DOMENICA IV DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA QUARTA dopo PASQUA [2019]

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps CXVII: 1-2

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus. [Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod praecipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia. [O Dio, che rendi di un sol volere gli animi dei fedeli: concedi ai tuoi popoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli. Jac. I: 17-21.

“Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA MANSUETUDINE

“Carissimi: Ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto vien dall’alto dal Padre dei lumi, nel quale non è variazione, né ombra di mutamento. Egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, ché siamo quali primizie delle sue creature. Voi lo sapete, fratelli miei dilettissimi. Che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira: poiché l’ira dell’uomo non opera ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò rigettando ogni sozzura e sovrabbondanza di malizia, accogliete docilmente la parola inserita in voi, la quale può salvare le anime vostre”. (Giac. 1, 17-21).

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché  tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine. Parliamo appunto quest’oggi della mansuetudine, la quale

1. È l’opposto del falso zelo,

2. Non ha a che fare con l’ignavia.

3. È un apostolato efficace.

1.

Che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento al parlare, lento all’ira. Nelle dispute e nelle discussioni è molto facile l’accalorarsi, il risentirsi e, infine, l’ira. Coloro, ai quali si rivolge S. Giacomo, potevano dire che, trattandosi di discussioni sulla parola di Dio ad essi predicata, la loro ira era frutto di zelo. Non è difficile osservare che la loro ira, invece di edificare, distruggeva, perché contrariava le eventuali buone disposizioni dell’altra parte. Nessuna cosa è più raccomandabile dello zelo. Basterebbe ricordare la consolantissima promessa che leggiamo, un po’ più avanti, nella lettera di S. Giacomo: « Fratelli miei, se alcuno di voi abbia deviato dalla verità, e un altrove lo riconduce, sappia che egli ha ricondotto un peccatore dall’errore della sua via salverà l’anima sua dalla morte, e coprirà la moltitudine dei suoi peccati » (Giac. V, 20.). Ma non è encomiabile uno zelo incomposto, a base di sentimenti e di invettive fuori di luogo. Noi ammiriamo la grandezza dello zelo di S. Paolo. Restiamo come sbalorditi, considerando quanto egli ha operato per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. Sentiamo, però, da lui stesso di che sorta era il suo zelo: «Mi son fatto debole coi deboli: mi faccio tutto a tutti, per fare a ogni costo alcuni salvi» (1 Cor. IX, 22). Non vuol imporsi senza necessità; non fa valere, senza bisogno, la sua superiorità, ma si adatta a tutti, pur di poter trarre anime a Dio. Anche il medico, quando può ottenere la guarigione con mezzi blandi, non ricorre ai mezzi forti. Questi li riserva per il caso di inutilità degli altri mezzi. Gesù ci ha detto tutta la grandezza del suo zelo in quelle parole: «Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e che cosa desidero, se non che si accenda?» (Luc. XII, 49). Ma il suo zelo si esercita nella più perfetta mansuetudine. Il Profeta, parlando di Lui, aveva detto: «Egli non griderà e non sarà accettator di persone, né si udrà di fuori la sua voce. Egli non spezzerà la canna fessa, e non spegnerà il lucignolo che fuma…» (Is. XLII, 2-3). Ed infatti, egli mostra sempre e in tutto una mansuetudine inarrivabile. Con grande pazienza e carità avvicina i deboli, i vacillanti, e ravviva in loro la vita dello spirito, che sta per spegnersi. La sua mansuetudine risalta nelle contraddizioni, nelle derisioni, nelle contumelie, nelle insolenze, nelle minacce, nell’abbandono, nella negazione, nel tradimento. « Egli maledetto, non rispondeva con maledizioni, e, maltrattato, non minacciava ». Per non sbagliare quando esercitiamo lo zelo facciamoci questa domanda: Come farebbe Gesù Cristo, se fosse al mio posto?

2.

S. Giacomo dà la ragione del perché l’uomo deve lasciarsi dominare non dall’ira, ma dallo spirito di mansuetudine: poiché l’ira dell’uomo non opera ciò che è giusto davanti a Dio. Chi si lascia prendere dall’ira non può operare virtuosamente; anzi si metterebbe nella circostanza di trasgredire su molti punti la legge di Dio. Con l’animo tranquillo e sereno, invece, si è nella miglior disposizione per accogliere la parola di Dio, farla fruttificare e progredire così, di virtù in virtù. Stiamo attenti, però, a non scambiare la mansuetudine con l’ignavia, pericolo molto facile e assai comune, «Bisogna far attenzione — osserva in proposito il Crisostomo — che uno, avendo un vizio, non creda di possedere una virtù… che cosa è dunque la mansuetudine, che cosa è l’ignavia? Quando tacciamo, invece di prender le difese, se altri sono maltrattati, è ignavia; quando, al contrario, essendo maltrattati noi, sopportiamo, è mansuetudine » ( In Act. Ap. Hom. 48, 3). Quando p. e. si commette il male alla nostra presenza, e noi, intervenendo, potremmo impedirlo, il tacere non è mansuetudine, ma ignavia. Un bel tacer non fu mai scritto, diciamo per scusarci. Verissimo; ma a suo tempo e a suo luogo, non qui. Quando i genitori, i superiori, i padroni chiudono gli occhi sulle mancanze dei figli e dei dipendenti; non cercano di porre un freno al loro malfare, non sono dei mansueti, ma dei cani muti. E spesso, la loro creduta mansuetudine è una vera cooperazione al male degli altri. La scusa non manca mai. Io ho un cuore troppo buono, ho un carattere mite. Ci sono di quelli che hanno un carattere austero e pensano di dover trattare con austerità: io, invece, preferisco vivere e lasciar vivere. Scuse che, ridotte al loro vero valore, vogliono dire: Non voglio noie; ho paura a fare il mio dovere; ci tengo ai privilegi del mio stato, ma non ne voglio i pesi. Costoro scambiano un atto di debolezza con una virtù che richiede dell’eroismo. «La mansuetudine — dice ancora il Crisostomo — è indizio di grande fortezza; essa richiede un animo generoso e virile». Di fatti, si tratta di vincere noi stessi, cosa assai più difficile che vincere gli altri. I genitori non devono provocare i figli all’ira, trattandoli con durezza o con soverchio rigore; sarebbe uno sbaglio. Ma sarebbe uno sbaglio ancor peggiore non ammonirli, e, quando è il caso, non castigarli. I superiori devono trattare con benevolenza i loro dipendenti e soggetti; ma quando si tratta di preservare i buoni dal contagio e dallo scandalo, è santo e lodevole il rigore, è giusta la punizione. Nessuno oserebbe condannare il pastore che percuote il lupo per salvare le pecore. Quando si tratta di por fine all’ingiustizia degli uni, e di mettere al riparo dai soprusi gli altri, nessun superiore sarà criticato, se prende delle misure severe; e, nessuno potrebbe, ragionevolmente, fargli appunto di mancanza di mansuetudine. L’Apostolo che era tanto mansueto da poter dire: « Maledetti, noi benediciamo; perseguitati, sopportiamo: ingiuriati, supplichiamo» (1 Cor. IV, 12-13); quando a Corinto un Cristiano dà un gravissimo scandalo pubblico, non solo, per mezzo della scomunica, separa il peccatore dalla Chiesa; ma lo sottopone al dominio di satana, perché lo tormenti nel corpo con malattie e dolori, che servano ad indurlo al pentimento. Gesù Cristo, che si presenta a noi come modello di mansuetudine; non ha mancato di usare parole roventi contro gli scandalosi, contro i Farisei, contro i profanatori del tempio. In certi casi è nostro dovere usare del rigore, e allora, «beato chi sa unire insieme la severità e la mansuetudine» (S. Ambrogio. Epist. 74, 10).

3.

Accogliete docilmente la parola inserita in voi, la quale può salvare le anime vostre. Come la superbia è di ostacolo a ricevere con frutto la parola di Dio, similmente, come abbiamo già osservato, la mansuetudine è condizione favorevole ad accoglierla e a farla fruttificare. Ora vogliamo far notare che non solo la mansuetudine cristiana è ottima disposizione ad accogliere e a far fruttificare per la vita eterna la parola di Dio in noi; ma è un’ottima condizione a farla ricevere con frutto dagli altri. Generalmente, l’uomo che non si inquieta per un affronto, che non si scoraggia per una ripulsa, che non si turba per un’ingiuria, esercita molta forza sopra i suoi oppositori. Se è costante, riesce a vincerli e a dominarli. E questo avviene nel mondo, dove il comportamento mansueto è effetto di temperamento, più spesso di calcolo, non raramente di propositi malvagi. Più efficace deve, necessariamente, riuscire un contegno mansueto, quando è ispirato dalla fede. Chi è assuefatto a dominare il proprio cuore con la vittoria sulle passioni, trova la via a dominare il cuore degli altri. Gli Apostoli, cresciuti alla scuola di Gesù Cristo, compivano la missione loro affidata tra numerosi contrasti e difficoltà; ma senza che si potesse scorgere in essi un’ombra di amarezza, di risentimento, di collera. I loro successori, che vanno a portar la luce del Vangelo tra le nazioni che vivono nell’ignoranza e nell’errore, cominciano a guadagnar gli animi, magari dopo anni e anni, quando hanno dato una prova costante del loro animo mite e mansueto. Accolti male, osservati con diffidenza, importunati, angariati in mille modi, si mostrano sempre uguali a se stessi. Non parole aspre, non inquietudini, non ripicchi. A questo modo si comincia a vincere la diffidenza degli abitanti e le loro prevenzioni, e si finisce con edificarli mediante l’esercizio delle altre virtù. Allora la via delle conversioni è aperta. Gesù Cristo ha detto: «Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra (Matt. V, 4). I banditori del Vangelo son riusciti a farlo trionfare in tutte le parti della terra, con l’arma della mansuetudine. Anche nella nostra vita quotidiana, nel piccolo cerchio dei parenti, degli amici, dei compagni, in circostanze diverse, possiamo esercitare un apostolato salutare con un contegno mansueto. Un giovanotto si reca un giorno, a Milano, dalla Venerabile Maddalena di Canossa a chiederle, con minacce, ove si trovava una giovane, che, per sfuggire alle sue insidie, si era rifugiata presso la santa fondatrice. Maddalena risponde che dal suo labbro non l’avrebbe saputo mai. Allora il giovanotto, estratta una pistola, l’accosta alle tempia di Maddalena. Ma essa, con tranquillo sorriso, gli disse: «Oh, povero giovane! Quanto mi fate pietà!… Orsù, date a me quell’arma, ed io ne farò assai miglior uso». Il giovane, commosso e meravigliato della calma imperturbabile della Madre, piega il capo e le consegna l’arma, e s’avvia confuso alla porta. Maddalena lo accompagna, e gli dà una medaglietta d’argento come pegno di gratitudine per la visita che le aveva fatto. Qualche tempo dopo, un rispettabile Sacerdote viene dalla Madre a raccontarle il pentimento del giovane. La fondatrice le consegna l’arma pregandolo di appenderla a un Santuario dell’Addolorata (L’angelo di Canossa. Pavia 1922, p. 60-62). Proprio vero che « nulla è più forte della mansuetudine » (S. Giov. Crisostomo. In Gen. Hom. 58, 5). Quante volte abbiamo lasciato passare la circostanza di far del bene a qualche anima con la nostra dolcezza, e forse di ricondurla a Dio! Quel che non abbiam fatto per il passato, lo faremo per l’avvenire. Vogliamo usare del rigore? Usiamolo con noi. «Poiché, che cosa v’ha di più giusto, che ciascuno si adiri dei propri peccati, anziché dei peccati degli altri?» (S. Agostino. En. in Ps. IV, 7).

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXVII: 16. Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja [La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]

Rom VI:9 Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja. [Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXV.

“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Ora vo a Colui che mi ha mandato; e nissun di voi mi domanda: Dove vai tu? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha ripieno il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: È spediente per voi che io men vada : perché, se io non me ne vo, non verrà a voi il Paracleto; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E venuto ch’egli sia, sarà convinto il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia, perché io vo al Padre, e già non mi vedrete: riguardo al giudizio poi, perché il principe di questo mondo è già stato giudicato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma non ne siete capaci adesso. Ma venuto che sia quello Spirito di verità, v’insegnerà tutte le verità: imperocché non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annunzierà quello che ha da essere. Egli mi glorificherà, perché riceverà del mio, e ve lo annunzierà. Tutto quello che ha il Padre, è mio. Per questo ho detto che egli riceverà del mio, e ve lo annunzierà” (Jo. XVI, 5-15).

Un padre affettuoso, che si accorga di essere ormai al termine della sua vita, non può far a meno di raccogliere d’intorno a sé i suoi amati figliuoli per discorrere con essi un’ultima volta, per dar loro gli ultimi ammonimenti, per fare ai medesimi le ultime manifestazioni del suo amore. Così appunto fece il divin Redentore co’ suoi cari discepoli. Essendo Egli vicino alla sua passione e ascensione al Cielo, raccolse i suoi discepoli nel cenacolo d’intorno a sé e compiuta con essi la cena legale, lavati loro i piedi, data ai medesimi la estrema prova di amore con l’istituzione ammirabile della SS. Eucaristia, si pose ad intrattenersi ancora con essi con un discorso ripieno dei più sublimi ed importanti ammaestramenti. Ed è appunto un tratto di questo discorso, che la Chiesa nel Vangelo di questa domenica richiama alla nostra considerazione.

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Ora vado a chi mi ha mandato; e nessuno di voi mi domanda: Dove vai tu? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha ripieno il vostro cuore.

Gesù istesso adunque attesta con la sua parola quanto i suoi discepoli si trovassero afflitti nel sapere che era giunto il tempo, in cui si sarebbe separato da loro. E non avevano ragione i discepoli di affliggersi? Gesù li aveva amato tanto, Gesù si era mostrato con essi così indulgente ed affezionato, Gesù era stato il loro amico, il loro maestro, il loro benefattore, il loro padre; ed ora da questo caro Gesù avrebbero dovuto separarsi? Certamente tutte le separazioni sono dolorose, ma chi sa dire quanto fosse dolorosa quella separazione, a cui venivano assoggettati gli Apostoli con la dipartita di Gesù da questa terra! Eppure quella separazione non sarebbe stata che corporale e sensibile. Perciocché quando il Salvatore asceso al cielo avrebbe collocata l’adorabile sua umanità sul trono della gloria, avrebbe dimenticati i suoi discepoli, che aveva scelti per la conquista del mondo? No, certamente. Dall’alto del suo splendore li avrebbe seguiti nella laboriosa loro missione, li avrebbe assistiti nelle fatiche del loro apostolato; sarebbe stato con essi col suo spirito e con la divina sua forza per sempre. Eppure tanto si affliggevano di quella separazione. Or bene, o carissimi, non vedete qui lo strano contrasto tra la condotta degli Apostoli e quella di certi giovani e Cristiani infelici, i quali, avendo commesso il peccato, ed essendosi con esso separati da Dio non ne provano pena alcuna? Quando il figliuol prodigo ebbe ricevuta dal suo buon padre la parte di eredità, che gli aveva chiesta, dice il Vangelo che, messa insieme ogni cosa, se ne andò in lontano paese: profectus est in regionem longinquam (Luc. XV, 15). Ma quando un disgraziato commette una colpa grave, con assai maggior precipizio si separa da Dio, ed assai più lontano è il luogo, dove si trafuga. Mentre son necessari molti giorni, molte settimane, molti mesi e persino molti anni per fare acquisto di un po’ di virtù, al contrario in un istante solo si varca la spaventevole distanza che separa Iddio buonissimo e santissimo dal peccato. Una sola colpa mortale, che non consiste che in un godimento di un minuto, basta anche in un minuto, anzi in un attimo per separare un’anima da Dio, ne è soltanto separarla ma portarla lontano in modo spaventevole. Certamente questa distanza non è materiale, né si può con una misura materiale misurare, con tutto ciò non lascia di essere verissima. E sebbene Iddio, che riempie con la sua immensità gli spazi tutti di tutti i mondi creati, non cessi di essere presente a chi ha commesso il peccato, non è tuttavia men vero, che i peccatori si sono allontanati da Dio, come dice appunto il Signore stesso per bocca di Geremia: Elongaverunt se a me (Ier. XI, 5): e non è men vero, che Iddio resta allontanato dai peccatori: Longe est Dominus ab impiis (Prov. XV. 29). Di fatti che cosa è il peccato? Così appunto lo definisce S. Tommaso: Una separazione da Dio fatta con disprezzo per unirsi invece alle creature: Aversio a Deo et conversio ad creaturas. Chi commette il peccato volta villanamente le spalle e si separa violentemente dal suo Dio, dal suo Padre, dal suo Creatore, dal suo Redentore, dal suo sommo bene per darsi invece alle misere creature di questa terra, ai nefandi piaceri dei sensi. Separarsi da Dio! E si può immaginare una più grande sventura? Ma almeno almeno, quando questa sventura è capitata, si pensasse tosto a ripararla con la pronta risoluzione di ritornare a Dio e di riacquistare la sua unione col domandargli perdono! Ma invece molte volte vi ha chi rimane in questo stato per tanti giorni, per tanti mesi e persino per tanti anni. E quel che è peggio, si è che rinnovando costui le sue colpe sempre più si stordisce, si dissipa, s’ingolfa nell’abisso; ed allora soffoca i rimorsi, impone silenzio alla voce importuna della coscienza, cerca d’ingannarsi e di farsi a credere che è tranquillo e a forza di ripetersi che possiede la pace, giunge financo a persuadersi di realmente possederla. Di fatti è cessato il suo spavento: nell’ora del sonno più non vede i fantasmi, che dapprima lo atterrivano; la calma sembra rientrata del tutto nel suo cuore. Ma ahimè! Quando il malato non sente più il dolore, la è finita, il male è senza rimedio; altro più non resta, che fare gli apparecchi dei funerali. Così quando il peccatore, separato da Dio dall’abisso del peccato mortale, più non sente il dolore di tale separazione, è finita anche per lui; a meno di un miracolo, non ritornerà più a Dio; camminerà a grandi passi verso la separazione, che sarà eterna. Ah miei cari! Noi teniamoci stretti al nostro caro Gesù. Evitiamo diligentemente tutto ciò che potrebbe separarci da lui. Ripetiamo ancor noi Con l’Apostolo Paolo: « Chi ci separerà dalla carità di Cristo? non già la tribolazione, non l’angustia, non la fame, non la nudità, non il pericolo non la persecuzione, non la spada; no, nessuna cosa varrà a staccarci dal nostro Dio » (Rom. VIII, 35). Ma se per isventura ci fossimo da Lui separati, non ritardiamo un istante a ritornare pentiti ai suoi piedi. Ed Egli, che non disprezza un cuor pentito ed umiliato, ci accoglierà con misericordia, anzi con gioia e ci riunirà al suo Cuore divino.

2. Proseguiva il divin Redentore, dicendo: Ma io vi dico il vero: È spediente per voi che io men vada: perché se io non me ne vo, non verrà a voi il Paracleto; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. Or bene, o carissimi, perché mai, secondo quel che dice ai suoi Apostoli il divin Redentore, perché mai quella visita dello Spirito Santo è ella incompatibile con la presenza di nostro Signore! Eccolo: Gli Apostoli amavano il loro divin Maestro, ma in un modo troppo sensibile e troppo umano. Tale attaccamento di ordine troppo naturale era un ostacolo a ricevere lo Spirito Santo nella sua pienezza. Quando il profeta Eliseo volle moltiplicare l’olio della vedova di Sarepta, chiese dei vasi totalmente vuoti: così quando lo Spirito divino vuol recare ad un cuore gli adorabili suoi Doni, figurati dall’olio miracoloso, esige che quel cuore sia vuoto da ogni affetto, non dirò peccaminoso, ciò s’intende, ma eziandio dagli affetti permessi, quando hanno alcun che di troppo terreno e troppo umano. Gli Apostoli pertanto faranno il loro sacrificio; sarà duro, ma sarà pure molto meritorio; e quando verrà il giorno della Pentecoste, il Salvatore manderà loro il divino suo Spirito, ed essi lo riceveranno con l’abbondanza delle sue grazie; e saranno interamente rivestiti di quella forza divina, che assicurerà il buon esito del loro ministero evangelico e del loro Apostolato. Or dunque, o miei cari, se a ricevere in noi con abbondanza le grazie del Signore, è necessario avere il cuore mondo eziandio da certi attacchi che non sono cattivi, quanta maggior attenzione non si dovrà mettere alfine di preservarlo dalle affezioni e dalle amicizie, che sono realmente cattive, od anche solo pericolose! E qui, o miei cari, dacché mi si presenta l’occasione, lasciate che vi dica qualche parola, secondo gli insegnamenti di S. Francesco di Sales, intorno alle amicizie ed alle affezioni, affinché riconosciate bene quali sono le buone, che potete coltivare e quali sono invece le cattive o pericolose, che dovete assolutamente fuggire. Dice adunque questo Santo che diversa è l’amicizia secondo la diversità del fine a cui tende. Non merita nome di amicizia, quella che brutalmente ha per fine il peccato. Ed in vero come mai dovrei io riguardare come amico colui, che insegnandomi, od eccitandomi a fare del male, tendesse per tal guisa a rovinare l’anima mia? Per certo colui, il quale osasse dirmi certe parole, farmi certe proposte, darmi certi consigli…, sarebbe un perfido traditore, dal quale dovrei guardarmi come da un serpente. E se io sgraziatamente facessi relazione con lui, tutt’altro che avere un’amicizia avrei una relazione diabolica. L’amicizia, poi che ha per mira di compiacere i sensi, che si fonda cioè sulla bellezza esteriore del volto, sulla singolarità della voce, sull’eleganza del vestire, sull’abilità del giuocare e simili, è tutta materiale e indegna pur essa del nome di amicizia. E ciò anzitutto perché quest’amicizia è basata su cose vane e frivole, ma poi eziandio perché un’amicizia siffatta non apporta alcun profitto, né onore, né contentezza. Generalmente queste amicizie sensibili fanno perder il tempo e arrischiar l’onore, senza dar altro gusto, fuorché quello d’un’ansietà di pretendere e di sperare, senza saper ciò che si voglia o pretendasi. Imperciocché gli animi meschini e deboli, che sono presi, credono sempre che negli attestati di reciproco amore, coi quali si corrispondono, rimanga sempre qualche cosa ad aggiungere e questo desiderio insaziabile di affezione va sempre straziando il cuor loro con diffidenze, gelosie ed inquietudini incessanti. Epperò quale danno arrecano all’anima tali amicizie! Esse l’occupano in tal modo, e attraggono con tal forza i suoi movimenti, che ella poi non può più esser valevole per alcuna opera buona; i pensieri dell’amicizia sono frequenti a segno, che dissipano tutto il tempo; e in fine chiamano tante tentazioni, distrazioni, sospetti ed altre conseguenze, che tutto il cuore ne rimane conturbato e guasto; senza dire che talvolta vanno poi a terminare in gravi peccati. Insomma queste amicizie sbandiscono non solo l’amor celeste, ma ancor il timor di Dio, in una parola sono la peste de’ cuori. Se invece voi avete amicizia con taluno e trattate amichevolmente con lui per ragione dì virtù, allora sarà buona e virtuosa l’amicizia vostra. Anzi quanto più squisite saranno le virtù, sulle quali verserà il trattar vostro, tanto più sarà perfetta la vostra amicizia. Quindi se la vostra scambievole e reciproca corrispondenza avrà per oggetto la carità, la divozione, la perfezione cristiana, oh allora sarà assai preziosa la vostra amicizia! Sarà eccellente perché verrà da Dio; eccellente perché tenderà a Dio; eccellente perché il suo vincolo sarà Dio; eccellente perché durerà eternamente in Dio. Che bell’amare in terra, come si ama nel cielo, e apprendere ad aver in questo mondo quella vicendevole tenerezza, che avremo eternamente nell’altro! E non si parla qui del solo amore di carità, dovendosi questo avere per ogni persona; ma si parla dell’amicizia spirituale, pel cui mezzo due o tre, o più anime si comunicano la lor divozione, i loro affetti spirituali, e divengono un solo spirito. Quanto giustamente possono cantare queste felici anime: Oh è pur buona e piacevole cosa, che i fratelli soggiornino insieme! Così è propriamente, perché il soave balsamo della divozione stilla da un cuore nell’altro, mediante una partecipazione continua; talché si può dire, che Dio ha versato su questa amicizia la sua santa benedizione. Ed oh come piacciono al Signore queste sante amicizie. Niuno potrebbe certamente negare, che nostro Signore amasse con una più dolce e più speciale amicizia S. Giovanni, Lazzaro, Marta e Maddalena: perché la Scrittura ce ne fa fede. Sappiamo che S. Pietro aveva un tenero amore per S. Marco e per S. Petronilla, come S. Paolo pel suo Timoteo e per S. Tecla. S. Gregorio Nazianzeno si gloria in più luoghi dell’impareggiabile amicizia che passò tra lui e il grande S. Basilio, e la descrive in tal modo: Sembrava non esser in ambedue noi, se non un’anima sola, che movesse due corpi. Una sola mira avevamo entrambi, di coltivar la virtù e di conformare i disegni della nostra vita alle speranze future, uscendo così dalla terra mortale, prima di lasciarvi la vita. S. Agostino attesta, che S. Ambrogio amava singolarmente Santa Monica per le rare virtù, che scorgeva in lei, e che ella reciprocamente l’aveva caro come un angelo di Dio. S. Girolamo, S. Agostino, S. Gregorio, S. Bernardo e tutti i maggiori servi di Dio ebbero amicizie particolarissime, senza discapito della lor perfezione. S. Paolo, biasimando la depravazione dei gentili, li taccia d’essere stati gente senza affezione; vale a dire, che non aveva alcuna amicizia. E S. Tommaso, come tutti i buoni filosofi, confessa che l’amicizia è una virtù. Non consiste dunque la perfezione in non aver alcuna amicizia; ma in non averne veruna, che non sia buona, non sia santa, che non sia sacra. Ecco, o miei cari, come insegna S. Francesco di Sales intorno alle amicizie. Questi suoi insegnamenti sono molto chiari; tuttavia io vi esorto a procedere sempre assai guardinghi nel contrarre delle amicizie, anzi a non stringerne alcuna senza esservi prima consigliati da chi per ragione della sua esperienza e del suo ufficio può intorno a questo consigliarvi bene. Così facendo non correrete mai rischio di accogliere e nutrire in cuor vostro delle affezioni, che vi impediscano di ricevere e conservare nello stesso i Doni dello Spirito Santo.

3. Da ultimo il divin Maestro parlando agli Apostoli di quel che sarebbe venuto a fare lo Spirito Santo, da lui inviato, tra le altre cose disse loro: Io avrei da dirvi ancora molte cose; ma adesso non ne siete capaci. Tuttavia quando sarà venuto lo Spirito Santo, che è Spirito di verità v’insegnerà tutte le verità, ed Egli che ha la stessa mia scienza, vi annunzierà tutto quello che ha da essere.Con le quali parole, voi lo vedete, Gesù Cristo intese a suscitare negli Apostoli una viva brama di apprendere meglio con l’aiuto dello Spirito Santo le verità della fede, in cui essi dovevano credere e che avrebbero pur dovuto predicare agli altri. E così il divin Redentore fece pure intendere a noi, che se vi è cosa, di cui dobbiamo essere sommamente solleciti è la conoscenza, epperò lo studio della nostra santissima Religione. Che se questo studio e questa conoscenza fu utile e necessaria in ogni tempo, chi può dire quanto necessaria ed utile sia ai tempi nostri, in cui tanti e così gravi errori son diffusi nel mondo contro le verità della Fede Cattolica? Eppure è doloroso a dirsi, ma pur vero, non vi ha studio, che sia più di questo negletto! Una certa classe di giovani e di Cristiani non sa nemmeno più che cosa sia lo studio della Religione, e ciò non ostante essi divorano con avidità tutto quello che si scrive contro la verità delle loro credenze. Si leggono e si ascoltano le obbiezioni e gli errori, e non si ascoltano e non si leggono le risposte. Ma allora, dov’è l’amore della verità, dov’è la buona fede e la sincerità dalla parte di cotesti Cristiani? Eppure tralasciano forse i sacerdoti ai dì nostri di farsi a spiegare nelle istruzioni, nei catechismi e nelle prediche le verità della fede? Anzi, forse non si è mai così abbondantemente dispensata la parola di Dio e in modo così adatto a tutte le intelligenze. Si potrà dire che non vi siano ai dì nostri buoni libri, che trattino della Religione in modo acconcio a tutte le menti? No, senza dubbio. Anche qui, si può dire che tali libri abbondano assai più che pel passato. Eppure molti giovani e molti Cristiani rifuggono volontariamente dalle prediche, dai catechismi e dalle istruzioni religiose e gettano via ben presto, se pur loro capita alle mani, un libro che tratti in buon senso di Religione e dei doveri che essa impone. Se il libro solletica il loro amor proprio, se lusinga le loro passioni, se è cosparso di fiori e di tinte romantiche, e talvolta ben anche se contiene cose lubriche, allora lo leggono sino alla fine ad onta dei rimorsi di coscienza, che si studiano di far tacere. Ma se invece è un libro che miri a far loro del bene, ad illuminare la loro mente, ad accendere di amore per Iddio il loro cuore, oh allora lo respingono come un libro noioso, scritto senza garbo e intorno a cose, che già conoscono abbastanza. Non sia così di alcuno di voi. Riconoscendo che la prima scienza è quella della nostra eterna salute, studiatevi di applicarvi con impegno alla stessa con intervenire mai sempre volentieri ad ascoltare umilmente qui in chiesa la parola di Dio. Non paghi di ciò, rifuggendo dalle letture vane e frivole, amate invece le letture buone e di soda dottrina, soprattutto quelle religiose. Procuratevi di tali libri, leggetene volentieri almeno qualcuno, e leggetelo con una seria attenzione e un desiderio sincero di conoscere la verità, e vedrete che, dopo cotali letture, non tornerà più a voi possibile nutrir de’ dubbi sulla verità e sulla santità delle nostre credenze, ed al caso sarete anche in grado di rispondere a chi osasse parlar male di esse. E per tal modo corrisponderete al desiderio di Gesù Cristo, ben conoscerete la verità della fede, ben conoscendole le amerete e le praticherete, ed amandole e praticandole meriterete il premio eterno del cielo.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps LXV: 1-2; LXXXV: 16

Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja. [Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’anima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrificii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quaesumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

Communio

Joann XVI:8

Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja. [Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur. [Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.