoli.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.