I SANTI MISTERI (8)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (8)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXIX

Il seguito del PATER, fino all’AGNUS DEI.

Il Sacerdote traccia su se stesso un gran segno di Croce con la Patena, dicendo le parole della preghiera “secreta” che segue immediatamente il Pater: « degnatevi di accordare la pace ai giorni in cui viviamo; » e bacia la Patena che fa scivolare tra l’Ostia santa ed il Corporale, di modo tale che il Santo Sacramento riposi su di essa, ed essa sul Corporale. Egli prende poi l’Ostia, la spezza a mezzo in due parti uguali, al di sopra del Calice; tenendo con una mano sul Calice la metà dell’Ostia, depone l’altra metà sulla Patena; poi stacca dalla prima metà dell’Ostia un frammento che tiene con la mano destra, mentre riporta sulla Patena il restante della santa Ostia che vi si ricompone tutta intera, salvo la particella sospesa sopra il divin Sangue. Con questa particella il Sacerdote forma tre segni di Croce all’interno del Calice dicendo: « La pace del Signore sia sempre con voi! » e lascia cadere la particella nel Calice. Egli recita poi i tre Agnus Dei, terminando i due primi con: Miserere nobis, ed il terzo con: Dona nobis pacem. Questa pace, frutto della liberazione, è il seguito naturale e lo sviluppo del: Libera nos a malo. Con la bocca del Sacerdote, la Chiesa domanda, a nome di GESÙ-CRISTO, che la pace di DIO le venga accordata, e che sia da ora liberata dai suoi nemici interni ed esterni, per quanto lo permetta la sua condizione militante. Essa chiede anche che la grande, sovrana pace del trionfo, arrivi il più presto possibile. Essa chiama con tutte le sue voci il glorioso Avvento del suo Re e Liberatore. Ma prima bisogna che Essa soffra la grande tribolazione che le ha predetto GESÙ stesso nel Vangelo, la suprema persecuzione dell’anticristo; questa prova spaventosa sarà la Passione della Chiesa, la Passione dei membri, complemento della Passione del Capo. Secondo l’Apostolo san Giovanni, essa deve durare quarantadue mesi (Et civitatem sanctam calcabunt mensibus quadraginta duobus. – Apoc. XI, 2. – Et data est ei (bestiæ, id est, autichristo) potestas facere menses quadraginta duos. – ibid., XIII, 5), tre anni e mezzo ed accompagnerà o seguirà da vicino la conversione di Israele. – Secondo ogni apparenza, essa è significata dal gran segno di Croce che traccia su di sé il Sacerdote, cioè la Chiesa, nel momento in cui bacia la Patena; nel momento in cui l’antica Alleanza, oramai riconciliata con la nuova, ritroverà infine GESÙ-CRISTO; la Patena in effetti, come noi abbiamo visto più in alto, simbolizza all’altare la Chiesa giudaica. Allora la Santa Vergine sarà la Regina d’Israele convertito; il Corporale porta la Patena che a sua volta sostiene la Santa Ostia. Questo frazionamento della santa Chiesa, all’epoca della grande tribolazione, è ancora espressa dalla frazione dell’Ostia; e la particella che il Sacerdote lascia cadere nel Calice, simbolizza ciò che san Giovanni chiamava la “prima resurrezione” resurrectio prima, cioè la resurrezione degli Eletti, che seguirà immediatamente alla distruzione dell’anticristo e all’apparizione gloriosa del Signore GESÙ; « il Figlio dell’uomo, dice espressamente il Vangelo, radunerà allora i suoi eletti dai quattro angoli della terra. (Et congregabit electos suos a quatuor ventis. (Ev. Marc, XIII, 27; Matth. XXIV, 31; Luc. XXII). » Sottolineiamolo, Nostro Signore non parla che dei suoi Eletti: « electos suos ». Non è ancora in questione la resurrezione dei riprovati. Il Sacerdote, unendo anche al prezioso Sangue un frammento dell’Ostia, fa all’interno del Calice tre segni di croce con la santa particella, che rappresenta qui tutti gli Eletti del triplice trionfo. Egli desidera che i suoi astanti facciano parte di questa beato gregge dicendo: « La pace del Signore sia con voi! » Nostro Signore, presente sulla Patena come Ostia fratturata, e nel Calice con la mescolanza delle due specie sacramentali, ci viene mostrato come Crocifisso e Resuscitato con tutti i membri mistici, con tutti gli Eletti. La frazione significa la morte sia del Capo che dei suoi membri; la riunione del Corpo e del Sangue, della santa particella al vino consacrato, simbolizza la Resurrezione gloriosa. Ed è la grazia di questo mistero di morte e di resurrezione, di cui noi stiamo per appropriarci a breve, ricevendolo in noi con la Comunione, la Vittima del Sacrificio. Il Corpo di Nostro Signore si trova dunque nello stesso tempo sulla Patena e nel Calice. Questa prescrizione liturgica non significherebbe forse ancora ciò che già abbiamo indicato, cioè che la Chiesa resuscitata e glorificata regnerà, trionferà simultaneamente sulla terra e nel cielo e prima di entrare per l’eternità nel seno del Padre (ciò che viene espresso dalla Comunione), la sua gloria sulla terra avrà una eclatante manifestazione? Per quanto mi riguarda, pur riconoscendo che si tratti di una semplice opinione, io lo credo fermamente, e mi rallegro già nel Signore Nostro, per questo regno pacifico ed universale del vero Salomone. San Giovanni sembra insegnarlo in maniera formale. Nel ventiquattresimo capitolo dell’Apocalisse, egli dice che l’Avvento del Re di gloria, satana sarà legato per mille anni. I martiri di Gesù e coloro che non avranno voluto ricevere il segno dell’anticristo resusciteranno e regneranno con il Cristo per mille anni. Gli altri morti non resusciteranno prima del compiersi di questi mille anni. È questa la prima Resurrezione. Felici e santi tutti coloro che avranno parte alla prima Resurrezione! La seconda morte (cioè la morte eterna) non avrà più presa su di essi; che invece saranno i Sacerdoti di DIO e del suo Cristo, e regneranno con Lui per mille anni  (Et apprehendit draconem, serpentem antiquum, qui est diabolus, Satanas, et ligavit eum per annos mille… et vidi animas decollatorum propter testimonium JESU… et qui non adoraverunt bestiam, neque imaginem ejus, nec acceperunt characterem ejus in frontibus, aut in manibus suis, et vixerunt, et regnaverunt cum Christo mille annis, Cœteri mortuorum non vixerunt, donec con-summentur mille anni. Hæc est resurrectio prima. Beatus et sanctus qui habet partem in resurrectione prima; in his secunda mors non habet potestatem, sed erunt sacerdotes Dei et Christi, et regnabunt cum illo mille annis). – Sembra che il rito della Messa che abbiamo ricordato abbia per oggetto l’esprimere questo bel trionfo, questo riposo, « questo sabbat » della grande settimana della Chiesa. Quel che è certo è che questo rito, che fa parte della liturgia fin dalle origini, copre e raffigura un Mistero di grande importanza. È superfluo, penso, sottolineare che la spiegazione che noi esponiamo non abbia nulla in comune con la grossolana ed assurda eresia del millenarismo o del semi-millenarismo; si tratta qui di un regno spirituale e divino, e non di questa amalgama impuro, sensuale, impossibile, sognato già dagli gnostici, più giudeo che cristiano. San Girolamo attesta che al suo tempo « molti Cattolici credevano alla manifestazione terrestre della regalità e della sua Chiesa alla fine dei tempi, prima del giudizio universale. Sant’Agostino dichiara che tale era ugualmente la credenza e che non ne era stato allontanato se non dagli eccessi dei millenaristi. Ragione ben più perentoria; perché gli abusi che si sono fatti di una dottrina non distruggono in alcun modo né il fondo né la verità di questa dottrina. In tal guisa non si potrebbe leggere la Sacra-Scrittura solo perché i protestanti ne abusano. Un sapiente ecclesiastico, che ha studiato a fondo la questione, mi diceva un giorno che tra i Padri ed i dottori dei primi tre secoli, ne aveva trovato più di diciotto apertamente favorevoli a questo regno terrestre, spirituale e trionfale di GESÙ-CRISTO e della sua Chiesa. Il grande e dotto Ireneo, tra gli altri, erede quasi immediato delle tradizioni apostoliche, espone in lungo e largo questo sentimento, e lo appoggia su numerosi testi che parlano del regno terrestre del Cristo e dei suoi Santi come di un fatto incontestabile ed incontestato. – (Dopo aver riportato diversi passaggi delle sacre Scritture, san Ireneo aggiunge – Adv. Hæres., lib. V, cap. XXXV e XXXVI – « Hæc enim et alia universa in resurrectionem justorum sine controversia dicta sunt, qure fit post adventum Antichristi, et perditionern omnium gentium sub eo existentium, in qua regnabunt justi in terra, orescontes ex visione Domini, et per ipsum assuescent capere gloriam DEI Patris, et cum sanctis Angelis conversationem et communionem et unitatem spiritalium in regno capient. – San Ireneo dice che ciò che i Profeti e gli Apostoli hanno scritto di questo regno del Cristo, non deve intendersi in senso allegorico: Et nihil allegorizari potest, sed omnia firma et vera, et substantiam habentia. » – « Diligenter ergo Joannes prævidit primam justorem resurrectionem, et in regno terræ hæreditatem: consonanter autem et Prophètes prophetaverunt, de ea. Hæc enim et Dominus docuit, mistionem calicis novam in regno cum discipulis habiturum se pollicitus. Et Apostolus libérant futuram creaturam a servi tu te corruptelæ in libertatem gloriæ filiorum DEI, confessus est. » Bisogna leggere nella loro interezza i due importanti capitoli in cui San Ireneo espone, con tutta l’autorità dell’insegnamento teologale, cioè di tradizione puramente apostolica, il bel punto di dottrina che qui ricordiamo). – Questo riposo, questo regno di Cristo e della sua Chiesa non avrà fine; esso passerà dalla terra al cielo, senza interruzione. Cornelius, commentando il bel testo di Daniele: « Magnitudo regni, quæ est subter omne cœlum, detur populum sanctorum, » scarta all’inizio il millenarismo ed aggiunge: «  Certo è che questo regno del Cristo e dei suoi Santi sarà non solo un regno spirituale come quello che ha luogo ora sulla terra in mezzo alle lotte ed alle persecuzioni, ma anche un regno corporale e glorioso, « Corporale e glorioso, » in cui i Santi resuscitati regneranno corporalmente con il Cristo nel cielo, per l’eternità. Ma questo regno, il Cristo ed i Santi, lo cominceranno sulla terra, « inchoabunt in terra, », immediatamente dopo la morte dell’anticristo. Allora la Chiesa regnerà nell’universo intero, e Giudei e Gentili non formeranno che “ … un solo gregge ed un solo Pastore”. In seguito questo regno sarà confermato e glorificato per tutta l’eternità« Confirmabitur et glorificabitur in omnem æternitatem» . Questo punto di dottrina così grande, così consolante e così poco meditato ai nostri giorni, mi sembra essere la chiave delle misteriose cerimonie del punto della Messa di cui ci occupiamo. Il secondo Avvento di Nostro-Signore, che occupa un posto così importante nelle Profezie e nelle Epistole degli Apostoli, dovrebbe essere l’oggetto principale dei nostri studi, così com’è l’oggetto delle nostre speranze più care.  

XXX

Dall’AGNUS DEI al dopo Comunione.

Ai tre Agnus DEI, il Sacerdote, e con lui tutta la Chiesa, riconoscono che con il suo Sacrificio, GESÙ solo, l’Anello di DIO, immolato per i peccati di tutti, è l’Autore della salvezza e della futura beatitudine di tutti i fedeli, da Adamo fino all’ultimo Cristiano della Chiesa militante. I due Miserere, sono i due giorni di lotta che separano i due avvenimenti. Il « dona nobis pacem, » è il giorno del riposo, il gran giorno del Paradiso terrestre dell’umanità. Poi vengono le tre orazioni “secrete” che preparano il Sacerdote alla Comunione. La prima, che non si dice alle Messe dei morti, domanda nuovamente a nostro Signore di realizzare la promessa che Egli si è degnato di fare alla sua Chiesa, di questo regno di pace e di unità, dove non ci sarà sulla terra che un “solo gregge ed un solo Pastore”. Le due altre sono un mirabile atto di contrizione, di umiltà e di amore. Prima di comunicarsi, il celebrante proclama tre volte a voce alta, a nome suo e di tutti i Cristiani, che egli non è degno che GESÙ entri in lui; egli nondimeno lo riceve con umile e dolce confidenza, esprimendo il voto che il Corpo ed il Sangue del suo Salvatore glorificato custodiranno la sua anima per la vita eterna. In effetti, l’unione a GESÙ eucaristico è il pegno dell’unione a GESÙ, Re di gloria. – Il Sacerdote, ricevendo in lui il Corpo ed il Sangue del Signore, ricorda dapprima GESÙ-CRISTO comunicantesi Egli stesso nel Cenacolo, e profetizzante con ciò che la sua Chiesa entrerà un giorno in Lui, tutta deificata e tutta gloriosa, per vivere eternamente con Lui ed in Lui, della vita di suo Padre. Egli rappresenta GESÙ, Re del Paradiso, cielo dei cieli, facente entrare per sempre nella gioia del Signore la Chiesa, sua Sposa, suo Corpo mistico e vivente, formato da tutti gli eletti. In GESÙ, Re di gloria, essi verranno e possederanno eternamente il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo. Poi viene la Comunione del popolo, preceduta dal Confiteor, ultima purificazione dei peccati veniali e delle imperfezioni che respingerebbero la santità di GESÙ. La Santa Comunione è il frutto dell’albero di vita; è un frutto, un rimedio di immortalità che ci preserva dal peccato mortale e ci purifica dalle nostre colpe quotidiane, come recita il Concilio di Trento. Non è una ricompensa della virtù acquisita, come voleva la scuola giansenista; è un mezzo per fortificare l’anima, sviluppare i germi seri di buona volontà, un mezzo per diventare santo. Ecco perché il Sacerdote deve essere misericordioso in quel che riguarda la Comunione, e spingervi le anime con uno zelo infaticabile. I fedeli non saprebbero avvicinarvisi con troppo amore e fiducia da una parte, e dall’altra con troppa riverenza e fervore. Dare GESÙ alle anime, è la grande missione del Sacerdote, « dispensatore dei Misteri di DIO; » questa è la grande consolazione, la gioia suprema del suo ministero. Insegnar loro a ben comunicarsi e spesso, questo deve essere il grande officio, nei Catechismi, al confessionale, dappertutto. Che lo si sappia bene, la Comunione frequente è la rigenerazione di una parrocchia, di una diocesi, di un intero Paese (Si veda il mio libricino sulla Santissima Comunione, in cui ho riassunto e confutato le numerose obiezioni alla Comunione confidente e frequente). Il Sacerdote deve infondere una profonda pietà in questo sublime ministero della distribuzione della Comunione ai fedeli; egli deve dare la Comunione con amore piacevole e gioioso, senza forzature, e sempre unito a GESÙ, che attraverso di lui si dona alle anime con tanta bontà. Egli deve fare il segno della Croce con ogni Ostia, stare molto attento alle particelle che minacciano di staccarsi, e pronunciare, ad ogni Comunione, la formula intera ordinata dalla Chiesa. – Io ho conosciuto un eccellente curato che, per andare più velocemente, dava tre o quattro Comunioni mentre recitava, devotamente e gravemente la formula: Corpus – una Comunione – Domini nostro – un’altra Comunione – JESU-CHRISTI – un’altra Comunione – custodiat animam – … una quarta – tuam in vitam æternam – … una quinta – Amen, cominciava la sesta. A volte ci sono coloro che apostrofano i fedeli quando non tengono la testa come si deve. Si deve fare attenzione a rispettare Nostro Signore, che è là presente e che vuole che siamo docili e pazienti come Lui, anche per non danneggiare nessuno. È bene istruirsi su tutto ciò che concerne la santa Comunione. L’ignoranza, o quanto meno l’oblio delle regole, può far cadere in strani eccessi. Pochi anni orsono, un curato di una grande città francese, distribuiva la Comunione pasquale ad una numerosa assemblea di operai la Domenica di Quasimodo, alla chiusura di un ritiro; egli non era forte in materia liturgica né in diritto canonico; e per disgrazia, il Diacono che l’assisteva non era migliore di lui. In seguito a non so qual malinteso, il numero di Ostie consacrate si dimostrò insufficiente; il buon curato, desolato da questo contrattempo, consulta il suo Diacono: se consacro un ciborio per questa povera gente? Diceva esitante … Credete che possa farlo? « Mi sembra di sì » risponde senza cipiglio l’illustre Diacono. E ciò che fu detto, fu fatto. Era questa un’enormità e senza alcun dubbio, se il Vescovo ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe rimandato questo troppo caritatevole curato e senza altro consiglio, al Seminario per studiare il trattato dell’Eucaristia e le rubriche del Messale. Avrebbero meritato di essere citati entrambi ex æquo davanti al Santo-Officio. Altra importante osservazione: è permesso, e perfettamente regolare comunicare fuori dalla Messa. Le Domeniche ed i giorni di festa, quando le Comunioni sono numerose, è più prudente distribuire la santa Comunione prima e dopo la Messa. altrimenti si espongono tante povere persone, domestiche, operai, che hanno giusto il tempo di ascoltare la Messa, a vedersi obbligati a lasciare la Chiesa durante la Comunione. Ci sono buoni Sacerdoti che non ci sentono da questo orecchio e che giungono perfino a rifiutare la Comunione fuori dalla Messa. Ce n’è di quelli che non consentono a darla, se non a condizione che si ascolti la Messa. Tutto questo è un abuso in violazione delle regole. Due o tre persone molto pie, abituate a comunicarsi quasi ogni giorno, avevano trovato in campagna due curati che rifiutavano loro la Comunione quando essi non si recavano ad ascoltare la Messa (il cui orario non coincideva sempre con i loro doveri familiari), consultarono Roma e fu loro risposto che solo in caso di pubblico scandalo previsto dal Rituale romano, era assolutamente proibito ai Sacerdoti rifiutare a chiunque e sotto qualsiasi pretesto, la Comunione prima, durante o dopo la Messa. « Vi è per il Sacerdote un obbligo, sotto pena di peccato mortale, » aggiungeva il Consultore. La Comunione è, in realtà, affatto indipendente dal Sacrificio. Il Sacramento è il frutto del Sacrificio, il Tabernacolo è la riserva in cui questo frutto divino è deposto per l’uso dei figli di DIO. Quando si distribuisce la Comunione fuori dalla Messa, occorre che ci sia almeno un cero illuminato sull’altare e che il Sacerdote sia rivestito della cotta (non di rocchetto) e con la stola. Il rocchetto non è in effetti un abito sacerdotale; è una insegna ecclesiastica, un’insegna prelatizia, come la sottana color violetto; i Canonici stessi non portano il rocchetto se non da dopo la Rivoluzione: è un abuso introdotto dai preti costituzionali (1) e sul quale la Chiesa ha creduto di dover chiudere gli occhi. Il semplice Sacerdote non ha mai diritto al rocchetto, e mai se ne deve servire nell’amministrare i Sacramenti.

(1) A quest’epoca disastrosa risalgono la maggior parte degli abusi liturgici francesi; tra gli altri l’uso del rocchetto, come detto, la sottana a coda, il portare la stola per cantare i Vespri e le altre ore canoniche; il canto alla benedizione con il Santissimo Sacramento – È una regola generale in liturgia che la benedizione data ai fedeli con un oggetto sacro qualunque, si dia sempre in silenzio; ed è molto logico, venendo la benedizione dall’oggetto sacro con cui si benedice, (una reliquia, una particella della vera Croce, etc.); a fortiori ciò è vero per il Santissimo Sacramento. In realtà è il Corpo di Nostro Signore che benedice direttamente il popolo fedele. La preghiera benedicat vos, etc., che si era introdotta in Francia, è un vero controsenso; non è il Padre, il Figlio e lo Spirito-Santo che benedicono l’assemblea, ma il Corpo del Signore, e Lui solo. Inoltre non è un desiderio: “benedicat”, bensì un fatto; occorrerebbe almeno: “Benedicit”. Per essere logico e ragionevole, bisognerebbe dire: « Benedicit vos Corpus Domini Nostri JESU-CHRISTI »; e francamente a chi dirlo?

I SANTI MISTERI (7)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (7 )

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXV

Bella manifestazione della presenza reale del Salvatore.

La storia della Chiesa e la vita dei Santi sono piene di manifestazioni miracolose della presenza reale di GESÙ tra le mani dei Sacerdoti. (Si veda un riassunto di questi bei miracoli eucaristici nel mio trattato “Sulla presenza reale”. Io ho composto questo opuscolo per illuminare e fortificare la fede di tanti buoni Cristiani che sono poco istruiti nella Religione e che praticherebbero con maggiore zelo se vedessero più chiaramente la verità della loro fede, ed in particolare la verità del gran Mistero della pietà cristiana, cioè della Presenza reale di Nostro-Signore nel Santo Sacramento dell’altare – A questo titolo ne oso raccomandare la lettura innanzitutto, poi la diffusione a tutti coloro che amano GESÙ e che amano le anime). Ognuno sa come il nostro incomparabile San Luigi rifiutò un giorno, per squisita delicatezza di fede, di presentarsi alla santa Cappella dove il Divin Salvatore degnava di mostrarsi a tutti i fedeli sotto forma di un mirabile bambino. « E voi, disse il santo re, andateci e rallegratevi nel vederlo. Quanto a me mi è sufficiente la fede della santa Chiesa, e non ho alcun bisogno di vedere per credere. » Queste manifestazioni miracolose della presenza reale sono state senza dubbio accordate da Nostro-Signore, sia per ricompensare la fedeltà di alcune anime perfette, sia per raffermare la fede dei deboli. Tra mille altre, eccone una molto recente e la cui storia sembra proprio adatta a nutrire la pietà dei Sacerdoti e dei fedeli. Suor Marie Lataste, morta in odore di eminente santità al Sacré-Coeur di Rennes nel 1847, fu favorita dall’infanzia di meravigliose grazie. Per due anni consecutivi, dal 1840 al 1842, quando non era ancora che una povera ragazza di campagna, i veli dell’Eucarestia non esistevano per lei, e dopo la Consacrazione, GESÙ si mostrava ad ella pieno di grazia e di maestà. Ecco come elle stessa racconta due di queste sacre manifestazioni: « Al momento dell’Elevazione, allorché il Sacerdote faceva la genuflessione, dopo aver pronunciato le parole della Consacrazione, io vedevo un immenso chiarore diffondersi nel santuario e GESÙ apparire sull’altare, ove restava fino alla Comunione. Il suo viso era ordinariamente pieno di bontà e di dolcezza, ma talvolta pure serio e sembrava irritato. Il suo splendore oltrepassava quello del sole. La sua maestà non aveva nulla di paragonabile sulla terra. Il suo trono era d’oro brillante. La sua veste non era di stoffa, neanche la più fine; oppure, se stoffa era, io non ne ho mai visto una simile; sembrava tutta trasparente e gettava fuoco come un diamante o una pietra preziosa (Si tratta dei bei vestiti ed ornamenti celesti formati di luce, che si ritrovano sempre nei racconti che ne hanno lasciato i Santi in occasione delle apparizioni del Salvatore, della Santa Vergine o dei Beati). Egli era seduto su di un trono; la sua mano sinistra poggiava sul suo cuore, e la destra poggiava dolcemente sulle ginocchia. I suoi occhi erano d’ordinario fissati sul popolo; in certi momenti, ad esempio durante il Pater o l’Agnus Dei, sempre sul Sacerdote (Œuvres de Marie Lataste, 1° édit., t, III, lettera XII). »  Dopo la Comunione, ciò che aveva visto sull’altare, lo vedeva trasportato nel suo cuore; e nel suo santuario vivente, che ella soleva chiamare « il tabernacolo mirabile », restava con il suo Salvatore, lo adorava, lo ascoltava, e per suo amore, dimenticava ogni cosa. « Un giorno dell’ottava dell’Epifania – dice ancora – ero già venuta a rendere i miei doveri di adorazione a GESÙ nel Sacramento dell’altare. Assistevo alla santa Messa. All’Elevazione il Salvatore GESÙ mi apparve sull’altare. L’altare divenne simile ad un trono immenso di oro massiccio e tutto brillante di pietre preziose. In mezzo si trovava una sedia guarnita da una stoffa simile a del velluto bianco. Questo velluto non era intessuto; non saprei dire come fosse, e non posso meglio farmi comprendere che affermando che apparisse ai miei occhi come foglie di rose bianche saldate l’una all’altra, conservando inalterate la loro freschezza e la loro bellezza anche quando ci si sedeva sopra. Il Salvatore era su questa sedia che non poggiava sull’altare, ma era sospesa in aria dalle mani degli Angeli che circondavano GESÙ. La grande croce dell’altare mi sembrava tre volte più grande, come mai l’avevo vista in precedenza. Essa era tra le mani di GESÙ. Infine una magnifica corona cingeva la fronte di GESÙ; era una corona di spine, e queste spine somigliavano a del cristallo nel quale erano concentrati i raggi del sole. Io guardai per lungo tempo il Salvatore GESÙ; mi sembrava che stesse per parlarmi. Io lo desideravo molto, ma nondimeno rinunciai volentieri alla soddisfazione di questo desiderio e dissi a GESÙ:  Mio dolce Salvatore, sia fatta la vostra volontà e non la mia. » (Œuvres de Marie Lataste, I° édit,, t. II. libro II). » Sarebbe ben dolce e desiderabile ricevere da DIO dell’altare dei simili favori; ma oltre al fatto che il miracolo è essenzialmente una eccezione che non viene accordata che per motivi impenetrabili alla nostra piccola mente, bisogna, come San Luigi, preferire l’ordinario allo straordinario, la fede ai miracoli e fare così di necessità virtù. Dopo la consacrazione, adoriamo GESÙ eucaristico con una fede più fervida che se lo vedessimo con gli occhi, lo ascoltassimo con i nostri occhi e lo toccassimo con le nostre mani. Non dimentichiamo che attraverso il velo della sante specie, Egli ci osserva tutti, guarda ognuno di noi come lo vedeva Suor Marie Lataste. Noi altri Sacerdoti, in particolare, ricordiamoci dello sguardo di GESÙ al Pater e all’Agnus DEI. Guardiamolo come Egli ci guarda, e rendiamo amore per amore. Oh come diremmo bene la Messa, come l’ascolteremmo bene se non perdessimo mai di vista questo sguardo scrutatore, questo sguardo misericordioso, questo sguardo fecondante del nostro Salvatore. 

XXVI

Le sante cerimonie che seguono alla Consacrazione.

A partire dalla consacrazione, quello che si può chiamare il dramma liturgico della Messa, cambia di aspetto completamente; non è più la preparazione, non sono più i rapporti dell’antica e della nuova Alleanza; è il primo ed il secondo Avvento del Figlio di DIO, che sono l’anima, il segreto delle mistiche cerimonie compiute sull’altare. Già questo duplice avvenimento, che forma il mistero completo dell’Incarnazione e della Redenzione, è simbolizzato dalla duplice Consacrazione dell’Ostia e del Calice. GESÙ-CRISTO è interamente nell’Ostia santa, e tuttavia il Mistero eucaristico non è completo se non dopo la consacrazione del calice; questa seconda consacrazione è anche talmente indispensabile al Sacrificio, che senza di essa c’è il Santo Sacramento, ma non c’è Sacrificio: il Sacrificio dell’Eucarestia consiste essenzialmente nella consacrazione del pane e del vino. Questo perché? Perché la consacrazione del Calie è essenziale al Sacrificio? Innanzitutto perché Nostro-Signore ha unito le due consacrazioni, il Giovedì santo, al Cenacolo; poi, poiché il rito del Sacrificio eucaristico è la rappresentazione fedele del grande Mistero di GESÙ-CRISTO, cominciato solamente nel primo Avvento e consumato con il secondo. Fino al secondo Avvento, GESÙ, che non è che uno con la sua Chiesa, combatte con Essa ed in Essa; e la sua opera di salvezza non è che abbozzata. In secondo luogo, Egli raccoglierà pienamente e la sua Chiesa raccoglierà con Lui il frutto dei suoi lavori, delle sue sofferenze, del suo sacrificio. I due Avventi del Salvatore sono anche distinti e dipendenti l’uno dall’altro, come lo sono sull’altare la consacrazione dell’Ostia e quella del santo Calice. Il disegno di DIO  resta sospeso se lo si divide. Questa unione delle due Consacrazioni è talmente indivisibile che la liturgia (la liturgia romana, che sola fu autorizzata in maniera assoluta) ordina che se, in seguito ad un qualsiasi incidente, si fosse obbligati a consacrare di nuovo il Calice, dopo la Comunione, si consacra una nuova Ostia prima di consacrare il Calice, benché la Consacrazione della prima Ostia sia stata certamente valida – (Questo può succedere quando, per errore, si versa all’Offertorio, l’acqua a posto del vino. Questo incidente è da temere quando si dice la Messa prima del giorno, o quando ci si serve di ampolline di metallo – privilegio riservato ai Prelati).- Noi abbiamo notato che nella prima parte del Santo Sacrificio, destinato a ricordare i rapporti e l’unione dell’antica Alleanza e della nuova, il pane restava al coperto sotto il Corporale, mentre il vino era nascosto nel Calice dalla Palla; dopo la Consacrazione lo stesso rito continua, ma ne cambia il significato: l’Ostia santa, posta sul Corporale e visibile allo sguardo del celebrante, significa il mistero del primo Avvento che la Chiesa conosce, vede ed adora; mentre il vino consacrato, velato agli sguardi dalla Palla, significa il secondo Avvento al quale noi crediamo ma non vediamo ancora. Per GESÙ-CRISTO, questo secondo Avvento è già consumato nel mondo celeste ed eterno; ma per noi è ancora da venire. Subito dopo la Consacrazione, il Sacerdote ricorda che il Mistero che si sta per compiere è, sotto forma di Sacramento, lo stesso mistero, lo stesso sacrificio che si è già consumato nella Passione, nella Resurrezione e nell’Ascensione dello stesso Signore GESÙ presente sull’altare; e per significarlo al meglio, egli traccia tre segni di Croce sull’Ostia ed il Calice, sul Corpo ed il Sangue di questo stesso Redentore che è stato sulla Croce: « Ostia pura »; alla sua Resurrezione « Ostia santa »; all’Ascensione al cielo « Ostia immacolata »; e che è ormai nell’Eucaristia, « il pane sacro della vita eterna ed il Calice della eterna salvezza. » Dicendo queste due ultime parole, il Sacerdote fa un segno di Croce prima sull’Ostia santa, poi sul Calice, per mostrare come l’Eucaristia, che riassume il Mistero intero di GESÙ-CRISTO, con i suoi combattimenti e il suo trionfo, sia il legame che unisce insieme il primo con il secondo Avvento del Salvatore. Questa triplice benedizione rinnova, dopo la Consacrazione, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, diffusa sulle oblazioni per prepararle immediatamente alla Santissima Consacrazione. Ora, questa benedizione che ha prodotto il suo effetto quanto al Capo, si applica direttamente a tutti i membri di questo Capo divino, a tutti i fedeli che, con la loro unione a GESÙ-CRISTO e con la Comunione Sacramentale del suo Corpo e del suo Sangue, sono chiamati a divenire, come dice San Paolo, « il corpo del Cristo: Corpus ejus, quod est Ecclesia. » Che cos’è in effetti la Chiesa se non l’umanità incorporata a GESÙ-CRISTO, vivente della sua vita divina, santificata, soprannaturalizzata, deificata, ed un giorno glorificata dallo Spirito-Santo che il divino Capo effonde in essa, come il suo sangue, come la sua vita? Ciascuno di noi deve lasciarsi trasformare e transustanziare spiritualmente in GESÙ-CRISTO, e divenire, per Lui, con Lui ed in Lui, un’Ostia, cioè una vittima pura, santa ed immacolata. È questo lo scopo de Sacrificio  e della Comunione e di tutta la Religione Cristiana. Il Sacerdote si inchina profondamente, scongiura GESÙ-CRISTO, l’Angelo del gran Consiglio, di supplire alla sua indegnità e presentare Egli stesso alla divina Maestà, nell’alto dei cieli, il Sacrificio che per le sue mani la Chiesa offre in questo momento sull’altare della terra, e degnarsi di riempire di tutte le benedizioni celesti tutti coloro che, i fedeli alla grazia del primo Avvento, trionferanno un giorno nella gloria del secondo. Come per spingere in GESÙ crocifisso dapprima e poi GESÙ glorificato, questa benedizione, egli traccia un segno di Croce sull’Ostia santa, poi sul Calice, poi infine su se stesso che rappresenta là tutti gli eletti. Egli prega poi per tutti coloro tra questi Eletti che soffrono le espiazioni del Purgatorio prima di entrare in cielo, supplicando la misericordia divina « di accordare loro il luogo del refrigerio, della luce e della pace a tutti coloro che riposano nel Cristo, » in questo medesimo Cristo, di cui il Corpo ed il Sangue sono la vittima del Sacrificio di propiziazione che egli celebra. E così si completa intorno a GESÙ, Re della grazia e della gloria, il grande Mistero della Comunione dei Santi, così poco meditato, compreso in questo secolo di naturalismo. La « Comunione dei Santi » è l’unione della Chiesa trionfante, della Chiesa militante e della Chiesa purificante in GESÙ-CRISTO. al Santissimo Sacrificio, questa mirabile comunione, di cui lo Spirito-Santo è l’anima, è manifestata con le invocazioni del Prefazio, del Sanctus e del Communicantes, prima della Consacrazione e, dopo la Consacrazione, con la commemorazione esplicita dei fedeli trapassati. Il Sacerdote, ministro e rappresentante della Chiesa militante, offre un Sacrificio in unione con la Beata Vergine, Regina del cielo, e con la Chiesa angelica, con la Chiesa trionfante dei Santi; ed egli l’offre per i fedeli che riposano « nel sonno della pace, » affinché essi entrino, senza ritardo alcuno, « nel luogo del refrigerio  e della luce. » La preghiera degli Angeli e dei Santi, unita all’altare, a quella del Sacerdote, ottiene alla Chiesa militante e alla Chiesa purgante una effusione sovrabbondante di grazie, di pace e di benedizione. Tutto questo è di insegnamento ed istituzione apostolica. – In mezzo al silenzio delle lunghe preghiere del Canone, il Sacerdote alza solo una volta la voce: è per proclamarsi peccatore ed umiliarsi con tutti i suoi fratelli nella santa presenza di DIO, dell’Eucaristia: « Nobis quoque peccatoribus, » dice battendosi il petto, come il buon pubblicano del Vangelo, come il buon ladrone del Calvario; « e anche a noi peccatori che speriamo nella moltitudine delle sue misericordie, degnatevi di accordare, Signore, un piccolo posto nella società dei vostri Santi e dei vostri Martiri. » Egli ne nomina pure alcuni, tutti dei primi secoli, ma non più, questa volta, tutti martiri a Roma. In questa seconda enumerazione di Santi, si trovano citate diverse Vergini martiri: Agata, Lucia, Agnese e Cecilia, Anastasia, ricordano graziosamente le Vergini sagge della parabola, figure di tutti le anime predestinate.

XXVII

I segni di Croce e le altre misteriose cerimonie che concludono il Canone.

Verso la fine delle preghiere del Canone, il Sacerdote congiunge le mani nel nome di GESÙ-CRISTO perché dice al Padre celeste, « Voi create, Signore, santificate, vivificate, benedite e ci date tutti questi beni. » – « Per Lui, con Lui ed in Lui, vi arriva ogni gloria ed onore, a Voi, DIO, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito-Santo, nei secoli dei secoli. » E dicendo: « Santificate, vivificate, benedite, » il Sacerdote traccia tre segni di croce sull’Ostia ed il Calice uniti; queste non sono benedizioni propriamente dette, ma dei segni destinati ad esprimere dei Misteri. Poi con la santa Ostia che egli tiene con la mano destra, mentre la sinistra mantiene il Calice, egli traccia tre altri segni di Croce all’interno del Calice, sopra il prezioso Sangue; poi due altri segni di Croce, sempre con l’Ostia santa, tra il suo petto ed il Calice; e riportando l’Ostia sopra del calice sul quale egli appoggia le sue due dita, eleva in poco sia il Calice che l’Ostia sul Corporale, ricopre il Calice e fa la genuflessione. È così che terminano le grandi, ineffabili preghiere del Canone. – Ecco in poche parole ciò che richiamano alla nostra fede questi riti pieni di misteri: innanzitutto ed essenzialmente essi ci ricordano la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, discesa, come diciamo subito in virtù del Sacrificio di GESÙ-CRISTO, su tutti gli Eletti, membri viventi di questo divino Capo, per consacrarli e renderli capaci di glorificare degnamente il Padre celeste, con GESÙ e come GESÙ, in tutti i secoli dei secoli. – Ogni benedizione, ogni vita, ogni santità arrivano alle creature da GESÙ, unico Mediatore di DIO e degli uomini; e GESÙ, Autore della natura, della grazia e della gloria, è là, sotto i veli del pane e del vino, con tutte le benedizioni, tutti i tesori di vita e di santità che, dopo il primo momento della creazione deli Angeli e degli uomini, sono stati diffusi nel mondo dal Padre celeste. Dopo aver richiamato questa grande verità con i tre primi segni di croce, il Sacerdote ne esprime un’altra, ancora più profonda. GESÙ-CRISTO, Capo della Chiesa e degli Eletti, compie la sua opera in tre combattimenti, nei quali trionfa di satana e dei peccatori; Egli trionfa dapprima al diluvio con l’acqua; poi sul Calvario con il Sangue; poi infine, Egli trionferà definitivamente ed eternamente quando, scendendo di nuovo sulla terra alla fine della sesta era del mondo, rinnoverà l’universo intero con il fuoco e lo Spirito-Santo. Questi tre trionfi del Cristo non ne fanno che uno, e compongono l’insieme del grande mistero della gloria di DIO e della salvezza delle creature. È questo il senso della parola di San Giovanni, nella sua prima epistola: « Tre sono quelli che rendono testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua ed il Sangue, e questi tre sono una sola cosa. » Gli esemplari antichi aggiungevano: « Nel Cristo GESÙ, nostro Signore. » I tre segni di croce che il Sacerdote forma con il Corpo del Signore all’interno del Calice, sul Sangue prezioso, esprimono il triplice trionfo del Figlio di DIO vivente nei suoi Eletti: da Adamo fino al diluvio, poi dal diluvio fino al Calvario, poi dal Calvario fino al secondo Avvento del Redentore. Il Calice rappresenta qui GESÙ trionfante nella gloria del cielo; l’Ostia santa, che contiene lo stesso GESÙ del GESÙ del Calice, lo rappresenta vivente e combattente quaggiù nella sua Chiesa militante, in questa Chiesa che San Paolo chiama « il Corpo del Cristo. » C’è unione intima tra la Chiesa militante e la Chiesa trionfante, tra il combattimento del Cristo ed il trionfo del Cristo, tra il primo Avvento, in cui il Capo della Chiesa universale, immolato sulla Croce, risuscita e sale al cielo, ed il secondo, in cui questo stesso Capo, Re di gloria eterna, chiama a sé, per la resurrezione, tutti i suoi membri umiliati con Lui e li rende partecipi del trionfo, dopo averli resi partecipi delle sue prove. Il doppio segno di Croce che di seguito il Sacerdote traccia con il Corpo sacro di GESÙ, tra il suo petto ed il Calice, raffigura la Chiesa cristiana, combattente in GESÙ-CRISTO, con GESÙ-CRISTO, durante le due ultime età del mondo che devono intercorrere tre il primo ed il secondo Avvento. Quando i tempi saranno compiuti, la Chiesa cesserà di combattere; essa entrerà nella gloria celeste di GESÙ resuscitato; ed allora per GESÙ, con GESÙ, ed in GESÙ, vivendo e trionfando nella sua Chiesa tutta intera, ogni onore e gloria saranno resi a Dio Padre, nell’unità dello Spirito-Santo. Ora il Sacrificio dell’Eucaristia, contiene tutti i misteri di Nostro Signore, quelli che ancora sono da venire e quelli che sono già passati, e ne risulta che la Messa dà a DIO questa gloria in anticipo. Quale Mistero divino è il ministero sacerdotale! E quanto il Sacerdote deve essere santo per toccare, contemplare così da vicino e per compiere Misteri così terrificanti! San Giovanni Crisostomo chiamava le mani consacrate del Sacerdote, « le portanti il Cristo “bajulans Christi”! Egli diceva che esse sono « più splendide dei raggi del sole: solari radio splendidiores », e Tertulliano proclamava che, se mai il peccato viene a profanarle, esse dovrebbero essere con mille ragioni in più, delle mani criminali che scandalizzano gli uomini; perché, queste « scandalizzano il Corpo stesso di Dio:  « O prœcidendæ manus quibus Corpus DEI scandalizatur! »

XXVIII

Il PATER

Il Sacerdote dice ad alta voce, e nella Messa solenne canta l’ultima parola del Canone: « Per omnia sæcula sæculorum » Ciò che ha fatto, durante il lungo silenzio del Canone della Messa, non è altro in effetti, che la rappresentazione sacramentale del Mistero del Re dell’eternità. Il popolo fedele risponde: Amen! … Aderendo così con tutto il cuore a tutto ciò che il Sacerdote ha appena fatto e detto sull’altare. Amen è un atto di fede, di speranza e di adorazione. Il Sacerdote recita il Pater, con gli occhi fissi sull’Ostia santa, non sul Calice; tiene le due mani sollevate ed estese, come al Prefatio (salvo l’indice ed il pollice che devono restare uniti, dopo che hanno toccato il Santo Sacramento). Il Sacerdote stendendo il braccio ricorda innanzitutto che questo è lo stesso Sacrificio, la stessa Vittima del Calvario; ed egli recita, a nome di GESÙ, e GESÙ recita per lui, la preghiera per eccellenza: l’Orazione domenicale, di cui tutte le parole sono un mondo di misteri. Le due mani del Sacerdote richiamano ancora, lo abbiamo detto, i due Serafini di oro puro che si stavano in adorazione a destra ed a sinistra dell’Arca dell’alleanza, ed in generale, tutta la Chiesa angelica che dall’inizio fino alla fine dei tempi, adora con GESÙ-CRISTO, il suo ed il nostro DIO. Esse esprimono anche la fede, la Religione, l’amore dell’Antico e del Nuovo Testamento verso il Figlio di DIO e di MARIA, presente sotto le specie del pane sul Corporale. Alla quarta domanda  del Pater: « Dacci oggi il nostro pane quotidiano, » il Suddiacono alla Messa solenne, risale all’altare, dà la Patena al Diacono che, alla fine della sesta domanda: « Non lasciateci soccombere nella tentazione, » fa la genuflessione e presenta la Patena al Sacerdote; questi, abbassando le due mani, la prende con la mano destra. Alla Messa bassa, la Patena, nascosta dopo l’Offertorio sotto il Purificatoio ed il Corporale, è estratta di là dal Sacerdote, in questo momento del Pater, al termine della sesta domanda, né prima né dopo. Il senso di tutta questa cerimonia è manifesto e molto bello. Le sei domande sacre della preghiera, corrispondono alle sei Età della Chiesa militante: nella quarta età, il Pane vivente è disceso dal cielo; ma il suo popolo non lo ha ricevuto; risalito al cielo, nel giorno della sua Ascensione, ne ridiscenderà alla fine della sesta età, e troverà Israele convertito; il Sacerdote vede oramai il Suddiacono a lato del Diacono sull’altare, ed entrambi lo servono fino alla fine della Messa. la tentazione, di cui è detto alla sesta domanda, è senza dubbio, in maniera generale, la guerra incessante ed accanita che ci porta satana; ma è soprattutto la tentazione suprema che riassume tutte le altre e che coronerà la lotta sacrilega di satana e del mondo contro il Cristo e la Chiesa: l’apparizione dell’anticristo. Nel Vangelo, GESÙ ci predice che « … questa tribolazione sarà tale che non ce ne è stata una simile dall’inizio della creazione; » (Erit enim tunc tribulatio magna, qualis non fuit ab initio mundi, usque modo, neque fiet. – Ev. Matth., XXIV) e ci spinge a chiedere di non vivere in quei tempi. Egli ci fa dire nel Pater: « Ne nos inducas in tentationem », cioè “non conduceteci alla grande tentazione; non permettete che abbiamo ad attraversare questa prova”.  Il Sacerdote abbassando le due mani dopo questa sesta domanda, rappresenta alla nostra fede, alla nostra speranza ed al nostro amore, il Redentore discendente dai cieli, facendo cessare la lotta con il suo secondo Avvento. La settima domanda del Pater: « … Ma liberaci dal male », si riferisce al riposo della Chiesa dopo il lavoro delle sei Età, dopo la sua lotta di seimila anni contro satana ed il mondo. Nella creazione soprannaturale, che è la Chiesa, ci sono, come nella creazione naturale, sei giorni di lavoro, seguiti da un giorno di riposo. Il settimo giorno deve essere diverso dagli altri: questo è espresso dalla parola “sed”, che indica un cambiamento, una opposizione. Questa sarà la pace opposta alla guerra; il riposo, dopo il lavoro della lotta. Allora la Chiesa, resuscitata e glorificata con il suo Capo regnerà eternamente con Lui. – La questione è quella di sapere se questo regno sarà immediatamente la beatitudine eterna assoluta, oppure se, prima del cielo propriamente detto, ci sarà, per GESÙ-CRISTO e per la Chiesa, un’epoca di trionfo e di gloria sulla terra, un regno visibile benché tutto spirituale, di GESÙ-CRISTO e di tutti i suoi Eletti, una manifestazione terrena e temporale del loro trionfo celeste e della loro gloria eterna. In altri termini, la questione è di sapere se il secondo Avvento del Figlio di DIO non sarà un’epoca, come lo è stata la prima, e se, dopo la Resurrezione degli Eletti, non ci sarà per essi, fino alla loro Ascensione definitiva al cielo, un’età, un’epoca di trionfo, corrispondente ai quaranta giorni trascorsi tra la Resurrezione e l’Ascensione di GESÙ. Comunque sia, la settima domanda del Pater, che la Chiesa mette sulla bocca del servente, cioè il popolo cristiano è una preghiera di liberazione. È come se i fedeli dicessero al Signore: « Liberaci dal male, cioè da satana, dal peccato, dalle conseguenze del peccato e dall’inferno, per i meriti di Figlio vostro GESÙ, immolato su questo altare a gloria vostra e per la salvezza del mondo. » Amen, così sia, è il coronamento del Pater e della settima domanda; così come la beatitudine nel Paradiso sarà il coronamento e la consumazione del riposo trionfale della Chiesa. Il numero otto è, nel simbolismo cristiano, il numero della beatitudine e l’ottava è la perfezione, il fine ultimo raggiunto.

I SANTI MISTERI (6)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (6)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXII

Dalle oblazioni fino al Canone della Messa

In vista dei gradi misteri figurati da tutto ciò che precede, la Chiesa vuole che il Sacerdote si ricordi che egli non è dopotutto che un uomo ed un peccatore, indegno di offrire un sì augusto Sacrificio: egli si inchina dunque profondamente, rinnova l’espressione della contrizione per i suoi peccati e l’umiliazione che ne prova; poi si rialza, leva gli occhi e le mani verso il Crocifisso e fa un gran segno della Croce sull’Ostia e sul Calice, per ricordare ancora che il Sacrificio che sta per offrire è lo stesso di quello della Croce, e per sottolineare l’unità di fede e di Religione tra la Legge antica, che rappresenta più direttamente la Patena e l’Ostia, e la Legge della grazia, che rappresenta il santo Calice. Bisogna osservare, in effetti, che il calice è coperto da un velo, che si chiama Palla, e che il vino benedetto è così sottratto allo sguardo del Celebrante, mentre il pane resta visibile e scoperto. Questo significa che il Sacrificio della nuova Alleanza era ancora nascosto agli occhi dell’antico sacerdote, mentre gli era dato di vedere e toccare i sacrifici figurativi e le vittime del culto mosaico. – La Palla, non era un tempo che il Corporale ripiegato sul Calice; per maggiore comodità, si sono fatti del Corporale e della Palla dei veli sacri separati. Questa comunità di origine e di destinazione è la ragione per la quale le Palle devono essere, come il Corporale, di semplice lino bianco, senza ricami; lo si appesantisce un poco per facilitarne l’uso. Il Sacerdote si porta poi al lato dell’Epistola, e là si lava le mani. È un ricordo degli usi antichi: già al momento dell’Offertorio, i fedeli portano all’altare, ed in quantità spesso considerevole, il pane ed il vino del sacrificio, così come dell’olio e della cera per i bisogni del culto divino. Nel nome di Nostro-Signore, il celebrante riceve egli stesso queste offerte; il Diacono, ed il Suddiacono riservano ciò che è attualmente necessario per la Messa; il resto era destinato a nutrire il clero ed i poveri. Il Sacerdote andava dunque naturalmente a lavarsi le mani dopo l’offerta. La Chiesa ha voluto conservare questo lavaggio di mani, per ricordare innanzitutto ai suoi ministri l’estrema purezza di coscienza con la quale essi dovevano servire DIO all’altare. – Il costume di presentare il pane benedetto in questo momento della Messa è un residuo di questa pratica dei tempi antichi. – Tornato in mezzo all’altare, il celebrante si inclina, richiama l’intenzione generale dell’oblazione del Santo-Sacrificio a gloria della Santissima Trinità ed in onore della Santa Vergine, dei santi Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi; poi bacia l’altare, si volge verso il popolo e gli domanda di raddoppiare le preghiere, perché il gran momento si avvicina. Egli recita la “Secreta”, orazione così chiamata perché non si recita né ad alta voce né con il canto; essa è simbolo della preghiera interiore e sconosciuta degli uomini, infusa da Nostro-Signore nel cuore dei suoi fedeli. – All’altare, il Sacerdote è tutto in GESÙ-CRISTO; a misura che egli va avanti nella Messa, è sempre più nei cieli e nel Cristo, « in cœlestibus, in Christo; » come dice San Paolo.  È là che alza la voce per fare intendere la parola dell’eternità: Per omnia sæcula sæculorum. Egli raccomanda a tutti gli assistenti di elevare con lui i loro spiriti ed il loro cuore ed applicarli al Signore GESÙ; egli rende grazie al buon DIO di tutte le sue misericordie, ricorda il mistero del giorno, si unisce agli Angeli ed agli Arcangeli, alle Virtù dei cieli, alle Potenze, ai Principati, ai Troni, ai Cherubini ed ai Serafini, per GESÙ-CRISTO Nostro Signore, loro e nostro Re; per GESÙ-CRISTO, la Vittima celeste, che si appresta a discendere sull’altare, scortato da tutti i suoi Angeli. Poi abbassando e giungendo le mani, egli si inchina per dire con essi sulla terra, ciò che essi dicono eternamente nel cielo: « Santo, Santo, Santo, è il Signore, DIO degli eserciti. » La Santa Chiesa fonde qui il cantico dei Serafini, con l’Osanna trionfale del popolo di DIO, acclamante il Cristo alla sua entrata in Gerusalemme: « Benedictus qui venit in nomine Domini, Hosanna in excelsis. » La Chiesa angelica e tutta la Chiesa della terra vanno ad unirsi, a raggrupparsi intorno al loro unico Signore GESÙ, nel momento in cui rientra di nuovo, attraverso la mistica porta dell’Eucaristia, nella sua cara Gerusalemme, in mezzo alla sua Chiesa, che è il suo cielo terrestre, al fine di esservi di nuovo offerto in Sacrificio per la salvezza del suo popolo. Ed è così, piuttosto nel cielo che sulla terra, che comincia la parte più venerabile, sublime della Messa, conosciuta con il nome greco di Canone, cioè “regola”, perché le preghiere e le cerimonie che la compongono non variano mai, qualunque sia la Messa che si celebra. – La maggior parte delle preghiere del Canone della Messa, sono di origine apostolica, e sono state affidate alla Chiesa dall’Apostolo San Pietro e dai suoi primi successori. Esse sono così sacre, che sarebbe un errore grave ometterne volontariamente anche la minima parte. A partire del quarto secolo, le preghiere del canone della Messa non hanno ricevuto altra modifica che con l’aggiunta di due parole (Diesque nostros in tua pace disponas, — sanctum sacrificium, immaculatum hostiam.). Il Papa San Gregorio Magno ne è l’autore, e negli Atti del suo Pontificato, si riporta questo fatto come un vero avvenimento, tanto è sacro alla Chiesa stessa il carattere tradizionale delle preghiere del Santo Sacrificio. Se è rigorosamente proibito ai Sacerdoti interrompere le preghiere liturgiche della Messa con delle preghiere personali, a maggior ragione è proibito ogni esclamazione di devozione, durante il Canone. – Io ho una volta sentito in un seminario, un buon uomo affetto da reumatismi, che dall’inizio alla fine della Messa, alzava al cielo tante devote orazioni giaculatorie, a volta pianti e gemiti pii. Si sentiva, ogni tanto, anche durante il Canone, esclamare: « Ah! Signore, io vi amo! Mai sono stato così malato … mio DIO, suscipe spiritum meum!… Mio GESÙ! Miserere! Mio DIO, Santa-Verine, io ve l’offro … Oh! la, là! » etc., etc. – Un giorno, l’autorità diocesana aveva ordinato delle pubbliche preghiere il cui carattere politico spiaceva a quest’uomo, e cominciò la Messa brontolando e senza aver voluto recitare dapprima le preghiere indicate. Nel bel mezzo del Canone ecco che un rimorso lo prese; egli si arresta, riflette; e poi, voltandosi verso il suo servente, gli dice con voce cavernosa e con aria contrita: « Credo che ci sia dell’antipatia, » e scende dall’altare, si mette in ginocchio ed invita tutti alle lunghe preghiere ordinate dal Vescovo (!!!); poi continuò tranquillamente il Canone. Ecco come le persone più sante si espongono a delle cose che materialmente sarebbero dei peccati mortali, a degli inconvenienti realmente ridicoli, per questo solo fatto che non tengono conto che ci siano delle regole austere ed obbligatorie della liturgia. Noi non sapremmo mai insistere tanto su questa obbedienza alla lettera. Al di fuori di questo, non c’è che liberalismo liturgico.

XXIII

Dal Canone della Messa fino alla Consacrazione

Il Sacerdote comincia queste sante preghiere, profondamente inchinato in mezzo all’altare che egli in seguito bacia, attingendo da GESÙ, nel seno del Padre, la benedizione che effonde con un triplice segno di Croce sul pane ed il vino del Sacrificio già tante volte benedetti e santificati. Li chiama anche non più solamente doni, offerte, ma ancora: « sacrifici santi e senza macchia. » La triplice benedizione significa il DIO unico, Padre, Figlio e Spirito Santo, che benedice e santifica le oblazioni con la Croce del Redentore. Tre nomi vengono qui dati a queste oblazioni che stanno per diventare il Corpo ed il Sangue di GESÙ: “dona” , perché è il dono gratuito e misericordioso del Padre; “munera”, perché è il tributo della Religione, di adorazione, di azione di grazie, di preghiere ed espiazione, che il Verbo incarnato ha pagato alla sovrana maestà di DIO; “sancta sacrificia”, perché il tributo non è stato pagato se non con il sacrificio, ed il Sacrificio non è stato offerto da GESÙ che nell’ardore dello Spirito Santo, il quale è stato il fuoco dell’olocausto, in cui « GESÙ si è offerto al Padre come un agnello immacolato. » Queste parole dona, munera, sacrificia, sono al plurale e non al singolare; perché benché il sacrificio di GESÙ-CRISTO, che sta per essere rinnovato sull’altare, sia unico, si presenta nondimeno accompagnato da numerosi sacrifici dei membri del Salvatore, che sono tutti i suoi fedeli, e che formano con Lui una sola Persona morale, « Christus totus, il Cristo intero, » come dice Sant’Agostino. Le oblazioni cambiate in Corpo e Sangue del Salvatore, hanno come scopo finale, di passare, con la Comunione, nei fedeli, e consumare questo mistero di unione, questa unità di Sacrificio. – Il Sacerdote prega nominativamente per il Papa, per il Vescovo e la diocesi e per tutti i fedeli che egli presenta a Dio come facente uno con Lui nella carità. (In Francia ed in qualche altro Paese, si aggiunge, per espressa concessione della Santa Sede, il nome del Sovrano, dopo quello del Vescovo. Ma occorre notare qui una importante osservazione. Un tempo, quando la società era costituita regolarmente e cattolicamente, il Re Cristiano faceva ufficialmente parte della Chiesa a titolo di « Vescovo di fuori, » braccio destro, difensore e figlio primogenito della Chiesa nel suo regno! A causa di ciò si doveva dire: « Una cum Papa nostro N. et Antistite nostro N. e rege (o imperatore) nostro N. et omnibus catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus. ». Ora che l’ordine provvidenziale della società è scompaginato, il Sovrano non fa più parte ufficiale della Chiesa che a titolo di semplice battezzato e non più a titolo gerarchico, soprattutto quando non è per nulla consacrato. Così nella concessione Apostolica si è stabilito di aggiungere davanti al nome del Sovrano una parola che sembra insignificante a prima vista, ma che esprime perfettamente il cambiamento della situazione che veniamo a segnalare. Si deve dire « et PRO Rege (o imperatore) N … ». questo “pro” è sufficiente a separare il nome del Sovrano moderno dal nome del Papa e del Vescovo, oramai soli, gerarchi o capi ecclesiastici, ed il povero Sovrano decaduto dal suo antico e sublime privilegio, non è più considerato ufficialmente dalla Chiesa che come un semplice Cristiano, per il quale non è espediente pregare nominativamente, a causa dell’immensa influenza che può egli avere per il bene come per il male negli affari della Chiesa. In questo punto del Canone quindi, si è stabilito di dire: « Una cum Papa nostro N. et Antistite nostro N. et pro imperatore o rege nostro N., et omnibus, etc. » Questa formula è obbligatoria; è stata decretata dalla Congregazione dei Riti). – A questa commemorazione della Chiesa militante, si aggiunge immediatamente la commemorazione della Chiesa trionfante. Con le mani unite e stese, si fa memoria solenne della Santissima Vergine, Madre di DIO, di tutti gli Apostoli, dei primi Papi e dei principali Martiri della Chiesa di Roma, Madre e Maestra di tutte le Chiese. Egli entra in comunione intima con tutta la corte celeste, tutti i beati abitanti si inchinano davanti a noi in GESÙ-CRISTO, realmente e corporalmente presente sui nostri altari. Il Sacerdote congiunge le mani in segno di questa unione religiosa della Chiesa del cielo e della Chiesa della terra. Successivamente, stendendo le mani, con i due pollici sempre incrociati (il destro sul sinistro, perché la Croce è il punto di unione dei due Testamenti, il punto di unione del cielo e della terra), egli copre per così dire l’Ostia ed il Calice, caricandosi prima di tutti i peccati che si è degnato di espiare sulla Croce, l’Adorabile Vittima del Sacrificio. Già il Sommo Sacerdote di Israele stendeva allo stesso modo le mani su due capri, caricandone uno di tutti i peccati del popolo, e per questa ragione lo votava alla morte, e liberando l’altro, facendolo condurre nel deserto, dopo averlo ornato con strisce rosse, segno del sangue sparso per la redenzione del popolo. Secondo San Cirillo di Gerusalemme, san Dionigi l’Aeropagita ed altri antichi Padri, questi due capri, l’uno sacrificato, e l’altro mandato vivente nel deserto, profetizzavano e simbolizzavano il divino Redentore, immolato per i peccati del suo popolo e resuscitato per comunicare ai suoi fedeli la vita nuova, la grazia, la salvezza nello Spirito-Santo. Il deserto è il mondo privo di DIO, a causa del peccato. Ma l’imposizione delle mani sull’Ostia ed il Calice, cela un mistero ancora più profondo, vale a dire l’incubazione dello Spirito Santo, Creatore e Santificatore di queste oblazioni che, con la sua virtù onnipotente, vengono transustanziate nel Corpo e Sangue di GESÙ. Le antiche liturgie greche ritornano spesso su questa misteriosa incubazione dello Spirito-Santo, nel momento del Mistero eucaristico. E così, il prete, dopo aver convocato tutta la Chiesa degli Angeli e dei Beati al divino Sacrificio, fa scendere sulle oblazioni lo Spirito-Santo stesso, lo Spirito di GESÙ, lo spirito di vita eterno che è la vita, la gioia e la beatitudine degli Angeli e dei Santi, affinché si degni di operare con le sue mani consacrate l’ineffabile miracolo e mistero della transustanziazione. Il Sacerdote si raccoglie e porta davanti al petto le sue mani giunte; il momento solenne si avvicina. Egli traccia dapprima tre grandi segni di Croce sia sull’Ostia che sul Calice, poi un altro segno di croce separatamente sull’Ostia ed un altro sul Calice, pregando il Signore che si degni di fare di queste sante oblazioni il Corpo ed il Sangue del suo unico Figlio, GESÙ-CRISTO. I tre grandi segni di Croce che il Sacerdote ha tracciato sulle due oblazioni unite ricordano che il mistero di GESÙ-CRISTO, riassunto e contenuto interamente nel Sacrificio dell’Eucaristia, è stato, fin dalle origini, la benedizione del mondo, il quale è stato creato in vista del Cristo avvenire; che questo mistero è stato realizzato, nel mezzo dei tempi, dal primo Avvento del divino Salvatore; ed infine che sarà consumato dal secondo Avvento, quando GESÙ e la sua Chiesa trionferanno per sempre. Per la virtù onnipotente della Santissima Trinità e per il segno della Croce, il Sacerdote domanda che la sua oblazione sia benedetta dapprima « benedictam» dal Cristo che la realizza in Sé medesimo, perché la sua incarnazione redentrice è sostanzialmente il decreto eterno del Padre, e GESÙ è in Persona il libro della vita nel quale saremo tutti iscritti; infine, che l’oblazione eucaristica sia ratificata, consumata «ratam» dalla virtù dello Spirito-Santo che coprendola, avvolgendola con la sua ombra, la transustanzia in maniera ineffabile. Tracciando poi il segno della Croce sull’Ostia dapprima, poi sul Calice, il Sacerdote chiede che il pane diventi il Corpo, e che il vino diventi il Sangue di GESÙ-CRISTO.Dopo di questo non gli resta che far memoria della Cena del Signore, e consacrare, come GESÙ, con GESÙ ed in GESÙ. Dopo il Sanctus, il servente Messa ha dovuto accendere un cero all’esterno dell’altare, dal lato dell’Epistola, in segno della fede viva del popolo Cristiano nei santi misteri che si stanno operando. Alla Messa bassa pontificale, come alla Messa solenne, si accendono due ceri, uno a destra, l’altro a sinistra (Benché questa rubrica sia in pieno vigore per i due ceri o torce della Messa bassa pontificale, essa è decaduta quasi dappertutto e desueta; ed anche a Roma si accenda raramente, alle Messe dei Sacerdoti semplici, il cero del Sanctus. Io credo che sia meglio osservare questo uso; ma è certo che non sia più obbligatorio). Tutti i preparativi sono terminati; il momento santissimo della Consacrazione è venuto; il silenzio più assoluto deve regnare in tutta la chiesa; tutti devono inchinarsi profondamente attendendo la venuta del Re degli Angeli, del Signore del cielo e della terra. 

XXIV

La Consacrazione e l’Elevazione.

Solo in piedi tra il popolo prosternato, il Sacerdote, unendosi più che mai al Sacerdote eterno, che abita e che opera in lui, prende l’Ostia tra il pollice e l’indice di ciascuna delle sue mani consacrate; egli ricorda che GESÙ, prima di cambiare nel cenacolo, il pane nel suo Corpo, alzò gli occhi verso il cielo, benedisse il pane e proferì le parole della Consacrazione: egli fa lo stesso, o piuttosto non è lui, ma è GESÙ che fa tutto questo per lui, con lui ed in lui. Dopo un’ultima benedizione, un ultimo segno di croce dato a questo pane predestinato, egli si inclina sull’altare e con la sua bocca, il Figlio di DIO pronunzia le parole divine, onnipotenti, che cambiano la sostanza del pane nella sostanza stessa del Corpo vivente e celeste di GESÙ-CRISTO. Subito il Sacerdote fa la genuflessione, lentamente, con profonda religione, con gli occhi sempre fissati sull’Ostia adorabile. Poi, rialzatosi e tenendo la santa Ostia con le due mani, la eleva, con gran rispetto, per mostrarla al popolo e fargliela adorare. Come è grande! Come è bello! Ecco l’antico ed il nuovo Testamento uniti nella stessa fede, nella stessa adorazione, mostrando il loro unico Signore, il loro CRISTO prediletto, il Mediatore della loro Religione, la Vittima della loro salvezza, il loro Creatore, il loro DIO. È il primo avvento di GESÙ. Ecco la Chiesa degli Angeli adorante, in unione con la Chiesa della terra, il suo Signore, il suo Re, il suo DIO, corporalmente presente sotto le specie eucaristiche, presente con esse sulla terra, e nondimeno sempre immutabile in cielo nella sua gloria! Ecco la realizzazione dell’antica visione del Profeta Ezechiele, in cui il Cristo venturo gli fu mostrato in mezzo al fuoco dello Spirito Santo, portato dai quattro grandi Serafini che presiedono all’organizzazione del mondo materiale in generale, ed in modo sovreminente, alla santissima umanità del Salvatore, simbolizzata e profetizzata dalla creazione del sole al quarto giorno. GESÙ, nel Santo Sacramento dell’altare, è il sole del firmamento della Chiesa; il suo sacro Corpo, adorabile e deificato, è il riepilogo delle meraviglie del mondo della materia: in cielo Egli è sostenuto ed adorato dai quattro Serafini della visione; sulla terra, sull’altare è sostenuto dalle quattro dita consacrate del Sacerdote, ministro terrestre del suo grande Sacrificio e del suo grande Sacramento. Il Sacerdote deposita con grande rispetto il Santo Sacramento sul Corporale e lo adora una seconda volta con una genuflessione. Poi, rialzandosi, prende il Calice con le sue due mani riunite, come GESÙ l’ha preso nel Cenacolo, lo benedice con Lui e per Lui, si inclina sull’altare e proferisce a voce bassa le parole con le quali GESÙ ha consacrato per primo, e continua a consacrare con i suoi Sacerdoti, il vino nel suo prezioso Sangue. Da questo momento, la sostanza del vino, benché conservi il suo colore, il suo gusto, le sue proprietà e le sue apparenze naturali, si trova cambiato, per l’onnipotente virtù del Signore, nella sostanza stessa del suo Sangue divino. E come dopo la resurrezione, questo Sangue è inseparabile dal Corpo, dall’Anima e dalla divinità di GESÙ, GESÙ intero, GESÙ vivente, GESÙ glorificato, è là presente nel Calice, sotto le apparenze del vino, ed in ciascuna delle gocce che lo compongono. Naturalmente è lo stesso per la santa Ostia e le sue minime particelle: ognuna di esse contiene il Verbo incarnato tutto intero, vivente e glorioso. Il Sacerdote, durante la consacrazione del Calice, lo tiene con la mano destra e con la mano sinistra solo lo sostiene in basso: alla nuova Alleanza appartiene in effetti direttamente il Sacrificio dell’Eucarestia, consumato dalla consacrazione della seconda specie sacramentale; l’antica Alleanza ha avuto, come principale missione, quella di prepararlo. Gli appartiene, è vero, ma a titolo meno immediato. Queste due mani ricordano ancora, amiamo ripeterlo, l’unione degli Angeli e degli uomini, della Chiesa del cielo e della Chiesa della terra, nella Religione che riassume il Sacrificio eucaristico del Figlio di DIO. La mano superiore esprime la Chiesa del cielo; l’altra la Chiesa della terra, ancora militante e soggetta all’infermità. – Il Sacerdote fa con il Calice ciò che ha fatto con la santa Ostia; egli l’adora; lo eleva e lo presenta all’adorazione dei fedeli; dopo averlo ricoperto, stende le braccia e le mani, come in precedenza, e continua sempre, con tono basso, le preghiere del Canone. Al Sacerdote è proibito, tanto sante sono le parole della Consacrazione, lasciare che si intendano intorno. Si dice generalmente che sarebbe peccato grave pronunziare queste parole a voce alta perché le possano ascoltare a tre o quattro passi. Non c’è nulla di più sacro, di più formidabile, di più ineffabile nella lingua umana; queste sono le stesse parole del Verbo incarnato, pronunciate dalle labbra dell’uomo: nessun uomo deve ascoltarle! – Io assistevo un giorno alla Messa di un Sacerdote, del resto molto rispettabile e di molto zelo per le anime; io sentivo, con meraviglia e pena, pronunziare forti le parole della Consacrazione, tanto che sembrava pregasse. Io non mi sono potuto esimere, dopo la Messa, dal seguirlo in sacrestia e richiamare, con ogni riguardo possibile, la sua attenzione su una così grave violazione. « Io vi ringrazio, mi rispose con una strana bonomia; ma io do poca importanza a queste cose! » Non è stupefacente? E, lo ripeto, era un uomo molto degno. Soltanto, occorre riconoscerlo, egli aveva, in fatto di obbedienza e di scienza liturgica, o una negligenza o una ignoranza imperdonabile! E c’è un altro abuso che si presenta molto spesso: temendo di non pronunciare sufficientemente le parole sacramentali, certi Sacerdoti fanno, nel pronunziarle, degli sforzi di gola molto penosi da sentire e veramente molto sconvenienti. Per quanto incomparabilmente sante che esse siano, queste parole devono essere dette dal Sacerdote assai semplicemente, soavemente come quelle del Figlio di DIO alla santa Cena; noi dobbiamo proferirle con grande amore per GESÙ e per le anime. Mi si è parlato di un povero Curato molto scrupoloso che restava talvolta (è un fatto storico!) tre quarti d’ora a sudare sangue ed acqua, e a riprendersi fino a dieci, dodici, quindici volte; lo si sentiva, anche questi, fino al centro della chiesa; egli si eccitava, si incoraggiava da sé, interrompendo le divine parole del Sacramento con interiezioni assolutamente proibite, come queste: « Andiamo! … Bene! … è così! … Si! » etc. – La semplicità nella pietà e nell’obbedienza liturgica è dunque una buona cosa! Consacriamo come GESÙ, con GESÙ, in GESÙ.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… E SCISMATICI) DI TORNO: S. S. LEONE XIII – INSCRUTABILI DEI CONSILIO

Con questa “robusta” lettera Enciclica, il Santo Padre, appena insediato sulla Cattedra di Pietro, inaugura la lunga serie delle sue sollecitazioni, avvisi, consigli, tentativi riparativi, esortazioni pastorali, morali, teologiche ed altro contenute nei suoi numerosissimi, opportuni e fondamentali documenti, che lo annoverano tra i Papi più prolifici – da un punto di vista dottrinale – di ogni tempo, a difesa dei diritti della Sacrosanta Sede Apostolica, della Santa Chiesa di Dio, cioè dell’unica e vera Chiesa fondata da Cristo-Dio, cioè la Chiesa Cattolica Romana, dei popoli Cristiani, ed in definitiva dei diritti di Dio, diritti ai quali ogni uomo, volente o nolente, istruito o non edotto, giusto o peccatore, così come tutti i popoli del pianeta, sono tenuti ad essere soggetti e devono osservare strettamente in vista della salute eterna dell’anima e del benessere sociale e civile delle Nazioni. Vengono tracciate subito le linee di un Pontificato energico e di grandissimo vigore, in difesa di Dio e della Chiesa, e soprattutto del Pontificato che è la “vera” PIETRA, sulla quale si fonda tutta l’opera di Dio e del Figlio suo Unigenito Gesù-Cristo. Questa è la PIETRA di scandalo che il demonio, con i suoi adepti, ha sempre tentato di infrangere, con il risultato già dal Divin Maestro annunciato nella sua evangelica predicazione, di vedersi sfracellati e miseramente tramortiti, come è già successo a persecutori armati, principi, re, imperatori, ad eresiarchi e scismatici vari in ogni epoca. Ogni qual volta ci si è accaniti contro la Sede Apostolica ed il Vicario di Cristo, il risultato è stato sempre il medesimo: la distruzione totale e la sparizione dalla faccia della terra di quelli che si sono prestati all’opera temeraria e fallace, oltre al premio eterno che sicuramente satana riserva ai suoi più “fedeli” adepti. Oggi siamo nella situazione peggiore di sempre, oggi che le forze del male stanno attuando una strategia nuova, di azione distruttiva interna nella Chiesa, oltre che di dissolvimento sociale e civile mediante le conventicole massoniche disseminate in ogni ambito. Ma la vera strategia, apparentemente vincente, la stanno attuando i falsi prelati e i finti religiosi della quinta colonna, gestita dalle logge degli “Illuminati” che, una volta modificata e ribaltata la dottrina di Cristo, stanno propinando un falso culto agli ignari, ma colpevolmente ignoranti, fedeli a-cattolici dalle roccaforti della setta del Novus Ordo e della falsa chiesa dell’uomo – di “montiniana” fattura – da un lato, ma scaltramente pure da scismatici ed eretici pseudo-tradizionalisti tra i quali, guarda caso, occupano il primo posto i “fallibilisti” lefebvriani, e l’arcipelago delle sette sedevacantiste, che giungono addirittura a negare, con una sfacciataggine che ha dell’inverosimile, una verità di fede espressamente affermata e riaffermata da Gesù-Cristo e dalla sua Chiesa in diverse occasioni, dai Concili, dal Magistero, da tutta la Teologia dogmatica, dai Dottori e dai Padri della Chiesa, dalla Tradizione apostolica, da ogni fedele che abbia un minimo di sale nella zucca: che la Sede Apostolica è vacante da ben oltre sessanta anni, e la cui rioccupazione è demandata a … data da destinarsi. Sappiamo che lo scisma (delle sette sedevacantiste, come di quelle dei “classici” protestanti occidentali e degli scismatici orientali e bizantini), costituisce un peccato grave, oltre che eresia condannata con diverse censure, peccato oltretutto contro la Carità [come tutti i manuali di teologia morale insegnano], e San Paolo ci assicura che se non si ha la carità sono inutili i miracoli, i carismi anche i più straordinari, l’immolazione del proprio corpo dato alle fiamme, tutte le opere umane, etc. … come si legge nella prima lettera ai Corinti al ben noto capitolo XIII. Ma questo accecamento umanamente inspiegabile perché mai? Esso veramente è l’opera di satana volta contro il Vicario di Cristo, di cui oggi si nega perfino l’esistenza, o se ne ammette uno ( … o udite, udite, che orrore! …) … anzi due contemporaneamente reggenti, che sono eretici ed insegnano l’errore! Veramente questo è l’attacco più vergognoso e grave che mai sia stato sferrato contro il Papa, contro la Sede Apostolica e contro la Chiesa di Cristo. Ma ancora una volta, il “pusillus grex” Cattolico, ostinatamente stretto, mediante la Dottrina, a Gesù-Cristo, ha piena fiducia nel suo Capo celeste (… non prævalebunt!), nel suo Vangelo e, pur sapendo che lo aspetta un doloroso martirio, attende con fiducia che i nemici di Cristo siano sbaragliati rovinosamente e la sua Chiesa rifulga dello splendore che solo la Sposa Immacolata di Cristo può avere, e che sempre avrà fino alla fine dei tempi ( et IPSA conteret …). Facciamo quindi nostre le parole del Santo Padre Leone XIII, così profeticamente lungimiranti e conserviamole nel cuore e nella mente, in attesa della novella manifestazione dell’Opera di Dio (della quale l’“opus Dei” è una parodia luciferina), una volta cessata l’Eclissi della Chiesa, preannunciata a La Salette dalla Madre di Cristo e nostra, la Vergine Maria, alla quale il divin Figlio ci ha affidato a nostra protezione e salvezza, ed …. Ella sola schiaccerà il capo del serpente maledetto … non dubitiamo, e ricordiamo che  “ … Qui mange le Pape, meurt”.

Leone XIII
Inscrutabili Dei consilio

Ad Patriarchas, Primates, Archiepiscopos

et Episcopos universos Catholic Orbus

 gratiam et communionem

cum Apostolica Sede habentes

Lettera Enciclica

Non appena, per arcano consiglio di Dio, fummo, sebbene immeritevoli, innalzati al vertice dell’Apostolica dignità, sentimmo vivissimo il desiderio e quasi il bisogno di rivolgerci a Voi non solo per esprimervi i sensi dell’intimo Nostro affetto, ma anche per soddisfare all’ufficio divinamente affidatoci di rafforzare Voi, che siete chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, a sostenere insieme con Noi l’odierna lotta per la Chiesa di Dio e per la salute delle anime. – Infatti fino dai primordi del Nostro Pontificato si presenta al Nostro sguardo il triste spettacolo dei mali che da ogni parte affliggono il genere umano: questo così universale sovvertimento dei principi dai quali, come da fondamento, è sorretto l’ordine sociale; la pervicacia degl’ingegni intollerante di ogni legittima autorità; il perenne stimolo alle discordie, da cui le contese intestine e le guerre crudeli e sanguinose; il disprezzo delle leggi che proteggono costumi e giustizia; l’insaziabile cupidigia dei beni caduchi e la noncuranza degli eterni, spinta fino al pazzo furore che induce così spesso tanti infelici a darsi la morte; la improvvida amministrazione, lo sperpero, la malversazione delle pubbliche sostanze, come pure l’impudenza di coloro che con perfido inganno vogliono essere creduti difensori della patria, della libertà e di ogni diritto; infine quella letale peste che serpeggia per le più riposte fibre della società umana, la rende inquieta, e minaccia di travolgerla in una spaventosa catastrofe. – La causa principale di tanti mali è riposta, ne siamo convinti, nel disprezzo e nel rifiuto di quella santa ed augustissima autorità della Chiesa, che in nome di Dio presiede al genere umano, ed è garante e sostegno di ogni legittimo potere. I nemici dell’ordine pubblico avendo conosciuto ciò, non ravvisarono mezzo più acconcio per scalzare le fondamenta della società che quello di aggredire costantemente la Chiesa di Dio, e con ingiuriose calunnie presentarla impopolare, e odiosa, quasi si opponesse alla vera civiltà; indebolirne ogni giorno con nuove ferite l’autorità e la forza, per abbattere il supremo potere del Romano Pontefice, custode e vindice sulla terra degli eterni ed immutabili principi di moralità e di giustizia. Di qua ebbero origine le leggi contro la divina costituzione della Chiesa Cattolica, che con immenso dolore vediamo pubblicate in molti Stati; di qua il disprezzo dell’Autorità Episcopale, e gli ostacoli all’esercizio del ministero ecclesiastico; la dispersione delle famiglie religiose, la confisca dei beni destinati al sostentamento dei ministri della Chiesa e dei poveri; la sottrazione dei pubblici istituti di carità e beneficenza dalla salutare direzione della Chiesa; la sfrenata libertà del pubblico insegnamento e della stampa, mentre in tutti i modi si calpesta e si opprime il diritto della Chiesa all’istruzione e all’educazione della gioventù. – Né ad altro mira l’usurpazione del civile Principato, che la divina Provvidenza ha concesso da tanti secoli al Romano Pontefice perché potesse esercitare liberamente e senza impaccio la potestà conferitagli da Cristo per l’eterna salute dei popoli. – Abbiamo voluto, Venerabili Fratelli, ricordarvi questo cumulo funesto di mali, non già per aumentare in Voi la tristezza che questa lacrimevole condizione di cose V’infonde nell’animo, ma perché Vi sia appieno palese a quale gravissima condizione siano condotte le cose che debbono essere l’oggetto del nostro ministero e del nostro zelo, e con quanto impegno sia necessario adoperarci per difendere e tutelare come possiamo la Chiesa di Cristo e la dignità di questa Sede Apostolica, assalita specialmente in questi tempi calamitosi con indegne calunnie. – È chiaro, Venerabili Fratelli, che la vera civiltà manca di solide basi, se non è fondata sugli eterni principi di verità e sulle immutabili norme della rettitudine e della giustizia, e se una sincera carità non lega fra loro gli animi di tutti e ne regola soavemente gli scambievoli uffici. Ora, chi oserà negare essere la Chiesa quella che, diffuso fra le nazioni il Vangelo, portò la luce della verità in mezzo a popoli barbari e superstiziosi, e li mosse alla conoscenza del divino Creatore e alla considerazione di se stessi; che abolendo la schiavitù richiamò l’uomo alla nobiltà primitiva di sua natura; che spiegato in ogni angolo della terra il vessillo della redenzione, introdotte o protette le scienze e le arti, fondati e presi in sua tutela gl’istituti di carità destinati al sollievo di qualunque miseria, ingentilì il genere umano nella società e nella famiglia, lo sollevò dallo squallore, e con ogni diligenza lo foggiò conforme alla dignità e ai destini della sua natura? Se un confronto si facesse fra l’età presente, decisamente nemica della religione e della Chiesa di Cristo, e quei fortunatissimi tempi nei quali la Chiesa era venerata come madre, si scorgerebbe con evidenza che l’età nostra, tutta sconvolgimenti e rovine, corre dritta al precipizio, e che al contrario quei tempi tanto più fiorirono per ottime istituzioni, per vita tranquilla, ricchezze e ogni bene, quanto più i popoli si mostrarono ossequienti al governo e alle leggi della Chiesa. Pertanto se i moltissimi beni, che testé ricordammo come derivati dal ministero e dal benefico influsso della Chiesa, sono opere e splendore di vera civiltà, tanto è lungi dalla Chiesa il volerla schivare od osteggiare, ché anzi a buon diritto se ne vanta nutrice, Maestra e Madre. – Anzi, una civiltà che si trovasse in contrasto con le sante dottrine e le leggi della Chiesa, della civiltà non avrebbe che l’apparenza e il nome. Ne sono manifesta prova quei popoli cui non rifulse la luce del Vangelo, presso i quali poté talvolta ammirarsi una esteriore lustra di civiltà, ma giammai i veraci ed inestimabili suoi beni. – No, non è perfezionamento civile lo sfacciato disprezzo d’ogni legittimo potere; non è libertà quella che attraverso modi disonesti e deplorevoli si fa strada con la sfrenata diffusione degli errori, con lo sfogo di ogni rea cupidigia, con l’impunità dei delitti e delle scelleratezze, con l’oppressione dei migliori cittadini. Essendo tali cose false, inique ed assurde, non possono certamente condurre l’umana famiglia a perfetto stato e a prospera fortuna, perché “il peccato immiserisce i popoli” (Pr XIV, 34): ne consegue che, avendoli corrotti nella mente e nel cuore, con il loro peso li trascinano a rovina, sconvolgono ogni ordine ben costituito, e così, presto o tardi, conducono a gravissimo rischio la condizione e la tranquillità della pubblica cosa. – Qualora poi si volga lo sguardo alle opere del Pontificato Romano, qual cosa può esservi di più iniquo che il negare quanto bene i Pontefici Romani abbiano meritato di tutta la società civile? Certamente i Nostri Predecessori, al fine di procacciare il bene dei popoli, non esitarono ad intraprendere lotte di ogni genere, sostenere gravi fatiche, affrontare spinose difficoltà; e con gli occhi fissi al cielo, non curvarono mai la fronte alle minacce degli empi, né vollero con degeneri consensi tradire per lusinghe e promesse la loro missione. Fu questa Sede Apostolica che raccolse e cementò gli avanzi della vecchia società cadente; fu essa la benigna fiaccola che fece risplendere la civiltà dei tempi cristiani; fu essa, l’ancora di salvezza tra le fierissime tempeste che sbatterono l’umanità; il sacro vincolo di concordia che strinse fra loro nazioni lontane e diverse per costumi; fu infine il centro comune di religione e di fede, di azione e di pace. Che più? È vanto dei Pontefici Massimi l’essersi costantemente opposti quale muro e baluardo, perché la società umana non ricadesse nella superstizione e nell’antica barbarie. – Oh, se questa così salutare autorità non fosse stata mai disprezzata e ripudiata! Sicuramente il Principato civile non avrebbe perduto quel carattere solenne e sacro che la Religione gli aveva impresso, e che all’uomo sembra la sola condizione degna e nobile perché ubbidisca; né sarebbero scoppiate tante sedizioni e tante guerre a riempire di calamità e di stragi la terra; né regni, una volta floridissimi, sarebbero precipitati dal sommo della grandezza al fondo, sotto il peso di tante sciagure. Ne abbiamo l’esempio anche nei popoli di Oriente: rotti i soavi legami che li stringevano a questa Sede, perdettero lo splendore dell’antica grandezza, il prestigio delle scienze e delle arti, e la dignità dell’impero. – Benefìci tanto insigni, che derivarono dalla Sede Apostolica ad ogni parte della terra, come attestano illustri monumenti di ogni età, furono specialmente sentiti da questa regione Italiana, la quale essendo più vicina ad essa per condizione di luogo, ne colse più ubertosi frutti. Sì, l’Italia in gran parte va debitrice ai Romani Pontefici della sua vera gloria e grandezza, per le quali si levò al disopra delle altre nazioni. La loro autorità e la loro sollecitudine paterna più volte la protessero dagli assalti nemici, e le porsero sollievo ed aiuto perché la fede cattolica si mantenesse sempre incorrotta nel cuore degli Italiani. – Per tacere dei meriti degli altri Nostri Predecessori, citiamo particolarmente i tempi di San Leone Magno, di Alessandro III, di Innocenzo III, di San Pio V, di Leone X e di altri Pontefici, nei quali per opera o protezione di quei sommi, l’Italia scampò alla suprema rovina minacciatale dai barbari, salvò incorrotta l’antica sua fede, e tra le tenebre e lo squallore di un’epoca decadente nutrì e conservò vivo il fuoco delle scienze e lo splendore delle arti. Lo attesta questa Nostra alma Città, sede dei Pontefici, la quale trasse da essi tale singolarissimo vantaggio da divenire non solo rocca inespugnabile della fede, ma anche asilo delle belle arti, domicilio di sapienza, meraviglia e modello di tutto il mondo. Ricordato lo splendore di queste cose, affidato ad imperituri monumenti, si comprende facilmente che solo per astio e per indegna calunnia, al fine d’ingannare le moltitudini, si poté a voce e per iscritto insinuare che la Sede Apostolica sia un ostacolo alla civiltà dei popoli e alla felicità dell’Italia. – Quindi se le speranze dell’Italia e del mondo sono tutte riposte nella benefica influenza della Sede Apostolica, a comune vantaggio e nella unione intima di tutti i fedeli con il Romano Pontefice, ragione vuole che Noi Ci adoperiamo con la cura più solerte a conservare intatta la dignità della Cattedra Romana, e a rafforzare sempre più l’unione delle membra col Capo, dei figli col Padre. – Pertanto a tutelare innanzi tutto, nel miglior modo che Ci è dato, i diritti e la libertà della Santa Sede, non cesseremo mai di esigere che la Nostra autorità sia rispettata, che il Nostro ministero e la Nostra potestà siano pienamente liberi e indipendenti, e Ci sia restituita la posizione nella quale la Sapienza divina da gran tempo aveva collocato i Pontefici Romani. – Non è per vano desiderio di signoria o di dominio che Ci muoviamo, Venerabili Fratelli, per questa restituzione; Noi la reclamiamo perché lo esigono i Nostri doveri e i solenni giuramenti da Noi prestati; e perché non solo il Principato è necessario alla tutela e alla conservazione della piena libertà del potere spirituale, ma anche perché risulta evidente che quando si tratta del Dominio temporale della Sede Apostolica, si tratta altresì del bene e della salvezza di tutta l’umana famiglia. Quindi Noi, per ragione dell’ufficio che Ci impegna a difendere i diritti di Santa Chiesa, non possiamo affatto dispensarci dal rinnovare e confermare con questa Nostra lettera tutte le dichiarazioni e le proteste che il Nostro Predecessore Pio IX di santa memoria fece ripetutamente, sia contro l’occupazione del Principato civile, sia contro la violazione dei diritti della Chiesa Romana. Contemporaneamente Ci rivolgiamo ai Principi e ai supremi Reggitori dei popoli scongiurandoli, nel nome augusto dell’Altissimo Iddio, a non voler rifiutare in momenti così perigliosi il sostegno che loro offre la Chiesa; e ad unirsi concordi e volonterosi intorno a questa fonte di autorità e di salute, e a stringere vieppiù con essa intimi rapporti di rispetto e di amore. Faccia Iddio che essi, convinti di queste verità, e riflettendo che la dottrina di Cristo, come diceva Agostino, “se viene seguita, è sommamente salutare alla Repubblica” , e che nella incolumità e nell’ossequio alla Chiesa sono riposte anche la pubblica pace e la prosperità, rivolgano tutte le loro cure e i loro pensieri a migliorare le sorti della Chiesa e del visibile suo Capo, preparando in tal modo ai loro popoli, avviati per il sentiero della giustizia e della pace, una felice era di prosperità e di gloria. – Affinché poi ogni giorno più si faccia salda l’unione del gregge cattolico col Supremo Pastore, ora Ci rivolgiamo, con affetto tutto speciale, a Voi, Venerabili Fratelli, impegnando il Vostro zelo sacerdotale e la Vostra pastorale sollecitudine, affinché destiate nei fedeli a Voi affidati il santo fuoco di Religione che li muova a stringersi più fortemente a questa Cattedra di verità e di giustizia, a riceverne con sincera docilità di mente e di cuore tutte le dottrine, e a rigettare interamente le opinioni, anche le più diffuse, che conoscono essere contrarie agl’insegnamenti della Chiesa. A questo proposito i Romani Pontefici Nostri Predecessori, e da ultimo Pio IX di santa memoria specialmente nel Concilio Vaticano, avendo dinanzi agli occhi le parole di Paolo: “Badate che qualcuno non vi seduca per mezzo di filosofia inutile ed ingannatrice, secondo la tradizione degli uomini, secondo i principi del mondo, e non secondo Cristo” (Col II, 8), non omisero di condannare, quando fu necessario, gli errori correnti, e di colpirli con l’Apostolica censura. E Noi, sulle orme dei Nostri Predecessori, da questa Apostolica Cattedra di verità confermiamo e rinnoviamo tutte queste condanne; e nel tempo stesso insistentemente preghiamo il Padre dei lumi che tutti i fedeli, con un solo animo e con una sola mente, pensino e parlino come Noi. Spetta però a Voi, Venerabili Fratelli, di adoperarvi a tutt’uomo affinché il seme delle celesti dottrine sia con larga mano sparso nel campo del Signore, e fino dai teneri anni s’infondano nell’animo dei fedeli gl’insegnamenti della fede cattolica, vi gettino profonde radici, e siano preservati dal contagio dell’errore. Quanto più i nemici della Religione si affannano ad insegnare agli ignoranti, e specialmente alla gioventù, dottrine che offuscano la mente e guastano il cuore, tanto maggiore deve essere l’impegno, perché non solo il metodo d’insegnamento sia ragionevole e serio, ma molto più perché lo stesso insegnamento sia sano e pienamente conforme alla fede cattolica, vuoi nelle lettere, vuoi nelle scienze, ma in modo particolare nella filosofia, dalla quale dipende in gran parte il buon andamento delle altre scienze, e che non deve mirare ad abbattere la divina rivelazione, ma anzi a spianarle la via, a difenderla da chi la combatte, come ci hanno insegnato con l’esempio e con gli scritti il grande Agostino, l’Angelico Dottore, e gli altri maestri di sapienza cristiana. – Ma la buona educazione della gioventù, perché valga a tutelarne la fede, la religione ed i costumi, deve incominciare fin dagli anni più teneri nella stessa famiglia, la quale ai giorni nostri è miseramente sconvolta e non può essere restituita alla sua dignità se non si assoggetta alle leggi con cui fu istituita nella Chiesa dal suo divino Autore. Il quale, avendo elevato alla dignità di Sacramento il matrimonio, simbolo della unione sua con la Chiesa, non solo santificò il nuziale contratto, ma apprestò altresì ai genitori e ai figli efficacissimi aiuti per conseguire più facilmente, nell’adempimento dei vicendevoli uffici, la felicità temporale e quella eterna. Ma poiché leggi inique, disconosciuto il carattere religioso del Sacramento, lo ridussero alla condizione di un contratto puramente civile, ne derivò che, avvilita la nobiltà del cristiano connubio, i coniugi vivano invece in un legale concubinato, che non curino la fedeltà scambievolmente giurata, che i figli ricusino ai genitori l’obbedienza e il rispetto, s’indeboliscano gli affetti domestici e – quel che è di pessimo esempio e assai dannoso per il pubblico costume – che spessissimo ad un pazzo amore tengano dietro lamentevoli e funeste separazioni. Disordini tanto deplorevoli e gravi debbono, Venerabili Fratelli, eccitare il Vostro zelo ad ammonire con premurosa insistenza i fedeli affidati alle Vostre cure, affinché prestino docile orecchio agl’insegnamenti che toccano la santità del Matrimonio Cristiano, obbediscano alle leggi con cui la Chiesa regola i doveri dei coniugi e della loro prole. – Si otterrà con ciò anche un altro effetto desideratissimo, cioè il miglioramento e la riforma degli individui, poiché come da un tronco viziato derivano rami peggiori e frutti malaugurati, così la corruzione che contamina le famiglie giunge ad ammorbare e ad infettare anche i singoli cittadini. Al contrario, in una famiglia ordinata a vita cristiana, le singole membra pian piano si avvezzeranno ad amare la religione e la pietà, ad aborrire le false e perniciose dottrine, a seguire la virtù, a rispettare i superiori e a frenare quel sentimento di egoismo che tanto degrada e snerva la natura umana. A tal fine molto gioverà regolare e incoraggiare le pie associazioni, che principalmente ai giorni nostri, con grandissimo vantaggio degl’interessi cattolici, sono state fondate. – Grandi e superiori alle forze dell’uomo, Venerabili Fratelli, sono queste cose, oggetto delle Nostre speranze e dei Nostri voti: ma avendo Iddio fatte sanabili le nazioni della terra, e avendo istituito la Chiesa per la salvezza delle genti, promettendole la propria assistenza fino alla consumazione dei secoli, abbiamo ferma speranza che, grazie alle Vostre fatiche, l’umanità, ammaestrata da tanti mali e da tante sciagure, finalmente verrà a chiedere salute e felicità alla Chiesa, e all’infallibile Magistero della Cattedra Apostolica. – Intanto, Venerabili Fratelli, non possiamo porre termine allo scrivere senza manifestare la gioia che proviamo per la mirabile unione e concordia che legano gli animi Vostri fra loro e con questa Sede Apostolica. Riteniamo che esse non solo siano il più forte baluardo contro gli assalti dei nemici, ma anche fausto e lietissimo augurio di migliore avvenire per la Chiesa. Mentre tutto questo è d’indicibile conforto alla Nostra debolezza, Ci dà pure coraggio a sostenere virilmente, nell’arduo ufficio che abbiamo assunto, ogni lotta a vantaggio della Chiesa. – Dai motivi di speranza e di gaudio che Vi abbiamo manifestati, non possiamo separare le dimostrazioni di amore e di riverenza che in questo inizio del Nostro Pontificato Voi, Venerabili Fratelli, e insieme con Voi diedero alla Nostra umile persona moltissimi sacerdoti e laici, i quali con lettere, con offerte, con pellegrinaggi e con altre pie attestazioni Ci fecero palese che l’affetto e la devozione portati al Nostro degnissimo Predecessore durano nei loro cuori egualmente saldi, stabili ed interi per la persona di un Successore tanto disuguale. Per questi splendidissimi attestati di cattolica pietà, umilmente diamo lode al Signore per la sua benigna clemenza; e a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i diletti Figli da cui li ricevemmo, professiamo dall’intimo del cuore e pubblicamente i sensi della Nostra vivissima gratitudine, pienamente fiduciosi che in questa angustia di cose e difficoltà di tempi non Ci verranno mai meno la devozione e l’affetto Vostro e di tutti i fedeli. Né dubitiamo che questi splendidi esempi di filiale pietà e di cristiana virtù varranno moltissimo per muovere il cuore del clementissimo Dio a riguardare propizio il suo gregge e a dare alla Chiesa pace e vittoria. E poiché speriamo che Ci siano più presto e più facilmente concesse questa pace e questa vittoria se i fedeli esprimeranno costantemente i loro voti e le loro preghiere per ottenerle, Vi esortiamo, Venerabili Fratelli, ad impegnarli e ad infervorarli a tal fine, invocando quale mediatrice presso Dio l’Immacolata Regina dei Cieli, e per intercessori San Giuseppe, Patrono celeste della Chiesa, i Santi Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, al potente patrocinio dei quali raccomandiamo supplichevoli l’umile Nostra persona, tutta la Gerarchia della Chiesa e tutto il gregge del Signore. – Del resto vivamente desideriamo che questi giorni, nei quali solennemente ricordiamo la risurrezione di Gesù Cristo, siano per Voi, Venerabili Fratelli, e per tutta la famiglia cattolica, felici, salutari e pieni di santa allegrezza; e preghiamo il benignissimo Dio che col sangue dell’Agnello immacolato, con cui fu cancellato il chirografo della nostra condanna, siano lavate le colpe contratte, e sia benignamente mitigato il giudizio a cui per quelle sottostiamo. “La grazia del Signore Nostro Gesù Cristo, la carità di Dio, e la partecipazione dello Spirito Santo siano con tutti Voi”, Venerabili Fratelli, ai quali tutti e singoli, come pure ai diletti Figli, clero e popolo delle Vostre Chiese, in pegno di speciale benevolenza e quale augurio del celeste aiuto impartiamo con tutto l’affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, nel giorno solenne di Pasqua, il 21 aprile 1878, anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA TERZA DOPO PASQUA (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja. [Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui. [Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929 – imprim.]

SOGGEZIONE ALLE AUTORITÀ

“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro” (1 Piet. II, 11-19).

La lezione è tolta dalla prima lettera di S. Pietro. Precede immediatamente quella che abbiamo considerato la domenica scorsa. Vi si parla dei doveri sociali e in modo particolare dei doveri verso l’autorità civile. Dobbiamo essere soggetti all’autorità e a quelli che dall’autorità suprema sono incaricati di amministrare la giustizia, punendo i cattivi e premiando i buoni. Così, piaceremo a Dio e faremo tacere l’ignoranza dei cattivi. La nostra ubbidienza, poi, all’autorità dev’essere fatta da veri servi di Dio; cioè, per dovere di coscienza. Vediamo appunto, come la nostra soggezione all’autorità:

1. È  voluta da Dio,

2. Fa chiudere la bocca ai nemici del nome Cristiano,

3. Deve procedere da semplicità di cuore.

1.

 Per amor di Dio siate, dunque, soggetti a ogni autorità umana. S. Pietro chiama autorità umana l’autorità civile, perché la designazione degli individui, che rivestono questa autorità, generalmente, viene dagli uomini. Che un governo sia repubblicano, monarchico, federalista; che la suprema autorità sia designata per elezione o per successione, è cosa che dipende dalla volontà degli uomini. Ma non dipende dalla volontà degli uomini l’istituzione della autorità. È tanto naturale alla società il concetto di moltitudine e di autorità, di chi dirige e di chi è diretto, che non è neppur possibile immaginabile una società, senza chi la governi. Vuol dire dunque, che la natura stessa esige che nella società ci sia chi comandi, chi presieda, chi diriga. Vuol dire, infine, che l’autorità è voluta da Dio stesso, autore della natura. Perciò S. Paolo ci ammonisce:« Ogni persona sia soggetta alle autorità costituite, perché non vi ha potestà se non da Dio» (Rom. XIII, 1). Basterebbero considerazioni umane per indurci all’obbedienza verso le autorità. Senza l’ubbidienza dei sudditi sarebbe impossibile qualunque governo. Si avrebbe una piena anarchia con la conseguente perdita di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni idea di giustizia. Ma i Cristiani devono ubbidire per un motivo più nobile. Devono ubbidire per piacere a Dio. Se ogni potestà viene da Dio, non è cosa indifferente che ad essa si ubbidisca o non si ubbidisca. Quando l’autorità costituita emana delle leggi e impone degli obblighi che non sono contrari alla legge naturale e alla legge di Dio e della Chiesa, rifiutando la nostra ubbidienza, offendiamo Dio, del quale le legittime autorità sono rappresentanti. Gesù Cristo stesso ricorda i doveri del cittadino quando dice : «Date a Cesare ciò che è di Cesare» (Matt. XXII, 21). La soggezione che dobbiamo all’autorità suprema dello Stato, la dobbiamo anche a coloro che ne fanno le veci, la rappresentano o, in qualunque modo, sono investiti di poteri in suo nome. Anche in questo, l’insegnamento è molto chiaro. Siate dunque sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Ma se il principe, se i suoi incaricati sono cattivi, siamo noi obbligati ugualmente a star loro soggetti? Quando non esigono cose ingiuste e non escono dai limiti della propria autorità, noi siamo obbligati a stare loro soggetti, anche se sono cattivi. Anche qui la soggezione ci riuscirà facile, se opereremo per amor di Dio. I Cristiani ai quali S. Pietro scriveva, si assoggettavano nientemeno che a Nerone.

2. 

S. Pietro adduce un altro motivo che deve indurre i Cristiani a essere ossequenti alle autorità. Poiché questa è la volontà di Dio, che operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Col nome di stolti sono qui designati i pagani, i quali accusavano i Cristiani con la più grande leggerezza, e li condannavano con la più grande facilità. La dottrina dei seguaci di Gesù Cristo, tanto sublime e differente da quella dei gentili; la loro condotta, che doveva esser l’opposto da quella tenuta nel gentilesimo, attiravano su di loro lo sguardo diffidente e malevolo dei pagani. «Vi basti — dice San Pietro — di aver fatto la volontà dei gentili nel tempo passato, camminando nelle libidini, nelle concupiscenze, nelle vinolenze, nelle gozzoviglie nelle ubriachezze e nelle abbominevoli idolatrie» (1 Pietr. IV, 3). Questo mutamento di condotta doveva spingere i pagani a trovare a ogni costo un pretesto per accusare i Cristiani. Non senza motivo, dopo aver inculcato il buon esempio in generale, S. Pietro insiste in modo speciale sulla soggezione alle autorità. Una delle accuse che si facevano ai Cristiani, tanto per aver pretesto di perseguitarli, era appunto l’accusa di ribellione contro lo stato. L’accusa era gratuita, ma non era inutile insistere sulla necessità di non dar nessun pretesto ai pagani di mettere in discredito la r Religione cristiana. – Il contegno dei Cristiani di fronte all’autorità fu sempre pretesto a biasimi e a persecuzioni da parte di persone di sentimenti opposti. Per coloro che all’autorità non vogliono assegnato alcun limite, i buoni Cristiani sono dei ribelli, dei nemici dello Stato, dei cospiratori, se hanno la fortezza di anteporre la legge di Dio alla legge degli uomini. Per i nemici dell’autorità essi sono degli schiavi dei fautori del dispotismo e della tirannia. Giudizi sbagliati gli uni e gli altri. I Cristiani nell’autorità vedono il rappresentante di Dio, e nella soggezione a essa il volere di Dio. Perciò, ubbidiscono ai suoi comandi, e vogliono essere esempio agli altri nell’adempimento di questo dovere. «I Cristiani ubbidiscono alle leggi stabilite e nella loro condotta avanzano le leggi » (Lett. a Diogneto 5, 10) leggiamo in uno dei primi apologisti. I Cristiani che seguono l’insegnamento di Gesù Cristo quando dice: «Date a Cesare ciò che è di Cesare», lo seguono anche quando dice: «E date a Dio ciò che è di Dio » (Matt. XXII, 21). E la cosa è tanto giusta che non dovrebbe far meraviglia a nessuno. S. Cipriano è processato davanti al proconsole Galerio Massimo. Questi dice al santo Vescovo: « I sacratissimi imperatori hanno ordinato di render culto agli dei ». Cipriano risponde: « Non lo faccio ». Invitato dal Proconsole a rifletter bene, dichiara: « In cosa tanto giusta non c’è di riflettere » (Acta proc. S. Cipriani. Ep. et Mart.). Quando si tratta di obbedire a Dio i buoni Cristiani non hanno un momento di titubanza. E nella soggezione a Lui, come nella soggezione alle autorità da Lui costituite, sono sempre i primi.

3.

L’ubbidienza poi all’autorità dev’essere fatta non tanto per timore delle sanzioni quanto per obbligo di coscienza. Comportatevi— dice S. Pietro da vimini liberi che non fate della libertà un manto per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio.Quindi, non l’ubbidienza forzata dello schiavo, ma l’ubbidienza spontanea dell’uomolibero, che è stato liberato bensì dalla schiavitù del peccato e dalla servitù della legge mosaica; ma non dall’obbligo di ubbidire a Dio, e quindi anche ai suoi rappresentanti. Nella soggezione all’autorità il Cristiano non deve essere guidato dallo spirito di parte. Prestare ossequio all’autorità perché chi ne è rivestito viene dal mio partito; rifiutarle il dovuto ossequio perché chi ne è rivestito viene da un partito che non è il mio; ubbidire quando chi comanda ci è persona simpatica, disubbidire quando chi comanda ci è persona antipatica, non è un diportarsi secondo coscienza. Così, non è un diportarsi secondo coscienza, quando ci si assoggetta in ciò che piace, e ci si ribella in ciò che non piace. Il nostro ossequio non è sincero quando si hanno secondi fini. Profondersi in inchini davanti all’autorità, proclamarne altamente i meriti, innalzarle inni di lode, son cose che si fanno ben frequentemente anche da chi nutre nel proprio interno una forte avversione. Non si sa mai: potrebbe venirne qualche onorificenza, qualche aiuto, qualche protezione, qualche posto. Giù, dunque, lodi smaccate e a buon mercato. Costoro si devono chiamare, non ossequenti; ma striscianti e servili. Sono i seguaci di coloro, che un giorno si presentarono a Gesù dichiarandogli:« Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non badi a nessuno, e che non guardi in faccia agli uomini ». E Gesù che leggeva nell’interno diede loro una risposta, che nessuno vorrebbe rivolta a sé: « Ipocriti, perché mi tentate? » (Matt. XXII, 16 18). Infatti, noi dobbiamo essere soggetti ai nostri superiori «in semplicità di cuore per timor di Dio» (Col. III, 22). « Ma il fare una cosa e averne nell’animo un’altra, non è semplicità, sebbene ipocrisia e simulazione» (S. Giov. Grisost. In Epist. ad Col. Hom. 10, 2). – L’autorità ha i propri pesi da portare, e noi abbiamo da portare i nostri, e tutti concorriamo a far della società una famiglia felice, quanto è possibile tra coloro che su questa terra sono stranieri e pellegrini. Se da una parte non si deve fare abuso dell’autorità propria, o farla sentire più del necessario; dall’altra non si deve disconoscerla o contrariarla; si deve anzi renderle facile il proprio compito con l’ubbidienza. L’ubbidienza dei sudditi rende felice il governare. I Cristiani devono fare ancor di più, pregare Dio che assista l’autorità. Gli Ebrei, schiavi in Babilonia, per mezzo del profeta Baruch, mandano a dire agli Ebrei di Gerusalemme: « Pregate per la conservazione di Nabucodonosor, re di Babilonia e per la conservazione di Baldassarre, suo figliuolo » (Baruch 1, 11). I Cristiani non devono essere da meno degli Ebrei, che pregano e fanno pregare per un tiranno, al quale la Provvidenza li aveva assoggettati. Essi devono accettare, ciascuno per sé, le parole di S. Paolo a Timoteo: «Raccomando che si facciano preghiere, suppliche, domande, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti quelli che stanno in dignità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta con tutta pietà e onestà» (1 Tim. II, 1-2).

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja. [Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja. [Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXIV.

“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”. (Jo. XVI, 16-22).

Prima della dolorosa sua passione e morte il divin Redentore aveva più volte annunziato ai suoi Apostoli, come presto si sarebbe da loro dipartito. Così appunto ci fa sapere il Vangelo di questa Domenica, Gesù aver detto a’ suoi discepoli: Ancor un poco di tempo, e non mi vedrete più. Ed in vero dopo la sua passione e morte Egli sarebbe scomparso dalla loro presenza col lasciarsi calar dalla croce e racchiudere dentro al sepolcro. Ma il divin Salvatore, come ci riferisce lo stesso Vangelo, aveva soggiunto: E di nuovo ancor un poco di tempo e mi rivedrete. Ed anche questa parola di Gesù Cristo si sarebbe verificata pienamente; poiché il terzo giorno, risorgendo gloriosamente da morte, sarebbe più volte riapparso ai suoi discepoli. Tuttavia in seguito alla sua risurrezione Gesù non si sarebbe fermato più a lungo su questa terra e gli Apostoli sarebbero quindi rimasti soli quaggiù e ne avrebbero sofferto assai. Ora Gesù volle predire loro anche questo e confortarli con queste parole: In verità, in verità, vi dico, che voi piangerete e gemerete, mentre invece il mondo godrà; ma la vostra tristezza si convertirà in gaudio. A somiglianza della madre, che dapprima soffre, ma poi si rallegra, perché è nato al mondo un uomo, così sarà di voi. che dapprima soffrirete, ma poi quando io verrò di nuovo, gioirà il vostro cuore, e nessuno torrà da voi il vostro gaudio. Ecco adunque, o miei cari, da queste parole di Gesù Cristo ben determinata la sorte dei suoi seguaci e dei seguaci del mondo. I primi dovranno su questa terra soffrire e spargere lagrime; i secondi invece sembreranno abbandonarsi ad ogni sorta di godimenti; ma alla fine cambiate le sorti, mentre i poveri mondani andranno a soffrire per sempre nell’inferno! I veri Cristiani andranno invece a godere per tutta l’eternità in cielo. Ed ecco i pensieri, che per spiegazione del Vangelo di questa domenica intendo di imprimere nella vostra mente.

1. Gesù Cristo adunque assegna per porzione ai suoi seguaci i patimenti e le lagrime. Ora, domanderete voi, non sembra, che in questo il divin Redentore manchi di tenerezza e di giustizia per i suoi fedeli amici? No, vi rispondo subito. E sapete perché! Perché le lagrime ed i patimenti, che Iddio assegna ai buoni, come loro porzione, sono una delle più belle prove dell’amore, che Iddio nutre in cuore per essi, poiché sono uno dei più validi mezzi, di cui Iddio si serve per operare la nostra santificazione. Così appunto l’Arcangelo S. Raffaele nel congedarsi da Tobia gli disse: Quia acceptus eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te: Perché eri caro a Dio, fu necessario che fossi provato dalla tribolazione (Tob. XII, 13). E di fatti che cosa si fa per ripulire l’oro della sua scoria? Lo si getta, dentro al crogiuolo e lo si fonde nell’intenso calore della fornace. Così per cavar fuori da un sasso informe una bella statua, lo si percuote con ripetuti colpi di scalpello. E così pure affinché una pianta apporti numerosi frutti, durante la stagione invernale si procura di potarla ben bene. Non altrimenti i buoni diventano tali e tali si mantengono, che sotto all’azione penosa dei patimenti e delle lagrime. La virtù, ha scritto l’Apostolo Paolo, si perfeziona nel patire: virtus in infirmitate perficitur (2 Cor. XII. 8): e S. Giacomo ha soggiunto che la pazienza rende perfetta l’opera intorno a cui si travaglia: patientia opus perfectum habet (Jac. I, 4). Gettate lo sguardo sopra i Santi, siano dell’antico, siano del nuovo Testamento, e sempre riconoscerete come Iddio mise alla prova la loro virtù e la rese in loro perfetta per mezzo dei patimenti. Giobbe era uomo ricchissimo di ogni bene di fortuna. Aveva numerosa famiglia, migliaia di pecore, di cammelli e di buoni servi in quantità straordinaria. Ma era anche giusto, ed ogni giorno offriva sacrifici al Signore per sé e per la sua figliolanza. Iddio per altro lo provò e perfezionò con le più acerbe tribolazioni, permettendo al demonio di affliggerlo quanto sapeva, salva solo la vita. Ed in un giorno Giobbe perdette i suoi greggi, ì suoi pastori, e tutta la sua figliolanza. In seguito il demonio lo piagò in tutto il corpo con un’ulcerazione sì fetente, che divenuto insoffribile agli stessi parenti ed amici; fu portato sopra un letamaio. In questo lagrimevole stato era ancora insultato dalla moglie e dagli amici, che lo reputavano colpevole di qualche grave peccato. Ma il santo Giobbe, benché afflittissimo, non si turbò e mantenne inalterabile la sua pazienza in mezzo a tutte quelle calamità, aspettando umilmente, e non invano, che Iddio lo liberasse Egli da quelle tribolazioni. Or chi sa dire i grandi meriti che in tale circostanza si fece il santo Giobbe! Osservate Giuseppe, figliuolo di Giacobbe. Perché egli era fornito di ottime qualità, i suoi fratelli, pieni di invidia e di odio contro di lui, lo calarono prima nel fondo di una cisterna e poscia lo vendettero ad un signore di nome Putifarre. Ed anche nella casa di questo signore a cagione della sua virtù fu colpito dall’avversità, e benché innocente fu condannato al carcere. Osservate il giovane Davide. Quanto dovette soffrire per causa del suo bel cuore da parte di Saul. Così dovette soffrire l’innocentissimo Daniele, e così soffrirono molti altri santi Profeti dell’antico testamento. E dopo la venuta di Gesù Cristo, secondo che Gesù Cristo stesso aveva profetato, non andarono incontro ai più gravi patimenti gli Apostoli, i martiri e in seguito tutti gli altri Santi? Sì, ed appunto col patire, specialmente col patire si fecero santi; così che tanti fra di loro, quando non avevano da patire, non erano contenti, e chiamavano in grazia al Signore che mandasse loro dei patimenti. Or dunque se è così, come ardiremo ancora di lamentarci, quando Iddio ci manda da soffrire? Ah si! soffriamo volentieri: e quando la nostra natura tanto rifugge dai patimenti, che pure Iddio per nostro bene ci manda, non dimentichiamo che questi sono la porzione delle anime giuste, ed animiamoci pensando a quel che Gesù Cristo ha patito Egli anzitutto per amor nostro, e adattiamoci volentieri anche noi a portare la croce per amor suo. Oh! l’amore al Crocifisso, ecco il vero segreto per accettare ogni patimento, per esservi rassegnati, per esserne anzi contenti. È a questo divin Crocifisso che guardava Maria, quando immersa nel più grave dei dolori gioiva nell’anima sua di partecipare alle pene del figlio. È a questo Crocifisso che pensavano gli Apostoli, quando se ne andavano gaudenti dal cospetto del concilio, perché erano stati fatti degni di patire contumelie per suo amore. È alla croce di questo divin Crocifisso che si configgeva S. Paolo per sovrabbondare di gaudio in ogni sua tribolazione. È a questo Crocifisso che applicavano tutto il loro cuore San Francesco Zaverio, quando gridava: Ancora di più; o Signore, ancora di più; S. Giovanni della Croce, quando esclamava: Soffrire ed essere disprezzato; S. Teresa, quando ripeteva: O soffrire o morire; S. Maddalena de Pazzi, quando diceva: “Soffrire e non morire”. Oh! attingiamo tutti a questa ineffabile sorgente. Che la santa carità di Gesù Cristo ci spinga, c’investa, ci consumi. Ed allora quando verranno le tribolazioni ne saremo contenti, quando non verranno le cercheremo, quando fuggiranno da noi le inseguiremo. Il patire sarà il nostro compagno di giorno, il nostro compagno di notte, il nostro compagno per tutta la vita. In esso riconosceremo la manna nascosta, la scienza dei Santi, il gran dono di Dio, il suo regno terrestre, la libertà perfetta dei suoi figliuoli, la porta della vita eterna. E voi, o giovani, se finora non avete ancor provato davvero che voglia dire patire, disponetevi tuttavia a provarlo, che i patimenti non tarderanno ad esservi anche per voi; anzi non vi mancheranno neppure adesso. se siete veramente virtuosi, poiché, sono massimamente i giovani virtuosi, che si prendono di mira dai malvagi, ed ai quali si muove la persecuzione. Ma allora ancor voi ricordatevi di essere nel numero dei seguaci di Gesù Cristo e patite volentieri; rallegratevi anzi di poter patire per Lui, che questa sarà la vostra più bella gloria.

2. Ma il divino Maestro mentre assegnò come speciale porzione ai buoni il patire, disse per contrapposto che i seguaci del mondo avrebbero avuto i godimenti. E l’esperienza conferma la parola di Gesù Cristo nel santo Vangelo. I malvagi il più delle volte quaggiù trionfano fortunatamente nelle loro iniquità: essi ricchezze, essi onori, essi piaceri, essi insomma tutto ciò che sembra rendere felici gli uomini sopra di questa terra, « E perché mai, si domanda lo stesso profeta Geremia, perché mai il peccatore viene prosperato nelle sue vie? Perché l’ingiustizia ottiene un esito così fortunato?» (Jer. XII). Perché? Anzitutto, o miei cari, perché la giustizia di Dio non si compie quaggiù, perché dopo il tempo verrà l’eternità, perché il Signore alle volte con questi godimenti terreni vuol premiare quel po’ di bene, che quei malvagi fanno in mezzo a tanto male, perché vuol castigarli lasciandoli in una felicità che li acceca, li insuperbisce, e li lascia nell’abisso delle loro colpe senza che se ne avveggano. Ma poi anche perché la sorte dei mondani, benché felice in apparenza non lo è in realtà. E credete voi che il mondo con tutti i suoi tesori, con tutte le sue dignità, e con tutti i suoi piaceri possa dare ai suoi seguaci dei godimenti veri, che riescano a pienamente soddisfarli? No, o miei cari, non è possibile. Il mondo con tutti i suoi beni non può contentare il cuore dell’uomo, perché l’uomo non è creato per questi beni, ma solo per Iddio, ond’è che solo Dio può contentarlo. Le bestie, che son create per i diletti dei sensi, esse si trovano la pace nei beni di terra; date ad un giumento un fascio di erba, date ad un cane un pezzo di carne, sono contenti, non desiderano niente più. Ma l’anima, che è creata solo per amare e star unita con Dio, con tutti i piaceri del mondo non potrà mai trovare la sua pace; solo Dio può renderla appieno contenta. S. Bernardo dice di aver veduto diversi pazzi con diverse pazzie. Tutti questi pativano una gran fame, ma altri si saziavano di terra, figura degli avari; altri di aria, figura di quei che ambiscono onori; altri d’intorno ad una fornace imboccavano le faville, che da quella svolavano, figura degli iracondi; altri finalmente d’intorno ad un fetido lago bevevano quell’acque fracide, figura dei disonesti. Quindi ad essi rivolto il Santo, diceva loro: O pazzi, non vedete che queste cose più vanno accrescendo, che togliendo la vostra fame? I beni del mondo sono beni apparenti, e perciò non possono saziare il cuore dell’uomo. Di fatti l’avaro quanto più acquista, tanto più cerca di acquistare e non si accontenta mai per quanto venisse a possedere tutto il mondo. Il disonesto quanto più si rivolge tra le sordidezze, tanto più resta nauseato insieme e famelico; e come mai il fango e le sozzure sensuali possono contentare il cuore? Lo stesso avviene all’ambizioso, che vuol saziarsi di fumo, poiché l’ambizioso più mira quel che gli manca, che quello che ha. Alessandro Magno, dopo aver acquistati tanti regni, piangeva, perché gli mancava il dominio degli altri. Oh! Se i beni di questa terra contentassero l’uomo, i ricchi, i monarchi sarebbero appieno felici; ma la esperienza fa vedere l’opposto. Salomone, il quale asserisce egli stesso di non aver negato niente ai suoi sensi, con tutto ciò dovette confessare che i beni del mondo sono vanità delle vanità, ed afflizione di spirito.Sì, oltre al non restarne soddisfatto, chi si abbandona ai piaceri di peccato non trova che amarezza, agitazione, spavento e rimorso. Chi sta in peccato ha paura per niente. Ogni fronda che si muova lo spaventa. Il suono del terrore è sempre nelle sue orecchie. Fugge sempre, senza veder chi lo perseguita. E chi lo perseguita? Il medesimo suo peccato. Caino dopo che uccise il fratello Abele, diceva: “Ora chiunque mi trovi, mi ucciderà”. E sebbene il Signore l’avesse assicurato che niuno l’avrebbe offeso, pure come dice la Scrittura, Caino andò sempre fuggendo da un luogo ad un altro. Chi era dunque il persecutore di Caino se non il suo peccato? Per di più il peccato porta seco il rimorso della coscienza, ch’è quel verme tiranno, che sempre rode. Vada pure il misero peccatore al teatro, al festino, al banchetto; ma tu, gli dice la coscienza, stai in disgrazia di Dio; se muori, vai all’inferno! Epperò il rimorso della coscienza è una pena sì grande anche in questa vita, che taluni per liberarsene son giunti a darsi volontariamente la morte. Uno di costoro fu Giuda, che come si sa, per disperazione da se stesso si appiccò. Ah! Che cosa è un’anima, che sta senza Dio? Dice lo Spirito Santo, ch’è un mare in tempesta. Se taluno fosse portato ad un lautissimo e splendido pranzo, ma ivi fosse appeso coi piedi, costretto a mangiare con la testa in giù, potrebbe godere di quel pranzo? Tal è quell’uomo, che sta con l’anima sottosopra, stando in mezzo ai beni di questo mondo, ma senza Dio. Egli mangerà, beverà, si divertirà, porterà indosso ricche vesti, riceverà quegli onori, otterrà quel posto, farà quella vendetta, ma non avrà mai pace ed allegrezza vera. La pace solo da Dio si ottiene, e Dio la dà agli amici, non già ai nemici suoi. La felicità adunque dei mondani non è che una felicità apparente, vana e ingannevole. Ed ecco perché Dio lascia godere a costoro una tale felicità.

3. Ma quand’anche questa felicità della terra fosse reale e valesse a rendere davvero soddisfatti tanti miseri uomini, quale sarà il suo termine? Il termine di una tale felicità è l’inferno con gli orribili suoi tormenti. Eravi un uomo, racconta lo stesso Gesù Cristo nel Vangelo, eravi un uomo, il quale andava fastosamente vestito, ed ogni giorno si dilettava in apparecchiar lauti banchetti. Eravi eziandio un mendico per nome Lazzaro, il quale tutto coperto di piaghe giaceva alla porta del ricco, e sentivasi così travagliato dalla fame, che desiderava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa di quel ricco e non le poteva avere; sicché i cani, più compassionevoli del padrone, andavano a leccare le sue piaghe. Ma non molto dopo Lazzaro morì e dagli angioli fu portato nel seno di Abramo. E morì anche il ricco, ma l’anima sua fu seppellita giù nell’inferno. Allora in mezzo agli acerbissimi tormenti, ch’ivi si soffrono, permise Iddio all’Epulone di levare lo sguardo e vedere Lazzaro nel seno di Abramo. “Padre Abramo, si mise ad esclamare, ti chiedo una grazia; per pietà mandami Lazzaro, che col dito intinto nell’acqua venga a me e ne lasci cadere una goccia sulla mia lingua, perché in questa fiamma son cruciato orribilmente” . Ma Abramo alla domanda di quel dannato rispose dicendo: Ricordati che hai già ricevuto dei beni durante la tua vita. E con questa risposta lo lasciò immerso in maggiore tristezza. Ecco adunque, o carissimi, ecco il fine della felicità mondana. Quel cattivo ricco visse quaggiù in mezzo ad ogni sorta di godimenti ed oramai da diciannove secoli si trova fra i tormenti dell’inferno, e vi starà per tutta l’eternità col più crudo rimorso di aver tanto goduto nel mondo. E tale sarà la sorte di tutti i mondani, se a tempo non si convertiranno e non faranno penitenza dei loro peccati. E vi pare questa una sorte invidiabile? Ah non è mille volte più desiderabile la sorte dei servi di Dio? Il discepolo del Salvatore quaggiù incontra delle difficoltà e delle prove. Egli ha da mortificare i suoi sensi, ha da resistere alle sue cattive inclinazioni, ha da frenare le sue malvagie passioni, ha da piegare sempre docilmente la sua testa alla volontà di Dio, anche in mezzo alle avversità, alle contraddizioni, ai patimenti ed alle lagrime. Ma tutto ciò quanti meriti gli acquista e qual ricompensa gli prepara in cielo! Tutto quanto egli fa, tutto quello che egli soffre, tutto è da Dio contato e tutto sarà da Lui ricompensato per tutta l’eternità. Gesù Cristo lo ha detto e la sua parola non fallirà mai: Ora piangete e siete nell’afflizione, ma la vostra tristezza un giorno si convertirà in gaudio; e questo gaudio, quand’io vi vedrò in cielo, nessuno toglierà da voi in eterno. Or se è così adunque, perché non ci animeremo a sostenere volentieri e con coraggio i travagli di una vita veramente cristiana? Negli stenti e nei sudori, che soffre il contadino affidando il suo seme alla terra, non si anima forse pensando al copioso raccolto, che farà un giorno? E non si anima il soldato tra i pericoli della battaglia pensando alla corona, che gli sta preparata? Così ancor noi volgendo lassù il nostro pensiero, ripetiamo spesso con l’Apostolo Paolo: Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam, quæ revelabitur in nobis: È un nulla il patire di questo mondo, in confronto all’eterno godere che Iddio tiene apparecchiato per coloro che lo amano e lo servono fedelmente (Rom. VIII. 18). E ciò ripetiamoci con tanto maggior animo, quanto più siamo certi di conseguire l’eterno gaudio per la fedeltà di Gesù Cristo nelle sue divine promesse. Il contadino, benché si travagli a lavorare la terra, non è sempre sicuro di fare un raccolto copioso, che da un momento all’altro una grandine furiosa può disertarlo. Il soldato nell’atto stesso che espone la sua vita, la può perdere e con essa l’ambita corona. Ma non è così di noi soffrendo e lavorando per il cielo. Gesù Cristo ha detto chiaro: La vostra tristezza si convertirà in gaudio e questo gaudio nessuno mai re lo potrà rapire . E la parola di Gesù Cristo non verrà meno in eterno.

Credo…

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja. [Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia. [In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja. [Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis. [Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

LO SCUDO DELLA FEDE (60)

LO SCUDO DELLA FEDE (60)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CAPITOLO XI.

SI CONVINCE FALSO IL PROTESTANTISMO PERCHÈ NON HA UN CAPO SUPREMO.

Per poco che uno conosca la Religione Cristiana, sa molto bene che Gesù Cristo l’ha fondata sopra di un Capo il quale sempre la regolasse. Sentite le belle parole di Gesù Cristo eterna verità ed istitutore della S. Chiesa. Esso rivolto a Pietro gli dice: Tu sei Pietro, ed io sopra di te edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di Lei. A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nel ciclo, e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche in cielo (Matt. XVI, 18). Dite: poteva parlarsi più chiaro? Gesù Cristo dice espressamente che fabbricherà la Chiesa sopra di Pietro, dunque Pietro è il Capo: dice che gli darà le chiavi, appunto come si danno ad un Principe, quando entra in una città in segno della sua padronanza, dunque egli è il Principe della Chiesa; gli dà pieno potere di legare e sciogliere qualunque cosa, dunque la sua autorità si estende a tutti i Fedeli. Ed è tanto chiaro tutto ciò, che bisogna non aver occhi per non vederlo. Poi per confermare questo Primato a San Pietro gli dice espressamente che pasca prima gli agnelli che sono i Fedeli, poi anche le pecore madri (Ioan. XXI. 15. 10) che sono i Pastori, cioè gli altri Vescovi e Sacerdoti. Gli dice espressamente che ha pregato per lui, perché non venisse meno la sua fede, affinché egli confermasse tutti i suoi fratelli (Luc. XXII, 22, 32), lo fa nominare nel S. Vangelo sempre il primo di tutti per denotare la sua superiorità. Tutti i più gran Santi della Chiesa hanno sempre intese così queste chiarissime parole, e perciò hanno sempre riverito San Pietro come il Capo della Chiesa, come il Vicario di Gesù Cristo. Del resto non poteva essere altrimenti. Come si sarebbe potuta mantenere la Chiesa che è sì vasta, che abbraccia tutto il mondo, senza di un Capo? Neppure una famiglia può regolarsi senza capo: tanto meno una città, un regno, tanti regni, quanti sono quelli che si accolgono nella S. Chiesa. Bisogna che qualcuno possa risolvere tutti i dubbi che insorgono, comporre tutte le liti e tutte le dissensioni che si accendono, mantenere la unità della dottrina, la concordia e la carità. Siccome poi la santa Chiesa per volontà di Gesù deve durare fino alla fine dei secoli, questo Capo deve esservi fino alla fine dei secoli, altrimenti la Chiesa non si manterrebbe come l’ha formata Gesù, concorde, unita, con la stessa dottrina, con lo stesso ordine. Ora chi sarà questo Capo della Chiesa? Non è e non può essere altri che quello che succede legittimamente a S. Pietro, cioè il Romano Pontefice. S. Pietro fondò la Sede Romana ed in essa visse, ed in essa morì. – Quella pertanto fu la vera Sede di Pietro nella quale si trovarono e nella quale passarono tutti i diritti di Lui. Se i successori di Pietro nella sua Sede non fossero i possessori dell’autorità di Pietro, come si verificherebbe che la Chiesa sopra di Pietro fosse fondata, come ha promesso Gesù? E dunque innegabile che tutti quelli che nei secoli susseguenti la occuparono sono i veri Capi visibili della Chiesa i Vicari di Gesù Cristo. E perciò tutti i nostri maggiori nella S. Fede, rispettando tutte le antichissime Sedi Episcopali, diedero sempre la preferenza alla Romana. A questa si appellavano in tutte le controversie che sorgevano, ed essa risolvette sempre tutti i dubbi, consigliò tutti gl’ignoranti, definì tutte le liti, condannò tutti gli errori. Alla Cattedra di S. Pietro fecero riverenza tutti i Fedeli, prestarono obbedienza tutti i Principi che vollero essere Cattolici, si sottoposero tutti i Pastori radunati nei Concili, fecero ossequio tutti i Cristiani. Ed in prova ancora che questa era istituzione sua, Gesù Cristo confermò con la sua assistenza quella gran Sede, sicché non venisse mai meno. Nelle altre Sedi anche antichissime, s’intruse qualche volta l’errore: le altre Sedi furono quasi tutte distrutte o assoggettate ad altre Sedi, quella di Pietro in mezzo a tutte le tempeste delle persecuzioni dei Principi ed Imperatori malvagi, e delle insidie degli Eretici, sempre rimase salva ed intatta, e Dio tanto assisté quella gran Sede, la quale è l’organo della sua sapienza, che perfino quando vi fu qualche Pontefice (che però furono pochissimimeno buono, non permise mai che insegnasse cosa alcuna, o contraria alla Fede, ocontraria alla morale; che anzi fece che questi Pontefici al pari degli altri confermassero sempre secondo la parola di Cristo i loro fratelli nella Fede, insegnando costantemente la verità. – Mirabile Istituzione che fece il nostro Divino Salvatore, sommamente provvida per tutti noi! poiché con questa ci accese una fiaccola che illumina le nostre tenebre per modo, che chiunque voglia camminare a quel lume, non può perdere la strada del cielo. – Ora che cosa fanno i Protestanti? Vi vogliono togliere questa bella fiaccola che così bene v’illumina, vi vogliono levare questa pietra immobile che vi rassicura, cioè vogliono togliere dalla S. Chiesa il Romano Pontefice. Gesù Cristo ha dato a Pietro ed ai suoi successori l’autorità ed essi gliela tolgono: Gesù Cristo ha detto a Pietro d’insegnare a tutti, ed essi pretendono che taccia, e si mettono ad insegnare essi: Gesù Cristo ha detto a Pietro che confermi nella Fede tutti, ed essi ricusano Pietro e pretendono di confermarsi da sé nella verità: Gesù Cristo l’ha fatto loro Capo, ed essi rigettano questo Capo messo da Gesù, per sottomettersi poi a chi? Mi vergogno fino a dirlo, o ad un soldato che li regola con la spada, o ad un Principe che non s’intende di nulla che appartiene alla S. Fede, oppure anche ad un fanciullo o ad una donna come è accaduto altre volte ed accade presentemente ai Protestanti d’Inghilterra. Se non è questa una vergogna sempiterna, che sarà mai? E questa è la bella Religione che ci vogliono portare? e per questa Religione ci vogliono strappare dal seno della Cattolica Chiesa? Obbediscano essi a chi loro piace: noi riconosceremo unicamente il Sommo Pontefice e Vicario di Gesù Cristo ed in compagnia di tutti i Santi, di tutti i Padri e di tutti i Dottori dipenderemo da Lui, e Lui onoreremo sopra la terra, né mai riconosceremo la vera Chiesa senza di Lui. Una campagnuola prudente ad un Signore che le diceva di farsi Protestante, fece questa interrogazione: ed allora a chi dovrei poi obbedire? A nessuno, rispose quegli, farete da voi, toccherà a voi leggere nelle Sacre Scritture e farvi la Religione. Allora essa rispose: Signore, neppure il mio pollaio può andar bene senza il gallo, pensate poi se possa andar bene tutta la S. Chiesa senza un Capo. E con questa semplice ma giusta risposta gli voltò un paio di spalle e lo lasciò confuso.

I SANTI MISTERI (5)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (5)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XVIII

Il Corporale, il pane ed il vino dell’altare.

Dopo il Credo e l’Oremus, il Prete recita una breve preghiera denominata Offertorio, che ricorda lo spirito del mistero o della festa del giorno. Poi egli stende sulla pietra d’altare un sacrissimo velo, chiamato Corporale, perché avrà ben presto l’onore di portare il Corpo adorabile del Figlio di DIO. Il Corporale deve essere propriamente, ancor più puro per quanto si possa, degli altri teli dell’altare, a causa della sua destinazione più santa. Esso non deve presentare la minima macchia, né il minimo rammendo; deve essere tutto bianco ed unito in tutta la sua semplicità e purezza. Esso ricorda la Santissima ed Immacolata Vergine MARIA, Madre del Figlio di DIO e Madre della Chiesa, più pura, mille volte più santa degli Angeli rappresentati, come visto, dai tre teli bianchi che coprono l’altare e che supportano il Corporale. MARIA, Madre di GESÙ, è portata dai nove cori degli Angeli; essi la riveriscono e l’amano come loro Sovrana. È in Ella che DIO ha operato, nella pienezza dei tempi, il mistero dell’Incarnazione di suo Figlio; ed è sul Corporale che sta per operarsi tra poco la consacrazione del Corpo e del Sangue di GESÙ. Aspettando la Consacrazione, il Corporale sta per portare il pane che sarà cambiato in Corpo del Signore, ed il vino che sarà cambiato nel suo Sangue; allo stesso modo, dopo l’inizio del mondo, fino all’Incarnazione, la futura Madre di DIO è stata costituita Regina dei Patriarchi, Regina dei Profeti, Regina di tutti i Santi dell’Antica Legge, non meno che Regina degli Angeli; la grazia della sua futura Maternità, che è un solo e medesimo mistero con l’Incarnazione e la Redenzione, comprendeva tutta la Religione, il culto, tutti i sacrifici dell’antica Alleanza, come il Corporale porta il pane ed il vino. In effetti, il pane ed il vino rappresentano là sull’altare le vittime tutte degli antichi sacrifici. Allo stesso modo questo pane e questo vino non hanno alcun valore in se stessi, e tutto il loro valore proviene dalla loro sublime destinazione; come le vittime ed i sacrifici che offrivano alla maestà del vero DIO i Santi della Legge antica, traggono tutta la loro virtù, tutto il loro valore dal Sacrificio divino e dall’adorabile Vittima che essi raffiguravano. Per la loro composizione, pure, il pane ed il vino rappresentano ancora l’unione di tutti i fedeli in una sola Chiesa Cattolica, cioè universale: il pane è formato da molti grani di frumento molati, poi impastati insieme con l’acqua, poi infine cotti al fuoco; e questo pane, così composto, deve essere cambiato in Corpo di GESÙ-CRISTO; il vino è ugualmente formato da una quantità di chicchi di uva schiacciati, il cui succo alcolico ha dovuto fermentare per diventare un eccellente liquore; e nel Calice, questo vino sta per essere cambiato nel Sangue del Figlio di DIO. Questo doppio mistero naturale della composizione del pane e del vino dell’altare è il simbolo dell’unità e della pace, che fanno di tutti i fedeli un solo corpo, una sola Chiesa; come gli uomini, essi sono separati e senza mutui legami di carità; essi sono i grani di frumento prima della mietitura, gli acini di uva prima di essere pressati. L’acqua del Battesimo ed il fuoco dello Spirito-Santo cambiano gli uomini in Cristiani, in membra di GESÙ-CRISTO, in templi viventi di questo divino Signore: essi sono delle ostie spiritualmente consacrate. Egualmente, con il lavoro della fermentazione, che purifica e lo fa diventar tale, il vino è simbolo dell’azione dello Spirito-Santo nelle anime che GESÙ chiama all’onore di fare “uno” con Lui e per Lui, con il Padre. Il pane ed il vino, deposti sul Corporale, stanno per essere transustanziati, cioè cambiati nella sostanza stessa del Corpo e del Sangue di GESÙ-CRISTO. Sotto questo aspetto, essi sono ancora i simboli evidenti della trasformazione spirituale e soprannaturale che si opera in noi con il mistero della grazia: noi non siamo cambiati, è vero, nella Persona di GESÙ, e la nostra sostanza non diviene la sua sostanza; ma lo Spirito-Santo, facendo di noi dei Cristiani, unisce sì intimamente il nostro spirito allo Spirito di GESÙ, i nostri pensieri ai suoi pensieri, i nostri sentimenti ai suoi sentimenti, che tra GESÙ ed il vero Cristiano vi è verosimilmente, come dice San Paolo, che « … un solo e medesimo spirito. » E così, la nostra vita è cambiata, trasformata nella vita transustanziata del nostro divin Capo. « Non sono più io che vivo, diceva ancora San Paolo, è GESÙ-CRISTO che vive in me. » Ecco cosa significano il pane ed il vino dell’altare. Così i Preti santi mettono ogni tipo di cura a tutto ciò che concerne questo pane e questo vino, materia del Sacrificio. Essi rigettano, come indegno, ogni ostia granulosa, deteriorata, imperfetta, ogni ostia caduta a terra: e si sforzano di non presentare all’altare un vino non solo puro, ma di buona qualità e di profumo delicato. Non sarebbe vergognoso veder riservato per la nostra tavola un vino fine e squisito, e dare al buon DIO, per il suo Sacrificio, ciò che non vorremmo offrire ad un confratello o ad un amico? Quando accade una tale irriverenza essa è indubbiamente il risultato ed il segno di una fede molto poco delicata. Un recente decreto della Congregazione dei Riti ordina che le ostie siano rinnovate almeno ogni quindici giorni. Soprattutto nei paesi umidi, questa precauzione è di una necessità evidente. Anche dopo la Consacrazione queste ostie, divenute in realtà il Corpo vivente del Signore, conservando le apparenze e le proprietà esteriori del pane, possono alla lunga alterarsi, e devono potersi alterare come dei pani ordinari. Senza questo, il Santissimo Sacramento non sarebbe più ciò che esso è assolutamente, « il mistero della fede, misterium fidei » come dice la Chiesa. L’alterazione delle sante specie è una conseguenza necessaria dell’idea stessa dell’Eucaristia; la conservazione di un’Ostia consacrata fuori dalle leggi naturali, che regolano la conservazione del pane azimo, sarebbe un miracolo, cioè un fatto divino, straordinario, insolito; ora la santa Eucaristia è, nella Chiesa, un Mistero, un mistero quotidiano e non un miracolo.  

XIX

La Patena, il Calice e la doppia oblazione.

L’ostia riposa su di un piccolo piatto, che si chiama Patena; ed il vino vien versato in una coppa, chiamata Calice. La Patena ed il Calice devono essere dorati, almeno internamente, nel rispetto per il Corpo ed il Sangue del Signore. Questi vasi sacri devono essere almeno d’argento (se proprio la chiesa fosse indigente, il diritto liturgico tollererebbe anche un calice di stagno), smerigliato, se possibile, cioè di argento dorato; meglio ancora se fosse in oro puro, come era in uso nelle grandi chiese. L’oro è nel culto divino il simbolo della carità e della perfezione; è per questo che ogni vaso sacro di uso eucaristico, deve essere almeno dorato; l’argento è il simbolo dell’innocenza, della purezza. Quanto al rame, al ferro e agli altri metalli comuni, la loro inferiorità è sufficiente per escluderli dalla confezione dei vasi sacri. Non si deve dir Messa con un Calice ed una Patena non consacrata dal Vescovo. È facile comprendere che ciò che debba servire ad un uso così augusto, così divino, sia preliminarmente purificato, benedetto, santificato, ed escluso dal numero delle cose profane. A meno di un permesso speciale, che non si accorda così alla leggera, è proibito a tutti coloro che non siano almeno chierici tonsurati, di toccare un Calice o una Patena, dal momento che essi sono consacrati. Secondo la Tradizione, è certo che l’uso della Patena e del Calice, come pure del Corporale per il Santo Sacrificio, risalga ai tempi apostolici. Gli Apostoli hanno imitato in questo Nostro Signore, che si servì per primo di un piatto (o Patena) e di una coppa (o Calice) quando celebrò nel Cenacolo il mistero eucaristico. Essi seguivano alla lettera il precetto del loro Maestro: « E voi, ogni volta che farete questo, lo farete in memoria di me, », cioè come me ed in ricordo di tutti i miei misteri. È ancora ad imitazione del primo Sacerdote, di GESÙ, che essi hanno ordinato ai Sacerdoti di fare prima l’offerta del pane, poi del vino, prima di consacrare e, facendo questa offerta, di levare gli occhi al cielo: « Et elevatis oculis in cœlum, » dice il Vangelo. Se il Sacerdote guarda più fissamente e più lungamente il Crocifisso durante l’offerta del Calice, è senza alcun dubbio perché il Sangue del Signore, che il Calice starà per contenere, è lo stesso che sull’altare sanguinante della Croce scorreva dalle mani, dai piedi, dal costato trafitto del Redentore. Il Sangue divino del Sacrificio, ha una relazione più immediata con GESÙ crocifisso che con il suo Sangue è entrato nel santuario, rinnovando a tutti i suoi membri, la beata eternità (Per proprium sanguinem introivit semel in Sancta, æterna redemptione inventa. (Ad Hebr., IX, 12.). Dopo trentatré anni e mezzo, il suo Corpo sacro aveva offerto, dapprima nel seno della Vergine Immacolata, il suo primo altare, poi a Bethléem, a Nazareth e in tutti gli altri misteri incruenti del lungo sacrificio della sua vita; ma il Sangue divino non era colato. Alla circoncisione, in effetti, non si era avuto che un anticipo della redenzione mediante il sangue.

XX

Cosa simbolizzano ancora la Patena, il Calice ed il Corporale.

Ma devono essere segnalate qui all’attenzione dei fedeli, ancora due altri significati del Corporale e dei due vasi sacri che esso sostiene. Il primo deriva dalle medesime parole delle preghiere liturgiche prescritte per la loro consacrazione dal Vescovo; il secondo si ricollega alla vista d’insieme del grande mistero di GESÙ-CRISTO, che abbiamo da poco ricordato. Il Vescovo, dopo aver solennemente consacrato la Patena ed il Calice, con il santo Crisma, chiede a DIO che questo Calice e questa Patena divengano, con la grazia dello Spirito-Santo, un nuovo sepolcro per il Corpo ed il Sangue di Nostro-Signore GESÙ-CRISTO (Corporis et sanguinis Domini nostri JESU-CHRISTI novum sepulcrum Sancti Spiritus gratia eificiantur.  – Pontif. Rom.). Ciò che fa dire al Papa Benedetto XIV, secondo Suarez e diversi altri, nel suo trattato di dogmatica e liturgia, De Sacrificio Missæ (Lib. I, cap. VI): « Il Calice simbolizza il sepolcro nuovo ove fu deposto il Cristo-Signore; la Patena rappresenta la pietra rimossa dall’entrata del sepolcro, ed il Corporale esprime il sudario bianco con il quale Giuseppe di Arimatea avvolse il Corpo del Cristo. » – Questa interpretazione si riporta unicamente e direttamente alla presenza reale, e mostra l’identità del Sacrificio mistico dell’altare con il Sacrificio cruento del Calvario. Da questo punto di vista è di una giustezza assoluta. – La seconda interpretazione si riporta, noi diciamo, alla contemplazione dell’unità e della universalità del mistero di Cristo, l’una e l’altra misticamente rappresentata all’altare. Ora ecco ciò che richiamano alla nostra fede il Corporale, la Patena ed il Calice, così come la doppia oblazione. La Patena, sulla quale è il pane dell’altare, significa in modo evidente la legge mosaica, con le sue vittime figurative ed il suo altare. L’altare sul quale DIO aveva ordinato che si immolassero queste vittime, era santo e consacrato, come i quattro corni che decoravano i suoi Angeli. Il Sacerdote prendendo la Patena per offrire il pane e sacrificarlo, la sostiene con le due mani giunte, per mezzo delle sue quattro dita consacrate. Nella consacrazione delle mani del Sacerdote, all’ordinazione, il Vescovo benedice e consacra, in effetti, in maniera speciale il pollice e l’indice di ogni mano, in vista della Santa Eucaristia che essi toccheranno. Queste quattro dita del Sacerdote, sostengono dunque la Patena che porta l’ostia; così come già, nel Tabernacolo e nel Tempio, i quattro corni consacrati sostenevano l’altare degli olocausti, ove si posavano le vittime. Durante questa oblazione, o offrendo il pane, il Sacerdote ha le due mani giunte al di sopra della Patena, come segno della unione segreta che esisteva tra i riti sacri dell’Antica Legge ed il Sacrificio adorabile del Calvario e dell’Eucaristia che un giorno dovevano sostituirli. Il Figlio di DIO medesimo offriva e santificava questi antichi sacrifici con il ministero dei Sacerdoti e dei Leviti: mediante il ministero del Sacerdote all’altare, lo stesso Figlio di DIO offre il pane ed il vino, ricordando così alla nuova Alleanza, i misteri e la santità profetica dell’Antica. La Chiesa ordina al Sacerdote che prima di iniziare questa prima oblazione, egli elevi per un momento, gli occhi al cielo o, per meglio dire, sul Crocifisso dell’altare che è l’immagine del Re del cielo; ma durante il restante della preghiera dell’offertorio, egli deve tenerli abbassati sull’ostia; al contrario, offrendo il vino del Calice, egli dovrà tenerli per tutto il tempo elevati al cielo, fissanti il Crocifisso. È il segno dell’inferiorità degli antichi sacrifici in rapporto al Sacrificio della nuova Alleanza: i primi venivano, è vero, dal Signore che li comandava, e raffiguravano il Sacrificio della Croce e dell’altare; ma questi non erano meno terreni; l’altro doveva essere tutto celeste, e non avere altro Sacerdote ed altra Vittima, che l’Uomo-DIO glorificato nel seno di suo Padre. Nel vino del Calice, la Chiesa vuole che si versi un poco di acqua (Il Messale dice « parum aquæ»: una goccia è sufficiente. Un quinto di acqua non invaliderebbe la Consacrazione, ma nei Sacramenti bisogna essere sempre sicuri al massimo): simbolo dell’unione invisibile dell’umanità e della divinità nella Persona unica di GESÙ-CRISTO; ed inoltre simbolo dell’unione indissolubile che il Sacrificio e la grazia di GESÙ hanno formato tra Lui e la sua Chiesa. Questa goccia di acqua rappresenta noi, piccoli e poveri niente, che da noi stessi non siamo nulla, e che non possiamo essere uniti a DIO se non incorporandoci con la sua grazia, al nostro Capo adorabile, GESÙ. Che felicità il non essere niente e sapere che GESÙ-CRISTO è tutto in ciascuno di noi! Tu solus Sanctus, Jesu Christe! Offrendo il Calice, il Sacerdote lo tiene con la mano destra e non fa che sostenerlo in basso con la mano sinistra: in effetti, solo la Chiesa cristiana offrirà il Sacrificio nuovo, rappresentato dal vino del Calice; e l’antica Chiesa, la Chiesa patriarcale e mosaica, non farà che portare la nuova Alleanza, come la serva sostiene la sua padrona. Concludendo le due oblazioni, il Sacerdote traccia con la Patena, poi con il Calice, un segno di croce al di sopra del Corporale, per santificare ancor più il luogo ove riposeranno presto questo pane e questo vino consacrati. Egli prende la Patena, dopo aver posto l’ostia sul Corporale, e in parte la nasconde, sotto il Corporale a destra, coprendo il resto con il velo chiamato Purificatorio, perché serve ad asciugare il Calice. Così velata, la Patena vuota raffigura la Chiesa giudaica che, dopo l’avvento di Nostro-Signore GESÙ-CRISTO, è privata della luce della fede, è senza sacerdozio e senza sacrificio, ed attende, nelle tenebre dell’infedeltà, il giorno della sua conversione. Noi vedremo più avanti questa conversione che tutti i Profeti e gli Apostoli hanno predetto, rappresentata in un’altra cerimonia della Messa. Alla Messa solenne, lo stesso mistero è raffigurato dal Suddiacono che, dopo la prima oblazione, discende con la Patena dall’altare, fino in basso; e là, avvolto da un velo, egli tiene con la mano destra la Patena alzata davanti agli occhi, per significare l’accecamento dell’antico popolo di DIO, che nulla comprende, che si ostina a non voler comprendere nulla del Mistero di amore e di misericordia di questo Cristo che tuttavia ha dato al mondo. Il Diacono, al contrario, Chiesa nuova, assiste da vicino il Celebrante, e contempla senza veli GESÙ-CRISTO rappresentato dal Celebrante, e realmente presente sotto le specie eucaristiche. Il Suddiacono che scende dall’altare velandosi il volto con la Patena, richiama le sante regole che ci ha conservato San Dionigi l’Aeropagita, secondo le quali, il Celebrante solo ed il suo ministro avevano il diritto di vedere faccia a faccia e di fissare il Mistero tutto divino dell’altare. Dall’Offertorio, in effetti, tutto ciò che si faceva per preparare il Sacrificio si compiva in religioso segreto, e San Dionigi minacciava con la collera di DIO, chiunque osasse rivelare o tradire le parole sacramentali. Il Suddiacono assisteva il Celebrante a sinistra, quando era necessario doveva tenersi più vicino al Celebrante degli altri chierici, alfine di poter egli presentare la Patena sul quale il Corpo di Cristo doveva essere frazionato e distribuito ai fedeli. Quando il suo ufficio non lo tratteneva all’altare, egli ne doveva discendere, e come i Serafini, velarsi il volto, riconoscendosi indegno di contemplare così da vicino i terribili misteri. Questo era ancor più naturale, in quanto il Suddiacono non aveva ancora ricevuto l’augustissimo Sacramento dell’Ordine; e poi, il popolo fedele, vedendo il Suddiacono stesso allontanarsi dall’altare, nel rispetto di un timore religioso, doveva comprendere più facilmente con quale riverenza dovevano essere trattate le cose sante, anche dai santi. Quanti Misteri nelle cerimonie della Chiesa? E qual grande cosa la Liturgia Cattolica! Il velo che avvolge il Suddiacono deve essere ampio; esso può essere di seta o di lino fine, non è necessario che sia bordato.

XXI

Gli Incensamenti

Nella Messa solenne, vi è una bella cerimonia, piena di misteri, come tutte le altre, e che si chiama l’incensamento. Vi sono quattro incensamenti durante la Messa solenne: il primo che precede la recita da parte del Prete, dell’Introito; il secondo prima e dopo il canto del Vangelo; il terzo, il più solenne, dopo l’offerta del pane e del vino; il quarto infine, durante l’Elevazione. L’Incensiere, che dovrebbe essere d’argento o smerigliato, oppure d’oro, raffigura la santa Umanità di Nostro-Signore; il fuoco che lo riempie, è lo Spirito-Santo che ardeva nel suo Sacro Cuore; l’incenso benedetto, che il Sacerdote mette sui carboni ardenti dell’incensiere, è la preghiera, sono le adorazioni con le quali GESÙ onora incessantemente ed in modo assolutamente divino la maestà di suo Padre. Uniti a GESÙ nello Spirito-Santo con la grazia, gli Angeli nel cielo ed i Cristiani sulla terra confondono le loro adorazioni e le loro preghiere con questa adorazione e questa preghiera ineffabile data da DIO. « Il Cristo prega in noi, come nostro Capo; Egli prega per noi, come nostro Sacerdote, » diceva Sant’Agostino. E così il fumo ed il profumo dell’incenso, rappresenta qui nello stesso tempo e la preghiera di GESÙ-CRISTO in se stesso, e la sua preghiera nei suoi Angeli ed in tutti i Santi del cielo e della terra. Si devono mettere tre cucchiai di incenso, innanzitutto in onore della Santissima Trinità, alla quale si indirizzano sovranamente tutte le adorazioni della Chiesa; poi per rappresentare le adorazioni della Chiesa patriarcale, da Adamo a Mosè; della Chiesa giudaica, da Mosè fino a Nostro Signore; della Chiesa cristiana e romana, dal primo Avvento del Salvatore, fino al secondo. –  Prima dell’Introito il Sacerdote incensa innanzitutto tre volte il Crocifisso: è l’adorazione universale di tutti gli eletti della Chiesa patriarcale, mosaica e cristiana, indirizzata alla Santissima-Trinità per Mezzo di GESÙ-CRISTO, Mediatore universale di Religione e Redenzione. Poi, incensa l’altare dodici volte dal lato dell’Epistola, e dodici volte dal lato dell’Evangelo, avvolgendo, per così dire il santo altare con il fumo dell’incenso; è la preghiera, è l’adorazione degli Angeli e dei Santi dell’antica Alleanza, primariamente rappresentata dai dodici Patriarchi e dai dodici Profeti; in seguito degli Angeli e dei Santi della Legge evangelica, rappresentata dai dodici Apostoli. Nell’Apocalisse, San Giovanni ci mostra, in effetti, tutti questi Santi, sotto figura dei ventiquattro Vegliardi vestiti di bianco ed adoranti l’Agnello di DIO, immolato e tutta via vivente, sul trono della sua gloria; la Chiesa ci rappresenta la stessa cosa in questi ventiquattro volute di incenso benedetto che avvolgono l’altare ed il Crocifisso. Inoltre, con questa atmosfera di incenso benedetto, essa vuole santificare, penetrare di GESÙ, deificare tutto ciò che serve al Santissimo Sacrificio, in particolare il pane ed il vino che sta per diventarne la materia, ed il Sacerdote con i ministri dell’altare ed i fedeli astanti, che stanno per incorporarsi al Signore con la Comunione. L’incenso è, in effetti, riservato a Dio solo; esso esprime qui la perfetta santificazione, la deificazione del Cristiano in GESÙ-CRISTO. – All’Offertorio, prima di questo incensamento, il Sacerdote incensa il pane ed il vino, onorando soprattutto, come vero DIO, Colui che sta per cambiare tra poco, la loro grossolana sostanza nella celeste sostanza della sua umanità, e velarsi sotto le loro apparenze. – Il secondo incensamento, che si fa tra i due suddetti, è destinato ad onorare il santo Vangelo, a ricordare ai fedeli che GESÙ è Sacerdote nel Sacerdote, e che, con la grazia del Sacramento dell’Ordine, costui non fa che un tutt’uno, interiormente e spiritualmente, con il GESÙ del Vangelo, con la Persona stessa di questo Figlio di DIO e di MARIA, che ha fatto e che ha detto tutto ciò che è riportato nella recita evangelica. Così il Diacono rappresenta la Chiesa, incensa con lo stesso numero di colpi di incenso il libro dei Vangeli ed il Sacerdote, GESÙ nel Vangelo, e GESÙ nel Sacerdote. – Il quarto incensamento si fa dai chierici di ordine inferiore, inginocchiati ai piedi dell’altare, dal lato dell’Epistola, durante l’elevazione della Ostia santa e del Calice. Il senso di questa cerimonia si svela da sé: l’incenso che sale allora verso il Santissimo-Sacramento è simbolo dell’adorazione e dell’amore di tutti i fedeli presenti nella Chiesa del cielo e della terra. Ricordiamolo infine: il Vescovo ed il Celebrante sono incensati per primi, e dopo di essi, sono incensati il Diacono, il Suddiacono, gli altri ministri dell’altare, il clero in abito da coro, ed infine il popolo dei fedeli. Questi incensamenti si riconducono tutti a Nostro-Signore GESÙ-CRISTO, presente e vivente in tutti i suoi membri; siccome Egli non vive in tutti allo stesso titolo, né con la stessa sublimità di grazia e di funzioni, l’incensamento si diversifica, e manifesta nel contempo l’unità della vita cristiana nella Chiesa e la molteplicità delle vocazioni e delle grazie. Il celebrante, ed a maggior ragione il Vescovo, riceve il triplo incensamento, perché egli rappresenta la pienezza divina della grazia del Cristo Crocifisso, resuscitato e glorificato nel più alto dei cieli. Nel semplice Sacerdote, Nostro-Signore è incensato e contemplato nella grazia del mistero della sua Resurrezione, e non nella grazia, ancor più perfetta, del mistero della sua Ascensione. Nei fedeli, il Figlio di DIO è incensato e contemplato nella grazia dei misteri della sua vita mortale, umiliato e crocifisso. – Tale è il senso profondo e toccante degli incensamenti della Messa solenne. È un vero dovere di Religione usare all’altare un incenso di ottima qualità. Qui, come dappertutto, ci si è voluto “raffinare” rispetto all’uso antico della Chiesa romana, e al posto della gomma di incenso polverizzata, che produce un magnifico fumo bianco, vaporoso, balsamico, si è immaginato non so quale incenso nerastro o rossastro che non dà che un fumo impercettibile, nerastro, che disturba la testa e la gola. È l’incenso gallicano! – A Roma, in tutte le chiese ed in particolare nella Basilica di San Pietro, ci si serve di un incenso puro d’Arabia, senza alcuna mistura; si riduce questa gomma d’incenso in polvere finissima, e non la si risparmia dell’incensiere. Questo produce una vera nuvola di vapore bianco, diafano, di un profumo squisito. Sull’altare maggiore di San Pietro, quando il Papa fa gli incensamenti della Messa Pontificale, non si intravvede che attraverso questa bella nuvola di incenso che avvolge ben presto l’altare, sale verso la cupola e profuma l’immensa basilica. Questo momento dell’Officio pontificale è particolarmente grandioso ed impressiona vivamente il pellegrino cattolico.

I SANTI MISTERI (4)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (4)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XIII

Perché il Sacerdote saluta sette volte il popolo dei fedeli durante la Messa.

Il Sacerdote dice per sette volte, durante la Messa, rivolgendosi al popolo: « Dominus vobiscum », vale a dire: “Che il Signore sia con voi!” Ed i fedeli, per bocca del servente Messa, gli rispondono: « Et cum spiritu tuo, cioè: e con il vostro spirito. » – Questi saluti del celebrante fanno parte di questi riti apostolici, pieni di misteri ed ispirati alla Scrittura. Il Sacerdote deve dirli o cantarli intimamente unito al Re del cielo,  GESÙ-CRISTO, e ai santi Angeli, principalmente ai sette grandi Arcangeli che stanno davanti al trono del Signore. Tutte le volte che nel nome del Sacerdote eterno GESÙ-CRISTO, il Sacerdote deve pregare in un unico e medesimo spirito con il popolo, egli rinnova l’unione che lo Spirito Santo ha stabilito tra il popolo fedele e lui; e questa unione è in GESÙ-CRISTO, solo che deve ravvivarsi incessantemente. Ecco perché prima del Dominus vobiscum, egli bacia ordinariamente il santo altare e si unisce più ardentemente al Cristo celeste, simbolizzato dall’altare. Aspirando così allo spirito di GESÙ, e sempre in società con gli Angeli, egli si volge verso il popolo, stende le mani verso di esso e lo saluta con le medesime parole con cui l’Arcangelo Gabriele salutò la Santa-Vergine. Ciò che Gabriele fece per la Vergine Maria, il Sacerdote lo fa per la Chiesa: egli è per essa l’organo, il canale del Santo Spirito, ed effonde su ciascuno dei fedeli lo spirito di Cristo: egli dà loro spiritualmente GESÙ-CRISTO, il Signore stesso. Rispetto alla Chiesa, che egli santifica con il suo saluto, il Sacerdote è come il sole di grazia che invia lo splendore dei suoi raggi in un puro specchio: ricevendoli, lo specchio li riflette e li rimanda al sole. Così fa il Sacerdote, dando alla Chiesa GESÙ-CRISTO nello Spirito-Santo, ricevendolo da questa stessa Chiesa che glielo rende, nel conservarlo con amore. Nel rispondere al Sacerdote: “et cum spiritu tuo”, la Chiesa si unisce a lui in GESÙ-CRISTO e nello Spirito-Santo; e così che, non facendo che uno, il Sacerdote ed i fedeli pregano insieme il Padre celeste, nel nome di GESÙ-CRISTO ed in GESÙ-CRISTO. – I sette Dominus vobiscum della Messa, sembrano ancora significare i sette Doni dello Spirito-Santo effusi da GESÙ-CRISTO, dal Sacerdote eterno di DIO, su tutti coloro che credono e sperano in Lui, dall’inizio fino alla fine del mondo. 1° Il primo, che si dice ai piedi dell’altare, dopo la confessione pubblica dei peccati, esprime ed effonde sugli astanti, il dono del Timore, con il quale lo Spirito-Santo ci conferma nell’orrore del peccato e nei sentimenti di penitenza di GESÙ-CRISTO. È questo spirito di timore religioso che deve riempire il cuore del Sacerdote così come quello degli astanti, nel momento in cui comincia il divin Sacrificio. 2° Il secondo Dominus vobiscum di dice dopo il Gloria e corona, per così dire, questo sublime inno. Esso esprime ed effonde il Dono della Pietà filiale che dal cuore di GESÙ si spande nei cuori di tutti i suoi fedeli. Tutti coloro che sono di GESÙ-CRISTO, Angeli o uomini, sono i figli di DIO; essi devono, come GESÙ e CON GESÙ, amare il loro Padre celeste con amore filiale con un amore in cui la fiducia e la tenerezza di uniscono al rispetto più profondo. Tutti, cioè tutti gli eletti delle sei ere del mondo che si ricordano nel Gloria, avranno così amato il buon DIO. È così che pure noi dobbiamo amarlo, riverirlo, servirlo ed è in questo spirito di pietà che il Sacerdote, a nome della fedele assemblea, reciterà le preghiere chiamate Collectes.  3° Il terzo Dominus vobiscum si dice all’Evangelo. Esso esprime il terzo Dono dello Spirito Santo, il Dono della Scienza. Il Dono della scienza è quello che ci scopre le cose della grazia sotto la corteccia delle cose della natura, e che così eleva i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre affezioni naturali per renderle soprannaturali, cioè cristiane. Il Vangelo che è la recita abbreviata delle azioni e delle parole di GESÙ-CRISTO, è la luce che ci rivela questa scienza divina; è per questo che la Chiesa, mediante l’organo del Sacerdote, richiede il Dono della scienza a tutti i Cristiani prima della recita o del canto dell’Evangelo. – 4° Il quarto Dominus vobiscum, corona il Credo e dà inizio all’offertorio. Esso esprime e diffonde il Dono della Fortezza, che GESÙ, con il suo divino Sacrificio e con i meriti della sua immolazione dà alla sua Chiesa, ai suoi Sacerdoti, a tutti i Cristiani. Esso è ben disposto dopo il Credo, essendo indispensabile la forza soprannaturale indispensabile a tutti per confessare la fede ed entrare nello spirito del Sacrificio che inizia, propriamente parlando, all’Offertorio. – 5° Il quinto saluto del Sacerdote vien dato all’inizio del Prefazio, preghiera solenne, tutta celeste, che apre quel che si chiama il Canone della Messa. Come preparazione immediata a riconoscere ed adorare  GESÙ-CRISTO, con i santi Angeli, sotto le apparenze del pane e del vino, la Chiesa ed il suo ministro chiedono per tutti i fedeli assistenti il Dono del Consiglio, che ci fa discernere, alla luce della fede, ciò che è di DIO, e ciò che non è da Lui, le impressioni della grazia e le illusioni del demonio. 6° Il Dono dell’Intelletto è invocato per i fedeli e significato dal sesto Dominus vobiscum, che il Sacerdote dice dopo la Comunione. Questo Dono eccellente ci fa penetrare fin nell’intimo del Mistero dei misteri, che non è altro che la Persona stessa del Verbo incarnato, presente al Sacramento dell’Eucaristia, Pan degli Angeli, vita e nutrimento delle nostre anime. Nella Comunione viene Egli stesso a noi, nella nostra carne mortale, alfine di farci dimorare più pienamente in Lui; in questo momento, più che in ogni altro, la Chiesa chiede per i suoi figli di ben comprendere l’inestimabile tesoro che ha loro portato il Battesimo e l’Eucaristia: la fede e l’amore. – 7° Infine il settimo Dominus vobiscum si dice alla fine del Santo Sacrificio prima dell’ultima benedizione: esso significa il Dono della Sapienza, il più sublime dei sette Doni dello Spirito-Santo, quello che ci fa gustare, nella contemplazione della pura luce di GESÙ e nell’unione intima di un purissimo amore, quanto il Signore sia dolce, quanto GESÙ ci ami; quello che ci fa comprendere con il cuore e l’esperienza quello che il Dono dell’Intelletto rivela al nostro spirito. È il dono della contemplazione e del puro amore per GESÙ-CRISTO, il più eccellente di tutti i frutti della grazia e della santa Comunione. Questa richiesta sì dolce è posta alla fine della Messa, come per indurre i fedeli a ritenerlo il più possibile. Tale è il senso, o almeno uno dei sensi di questi saluti ripetuti sette volte nel corso della Messa. Il Sacerdote, invero, dice un’ottava volta il Dominus vobiscum, dopo la benedizione e prima di recitare l’ultimo Vangelo; ma questo non fa parte, propriamente parlando, della Messa, la cui chiusura solenne è la benedizione del Sacerdote. Altra volta il celebrante diceva a bassa voce questa preghiera lasciando l’altare e tornando in sacrestia. È quanto si fa ancora alla Messa Solenne Pontificale. Il senso di questo ottavo Dominus vobiscum, che nella Messa Solenne Pontificale almeno, si indirizza direttamente al Diacono o al Suddiacono, esprime la beatitudine eterna di cui godono, con GESÙ-CRISTO e per GESÙ-CRISTO, tutti gli Angeli e tutti gli Eletti, tutti i fedeli dell’antica e della nuova Alleanza, rappresentati dal Suddiacono e dal Diacono quando il gran Sacrificio sarà terminato, e quando il tempo avrà fatto posto all’eternità. Il numero otto è il numero dell’ottava beatitudine, coronamento della grazia, che esprime specialmente il numero sette. Nei numeri c’è tutto un ordine di misteri, cioè di verità nascoste; la tradizione è unanime nell’attestarlo, e non vi è che la leggerezza superficiale dell’ignoranza che si permette di burlarsi di queste misteriose disposizioni della Provvidenza.

XIV

Cosa significano le Orazioni, l’Epistola ed il Vangelo.

Questa parte della Messa è destinata a ricordare agli astanti due grandi verità generali, che determineranno ciò che si può chiamare la seconda parte della preparazione al Santo Sacrificio. La prima è che Nostro Signore è nell’Antica Alleanza con nella Nuova, il principio di vita, di salvezza e di santità di tutti i servi di DIO; ancora Egli è la fonte della loro preghiera e della loro Religione. È quel che esprime il Sacerdote adorando e lodando DIO, ringraziandolo, supplicandolo « Per Nostro Signore GESÙ-CRISTO, » nelle orazioni solenni chiamate Collette e recitate o cantate dal lato dell’Epistola. Così pregavano già i Patriarchi, i Profeti ed i fedeli della Legge antica, in nome di Colui che doveva venire e con cui lo Spirito li riempiva e li santificava in abbondanza. Sull’altare in effetti, dal lato dell’Epistola, il lato sinistro, rappresenta l’antica Alleanza; vi si leggono i Profeti non meno che le Epistole. È con esse che il Sacerdote inizia da questo lato, per passare poi di là al lato destro, all’Evangelo. Ed è la seconda verità espressa a questo punto della Messa: il passaggio dall’antica Alleanza alla nuova, la Legge evangelica che succede alla Legge di Mosè, dei Patriarchi, dei Profeti. Passando dal lato dell’Epistola a quello dell’Evangelo, il Sacerdote alza gli occhi verso il Crocifisso, poi si inchina profondamente per recitare due belle preghiere preparatorie: questo rito rappresenta l’annientamento della Redenzione, a cui ha degnato di sottomettersi il DIO dei Patriarchi e dei Profeti, degli Apostoli e dei Martiri, quando purificò la Chiesa con il suo sangue e la acquisì così come sua Sposa. GESÙ-CRISTO è il DIO, il Salvatore dell’una e dell’altra Alleanza; è Lui, Verbo o parola di DIO, che ha parlato ad Adamo ed ai Patriarchi, ha dettato la legge di Mosè, ha salvato il suo popolo, ha inviato il suo Spirito a tutti i Profeti; è Lui che ha ugualmente inviato ed ispirato gli Apostoli, fondato la sua santa Chiesa, con la quale resta tutti i giorni fino alla fine dei secoli. Così, alla Messa solenne è il Suddiacono il rappresentante della Legge antica, che legge in basso all’altare le Profezie, o le Epistole; mentre il Diacono solo, rappresentante della Legge nuova, canta solennemente il Vangelo, dall’altro lato. Il Suddiacono gli regge il libro dei Vangeli, senza poterlo leggere; come l’antica Alleanza che non era che il piedistallo della nuova, e che non penetrava i Misteri ed i tesori di grazia che portava nel suo seno. –  Durante la recita o il canto del Vangelo si sta in piedi. Questo canto liturgico è molto bello; esso è obbligatorio ed il Sacerdote, o il diacono, non deve permettersi di cambiare volontariamente alcuna nota. Nei tempi della fede, nel Medio Evo, tutti i cavalieri dovevano sfoderare la loro spada all’inizio del canto del Vangelo, per manifestare la loro ferma volontà di difendere la fede e la Chiesa a prezzo anche della loro vita, e dare così la loro vigilanza a GESÙ-CRISTO, loro Maestro sovrano e loro grande Re; a GESÙ, Re dei re, Signore dei signori, al quale tutte lo potenze della terra devono obbedienza, devozione, servizio ed amore.   

XV

Le mani distese del Sacerdote durante le orazioni.

A proposito delle Orazioni, sottolineiamo qui un dettaglio liturgico che mostra quanto sia grande, anche nelle cose più piccole, il Culto cattolico. Il Sacerdote, figura di Nostro Signore, recita o canta le preghiere con le braccia aperte e le mani stese rivolte l’una contro l’altra. Questo rito esprime nuovamente quel che noi dicevamo appunto ora: l’unione delle due Alleanze nella persona di GESÙ-CRISTO! La mano destra del Sacerdote dignifica la Legge nuova, più potente, più perfetta dell’altra; la mano sinistra significa la Legge antica. Entrambe erano sante: le due mani del Sacerdote sono consacrate dal Vescovo. GESÙ è « tutto in ogni cosa, » diceva San Paolo; nelle cerimonie della Messa, più che altrove, questa grande verità trova la sua realizzazione. Là ancora come per i ceri, come per il cerimoniale del Gloria in excelsis, il Culto angelico è significato congiuntamente con il Culto della Chiesa sulla terra; e le due mani del Sacerdote levate, sante, rivolte l’una verso l’altra alla destra ed alla sinistra del ministro di GESÙ-CRISTO, sembrano significare la Religione e l’adorazione degli Angeli, principalmente di San Michele e San Gabriele, che riassumono in essi tutta la grazia del mondo angelico. Esse non devono mai levarsi più in alto delle spalle; e così, il capo, la testa del Celebrante, le domina sempre: in effetti, GESÙ, il Capo ed il Re degli Angeli, è al di sopra di tutti gli Angeli, così come è al di sopra di tutti gli uomini, di tutti gli Eletti; excelsior cœlis factus, dice San Paolo. Queste due mani ricordano i due Cherubini dell’arca, adoranti, con i Santi di Israele, il DIO  d’Israele, il Santo dei Santi, Colui che doveva venire. L’elevazione delle mani del Sacerdote, durante le Collette e le altre preghiere della Messa, ricorda infine che le preghiere della Chiesa della terra, si elevano fino al trono di DIO, portate « dal ministero degli Angeli, nostri fratelli in cielo, nostri amici e nostri servitori. » [Quando orabas cum lacrymis … ego (Rapaël) obtuli orationem tuam Domino (Tob. XII) – … et Angelus venit, et stetit ante altare. Habens thuribulum aureum: et data sunt illi incensa multa, ut daret de orationibus sanctorum de manu Angeli coram DEO – Apoc. VIII]. L’uso di tenere le braccia e le mani stese durante le preghiere della Messa, risale alla culla stessa della Chiesa. Sull’altare, in particolare, esso richiama il mistero della Croce, il divino Sacrificio che perpetua l’Eucaristia e che è, nella Chiesa, il centro, la fonte, il sole della Religione e della preghiera. Così pregò sulla Croce l’adorabile Redentore. Così pregavano i martiri nelle catacombe, con le braccia stese a forma di croce, le mani levate verso il cielo; così pregavano gli Apostoli; così pregava la Vergine Santissima e Nostro Signore stesso durante la sua vita mortale, come lo attestano gli affreschi cristiani dei primi tre secoli, recentemente scoperti nelle catacombe di Roma. Così pregavano i Profeti ed in particolare il più grande dei Profeti, il santissimo Mosè, quando salì sulla montagna (figura degli altari) e attirava la grazia e la vittoria su Israele che combatteva nella pianura. Più recentemente ancora di Mosè, il Sacerdote è, in GESÙ ed con GESÙ, il mediatore di DIO e degli uomini. La Liturgia cattolica ha conservato religiosamente questo costume; e la famiglia francescana, così profondamente evangelica ed apostolica, la pratica abitualmente anche al di fuori degli Offici liturgici. Nell’Antico Testamento, l’uso di pregare con le braccia in forma di croce, era abituale. Era una figura profetica dei misteri della Redenzione. 

XVI

La predica

Alla Messa solenne, si interrompono per un momento le preghiere liturgiche, dopo il canto dell’Evangelo, ed il Curato (o uno dei suoi vicari), sale sul pulpito, e là fa alcuni annunci che interessano il popolo dei fedeli; egli recita le preghiere e le pubbliche raccomandazioni ordinate dal Vescovo, legge ad alta voce il Vangelo del giorno in lingua volgare e termina le preci dal pulpito con una istruzione familiare chiamata “omelia”. Omelia viene da una parola greca che vuol dire conversazione. L’omelia deve essere innanzitutto istruttiva, alla portata di tutti gli uditori. È per eccellenza l’istruzione pastorale. La maggior parte dei Padri della Chiesa ci hanno lasciato al riguardo, dei modelli che non si studieranno mai abbastanza; le loro omelie sono di una semplicità, di una bellezza, di una profondità di dottrina e di una santità meravigliosa. L’omelia è destinata ad unire strettamente il pastore ai suoi agnelli; essa permette regolarmente al Curato di aprire il suo cuore ai suoi parrocchiani, di dar loro degli avvisi e dei consigli paterni, di far loro conoscere e gustare il servizio di DIO, dissipare i pregiudizi dell’ignoranza, eccitare i tiepidi, incoraggiare i buoni. L’omelia è una sorta di gran catechismo di perseveranza, ad uso della parrocchia; essa deve averne la solidità, tutta la semplicità ed il carattere. – Un santo Prete incanutito nei lavori del ministero, mi diceva che un’esperienza di più di trenta anni gli aveva fatto toccare con mano l’importanza straordinaria dell’omelia e del pulpito per la salvezza e la santificazione di una parrocchia. Egli aveva conosciuto diversi Curati che principalmente, se non unicamente con questo mezzo, avevano metamorfizzato le loro parrocchie in quattro o cinque anni; gli uffici abbandonati e negletti erano ora frequentati quasi unanimemente dagli abitanti, l’adorazione del Santissimo-Sacramento era organizzata in modo eccellente, le buone opere erano in onore; il confessionale, prima deserto, era preso d’assedio tutti i sabati e tutte le vigilie delle feste; non passava quasi ogni giorno senza Comunione; la domenica e le feste, la Tavola santa offriva uno spettacolo straordinario, e quasi nessuno mancava alla Pasqua. Oltre al catechismo, egli non vedeva nulla che meritasse maggiormente l’attenzione e tutte le cure del Prete. « Occorre innanzitutto che la predica sia breve, aggiungeva, un quarto d’ora o tutt’al più venti minuti. In venti minuti, si ha il tempo di dire tante cose! » – « Bisogna poi che sia ben preparata, e per questo è bene che vi si metta mano il lunedì, per non essere efficace nella domenica seguente. È meglio non impararla a memoria, affinché la parola sia più viva, semplice, interessante; ma bisogna possedere chiaramente la successione e la Concatenazione delle idee. » Egli era dell’avviso che la dottrina debba apparire quanto più è possibile appoggiata su esempi e posta in rilievo da comparazioni, e che il Sacerdote debba guardarsi dal parla con iracondia, con il pretesto dello zelo. Ogni Sacerdote, per questo solo fatto di essere incaricato delle anime, è capace di fare un’eccellente predica. Questo non vuol dire che ogni prete sia un oratore: no, certo, su mille uomini troverete appena un oratore. Ma la Chiesa, le anime non hanno bisogno di oratori; l’eloquenza che i fedeli attendono dal loro Prete, è l’umile, dolce e santa eloquenza del Vangelo; è una parola convincente e cordiale che espone puramente e semplicemente la verità, che la dimostra con prove facili da capire, che lascia da parte le frasi ad effetto ed i bei periodi e che non si preoccupa se non di una cosa solamente: far del bene alle anime, far conoscere loro Gesù, farlo amare ogni giorno di più, eccitarli al pentimento dei loro peccati ed alla pratica di tutto quello che la Chiesa comanda e consiglia. – Così predicava il buon Curato d’Ars. Certo, egli non aveva un gran talento naturale; ma se non era un oratore, era però un Prete, era un santo, amava il buon DIO, amava ardentemente il Santissimo Sacramento, la Santa Vergine, la Chiesa; egli amava le anime; aveva sete della conversione e della salvezza dei poveri peccatori. Così, quando egli predicava, tutti piangevano, e si convertivano a dozzine, a centinaia. Ecco la vera predicazione sacerdotale; ecco l’omelia, ecco la predica di cui i Cristiani hanno bisogno. – Il Concilio di Trento e la Santa Sede, attribuiscono una tale importanza all’insegnamento regolare della predica, che hanno fatto comporre una regola di predicazione per i Curati, sotto il nome di: Catechismo Romano ai parroci. Questo mirabile libro, riassunto pratico e familiare della Summa di San Tommaso, è come la guida dei Curati nel compimento del gran dovere della predicazione pastorale. I Preti non possono fare a meno di seguirlo, tutto ciò che vi si trova è incredibile: è un tesoro, una miniera inesauribile. La dottrina del Catechismus Romanus ha un’autorità pressoché simile all’autorità degli stessi decreti del Concilio di Trento. – Nella diocesi di Besançon, l’autorità ecclesiastica ordina, da quasi due secoli, a tutti curati di insegnare e spiegare per intero il Catechiamus Romanus al loro gregge, sotto pena di censure incorse “ipso facto”; questo corso di istruzione religioso si fa alla Messa solenne, sotto forma di Catechismo a domande e risposte, e dura circa mezz’ora; tre o quattro bambini intelligenti sono scelti ad hoc, e l’assemblea ascolta sempre con interesse visibile questa sorta di piccola conferenza. Tutti comprendono e nessuno … dorme! Tutti i Curati della diocesi sono tenuti ad istruire così i loro parrocchiani in una Domenica su due. È a questo genere di istruzione religiosa che si attribuisce la solidità del Cristianesimo dei buoni abitanti della Francontea. Come sarebbe desiderabile che questa eccellente uso si diffondesse dappertutto. E seguendo questa regola così cattolica, il Prete ha il vantaggio immenso di non ripetersi e di non stancare i fedeli con il ritorno inevitabile dei luoghi comuni. È sicuro così di presentare sempre delle buone e belle verità, molto utili e pratiche. La negligenza di certi Curati relativamente alla predica della Domenica è veramente inesplicabile. Io ne ho conosciuto uno, molto istruito, gran lavoratore che, per pura negligenza, si è contentato per più di trenta anni di leggere, in modo di omelia, le prediche noiose di Cochin, che egli copiava, tagliava affinché non durassero più di dieci minuti; per trenta anni, ogni anno, leggeva sempre la stessa cosa. Tutti dormivano ed il povero parroco non se ne rendeva ancora conto. Uno dei suoi confratelli, che aveva copiato da lui questa comoda ma disastrosa abitudine, annunciava un giorno con aria eroica ai suoi parrocchiani, che la Domenica successiva avrebbe fatto un « sermone della memoria. » … l’ho sentito con le mie orecchie; fortunatamente ho potuto sfuggire al « sermone della memoria ». Alla predica, come sull’altare, come al confessionale, come in ogni dettaglio del nostro ministero e della nostra vita, il grande ed unico segreto per riuscire, cioè per fare del bene, è quello di essere GESÙ, di parlare come GESÙ, amare come GESÙ, imitare in tutto GESÙ.

XVII

Il Credo.

Dopo il Vangelo e la predica, il Sacerdote torna al centro dell’altare e là, con le mani giunte, recita il Credo. L’unione delle sue mani, così come il posto che occupa davanti alla Croce, tra l’Epistola e l’Evangelo, manifesta nuovamente l’unione di tutti gli Angeli e di tutti gli Eletti, l’unione dei fedeli di tutti i secoli in una sola e medesima fede: la fede in un DIO solo Creatore, Salvatore e Santificatore; in un solo DIO, Padre e Figlio e Spirito-Santo; in un solo Cristo, Signore e Redentore, in una sola Chiesa, santa ed universale; ed infine la fede nella resurrezione della carne e nella vita eterna. Tutto questo è racchiuso nei misteri e nel sacrificio di GESÙ-CRISTO; perché GESÙ-CRISTO solo è « l’autore ed il consumatore della fede, » la luce di tutti i fedeli e di tutti gli Angeli; per Lui solo noi abbiamo accesso presso DIO Padre; » in Lui noi troviamo il Padre, diceva Egli stesso, … Noi siamo uno; colui che vede me, vede il Padre. » Ed anche il Padre non viene a noi che per GESÙ, e in GESÙ, come anche lo Spirito-Santo non ci è dato se non per GESÙ, che è, per così dire, il serbatoio universale in mezzo alle creature. Così la Chiesa ci fa fare la genuflessione ad un certo momento del Credo, nel momento in cui si dice: « E il Verbo si fece carne. » È questo il punto centrale del Simbolo della fede cristiana, il dogma che riassume e illumina ogni altro. E così e con ciò che Essa ci fa terminare il Credo con il segno della Croce che è il segno del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione. Secondo gli usi antichi, ogni astante doveva mettersi in piedi durante la recita del Credo non diversamente dal Vangelo, come per attestare lo zelo di ognuno nel camminare ove la fede lo avesse chiamato, o a combattere per essa. Il Dominus vobiscum che segue immediatamente il Credo e comincia l’Offertorio, desidera per i Cristiani, come già abbiamo visto, la forza di praticare la vera fede e di conseguenza, la forza di entrare risolutamente nello spirito del Sacrificio che si appresta, vale a dire nella via di ogni rinuncia, alla sequela di GESÙ-CRISTO, Redentore e Vittima. Nulla di più solenne che l’aspetto di una chiesa, almeno nei Paesi di fede, durante il canto del Credo. Là, tutti sono in piedi, tutti cantano; è mirabile e colpisce! A Notre –Dame di Parigi, alla celebre comunione generale degli uomini che corona le conferenze di Quaresima e della Settimana-Santa, si è tutti come muti, le lacrime salgono agli occhi quando si sentono tre o quattromila Cristiani, che si apprestano tutti a ricevere la Santissima Comunione, cantare come una voce sola ed un cuor solo questo grande Credo Cattolico che risuona sotto le volte delle nostre chiese dall’epoca dei Martiri. Ognuno sa, in effetti, che il Credo della Messa, che non fa che sviluppare su qualche punto il Credo degli Apostoli, sia stato formulato al primo Concilio generale di Nicea, nell’anno 325, qualche ano appena dopo la terribile persecuzione di Diocleziano. La Chiesa non cambia; essa è come la verità; la si può attaccare, la si può odiare, ma mai distruggerla, e neanche alterarla. Un giovane studente mi raccontava che essendo entrato, in un giorno di festa, nella chiesa di San Sulpizio a Parigi, nel momento in cui si cantava il Credo, si era sentito rimescolare fino al fondo delle viscere e s’era messo a piangere. « Io credevo, egli diceva, di essere trasportato in mezzo agli antichi Concili di Nicea o di Efeso, o del Laterano. Era meravigliosamente bello. Io avrei voluto che tutti gli increduli fossero là, vicino a me. » Non si raccomanderà mai abbastanza a tutti i fedeli, uomini, donne, bambini, ricchi e poveri, di cantare con tutto il loro cuore, non solo il Credo, ma tutte le preghiere della Messa Solenne che il popolo può cantare; il Kirye, il Gloria, il Credo, il Sanctus, l’Agnus Dei e la risposta a tutti i Dominus vobiscum. Non si dimentichi che è questo il modo più cattolico, più liturgico di seguire bene la Messa solenne. I cantori non hanno altro compito che sostenere, aiutare e guidare il canto del popolo, essi non sono dei musicisti che tengono un concerto. Così pure è affatto contrario allo spirito della liturgia lasciare i cantori allontanarsi dalla semplicità così maestosa e sì popolare del canto piano romano, per sostituirlo con noiose volute o invenzioni più o meno mondane, più o meno eccentriche. Ci sono dei Curati che proibiscono ai fedeli di cantare: essi sono come dei capitani che proibiscono ai loro soldati di fare il loro esercizio. E cosa ne risulta?! L’ufficio della Chiesa diviene mortalmente noioso e non vi si viene più. Quando si canta non ci si annoia mai in chiesa. – Ora si vanno a cominciare i preparativi immediati del Santo-Sacrificio. Dopo essersi dato ai fedeli come Verità e come Parola di vita, con la lettura dell’Antico e del nuovo Testamento e con la predicazione del Sacerdote, il Verbo di DIO, GESÙ-CRISTO, sta per darsi ad essi sacramentalmente e come pane di vita. – Ai proconsoli che li rimproveravano di violare gli ordini degli imperatori, riunendosi per ascoltare la lettura dei Libri santi ed assistere al Sacrificio, i nostri antichi Martiri rispondevano spesso: « Sì, è vero, noi non teniamo conto di questi editti dei vostri principi; ma noi obbediamo ai precetti degli Apostoli. Essi ci hanno insegnato da parte di DIO, che il Cristiano non può restare Cristiano se non si nutre del Verbo divino sotto le sue due forme, come noi facciamo. » E si lasciavano uccidere piuttosto che abbandonare GESÙ-CRISTO e mancare alle sante assemblee della Chiesa. Sul loro esempio nutriamoci allora, riempiamoci del Verbo, della parola di DIO; e GESÙ-CRISTO, abitando così con la fede nei nostri cuori, avanziamo con timore ed amore verso i Santi Misteri. Raddoppiamo il fervore nella preghiera: il celebrante ci invita dicendo ad alta voce: Oremus. Preghiamo con lui, preghiamo con gli Angeli, preghiamo con il nostro Mediatore celeste,  GESÙ-CRISTO, Sacrificatore e Vittima nel contempo.  

I SANTI MISTERI (3)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (3)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

VIII

La pulizia delle mani prima di celebrare i santi Misteri.

Prima di vestirsi per la Messa, il Prete deve lavarsi le mani, alfine di togliere fino al più minuto pulviscolo che potrebbe esservi attaccato. È il simbolo della purezza senza macchia che deve avere la sua anima. Occorre essere molto delicati su questo punto. Un buono e santo vegliardo, Vicario di San Sulpizio, preferì un giorno ritardare la sua Messa di alcuni minuti piuttosto che mancare a questo simbolico lavaggio delle mani. Poiché gli si diceva che le sue mani fossero pulite: « … senza dubbio – egli rispose – ma proprio poco fa ho preso del tabacco, e credo che prima di salire all’altare sia più conveniente lavarmi di nuovo le mani. »  Non è necessario baciare preliminarmente la terra. Un povero abate si vestiva un giorno per dir Messa senza aver osservato questa usanza, quando il curato, tutto scandalizzato si elevò rimproverandogli la sua negligenza: « Ma, signore, questo non è segnato nelle rubriche, » rispose modestamente l’altro. « Non importa signore, bisogna fare più di quanto sia segnato; è più umile. » Prima di prendere l’amitto, ci si lava dunque le mani. Bisogna aver le mani pulite, molto pulite, prima di dir Messa, per toccare le cose sante, e soprattutto il Santo dei Santi stesso. Questa accortezza è indispensabile per un doppio ordine di motivi: per il rispetto del Santo Sacramento e per la carità verso i fedeli ai quali si distribuirà la santa Comunione.  Una pia dama mi diceva della strana ripugnanza che le causava il pensiero di comunicarsi dalle mani di un certo curato di campagna, uomo eccellente del resto, ma che non si lavava le mani tutti i giorni. « … è spaventoso – aggiungeva con aria disperata – è terribile vedere e sentire questo grosso pollice grigiastro toccarmi la lingua, checché io faccia. E le sue unghie a lutto! … io chiudo gli occhi per non vedere tutto ciò. Ma è orribile! » Dunque bisogna lavarsi le mani prima di indossare l’amitto. Come abbiamo detto, la pulizia esteriore e la decenza sono qui il simbolo della purezza interiore.

IX

Cosa rappresenta il Prete rivestito dei paramenti sacerdotali

Alfine di meglio rappresentare GESÙ-CRISTO, che è Prete con essi ed in essi, i Preti si rivestono, per celebrare la Messa, di ornamenti sacri, benedetti dal Vescovo; questi ornamenti, o paramenti, raffigurano la santità e la gloria di GESÙ. – I Preti si rivestono interamente di una lunga veste bianca che si chiama “alba” (Per avere il diritto di rivestirsi dell’amitto e dell’alba, bisogna essere almeno sub-diacono, i chierici inferiori ed ancor più i laici non devono mai indossarli, sia per recitare l’Epistola – in certe grandi Messe di campagna – sia per compiere nella chiesa qualche altra funzione apocrifa), che è fermata da un cordone ugualmente bianco; precedentemente egli ha posto sulla testa e poi abbassato sul collo un lino bianco, chiamato “amitto”, ed incrociato sul petto un ornamento simile, ma più lungo che si chiama “stola”; infine, al di sopra di tutto, un grande paramento, che lo copre quasi per intero: è la “casula”. Per celebrare la Messa, il Prete deve essere rivestito da tutti questi ornamenti. L’amitto simbolizza la purezza perfetta e l’energia della fede che devono avere i ministri dell’altare, dove essi stanno per toccare in modo così familiare il Mistero dei misteri, il Sacramento che la Chiesa chiama essa stessa « il Mistero della fede. » Dalla perfezione e dall’ardore della fede dei Sacerdoti, dipende in effetti, si può certo affermare, la santità della loro vita, ed in particolare la santità con la quale essi celebrano la Messa. L’alba ed il cordone significano con il loro candore, l’innocenza e la santità celeste dei Figli di Dio, di cui i Sacerdoti devono essere rivestiti per rappresentare degnamente GESÙ-CRISTO sull’altare. « Il Cristo – dice un Padre – è la gran tunica dei Preti, magna sacerdotum tunica. » L’alba deve essere di lino o di filo. Il pizzo che l’orna deve ugualmente essere di filo, e non deve invaderla interamente “fin sotto l’ascella”, come talvolta succede. Un buon curato di campagna, entusiasta alla vista di un bellissimo pizzo con cui una pia donna stava per ornare la sua alba delle grandi feste, volle forzatamente applicare questo pizzo tutto intero; e poiché questo proveniva da uno di questi immensi abiti che assorbono facilmente venticinque o anche trenta metri di guarnizioni, il bravo curato, dopo aver guarnito come conveniva la parte bassa della sua alba, immaginò di sovrapporvi due belle balze. Delle balze volanti ad un’alba!!! Nei secoli della fede, in cui la pietà metteva il suo sigillo in ogni cosa, l’alba di lino fine non aveva altro ornamento che cinque bei ricami, raffiguranti le cinque piaghe di Nostro Signore resuscitato: due erano al di sopra del polso, due in basso dell’alba sul davanti sopra i piedi; la quinta al centro del petto, o tutt’al più in basso all’alba e dietro. Il manipolo che il Prete porta sul braccio sinistro, come il diacono, era all’origine, un velo destinato ad asciugare le lacrime che in questi tempi di fede e di fervore primitivo, accompagnavano abitualmente l’oblazione dei divini misteri. Oggi purtroppo le lacrime di compunzione scorrono molto raramente. Il Prete tuttavia dovrebbe piangere sull’altare, con Nostro Signore, sui peccati del mondo intero e sulle proprie colpe. Egli dovrebbe piangere d’amore, dovrebbe portarvi questo spirito di vittima e di contrizione profonda da cui scorre il dono delle lacrime: ciò che dovrebbe fare all’altare, è in effetti, una immolazione, un sacrificio; è necessario che sia vittima con GESÙ-CRISTO, se vuole essere degnamente Prete e sacrificatore con GESÙ-CRISTO. La stola rappresenta la potenza sacerdotale del Figlio di DIO, in nome del quale il Sacerdote sta per salire sull’altare, rappresentarvi la santa Chiesa, consacrare il Corpo ed il Sangue del Salvatore e distribuire la santa Eucaristia al popolo fedele. È GESÙ che si dà Egli stesso ai Cristiani per mano dei suoi Sacerdoti. – La stola del semplice Prete è incrociata e legata sul suo petto perché egli non ha la pienezza del sacerdozio che risiede in lui, in virtù della sua consacrazione. – Infine la casula, che un tempo era più ampia di oggi, e che avviluppava il Prete interamente, era figura della gloria celeste di GESÙ-CRISTO che oggi non offre più il Sacrificio in una carne passibile e mortale, ma nello stato glorioso, impassibile, immortale celeste, nel quale è entrato con la sua Resurrezione e Ascensione. (Si è sfortunatamente caduti in un eccesso di forme molto meschine, con il pretesto di una maggiore comodità per il Celebrante e per motivo di risparmio economico. La maggior parte delle casule francesi assomigliano a delle casse da violino, sono strette, striminzite, orrende. Esse sono praticamente contrarie alle regole tracciate da Roma, che ultimamente ha espresso il desiderio che non ci si allontani dalle forme utilizzate all’epoca del Concilio di Trento. Ora, san Carlo Borromeo, constatando questa forma, dice che la casula deve avere circa un cubito e mezzo da ogni lato, a partire dalla scollatura – un cubito e mezzo equivale a ottanta o novanta centimetri – Io ho visto a Roma una casula di San Pio V: essa era larga così com’era lunga, ampia quasi più davanti che dietro. Nei tesori di due o tre santuari ne ho viste altre che datavano del sedicesimo secolo, e che ugualmente avevano una considerevole ampiezza. Quella di Sant’Ignazio è molto più stretta: ma pare che a più riprese egli l’abbia ritoccata, cioè accorciata, per tenerla in uno stato migliore. Il Italia, e a Roma stessa, alle casule non sono stati risparmiati deplorevoli colpi di forbici alle belle regole liturgiche relative ai paramenti sacerdotali. Io ho visto a Roma delle casule che non arrivavano fino alle ginocchia; queste, più che brutte, erano ridicole). Il colore della casula, che varia a seconda delle feste, ricorda ugualmente al Prete ed ai fedeli lo spirito particolare del mistero che si celebra in quel determinato giorno, o la grazia del Santo in onore del quale è offerto il Sacrificio. La Chiesa, dopo aver rivestito il Sacerdote di sacri ornamenti che raffigurano il Sacerdozio divino di GESÙ-CRISTO, gli permette di celebrare la Messa. Quanto grandi sono tutte le cose della Chiesa! La maggior parte dei poveri stolti che se ne burlano o la disdegnano, certamente cambierebbero condotta e linguaggio se si dessero la pena di studiare e penetrarne il senso profondo. 

X

Panorama d’insieme sul senso e sui riti della Messa.

Prima di entrare nel dettaglio delle nostre spiegazioni sul cerimoniale della Messa, non sarà inutile dare una panoramica generale, come chiave dell’insieme di queste cerimonie sacratissime. Si possono innanzitutto dividere i riti della Messa in due grandi sezioni: quelle parti che precedono il Sacrificio propriamente detto, dall’inizio fino alla Consacrazione; e quelle che concernono la Consacrazione, fino alla fine. Le prime sono i riti preparatori al Santo Sacrificio; le seconde ne costituiscono i riti complementari. Tra le due, come al centro, come la sommità, vi è la Consacrazione, in cui consiste essenzialmente il Sacrificio eucaristico. Analizzando ancora più dettagliatamente, si possono distinguere tra i riti preparatori, tre fasi, tre parti: dapprima la preparazione penitenziaria ai piedi dell’altare; poi i riti sacri che vanno dall’Introito all’Offertorio, e che rappresentano in maniera più generale l’unità della Religione Cristiana, sola Religione degli Angeli, dell’uomo innocente, dei Patriarchi, della Sinagoga e del Vangelo; infine i riti che vanno dall’Offertorio fino al Canone ed alla Consacrazione e terminano con il Pater fino alla fine, e che concernono più particolarmente il secondo avvento, il regno glorioso di Cristo e della sua Chiesa e la nostra futura consumazione nella gloria. La Messa è così un gran dramma che abbraccia nel suo magnifico simbolismo, tutti i secoli, gli eletti di tutti i tempi, l’opera di DIO intera, il mistero totale del Nostro Signore GESÙ-CRISTO e della santa Chiesa.

XI

Le prime preghiere e cerimonie della Messa.

Il Sacerdote, in piedi ai piedi dell’altare, saluta profondamente il Crocifisso; o se il Santissimo Sacramento è nel Tabernacolo, fa la genuflessione per adorarlo. Occorre fare le genuflessioni con grande rispetto. Nello stesso tempo, con il corpo le deve fare il cuore; cioè egli deve inchinarsi davanti al buon DIO, con umiltà, abbassarsi, contrirsi con grande amore davanti alla maestà di GESÙ-CRISTO. Il ginocchio destro deve toccare terra ed il resto restar ritto; le mani devono essere giunte. Le genuflessioni si ripetono così spesso nel culto divino che occorre essere molto diligenti nel ben farle. Lo stesso è per il Segno della Croce che bisogna fare religiosamente inquadrato in tutte le sue estensioni. Il servente Messa, che assiste il Sacerdote, si inginocchia di fianco a lui, sempre dal lato opposto al Messale. Dopo aver fatto la genuflessione, il Sacerdote comincia la Messa facendo il segno della Croce. Questo segno augusto che riassume e significa il Sacrifico cruento della Redenzione, è mirabilmente posto all’inizio della Messa, poiché la Messa non è altro che la rappresentazione mistica di questo stesso Sacrificio. Esso si ripete molto spesso nel corso della Messa, per questa stessa ragione. Il Sacerdote, così come il servente e tutti i fedeli, non devono farlo se non con un grande sentimento di venerazione e di fede. Le due mani giunte davanti al petto, con i pollici incrociati, il destro sul sinistro, il Sacerdote recita un salmo di penitenza e di speranza, ispirato già al Re-Profeta nell’angoscia dell’esilio. Il Sacerdote lo recita nel nome di GESÙ, anch’Egli esiliato, con la sua incarnazione, in mezzo ai nemici di DIO, in terra straniera. Con GESÙ e nello Spirito di GESÙ, la Chiesa militante aspira alla vera Gerusalemme; essa aspira « all’altare di DIO, ad altare Dei, » che non è altri che il Cristo celeste. L’altare ove il Sacerdote si appresta a salire per offrirvi, con GESÙ ed in GESÙ, il Sacrificio del cielo e della terra, simbolizza questo divino Re dei cieli, come già abbiamo detto. Dopo il salmo [Ps. XLII, Judica me Deus], il sacerdote si inchina profondamente e recita il Confiteor. Egli chiede perdono per i suoi peccati, perché, pur essendo Sacerdote, cioè un altro GESÙ-CRISTO, non di meno è un povero uomo peccatore, sottomesso, come gli altri uomini, alle infermità ed alle debolezza della umana natura. – In effetti alla Messa, il Sacerdote ricopre diversi ruoli, se ci è lecito parlar così; innanzitutto è GESÙ-CRISTO stesso che agisce e parla in lui; a volte è la Santa Chiesa de cui egli è ministro e ministro davanti a DIO; altre volte è l’uomo, il povero peccatore, che parla e supplica in suo nome dapprima, e poi a nome di tutti gli uomini, suoi fratelli, ed in particolare a nome degli astanti. Nella confessione dei peccati, il Sacerdote ricopre insieme tutti questi ruoli. I peccati di cui GESÙ ha voluto caricarsi per aprirgli i cieli sono in effetti l’ostacolo universale che ha obbligato il divin Capo, innanzitutto, e poi tutti i suoi membri con Lui, ad umiliarsi nella penitenza, a soffrire, a piangere, a morire, ad annientarsi davanti alla maestà di DIO tre volte Santo. GESÙ, l’Agnello di DIO, ha espiato tutto sull’altare della Croce. Resuscitati con Lui ed in Lui, noi possiamo come Lui, aspirare al cielo, salire all’altare del Signore, e questo per i meriti di GESÙ-CRISTO, per quelli della Vergine Immacolata, « Porta del cielo, » di San Michele Arcangelo e di tutti gli Angeli, di San Pietro e di tutti i Santi. Dopo essersi così umiliato e purificato con la confessione pubblica e generale dei propri peccati, il Sacerdote sale sull’altare. Egli lascia il comune terreno, il livello dei semplici fedeli, si eleva al di sopra della terra; non deve essere più un uomo, ma un Angelo, un Cristo, un cero celeste. Egli deve lasciare in basso tutti i pensieri umani, tutti i sentimenti umani, anche i più onesti, i più utili, per non avere che pensieri divini degni di Colui di cui è, sull’altare, il rappresentante visibile. Sull’altare degli Angeli, egli deve essere un Angelo. – Egli bacia l’altare: cerca in GESÙ-CRISTO, che l’altare raffigura, nell’assistenza dei Santi, ed in particolare di quelli di cui l’altare contiene qualche reliquia, a benedizione, la grazia che non possiede per se stesso. E qui termine quella che possiamo chiamare, la preparazione immediata di penitenza. – Il Confiteor, non lo dimentichiamo, è una dei sacramentali della Chiesa. Quando è recitato con le disposizioni convenienti, esso possiede la virtù di cancellare i peccati veniali. Il Sacerdote e tutti gli astanti devono dunque recitarlo con molta pietà e contrizione. Durante tutte le preghiere preparatorie, bisogna unirsi a GESÙ, Penitente universale che ha portato ed espiato tutti i peccati del mondo e che, vivendo nei suoi Sacerdoti e nei suoi fedeli, comunica loro con il suo spirito di penitenza il perdono e la santità. Alle Messe solenni, il Diacono ed il Suddiacono si pongono a lato del Sacerdote, fanno come lui la confessione dei peccati e con lui salgono all’altare; come diremo dopo, essi rappresentano l’antica e la nuova Alleanza, di cui gli eletti sono tutti i poveri peccatori convertiti e santificati. Questo inizio dei santi Misteri si fa ai piedi dell’altare, non sull’altare stesso, per ricordare a tutti che il Sacrificio di GESÙ-CRISTO e della sua Chiesa celebrato quaggiù nella penitenza, in mezzo alle lotte e nell’afflizione, si completa, si consuma nel cielo, tra gli Angeli. La nostra vittima, il nostro GESÙ eucaristico, si offre simultaneamente in sacrificio in mezzo alla sua Chiesa militante ed in mezzo alla sua Chiesa trionfante, sulla terra e nei cieli. Il Sacrificio cruento terrestre è il medesimo del Sacrificio incruento e celeste. 

XII

L’Introito, il KYRIE ed il GLORIA.

Il Sacerdote si pone dal lato dell’Epistola, fa nuovamente il segno della croce e recita ciò che si chiama l’Introito. Poi torna in mezzo all’altare per recitare le nove invocazioni del Kyrie eleison e poi l’inno mirabile conosciuto con il nome di Gloria, di cui il nostro grande santo Ilario, Vescovo di Poitiers, è molto probabilmente l’autore. Questa parte delle preghiere della Messa ha un carattere particolarmente grandioso e mistico, cioè pieno di misteri. Il Sacerdote recitando l’Introito (che un tempo si componeva di uno o più salmi), e segnandosi col segno della croce, raffigura il Sacerdote eterno, GESÙ-CRISTO Nostro Signore, riempiendo Adamo ed i primi Patriarchi del suo spirito di Religione, di preghiera, di adorazione e cominciando con essi, fin dalle origini del mondo, ad adorare il vero DIO, a rendergli grazia, a domandargli misericordia e ad espiare il peccato. – Il Figlio di Dio, che doveva farsi uomo quaranta secoli più tardi, viveva già in Adamo, in Abele e nei primi Padri del genere umano. Egli era loro interiormente unito e li santificava con lo Spirito della sua grazia. Era là la prima fase della Religione Cristiana, la sola vera Religione, di cui il Cristo è il grande Sacerdote eterno, secondo l’ordine di Melchisedech. E siccome la Religione degli uomini è sempre stata la stessa Religione degli Angeli; siccome il Sacerdote, per il solo fatto di esser salito all’altare di Dio, conversa con gli Angeli, è associato alle Gerarchie celesti, osa mescolare la sua voce alle voci degli Angeli, unisce le sue adorazioni e quelle della Chiesa militante, alle adorazioni dei novi cori degli Angeli. È con questo spirito che si avvia con fiducia alla stessa adorabile Trinità, supplicando, con gli Angeli, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo di avere pienamente compassione della Chiesa militante di cui è ministro. Le nove invocazioni del Kyrie sono innanzitutto la professione di fede del Mistero della Santissima Trinità, sul quale riposano tutti gli altri misteri della Religione Cristiana; poi, esse ci ricordano che i nove cori degli Angeli adorano e lodano, come noi e con noi, il Signore nostro DIO: DIO il Padre, al quale è offerto direttamente il santo Sacrificio della Messa; DIO Figlio, GESÙ, vero DIO e vero uomo, che è il Sacerdote e la Vittima del Sacrificio; DIO, Spirito Santo, che è il centro focale di questo stesso Sacrificio, cioè l’Amore infinito che ha spinto GESÙ a sacrificarsi così, sul Calvario dapprima, poi sull’altare, e che deve riempire il cuore del Sacerdote e quello di tutti gli astanti. Gli Angeli hanno, in effetti, la nostra stessa Religione; così come noi e con noi, essi adorano GESÙ come loro Capo divino, come loro Re legittimo, e lo amano con un amore purissimo. Essi lo adorano e lo amano in particolare con noi, nella Santa Eucaristia che è, per così dire, il punto di contatto del cielo e della terra, il legame vivente della Chiesa militante e della Chiesa trionfante, l’incontro, visibile ed invisibile, celeste e terrestre, degli Angeli e degli uomini. Quanto al Gloria, esso ci mostra come in un riassunto, questo grande mistero della vera Religione, che si svolge dall’inizio alla dine dei secoli, e di cui GESÙ-CRISTO è l’anima e la vita. Noi abbiamo già visto che, secondo le tradizioni più venerabili, questo gran dramma del Cristianesimo militante deve durare sei mila anni, sei epoche. Non è forse per questo che la Chiesa ordina al Sacerdote di inclinare sei volte la testa durante la recita o il canto del Gloria? Egli deve farlo per prima, pronunciando il Nome di DIO, per la gloria del Quale tutto esiste, a gloria del Quale tutto si riporta. Ora essendo GESÙ il solo vero DIO vivente con il Padre e lo Spirito Santo, è di GESÙ che gli Angeli di Bethleem dicevano: « Gloria a DIO in cielo ». La Gloria è l’inno angelico dell’Incarnazione; sono gli Angeli che dicono agli uomini: « Gloria a GESÙ in cielo e sulla terra! Gloria al solo DIO vivente, da parte di tutti gli Angeli e di tutti gli uomini. » GESÙ-CRISTO è apparso sulla terra nella quarta epoca del mondo, l’anno quattromila dopo Adamo. Così il quarto inchino della testa si fa pronunziando il suo Nome adorabile. E siccome GESÙ-CRISTO deve tornare nel suo secondo Avvento, alla fine della sesta età del mondo per resuscitare tutti gli eletti e far trionfare la sua Chiesa con Lui, il Sacerdote inclina la testa per la sesta volta pronunziando di nuovo il Nome del Redentore, e proclamando che ogni creatura sarà forzata a riconoscere che GESÙ, il DIO del Calvario e dell’altare è « il solo Santo, il solo Signore, l’Altissimo, con lo Spirito Santo nella Gloria di DIO Padre. » Pronunciando per la seconda volta il Nome adorabile di GESÙ-CRISTO, il Sacerdote fa su se stesso il segno della Croce, per indicare che al secondo Avvento sarà compiuto il mistero della Redenzione, e che il Corpo mistico di GESÙ-CRISTO, la Chiesa intera, sarà liberata per virtù della Croce. Le inclinazioni della testa al Gloria hanno ancora, come i ceri sull’altare, un altro significato, ma più angelico e più mistico. Esse esprimono le adorazioni di ciascuno dei gruppi angelici presieduti dai sette grandi Serafini di cui parla la Scrittura. Essi sono sottoposti al governo spirituale e materiale di ciascuno dei sei Angeli che sovrintendono la durata della Chiesa militante, ed anche di questa settima era che sarà come la Domenica della grande settimana della Chiesa, l’era del riposo, della pace, del trionfo. È lo stesso mistero rappresentato dai sei ceri della Messa solenne, e dal settimo della Messa Solenne Pontificale. – Quale gloria, quale santo onore per noi, l’essere ammessi già da questo mondo ad adorare Nostro-Signore con gli Angeli e come gli Angeli! Che santità in questi riti della Messa, così poco compresi e così semplici, almeno in apparenza! Ecco il senso grandioso e profondo dell’Introito e del Gloria. È la proclamazione dell’unità della Religione degli Angeli e degli uomini, dei Patriarchi, dei Profeti e degli Apostoli in GESÙ-CRISTO, Sommo Sacerdote di questa Religione divina, Capo di questa adorazione universale e nello stesso tempo Vittima del Sacrificio che la esprime e la riassume sui nostri altari. E pensare che ci sono persone che trovano che la nostra fede sia meschina e ristretta nelle idee! – Un celebre medico di Parigi, uomo onesto secondo il mondo, ma ignorante come un turco in ciò che concerne il Cristianesimo, non diceva ultimamente ad un suo amico che lo invitava a convertirsi: « … mio caro, io non amo se non ciò che sia grande. Che cos’è il DIO di cui tu mi parli? Il tuo DIO, vedi, è troppo piccolo per me! »?

I SANTI MISTERI (2)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (2)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887; PARIS, impr.]

IV

I ceri ed il loro bel significato

Nulla è trascurabile in pari materia. Nel culto cattolico, tutto ha un senso; le cose di minor importanza, hanno un significato spesso di profondo mistero. Così i ceri. Nella santa Messa, essi simbolizzano e rappresentano la Chiesa del cielo, la Chiesa degli Eletti e la Chiesa degli Angeli che si unisce nella gloria dei cieli alla Chiesa della terra ed alle sue adorazioni. Certo è che il cero pasquale è figura di Nostro Signore risuscitato glorioso e trionfante, per risalire al cielo il giorno dell’Ascensione: è per questo che lo si spegne in questo giorno dopo il canto del Vangelo. È ugualmente certo che nella scienza liturgica, il cero della Candelora rappresenti il Santo Bambino Gesù, Dio ed uomo, luce del mondo e gloria di Israele. La cera, sostanza purissima, prodotta dalle api con la polvere balsamica degli stami dei fiori, è un emblema suggestivo della carne verginale del Salvatore; la luce rappresenta la sua divinità. Si potrebbe dire altrettanto, fatte le debite proporzioni, degli Eletti, membri viventi di GESÙ-CRISTO. La cera dei ceri dell’altare, che li simbolizza, è il loro corpo resuscitato e glorificato; e la luce è non la loro divinità, ma la loro deificazione in GESÙ-CRISTO. Per il servizio dell’altare, i ceri devono essere di pura cera, e si devono accendere, almeno nelle chiese ove risieda il Santo Sacramento, alla luce della lampada liturgica, che non deve mai spegnersi (è assolutamente vietato conservare il Santo Sacramento senza accendere almeno una lampada sospesa sull’altare. Il Papa ha rifiutato diverse volte, anche a dei Vescovi, la dispensa della lampada eucaristica: « … nessuna lampada, nessuna dispensa ». Tale è stata la sua riserva invariabile. – Questa legge obbliga sub gravi. Lasciar per negligenza la lampada del santuario spenta per due o tre ore costituisce certamente, dice S. Alfonso Liguori, un peccato mortale per il curato o per colui che ha l’incarico di sorveglianza… torneremo in seguito su questo soggetto). La cera significa la purezza del Cristiano che deve brillare, davanti a Dio e davanti agli uomini, della luce divina di GESÙ-CRISTO, e bruciare del fuoco dell’amore divino. I ceri si accendono sul fuoco della lampada del santuario, che rappresenta GESÙ-CRISTO resuscitato e glorioso, sorgente di ogni luce e di ogni carità nella Chiesa. I ceri si consumano bruciando: i Cristiani devono consumarsi anche nella pratica fervente della fede e delle opere sante. È assolutamente proibito celebrare Messa senza ceri accesi. Nella Messa bassa bisogna che ce ne siano due: uno a destra del crocifisso, ed uno a sinistra. Il cero di sinistra, cioè dal lato dell’Epistola, rappresenta e simbolizza la fede, la santità, il fervore di tutti i fedeli e di tutti i Santi dell’antica Legge, da Adamo, fino a  GESÙ-CRISTO; il cero illuminato a destra, dal lato del Vangelo, rappresenta tutti i fedeli e tutti i Santi della Legge nuova, da dopo GESÙ-CRISTO fino alla fine del mondo. Il Crocifisso in mezzo all’altare, ricorda che GESÙ, il Figlio di DIO, crocifisso nel mezzo dei tempi per la salvezza degli uomini, è il DIO che tutti i secoli hanno dovuto e devono adorare, il Capo ed il centro della Religione, l’Autore della salvezza di tutti. Esso ricorda pure che il Sacrificio della Messa che si va a celebrare sull’altare, è lo stesso Sacrificio di quello della Croce. – Nella Grande Messa, si devono avere tre ceri accesi da ogni lato del Crocifisso, in tutto sei, né più, né meno. Ci sono di buoni curati che, « … perché questo sia più bello, » ne accendono trenta, quaranta, cinquanta. « … più ce ne sono, più è bello ». Se si osservano le regole esattamente, il Crocifisso deve levarsi al di sopra di tutti i ceri e dominarli. Questi sei ceri significano gli Eletti e i Santi delle sei ere della Chiesa militante. Da diversi passaggi della Sacra scrittura , spiegato in questo senso da un gran numero di Santi Padri: la Chiesa militante deve in effetti durare sei mila anni [questa dottrina, perfettamente tradizionale, è esposta in lungo ed in largo da Cornelio A Lapide, nei suoi Commentari sulla seconda lettera di San Pietro (cap. III, v. 8) e sull’Apocalisse (cap. XX, v. 5) ed altri ancora. « È – egli dice – l’opinione di molti Padri e Dottori: multorum Patrum ed Doctorum; dunque essa è probabile e non può essere tacciata di temerarietà. È il sentimento di un gran numero, aggiunge: consent multi, che il mondo debba durare sei mila anni; cioè, quattromila anni prima del Cristo, e due mila anni dopo di Lui. Non bisogna aspettarsi però questo in maniera assoluta, ma approssimativa. – Su questo punto le tradizioni cristiana, ebraica, pagana greca e latina, sono pienamente d’accordo. » Tra i Padri ed i Dottori che hanno sostenuto questa opinione, troviamo San Giustino, San Ireneo, Sant’Ilario, Lattanzio, Sant’Agostino, San Girolamo, San Cirillo di Alessandria, San Giovanni Crisostomo, San Atanasio sinaita, San Gaudenzio, San Germano di Costantinopoli, etc.; Rabano-Mauro, Bellarmino, Suarez, etc. citiamo solo San Girolamo che dice: « Quanto a me, secondo le parole di San Pietro: «un giorno è mille anni, e mille anni sono un giorno, » io penso che il mondo, che è stato creato in sei giorni, debba durare sei mila anni; in seguito verranno il settimo e l’ottavo giorno che saranno l’epoca del vero riposo. » E San Gaudenzio, Vescovo di Brescia, dice egualmente: « Noi viviamo nell’attesa di questo santo giorno del settimo millenario, che verrà dopo il sesto giorno. Quando saranno terminati, allora ci sarà il riposo della vera santità e di tutti coloro che hanno creduto alla Resurrezione di Cristo. allora in effetti non ci saranno più lotte da sostenere contro il diavolo, secondo ogni probabilità, e solamente allora si potrà realizzare la profezia del Signore: non ci sarà che un solo gregge ed un unico Pastore. » Il dotto Cornelio aggiunge che « essendo questo sentimento l’opinione più diffusa e più probabile: communis ed probabilis … non ha nulla in comune con l’errore dei millenaristi. » Noi insistiamo su questo punto di dottrina perché, secondo noi, è la chiave di diversi riti importanti della liturgia della Messa, in ciascuna di queste età, Gesù e la sua Chiesa contano numerosi fedeli figli della luce, infiammati dalla fede e brucianti di amore, GESÙ-CRISTO, GESÙ-CRISTO crocifisso, è in mezzo, come sempre, perché Egli è la « luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, » e che è da Lui che tutti gli eletti di tutti i tempi ricevono la luce della vita. Nelle Messe basse, ci devono essere dunque due ceri accesi sull’altare; nei giorni di festa i Vescovi hanno il privilegio di averne altri, nelle Grandi Messe, per qualunque solennità, ce ne voglio sei e sei soltanto, per i motivo che stiamo dicendovi. Questa è la regola. Nelle solennità è permesso accendere intorno all’altare delle girandole di luci: questo conferisce agli Uffici maggiore pompa e splendore, ma questa illuminazione è estranea alla liturgia, cioè alle regole del culto divino; esse non fanno parte della illuminazione simbolica dell’altare, e non si devono porre sull’altare queste luci non liturgiche. Queste poi, devono essere tutte di pura cera, non di stearina, come tutte le luci liturgiche; è la decisione formale della Santa congregazione dei Riti (7 sett. 1850 e 24 maggio 1861). Nella Gran Messa Pontificale, cioè nella Messa solenne celebrate dal Vescovo o dal Papa, si accende un settimo cero dietro al Crocifisso o, se non sia possibile, dal lato del Vangelo: questo settimo cero rappresenta allo stesso tempo, e la pienezza del Sacerdozio, e la pienezza dei Doni dello Spirito Santo che possiede il Vescovo; ed anche la gloria degli Eletti che nel giorno settimo della settimana, nella settima era del mondo, resusciteranno per trionfare con GESÙ-CRISTO e per regnare eternamente con Lui. Così come il cero pasquale simbolizza Gesù resuscitato, anche il cero pontificale rappresenta la Chiesa resuscitata, o per meglio dire, Gesù resuscitato con tutti i suoi membri, regnante eternamente con quelli della terra e quelli del cielo. – Auguriamo a tutti di essere così fedeli alla grazia del nostro Battesimo, così come questi bei ceri, bianchi e puri siano l’immagine della nostra vita. Ma ahimè, tra i battezzati ci sono dei poveri ceri spenti! – Io ho conosciuto un curato così negligente che talvolta non si dava la pena di accendere nemmeno un cero durante la celebrazione della Messa. Ad una persona pia che l’aveva notato, avendogli espresso la sua meraviglia, rispose con serenità: « Non avevo l’accendino sottomano. » Sfortunatamente!

V

I ceri e l’altare in un altro senso più profondo e più mistico.

La liturgia è per eccellenza una scienza mistica; questo non vuol dire una scienza di immaginazione o di fantasia, bensì una scienza piena di misteri, la scienza dei misteri della fede. Misteri, mistica: queste due parole sono correlate; ed è unicamente il disprezzo dell’incredulità voltairiana per i santissimi Misteri della fede che è giunta a falsare in un gran numero di spiriti, per non dire in tutti, il vero senso di questa grande parola della lingua cristiana: mistica. La scienza mistica è l’anima della teologia, la linfa della vera pietà cristiana e sacerdotale, la più reale, la più profonda, la più divina di tutte le scienze. La liturgia, e soprattutto la liturgia della Messa è essenzialmente mistica, perché essa esprime il Mistero dei misteri, cioè il Mistero universale del Cristo, dei suoi Angeli e dei suoi eletti. Oltre al significato mistico delle luci, dell’altare, relativo agli Eletti e che abbiamo esposto nel capitolo precedente, ce n’è un altro ancora più profondo, più segreto, più mistico, più celeste. Esso è relativo agli Angeli, e che tra l’altro non concerne che gli Eletti. Esso ce li fa contemplare gli uni e gli altri nella gloria del cielo, nella luce di GESÙ-CRISTO, ove gli Angeli ed i Santi saranno eternamente uniti in uno stesso amore, in una stessa adorazione, perfetta, deifica, ineffabile. Essa appartiene a questo simbolismo apostolico al quale fa spesso allusione San Dionigi l’Aeropagita nel suo libro della “Gerarchia celeste ed ecclesiastica” ed in una delle sue Epistole.La luce è una creatura misteriosa, la più perfetta, la più sublime di tutte. Essa simbolizza per noi il mondo celeste, che è tutto luce nel Signore; essa simbolizza GESÙ-CRISTO, Re del cielo; essa simbolizza anche gli Angeli, irradiazione celeste e vivente di GESÙ. La luce è, nell’ordine dei sensi, come una copertura della terra sui cieli. La Scrittura ed i Padri sono pieni di questo pensiero. I ceri accesi per il Santo Sacrificio significano dunque, esprimendo e rendendo per così dire presenti gli Angeli che assistono allo straordinario sacrificio di Colui che è il loro ed il nostro Signore. La lampada che contiene la sostanza dell’olio, rappresenta più sensibilmente la Chiesa della terra, sempre presente, che adora quaggiù GESÙ-CRISTO, per mezzo di quest’olio che produce la terra, ma che si illumina e brucia di un fuoco tutto celeste. Il cero, al contrario, che producono le api e che esse raccolgono sui fiori; la cera purificata e vergine, è una sostanza superiore, più in rapporto con la perfezione degli Eletti, e degli Angeli, con la luce celeste degli Angeli. Ecco perché la luce dell’altare consiste nei ceri e non nelle lampade d’olio. – E non si pensi che tutto ciò sia arbitrario, la Scrittura Sacra chiama gli Angeli: luce e fuoco; tra gli altri, questo passaggio del salmo, ripetuto da San Paolo (Psal. CIII; ad Hebr. I): « Qui facit Angelos suos spiritus ed ministros suos flammam ignis » e la tradizione antica li chiama spesso « lumina, sacra lumina, lumi. » Al secondo capitolo dell’Apocalisse, San Giovanni vede sette candelabri accesi  (Vidi septem candelabra aurea: et in medio septem candelabrorum aureorum, similem Filio hominis. – II, 12 et 13.), e gli viene detto che queste sette luci sono sia i sette Angeli o Spiriti che stanno davanti al trono del Signore, sia i Vescovi delle sette Chiese dell’Asia Minore che l’Apostolo governava più direttamente. I Vescovi, in effetti, sono gli Angeli della loro Chiesa, e devono essere, quanto allo spirito che le anima, una sola ed una stessa cosa con gli Angeli custodi delle loro diocesi. GESÙ-CRISTO apparve a San Giovanni in mezzo a sette lumi, a questi sette Spiriti. Da qui l’uso antichissimo di accendere sette ceri sull’altare, quando è il Vescovo che deve celebrare pontificalmente; perché allora la perfetta santità del Vescovo deve pienamente manifestare Nostro-Signore, Re degli Angeli, Sommo eterno Sacerdote, adorato dagli Angeli. I sette ceri significano certamente questi sette grandi Arcangeli, questi sette Spiriti principali che, al dire di uno di essi, l’Arcangelo Raffaele, « … stanno davanti al Signore ». I sei ceri che si accendono nelle Messe solenni ordinarie, si ricollegano a questo stesso mistero, secondo la profezia del Profeta Ezechiele, ove dei personaggi misteriosi appaiono intorno ad un settimo, che aveva le somiglianze di un uomo. Quest’uomo era vestito di una bianca tunica di lino e attraversava la città, segnando sulla fronte tutti i suoi eletti. Il Pastore Harmas vede in quest’uomo il Principe, il Signore dei sei Angeli. È GESÙ, l’Angelo del gran Consiglio, l’Angelo dell’alleanza, Angelus Testamenti, come dice la Scrittura, l’Angelo degli Angeli, Angelus Angelorum, come dice S. Agostino. Quando il Vescovo celebra solennemente, quest’uomo, questo Principe, questo Angelo di DIO appare nella luce del settimo cero, per significare che il Vescovo debba essere la luce di tutta la sua Chiesa. – Quanto ai due ceri che devono sempre bruciare sull’altare alla Messa del Sacerdote semplice, a destra e a sinistra del Crocifisso, essi rappresentano senza dubbio alcuno i primi due grandi Arcangeli Serafini che si tengono ai lati del Cristo, secondo l’ordine del Signore; Mosè li aveva fatti rappresentare nel Santo dei Santi, ai due lati del Propiziatorio, ed il Profeta Isaia, rapito in spirito, li aveva contemplati in adorazione davanti al Signore stesso che per amor nostro si è incarnato ed è morto sulla croce; egli li aveva sentiti cantare nel cielo: « Sanctus, sanctus, sanctus, Dominus Deus Sabaoth. » Il primo, l’Angelo della destra e dell’onnipotenza del Signore, è l’Arcangelo Michele, simbolizzato dal cero di destra; il secondo, l’Angelo dell’Incarnazione e della misericordia, l’Angelo della Vergine Santa, è l’Arcangelo Gabriele, rappresentato dal cero del lato sinistro; il lato sinistro è il lato del cuore, e l’Incarnazione è ancor più l’opera dell’amore, che l’opera dell’onnipotenza del Signore. Tale è in sintesi il significato più intimo, e nello stesso tempo il più elevato, dei ceri del nostro altare. Essi simbolizzano intorno a GESÙ eucaristico, la Chiesa gloriosa degli Eletti e degli Angeli. Da questo si giudichi l’importanza e la santità delle prescrizioni liturgiche sul soggetto dei lumi del Santo Sacrificio!

VI

I teli e gli ornamenti dell’altare.

Se non ci sono tre teli bianchi di filo o di lino sull’altare, è proibito dir Messa. Questi teli, che devono essere mantenuti sempre in uno stato di perfetta conservazione, coprono interamente dapprima la parte superiore dell’Altare, poi il lato destro ed il lato sinistro. Quello superiore almeno, deve pendere dai due lati, fino in basso. La parte anteriore dell’altare deve essere ugualmente coperto da un tendaggio o drappo dello stesso colore degli ornamenti del Sacerdote; se a Messa si dice in bianco esso deve essere bianco; se la Messa si dice in rosso, nero, deve essere rosso, nero, etc. in modo tale che l’altare stesso sia interamente coperto e velato agli sguardi (Si tollera una eccezione in favore degli altari preziosamente lavorati e che sono verosimilmente un oggetto d’arte. Lo stesso è per il tabernacolo che, salvo casi eccezionali, deve essere coperto e come avvolto da un velo bianco, – o del colore del giorno – segno della presenza del Santo Sacramento nel Tabernacolo. Ma vi ritorneremo più avanti). Così è Nostro-Signore che non possiamo più vedere, dopo che è risalito in cielo. I tre teli bianchi che coprono l’Altare, raffigurano le tre gerarchie celesti dei santi Angeli che l’adorano con tanto amore; ed i drappi che coprono il resto dell’altare significano i Santi, ed in particolare il Santo o la Santa in onore del quale si celebra la Messa. Gli Angeli ed i Santi sono, in effetti, come il bel vestito di Nostro Signore GESÙ-CRISTO. Noi siamo nei nostri vestiti, ci viviamo, ci muoviamo in essi; allo stesso modo il Figlio di DIO abita e vive nei suoi Santi; Egli parla con essi; fa con essi ed in essi le sue mirabili opere di carità e di santità; riempie il loro spirito ed il loro cuore; i Santi prendono, per così dire, tutte le sue forme e tutti i suoi sentimenti, tutte le sue virtù. – I nostri vestiti ci riscaldano e ci difendono; con l’ardore del loro amore, i Santi consolano GESÙ per la freddezza di tanti ingrati e tanti indifferenti; e con le meraviglie della loro vita, manifestano splendidamente agli occhi del mondo intero, l’onnipotenza della grazia di GESÙ che fa loro compiere sì grandi opere e praticare virtù sì eroiche. Nel cielo, i Santi sono il vestito di gloria del Re di gloria, dopo essere stati sulla terra, e il vestito di grazia dei Re della grazia. I santi Angeli pure, sono nel cielo i ministri, i servi di GESÙ-CRISTO, ed il loro magnifico vestito. Se Nostro Signore è ammirabile nei suoi Santi, come annuncia la Scrittura, non è meno ammirabile nei suoi Angeli. Ecco perché nell’Altare, in ogni ora, gli Angeli ed i Santi del cielo adorano GESÙ eucaristico faccia a faccia e senza velo, mentre adorandolo noi sotto i veli dell’Eucaristia, ecco che, io dico, l’altare della Messa è ricoperto da teli e drappi. I colori di questi drappi come quelli dei paramenti sacerdotali, variano a seconda delle feste. Il colore bianco, che è il colore perfetto, il colore dell’innocenza e della gloria, è comandato dalla Chiesa per tutte le feste di Nostro Signore (salvo quelle della Passione), per tutte le feste della Santa Vergine, degli Angeli e dei Santi non martiri. Il colore rosso, colore del sangue e del fuoco, è utilizzato per celebrare le feste della Passione, quelle dello Spirito-Santo e quelle dei Martiri. Il verde, colore della speranza, è impiegato per tutte le ferie e Domeniche dell’anno, fuori dal tempo dell’Avvento, del Tempo di Natale, della Quaresima e dei tempi pasquali. Il violetto è colore della penitenza; la Chiesa lo impiega nei suoi uffici delle domeniche dell’Avvento e della Quaresima, alle Rogazioni e in Quatempora. Infine il colore nero della morte e della tomba, è riservato alle Messe dei morti a agli uffici delle Tenebre.

VII

Il Sacerdote che sta per celebrare la Messa.

Il Sacrificio della Messa è un solo e medesimo Sacrificio di quello della Croce, ed è diversa solo la forma esteriore: sulla Croce questa forma era cruenta; sull’altare è incruenta; « Il Sacrificio della Croce non differisce dal Sacrificio dell’altare, dice il Concilio di Trento, se non per la forma, sola offerendi ratione diversa ». Lo stesso è per il Prete che offre il Sacrificio: il Sacerdote, al Calvario come all’altare è  GESÙ-CRISTO, allo stesso tempo è Sacrificatore e vittima. È Lui che si offriva e si offre ancora in Sacrificio a gloria di Dio, suo Padre, e per la salvezza del mondo intero. Soltanto, all’altare si vela sotto l’aspetto dei suoi Sacerdoti, alfine di offrire attraverso le loro mani il suo Sacrificio divino. GESÙ e il Prete hanno un solo e medesimo sacerdozio:  GESÙ, Sacerdote eterno, comunica il suo Sacerdozio ai suoi Sacerdoti per mezzo del Sacramento dell’Ordine, ed il Sacerdote non ha altro Sacerdozio che quello di  GESÙ-CRISTO. Ecco perché i Sacerdoti, ed essi soli, possono offrire il Santo Sacrificio. – Il Sacerdote che sta per celebrare la Messa, deve prepararsi come meglio può; sarebbe superfluo insistere su questo punto. Se ci si prepara con cura ad un’udienza del Papa, o anche di un imperatore o di un re, cosa non si farà quando si tratta di salire all’altare del DIO vivente e di comparire, come Mosè sul Sinai, alla santa presenza del Re dei cieli, di cui il Papa non è che il Vicario, e da cui tutti i grandi della terra non fanno che derivare la loro maestà. La preparazione alla Messa è innanzitutto una preparazione di coscienza e di cuore, con la contrizione per i pur minimi peccati, mediante una unione molto intima ed ardente con GESÙ, il Sacerdote dei Sacerdoti, il Santo dei Santi, interiormente presente nel Sacerdote, nel voler trovare in lui uno strumento purissimo e fedelissimo del suo divino Sacerdozio; infine e soprattutto una fede viva, profonda, attuale, al mistero dell’Eucaristia, e con un amore sereno e fervente verso l’adorabile Signore  GESÙ. La buona preparazione alla Messa è il gran mezzo per evitare la routine e, da questa la negligenza, la tiepidezza e la divagazione dello spirito all’altare. Il Sacerdote che abitualmente trascura di prepararsi bene prima di salire all’altare, esporrebbe certamente la sua santificazione, per non dire la sua salvezza. Se si può dire in tutta verità: « a tal Messa, tale giorno! » si può pure dire:  « Tale preparazione, tal Messa! » Questa è dunque una cosa seria. la migliore di tutte le preparazioni: una buona preghiera, una preghiera di un’ora, di tre quarti d’ora o almeno di mezz’ora. San Vincenzo dei Paoli diceva un giorno ad un giovane Prete della Missione, che gli domandava una direzione per perseverare nel fervore: « Amico mio, tutto dipende dall’ora del vostro sonno.  » E siccome il giovane missionario sembrava sorpreso, aggiunse: « Senza dubbio, vedete: se vi addormentate ad un’ora fissa, potrete facilmente svegliarvi ad un’ora fissa di buon ora; se vi alzate così, potrete fare la vostra orazione ogni giorno; ora, dalla vostra preghiera dipenderà la celebrazione santa della Messa; e tutta la vita di un Sacerdote dipende dalla maniera in cui dice la Messa. Dunque, figlio mio, avevo ragione di dirvi che la vostra perseveranza e la vostra salvezza dipendono dall’ora del vostro addormentarvi. » Questo consiglio vale come l’oro. Quanta negligenza su questo punto! Non ho visto a volte un buon curato di campagna, entrando nella sua chiesa, contentarsi, come preparazione, di un povero Pater recitato in piedi, ai piedi dell’altare, toccando terra solo con il ginocchio e l’altro per aria per poter cominciare più presto? Quattro minuti prima ancora si faceva la barba a guisa di orazione; in sacrestia imprecava e spingeva; la sua Messa durava venti minuti, e questa era coronata da un’azione di grazie estatica, degna della preparazione, uno stesso Pater sacramentale, recitato in gran parte sullo stesso ginocchio. O misero, o misero! E questo curato era un bravo uomo, molto fondato nelle sue abitudini, studioso, buono per la povera gente. Quanto ai Preti che confessano molto è certo, e l’esperienza lo dimostra ogni giorno, che questo ministero santifica e non lo distoglie affatto dallo spirito interiore, dalla pietà, dal raccoglimento, che sono la vera preparazione alla celebrazione dei santi Misteri. Tuttavia, perché le confessioni li preparano così a salire all’altare, bisogna che siano ascoltate santamente e che il confessore abbia cura di restare unito a Gesù, Salvatore, che molto ama le anime. L’amore prepara all’amore; il santo tribunale al santo altare. È proibito dalla Sacra Congregazione dei Riti, organo ufficiale del Sovrano Pontefice per tuto ciò che riguarda il culto divino, dire Messa senza essere vestito di sottana. Una volta, all’altare sotterraneo della Confessione di San Pietro, a Roma, ho visto un prete francese che aveva mancato a questa regola e che aveva indossato l’alba sopra la sottanella; egli era molto grosso, l’alba molto corta; si vedevano uscire di là, delle lunghe gambe magre che somigliavano a  due trampoli. Era il colmo del ridicolo e, malgrado la santità del luogo, né io, né alcuni altri, potemmo astenerci dal sorridere. Notiamo di passaggio che le sottane a coda sono vietate ai semplici Sacerdoti, sia curati, Arcipreti, gran Vicari. La Congregazione dei riti lo ha formalmente decretato. La coda della sottana è un segno prelatizio, esclusivamente riservato ai Prelati, ai Vescovi ed ai Cardinali. Allora nulla è più strano che questa coda eterodossa che spazza la polvere, e talvolta anche gli sputi. « La coda suppone il caudato, come la proprietà suppone il proprietario, » dice un proverbio liturgico: « Cauda clamat caudatario, sicut res clamat domino. » Onde evitare questo spazzare, buon numero di preti francesi (perché questa pia coda non si vede che da loro) hanno un’abitudine singolarmente maestosa: dalla sagrestia all’altare, e dall’altare alla sagrestia, essi camminano pieni di modestia e di gravità, tenendo nella mano sinistra il calice, mentre la destra tiene rispettosamente la coda tre volte santa. Se questo rito non è segnato nella rubrica, esso non è che “più bello” e più toccante. È proibito ai semplici Preti, ed anche ai Prelati che non siano Vescovi, di conservare la loro berretta durante la Messa. I Vescovi possono tenerla fino al Sanctus, e riprenderla dopo la Comunione. Infine, per salire all’altare, bisogna avere delle scarpe convenienti e soprattutto delle scarpe appropriate. Mi sono state riferite inconcepibili negligenze al riguardo, perfino scarpe colorate, come se fossero all’angolo del loro focolare; un altro giungeva a salire all’altare con gli zoccoli!