I SERMONI DEL CURATO D’ARS: sulla CONTRIZIONE

SERMONE PER LA DOMENICA DI PASSIONE (*)

(*) Il testo originale è nel I volume di:

SERMONS du Vénérable Serviteur de Dieu

J.-B.-M. VIANNEY CURÉ D’ARS

PARIS LIBRAIRIE VICTOR LECOFFRE, 90 RUE BONAPARTE. ——- LYON LIBRAIRIE CHRÉTIENNE(Ancienne Maison BAUCHU) ED. RUBAN, PLACE BELLECOUR, 6 –

APPROBATION.

Archevêche De LYON  –  Lyon, 20 août 1882.

f L. M. Card. CAVEROT, Archevêque de Lyon.

L’opera è pubblicata in rete da: Bibliothèque Sain Libère – htpp: www. liberius.net –

© Bibliothèque Saint Libèr 2011 (Toute reproduction à but non lucrative est autorisée- si autorizza ogni riproduzione senza fini di lucro).

La traduzione italiana è redazionale, ma confrontata con la versione italiana di Giuseppe D’Isengard F. d. M. in “I SERMONI DEL B° GIOVANNI B. M. VIANNEY, Curato d’Ars”. Libreria del Sacro Cuore – Rimpetto ai Ss. Martiri -, Torino, 1907 (Tip. Salesiana, via Cottolengo, 32)

Nihil obstat,

Torino, 5 aprile 1908 Teol. Coll. Giacomo Sacchieri, prete della Missione, Revisore delegato.

Imprimatur

Torino, 8 Aprile 1908, Can. Ezio Gastaldi-Santi Provic. Gen.

[N.B.: Si diffidano i fedeli “veri” Cattolici dal consultare altre versioni di a-cattolici modernisti, in particolare gli scismatici eretici aderenti alla setta del Novus ordo, in comunione con gli antipapi usurpanti attuali, non dotate né di Nihil obstat né dell’Imprimatur canonico imposto dalla Costituzione Apostolica “Officiorum ac Munerum” di S. S. Leone XIII, e dall’Enciclica “Pascendi” di S. S. San Pio X, passibili quindi di SCOMUNICA “ipso facto” latæ sententiæ riservata in modo speciale alla Sede Apostolica. … intelligenti pauca!

Sulla Contrizione.

Vaæ mihi, quia peccavi nimis in vita mea.

[Guai a me, perché ho peccato molto nella vita mia]

 (Da Le Confes. di S. Agostino, lib. II, c. 10.)

Questo era, fratelli miei, il linguaggio di San Agostino quando ricordava gli anni della sua vita, durante i quali era sprofondato con tanto furore nelle vita infame dell’impurità. « Ah! Guai a me perché ho peccato molto nei giorni della vita mia! » Ed ogni volta che gli veniva questo pensiero, si sentiva il cuore lacerato e distrutto dal rimpianto. « O DIO mio! – esclamava – una vita passata senza amarvi! O DIO mio, quanti anni perduti! Ah! Signore, degnatevi, vi scongiuro, di non ricordarvi più delle mie colpe passate! » Ah! lacrime preziose, ah! rimorsi salutari che d’un gran peccatore, han fatto un grande Santo. Oh! Un cuore distrutto dal dolore ha riguadagnato ben presto l’amicizia del suo DIO! Ah! piacque a Dio che ogni qualvolta poniamo i nostri peccati davanti agli occhi, noi possiamo dire, come con lo stesso rimorso di San Agostino: Ah! Guai a me perché ho molto peccato durante gli anni della mia vita! DIO mio, usatemi misericordia! Oh! Le nostre lacrime subito coleranno e la nostra vita non sembrerà più la stessa! Sì, fratelli miei, conveniamo tutti, quanti siamo, con dolore e sincerità, che siamo dei criminali degni di portare tutta la collera di un DIO giustamente irritato dai nostri peccati, che forse sono più numerosi dei capelli della nostra testa. Ma benediciamo sempre la misericordia di DIO che ci apre nei suoi tesori una risorsa ai nostri malanni! Sì, fratelli miei, benché grandi siano i nostri peccati, occorre che il nostro rimorso racchiuda quattro qualità: 1° bisogna che il peccatore odi e detesti sinceramente i suoi peccati con la contrizione; 2° che abbia concepito un fermo proposito di non ricadervi mai più; 3° che ne faccia un’umile dichiarazione al ministro del Signore; e 4° che ripari, per quanto può, l’ingiuria fatta a DIO ed il torto fatto al prossimo.

I. Per farvi comprendere ciò che è la contrizione, cioè il dolore che dobbiamo avere dei nostri peccati, bisognerebbe poter farvi conoscere, da un lato l’orrore che ne ha DIO in se stesso, i tormenti che Egli ha sofferto per noi per ottenerne il perdono presso il Padre; e dall’altra i beni che perdiamo peccando ed i mali che ci attiriamo per l’altra vita, e questo non sarà mai dato all’uomo comprenderlo. Dove devo condurvi, fratelli miei, per farvelo comprendere? Forse in fondo al deserto, dove grandi Santi vi hanno passato venti, trenta, quaranta, cinquanta ed anche ottanta anni a piangere delle colpe che secondo il mondo non sono colpe? Ah! No, no, il vostro cuore non sarebbe ancora toccato! Forse alla porta dell’inferno per ascoltare le grida, le urla ed i digrignamenti dei denti causati dal solo rimorso del loro peccato? Ah! dolore amaro, ma dolore e rimorso infruttuoso ed inutile! Ah! No, fratelli miei, non è ancor là ove imparerete a piangere i vostri peccati con il dolore ed il rimorso che dovete averne! Ah! Ma è ai piedi di questa Croce ancora tinta del sangue prezioso di un DIO che non lo ha sparso se non per cancellare i nostri peccati. Ah! se mi fosse permesso di condurvi in questo giardino di dolori dove un DIO uguale a suo Padre piange i nostri peccati, non con lacrime ordinarie, ma con tutto il suo sangue che imporpora tutti i pori del suo corpo, ed ove il suo dolore fu sì violento da gettarlo in una agonia che sembrava togliergli la vita e distruggergli il cuore. Ah! se potessi condurvi alla sua sequela, mostrarvelo caricato della sua Croce nelle vie di Gerusalemme: tanti passi, altrettante cadute, … e tante volte rialzato a pedate! Ah! se potessi farvi avvicinare a questo Calvario dove un DIO muore piangendo i nostri peccati! Ah! diremmo ancora: bisognerebbe che DIO ci donasse questo amore ardente del quale aveva infiammato il cuore del grande Bernardo, al quale la sola vista della Croce faceva versare lacrime con tanta abbondanza! Ah! bella e preziosa contrizione! Felice è colui che la possiede! Ma a chi sto per parlarne, chi è colui che la racchiude nel suo cuore? Ahimè! Io non lo so! Sarebbe a questo peccatore indurito che forse da venticinque, trenta anni, ha abbandonato il suo DIO e la sua anima. Ah! no, no, sarebbe fare come chi vorrebbe ammorbidire una roccia gettandovi sopra dell’acqua, mentre non farebbe che indurirla ancor più. Sarebbe a questo Cristiano che ha disprezzato missioni, ritiri e giubilei e tutte le istruzioni dei suoi pastori? Ah! no, no, sarebbe come voler riscaldare dell’acqua mettendola nel ghiaccio. Sarebbe a queste persone che si contentano di fare le loro pasque continuando il loro genere di vita, che tutti gli anni hanno sempre gli stessi peccati da raccontare? Ah! no, no, queste sono delle vittime che la collera di DIO impingua per servire da alimento alle fiamme eterne. Ah! diciamo meglio, essi sono simili a criminali che hanno gli occhi bendati e che, aspettando di essere giustiziati, si danno a tutto ciò che il loro cuore corrotto può desiderare. Sarebbe ancora a questi Cristiani che si confessano ogni tre settimane od ogni mese, e che ogni giorno ricadono? Ah! no, questi sono dei ciechi che non sanno né quel che fanno, né ciò che devono fare. A chi dunque potrei indirizzare la parola? Ahimè, io non saprei … o DIO  mio! dove bisogna andare per trovarla, a chi farla domandare? Ah! Signore, io so essa da dove viene e chi la dà; essa viene dal cielo e siete Voi che la date. O mio DIO! Dateci, se vi piace, questa contrizione che distrugge e divora i nostri cuori. Ah! questa bella contrizione che disarma la giustizia di DIO, che cambia la nostra eternità dannata in una eternità felice! Ah! Signore, non rifiutateci questa contrizione che ci rende prontamente l’amicizia di DIO! Ah! bella virtù, quanto sei necessaria, ma come sei rara! Tuttavia, senza di essa, non c’è perdono, senza di essa, non c’è il cielo; diciamo di più, senza di essa, per noi tutto è perduto, penitenze, carità, elemosine e tutto ciò che possiamo fare. Ma pensate in voi stessi, cosa vuol dire tutto questo, cos’è questa parola “contrizione”, e se forse necessita il conoscere se la si abbia? – Amico mio, desiderate saperlo? Eccolo. Ascoltatemi un momento: andate a vedere se l’avete oppure no, ed in seguito il mezzo per averla. Entriamo in un semplice dettaglio: se voi mi chiedeste: che cos’è la contrizione? Io vi direi che è un dolore dell’anima ed un detestare i peccati commessi con una risoluzione ferma di non ricadervi più. Sì, fratelli miei, questa disposizione è la più necessaria di tutte quelle che DIO domanda onde perdonare il peccato; non solo essa è necessaria ma, aggiungo ancora, che  nulla può dispensarcene. Una malattia che ci tolga l’uso della parola può dispensarci dalla Confessione, una morte rapida può dispensarci dalla soddisfazione, almeno in questa vita; ma non è lo stesso per la contrizione; senza di essa è impossibile, assolutamente impossibile, ottenere il perdono dei propri peccati. Sì, fratelli miei, noi possiamo dire gemendo che è questo difetto di contrizione che è la causa di un numero infinito di Confessioni e di Comunioni sacrileghe; ma ciò che ancora è più deplorevole è che non ce ne si accorge quasi mai, e che si vive e si muore in questo miserevole stato. Sì, fratelli miei, nulla di più facile da comprendere. Se abbiamo avuto la sventura di cadere in peccato nelle nostre Confessioni, questo crimine ci è continuamente davanti agli occhi come un mostro che sembra divorarci, cosa che fa che sia ben raro che non ce ne scarichiamo una volta o l’altra. Ma per la contrizione, non è lo stesso; noi ci confessiamo, il nostro cuore non è per niente coinvolto nell’accusa che facciamo dei nostri peccati, riceviamo l’assoluzione, ci avviciniamo alla santa mensa con un cuore freddo, ben insensibile, indifferente, come se venissimo a fare la recita di una storiella; andiamo di giorno in giorno, di anno in anno, infine arriviamo alla morte e crediamo di aver fatto un qualche bene; noi non troviamo e non vediamo che crimini ed i sacrilegi che le nostre Confessioni hanno partorito. O DIO mio! Quante cattive Confessioni per difetto di contrizione! O DIO mio, quanti Cristiani che nell’ora della morte non trovano che Confessioni indegne! Ma non andiamo oltre, temo di turbarvi; io dico turbarvi. Ah! È ben al presente che bisognerebbe portarvi a due dita di disperazione affinché, colpiti dal vostro stato, possiate ripararlo senza aspettare il momento in cui lo conoscerete senza poter più riparare. Ma veniamo, fratelli miei, alla spiegazione e vedrete se, ogni qual volta vi siate confessati, avete avuto il dolore necessario, assolutamente necessario per avere la speranza che i vostri peccati siano perdonati. Io dico: 1° la contrizione è un dolore dell’anima. Bisogna necessariamente che il peccatore pianga i suoi peccati, o in questo mondo o nell’altro. In questo mondo voi potete cancellarli con il rimorso che ne sentite, ma non nell’altro. O quanti di noi, dovremo essere riconoscenti alla bontà di DIO di questo! In luogo dei rimorsi eterni e dei dolori i più laceranti che meritiamo di soffrire nell’altra vita, cioè nell’inferno, DIO si contenta solamente che i nostri cuori siano toccati da un vero dolore, seguito poi da una gioia eterna! O DIO mio! Voi vi contentate di ben poca cosa!

1° io dico che questo dolore deve avere quattro qualità, se ne manca una sola, noi non possiamo ottenere il perdono dei nostri peccati. La sua prima qualità: deve essere interiore, cioè venire da profondo del cuore. Essa non consiste dunque nelle lacrime, anhe se esse sono buone ed utili, è vero; ma non sono necessarie. In effetti, quando San Paolo ed il Buon ladrone si sono convertiti, non è detto che essi abbiano pianto, ma il loro dolore è stato sincero. No! fratelli miei, non è sulle lacrime che bisogna contare: esse sono spesso ingannevoli, molte persone piangono nel tribunale della Penitenza e poi ricadono alla prima occasione. Ma il dolore che DIO richiede da noi … eccolo! Ascoltate ciò che dice il Profeta Gioele: « Avete il dolore del peccato? Ah! figli miei, distruggete e lacerate il vostro cuore con i rimorsi! » – « Se avete perso il Signore con i vostri peccati, ci dice Mosè, cercatelo con tutto il vostro cuore nell’afflizione e nell’amarezza del vostro cuore. » Perché, fratelli miei, DIO vuole che il nostro cuore si penta? Non è il cuore nostro che ha peccato: ma è dal nostro cuore, dice il Signore, che sono nati tutti questi cattivi pensieri, questi desideri cattivi; bisogna dunque assolutamente che, se il nostro cuore ha fatto il male, si penta, altrimenti DIO non ci perdonerà mai.

2° Io dico poi che bisogna che il dolore che dobbiamo sentire per i nostri peccati, sia soprannaturale, cioè che sia lo Spirito Santo che lo ecciti in noi, e non delle cause naturali. Distinguo: essere afflitti per aver commesso un tal peccato, perché ci esclude dal Paradiso e merita l’inferno: questi motivi sono sovrannaturali, è lo Spirito Santo che ne è l’autore; questo può condurci ad una vera contrizione. Ma affliggersi a causa della vergogna che il peccato necessariamente genera in sé, come i mali che esso ci attira, come la vergogna di una fanciulla che ha perso la sua reputazione, o di un’altra persona che è stata sorpresa a derubare il suo vicino; tutto questo non è che un dolore puramente naturale che non ci merita il perdono. Da qui è facile concepire che il dolore dei nostri peccati, il pentimento dei nostri peccati, può venire o dall’amore che abbiamo per Dio, o dal timore dei castighi. Colui che nel suo pentimento non considera che DIO, questi ha una contrizione perfetta, condizione così eminente da purificare il peccatore da se stessa ancor prima di aver ricevuto la grazia dell’assoluzione, qualora sia nella disposizione di riceverla appena può. Ma per colui che non ha il pentimento dei propri peccati, se non per i castighi che i suoi peccati gli attirano, ha solo una contrizione imperfetta che non lo giustifica, ma solo lo dispone a ricevere la sua giustificazione nel Sacramento della Penitenza.

Terza condizione della contrizione: essa deve essere sovrana, vale a dire più grande di tutti i dolori, più grande, direi, di quello che noi proviamo alla perdita dei nostri genitori e della nostra salute, e generalmente di tutto ciò che abbiamo di più caro al mondo. Se dopo aver peccato, non avete questo intenso rimorso, tremate per le vostre Confessioni. Ahimè! Quante volte per la perdita un oggetto di nove o dieci soldi, si piange, ci si tormenta tanti giorni, fino a non voler mangiare … Ahimè, e per i peccati, e spesso per peccati mortali, non si verserà né una lacrima né si emetterà un sospiro. O DIO mio, l’uomo conosce così poco quel che fa peccando! – Ma perché, direte, il nostro dolore deve essere così grande? – Amico mio, eccone il motivo: esso deve essere proporzionata alla grandezza della perdita che noi attuiamo ed alla rovina alla quale ci conduce il peccato. Pertanto, giudicate quale debba essere il dolore, dal momento che il peccato ci fa perdere il cielo con tutte le sue dolcezze. Ah! Cosa dico? Ci fa perdere il nostro DIO con tutte le sue amicizie e ci precipita nell’inferno, che è la più grande di tutte le sventure! – Ma voi pensate: come si può dunque riconoscere se questa contrizione vera sia in noi? È cosa molto facile! Se veramente l’avete, voi non agirete, non penserete come in precedenza, essa avrà cambiato totalmente la vostra maniera di vivere: odierete ciò che avete amato, ed amerete ciò che avete fuggito e disprezzato; vale a dire voi avete confessato di avere avuto dell’orgoglio nelle vostre azioni e nelle vostre parole? Bisogna ora che facciate comparire in voi una bontà, una carità per tutti. Non occorre che siate voi a giudicare se avete fatto una buona Confessione, perché potreste facilmente ingannarvi; ma occorre che le persone che vi hanno visto o inteso prima della vostra confessione, possano dire: non è più lo stesso; è avvenuto in lui un grande cambiamento! Ahimè! DIO mio! Dove sono queste confessioni che operano questo bene così grande? Oh! Quanto sono rare; ma lo sono pure quelle che sono fatte con tutte le disposizioni che DIO richiede! Confessiamolo, fratelli miei, a nostra confusione, che se sembriamo così poco toccati, questo non può che venire che dalla nostra poca fede e dal nostro poco amore che abbiamo per DIO. Ah! se avessimo la fortuna di comprendere quanto DIO sia buono e quanto il peccato sia enorme, e quanto nera è la nostra ingratitudine nell’oltraggiare un Padre così buono, ah! Senza dubbio sembreremmo afflitti ben altrimenti di come non lo siamo. Ma – voi direte – io vedrò di averla, questa contrizione, quando mi confesso e non posso averla. Ma cosa ho detto all’inizio? Non vi ho già detto che essa viene dal cielo, e che è a DIO che bisogna chiederla? Cosa hanno fatto i Santi, amico mio, per meritare questa felicità di piangere i loro peccati? Essi l’hanno chiesta a Dio con il digiuno, la preghiera, con ogni tipo di penitenza e di opere buone, poiché non dovete contare affatto sulle vostre lacrime. Io vado a provarvelo: aprite i libri santi e ne sarete convinti. Vedete Antioco, quanto piange, quanto chiede misericordia, e tuttavia lo Spirito Santo ci dice che piangendo, egli discese all’inferno. Vedete Giuda, egli ha concepito un sì grande dolore del suo peccato, lo piange con tale abbondanza che finisce per perdersi. Vedete Saul, egli lancia le sue gride dolenti per aver avuto la disgrazia di disprezzare il Signore, tuttavia egli è nell’inferno. Vedete Caino, le lacrime che versa dopo aver peccato, tuttavia egli brucia. Chi di noi, fratelli miei, che avrebbe visto scendere tutte le sue lacrime e pentirsi, non avrebbe creduto che il buon Dio non gli avesse perdonato; tuttavia nessuno di essi ne è stato perdonato; ecco che Davide invece, appena ebbe detto: « Io ho peccato; » subito il suo peccato gli viene rimesso. – E perché questo, voi direte? Perché questa differenza, i primi non furono perdonati, mentre Davide lo è? – Amico mio eccolo: è per il fatto che i primi non si pentono e non detestano i loro peccati se non a causa dei castighi e dell’infamia che il peccato produce necessariamente con sé, e non in rapporto a Dio; invece Davide pianse i suoi peccati non a causa dei castighi che il Signore stava per fargli subire, ma alla vista degli oltraggi che i suoi peccati avevano fatto a Dio. Il suo dolore fu così vivo e sincero che Dio non gli poté rifiutare il suo perdono. Avete voi chiesto a Dio la contrizione prima di confessarvi? Ahimè, forse non lo avete fatto mai! Ah! tremate per le vostre Confessioni; ah! quanti sacrilegi, DIO mio! Quanti Cristiani dannati! 

4° Essa deve essere universale. Nella vita dei Santi è riportato, sul soggetto del dolore universale che noi dobbiamo avere dei nostri peccati, che se non li detestiamo tutti, non saranno perdonati né gli uni, né gli altri. Si riporta che San Sebastiano, stante a Roma e facendo dei miracoli i più strepitosi che riempivano di ammirazione, il governatore Cromo che, in questo tempo era affetto da grave infermità, desiderò ardentemente di vederlo, per chiedergli la guarigione dai suoi mali. Quando il Santo fu davanti a lui: è da molto tempo che gemo, coperto di piaghe, senza aver trovato un uomo al mondo capace di liberarmi; corre voce che voi otteniate tutto ciò che volete dal vostro DIO, … se volete domandargli la mia guarigione, io vi prometto che mi farò Cristiano. Ebbene! gli dice il Santo, se voi siete in questa determinazione, io vi prometto, da parte del DIO che io adoro, che è il Creatore del cielo e della terra, che dal momento che avrete distrutto tutti i vostri idoli, sarete perfettamente guarito. Il governatore gli dice: Oh! non solo io sono pronto a fare questo sacrificio, ma ancor di più se esso è necessario. Essendosi separati l’uno dall’altro, il governatore cominciò a distruggere i suoi idoli; l’ultimo che prese per eliminarlo, gli sembrò però così rispettabile, che non ebbe il coraggio di distruggerlo, e si persuase che questa riserva non impedisse la sua guarigione. Ma permanendo i suoi dolori più violenti che mai, andò a trovare il Santo facendogli i rimproveri più obbrobriosi perché, dopo aver distrutto i suoi idoli, come gli aveva comandato, ben lungi dal guarire, soffriva ancor di più. Ma – gli dice il Santo – li avete distrutti tutti senza riservarne alcuno? Allora egli lo prende e lo distrugge, e nello stesso istante è guarito. Ecco, fratelli cari, un esempio che ci ilumina sulla condotta di un numero pressoché infinito di perdone che si pentono di certi peccati, ma non di tutti e che, similmente a questo governatore, ben lungi dal guarire le piaghe che il peccato ha prodotto alla loro povera anima, ne fanno di più profonde; e fintanto che non avranno fatto come lui, distrutto cioè anche questo ultimo idolo, vale a dire infranto quella abitudine a certi peccati, finché non avranno lasciato quella cattiva compagnia, questo orgoglio, questo desiderio di piacere, questo attaccamento ai beni della terra, tutte le loro Confessioni non faranno che aggiungere crimini su crimini, sacrilegi a sacrilegi. Ah! DIO mio, che orrore e che abominio! Ed in questo stato essi vivono tranquilli, mentre il demonio prepara loro un posto nell’inferno! – Noi leggiamo nella storia un esempio che ci mostra quanto i Santi riguardassero questo dolore dei nostri peccati, come necessario per ottenere il loro perdono. Essendosi un ufficiale del Papa ammalato, il Santo Padre, che molto lo stimava per la sua virtù e santità, gli inviò uno dei suoi Cardinali per testimoniargli il dolore che gli causava la sua malattia, e nello stesso tempo applicargli le indulgenze plenarie. Ahimè, dice il morente al Cardinale, riferite al Santo Padre che io gli sono infinitamente riconoscente per la tenerezza del suo cuore verso di me, ma ditegli pure che io sarei infinitamente più felice se egli volesse domandare a DIO per me la contrizione dei miei peccati. Ahimè! esclamò, a cosa mi servirà tutto questo se il mio cuore non si lacera e si distrugge dal dolore per avere offeso un DIO così buono! O mio DIO! … Gridò questo povero morente, fate, se possibile, che il dolore dei miei peccati eguagli gli oltraggi che vi ho fatto! … Oh! Fratelli miei, quanto questi dolori sono rari, ed ahimè quanto rare sono le buone confessioni! Sì, fratelli miei, un Cristiano che ha peccato e che vuol ottenerne il perdono deve essere nella disposizione di soffrire le crudeltà più atroci, piuttosto che ricadere nei peccati che sta per confessare. 1° Io cerco di provarvelo con un esempio, e se, dopo esserci confessati, noi non siamo in queste disposizioni, nessun perdono … Leggiamo nella storia del quarto secolo che Sapore, imperatore dei Persiani, divenuto il più crudele nemico dei Cristiani, ordinò che tutti i sacerdoti che non adorassero il sole e non lo riconoscessero come Dio, sarebbero stati messi a morte. Il primo che fece prendere fu l’Arcivescovo di Seleucia, che era San Simone. Iniziò col provare a sedurlo con ogni tipo di promesse. Non potendo cavarne nulla, nella speranza di convincerlo, gli mostrò tutti i tormenti che la sua crudeltà aveva potuto inventare per far soffrire i Cristiani, dicendogli che, se la sua ostinazione gli faceva rifiutare quel che egli comandava, l’avrebbe fatto passare per sì atroci e rigorosi tormenti onde farlo obbedire, e per di più avrebbe eliminato tutti i Sacerdoti ed i Cristiani del suo regno. Ma vedendolo così fermo come roccia in mezzo ai mari battuti dalle tempeste, lo fece condurre in prigione nella speranza che il pensiero dei tormenti che gli venivano preparati, gli avrebbero fatto cambiare sentimento. Lungo il cammino egli incontrò un vecchio eunuco che era sovrintendente dal palazzo imperiale. Costui, preso da compassione nel vedere un santo Vescovo trattato tanto indegnamente, si prosternò davanti a lui per testimoniargli il rispetto per lui, di cui era pieno. Ma il Vescovo, ben lungi dal sembrare sensibile alla testimonianza rispettosa di questo eunuco, si voltò dall’altra parte per rimproverargli il crimine della sua apostasia, perché un tempo egli era Cristiano e Cattolico. A questo rimprovero che non si aspettava, egli fu così sensibile, gli penetrò sì vivamente il cuore, che nello stesso istante non fu più padrone delle sue lacrime, né dei suoi singhiozzi. Il crimine della sua apostasia gli sembrò così odioso, che dismise gli abiti bianchi di cui era rivestito e ne indossò dei neri, corse come un disperato a gettarsi fuori dalla porta del palazzo e là, darsi a tutti i rimorsi e ad dolore più lacerante. Ah! disgraziato, cosa stai per fare? Ahimè! Quali castighi devi aspettarti da Gesù-Cristo al quale hai rinunciato, se costui è stato così sensibile al rimprovero di un Vescovo che non è che il ministro di Colui che hai così ignominiosamente tradito … Ma l’imperatore avendo appreso tutto quel che succedeva, stupefatto da questo spettacolo, gli domandò: « Qual è la causa dunque del tuo dolore e di tante lacrime? » – Ah! piuttosto a Dio, egli esclamò, che tutte le disgrazie ed i malanni del mondo mi fossero tutti addosso, piuttosto ciò che è la causa del mio dolore. Ah! io piango per il fatto che non sia morto. Ah! potrò ancora guardare il sole che ho la sventura di adorare, temendo di dispiacervi? – L’imperatore che lo amava a causa della sua fedeltà, tentò se potesse convincerlo promettendogli ogni sorta di beni e di favori. – Ah! no, no, gridò: ah! sarò molto felice se posso, con la mia morte, riparare agli oltraggi che ho fatto a Dio, e ritrovare il cielo che ho perduto. O DIO mio e mio Salvatore, abbiate ancora pietà di me! Ah! se almeno avessi mille vite da darvi per testimoniarvi il mio rimorso ed il mio ritorno! – L’imperatore che sentì il linguaggio che teneva, moriva di rabbia e, disperando di poterlo convincere, lo condannò a morire tra i supplizi. Ascoltatelo … andando al supplizio: « Ah! Signore, quale felicità morire per voi; sì, DIO mio, se ho avuto la sventura di rinunciare a Voi, almeno avrò la felicità di dare la mia vita per Voi! » Ah! dolore sincero, dolore possente, che gli aveva tanto prontamente riguadagnato l’amicizia del mio DIO! … Leggiamo nella vita di Santa Margherita, che ebbe un sì grande dolore di un peccato che aveva commesso in gioventù, che ne pianse per tutta la vita: essendo ormai vicino alla morte, le si domandò quale fosse il peccato che aveva commesso e che le aveva fatto versare tante lacrime. « Ahimè! Esclamò ella piangendo, come potrei io non piangere! All’età di cinque o sei anni, ebbi la sventura di dire una bugia a mio padre. » Ma, le si disse, non c’era tanto di che piangere. « Ah! tenermi un simile linguaggio! Voi dunque non avete mai concepito ciò che è il peccato, l’oltraggio che si fa a DIO e i malanni che ci attira? » Ahimè, fratelli miei, cosa sarà per noi, se tanti Santi hanno fatto sentire i loro gemiti alle rocce ed ai deserti, hanno formato per così dire dei fiumi con le loro lacrime per peccati di cui noi ci facciamo gioco, mentre noi abbiamo commesso dei peccati mortali forse più numerosi dei capelli della nostra testa? E non una lacrima di dolore e pentimento! Ah! triste accecamento a cui ci hanno condotto i nostri peccati. – Noi leggiamo nella vita dei Padri del deserto, che un ladro chiamato Gionata, perseguito dalla giustizia, corse a nascondersi nei pressi della colonna di San Simeone Stilita, sperando che il rispetto che si teneva per il Santo, gli garantisse lo sfuggire alla morte. In effetti nessuno osò toccarlo; essendosi il Santo posto in preghiera per chiedere a Dio la sua conversione, nel momento stesso, egli risentì un dolore sì vivo dei suoi peccati, che per giorni e notti non fece che piangere. Il Santo gli disse: « Amico mio, tornate nel mondo a ricominciare con i vostri disordini. » – Ah! DIO mi preservi da questo malanno; io vi domando che fare per andarmene in cielo; io ho visto Gesù Cristo che mi ha detto che tutti i miei peccati mi erano perdonati dal gran dolore che ne ho sentito. – « Andate, figlio mio, gli disse il Santo; andate a cantare nel cielo le grandi misericordie di Dio per voi. » In questo momento egli cade morto, ed il Santo riporta egli stesso di aver visto Gesù-Cristo che conduceva la sua anima al cielo. O morte bella e preziosa, il morire con il dolore di avere offeso DIO! Ah! se almeno noi non moriamo di dolore come questi grandi penitenti, vogliamo fratelli miei, eccitarci ad una vera contrizione, imitiamo questa santo Vescovo morto ultimamente, che ogni volta che si presentava al tribunale delle penitenza per avere un vivo dolore dei propri peccati, faceva tre stazioni: la prima in inferno, la seconda in cielo, la terza sul Calvario. Dapprima portava il suo pensiero in questi luoghi di orrore e di tormento, e figurava di vedere i dannati che vomitavano torrenti di fiamme dalla bocca, che urlavano divorandosi gli uni con gli altri; questo pensiero gli ghiacciava il sangue nelle vene, e credeva di non poter più vivere alla vista di un tale spettacolo, soprattutto considerando che i suoi peccati avevano varie volte meritato questi supplizi. Da qui il suo spirito si portava nel cielo e faceva la rivista di tutti quei troni di gloria sui quali erano seduti i Beati, e si rappresentava le lacrime che essi avevano sparso e le penitenze che avevano fatto durante la loro vita per peccati così leggeri e che egli stesso aveva commesso tante volte senza far nulla per espiarli, cosa che lo faceva piombare in una tristezza così profonda che sembrava che le sue lacrime non potessero più asciugarsi. Non contento di tutto ciò dirigeva i suoi passi sul luogo del Calvario e là, man mano che i suoi sguardi si avvicinavano alla Croce, ove un DIO era morto per lui, le forze gli mancavano, restava immobile alla vista delle sofferenze che i suoi peccati avevano causato al suo DIO. In ogni istante lo si sentiva ripetere queste parole con dei singhiozzi: « DIO mio, DIO mio, posso mai vivere ancora considerando gli orrori che i miei peccati vi hanno causato? » Ecco, fratelli miei, ciò che possiamo chiamare una vera contrizione, perché vediamo che egli non considera i suoi peccati che in rapporto a DIO.

II. — Abbiamo detto che una vera contrizione deve racchiudere un buon proposito, cioè una ferma risoluzione di non peccare più per l’avvenire; occorre che la nostra volontà sia determinata e che non ci sia il benché minimo desiderio di allontanarsene; non si otterrà mai il perdono dei propri peccati se non vi si rinunzia con tutto il cuore. Noi dobbiamo essere nello stesso sentimento del santo Re-Profeta: « Sì, DIO mio, io vi ho promesso di essere fedele nell’osservare i vostri comandamenti: e vi sarò fedele con il soccorso della vostra grazia. » Il Signore stesso ci dice: « Che l’empio lasci la via delle sue iniquità ed il suo peccato gli sarà rimesso. » Non c’è da sperare misericordia se non per colui solo che rinunci ai suoi peccati di tutto cuore e per sempre, perché DIO non ci perdona fintanto ché il nostro pentimento non sia sincero e non facciamo tutti gli sforzi per non ricadervi. Sarebbe infatti beffarsi di DIO il domandargli perdono per un peccato che ancora si vorrebbe commettere.  – Ma, voi mi direte, come si può distinguere un fermo proposito da un desiderio debole ed insufficiente? Se desiderate saperlo, fratelli miei, ascoltatemi un istante e vado a dimostrarvelo: questo si può conoscere in tre maniere: 1° il cambiamento di vita; 2° la fuga dalle occasioni prossime del peccato, e 3° il lavorare con tutto ciò che si può per correggere e distruggere le proprie cattive abitudini. Dico innanzitutto che il primo risultato di un buon proposito, è il cambiamento della vita; è questo che ce lo mostra con maggior sicurezza ed è meno soggetto ad ingannarci. Veniamo ad una spiegazione: una madre di famiglia si accuserà di essersi spesso rivoltata contro i suoi figli o suo marito; dopo la sua Confessione, andate a visitarla all’interno del suo focolare domestico: non c’è più traccia di ribellione, né di maledizioni; al contrario vedete in ella quanta dolcezza, quanta bontà, il darsi pensiero anche per i propri inferiori; le croci, i dispiaceri e le perdite non le fanno perdere la pace dell’anima. E sapete perché ciò, fratelli miei? Eccolo: perché il suo ritorno a Dio è stato sincero, la sua contrizione perfetta, e di conseguenza ella ha ricevuto veramente il perdono dei suoi peccati; infine, la grazia ha messo delle radici profonde nel suo cuore ed ella ne trae frutti in abbondanza. – Una giovane donna verrà ad accusarsi di aver seguito i piaceri del mondo, le danze, le veglie serali ed altre cattive compagnie. Dopo la sua confessione, se questa è ben fatta, andate a cercarla in questa serata, a richiederla in queste occasioni di piacere e che cosa vi si dirà? « … da un po’ di tempo non la vediamo più; io credo che se volete trovarla, bisogna che andiate in chiesa, o a casa dei genitori. » In effetti, se andate dai suoi genitori, la troverete e … di cosa si occupa? Parlare di vanità come un tempo o a rimirarsi davanti ad uno specchio, o a folleggiare con altri giovani? Ah! No! Fratelli miei, non è più questo il suo operato, ella ha calpestato tutto ciò; voi la vedrete fare una lettura di pietà, aiutare sua madre nella conduzione delle faccende di casa, istruire i suoi fratelli e sorelle nell’obbedienza e nella premura verso i genitori; ella amerà la loro compagnia. Se non la trovate a casa, allora è in chiesa, la vedrete testimoniare a DIO la sua riconoscenza per aver operato in ella un sì gran cambiamento: vedrete in ella quella modestia, quel ritiro, quella premura per tutti, sia per i poveri che per i ricchi; la modestia si dipinge sulla sua fronte, la sola sua presenza vi porta a DIO. E perché questo, fratelli miei – mi direte – perché tanti beni in ella? Perché, fratelli miei, il suo dolore è stato sincero ed ella ha ricevuto veramente il perdono dei suoi peccati. – Altra volta sarà un giovanotto che sta per accusarsi di essere stato nei cabaret e nei giochi; ora che egli ha promesso a Dio di lasciare quel che a Lui potrebbe dispiacergli, mentre prima amava i cabaret ed i giochi, ora invece li rifugge. Prima della sua Confessione il suo cuore non era occupato che da cose terrene, cattive; al presente i suoi pensieri non sono che per DIO, ed hanno disprezzo per le cose del mondo. Tutto il suo piacere è intrattenersi con il suo DIO e pensare ai mezzi per salvare la propria anima. Ecco, fratelli cari, i segni di una vera e sincera contrizione; se dopo la vostra Confessione, sarete così, potrete sperare che la vostra Confessione sia stata buona ed i vostri peccati perdonati. Ma se fate tutto il contrario di ciò che vi ho appena detto, se qualche giorno dopo le Confessioni, si vede questa giovane che aveva promesso a DIO di lasciare il mondo ed i suoi piaceri per non dedicarsi che a piacergli, se la vedo, come prima, in questi ritrovi mondani; se vedo questa madre maldisposta e negligente verso i suoi figli ed i domestici, litigiosa con i vicini come prima della Confessione; se io ritrovo questo giovanotto di nuovo ai giochi ed ai cabaret, o orrore! O abominio! O mostro di ingratitudine che sei! O DIO grande! In quale stato è questa povera anima! O orrore! O sacrilegio! I tormenti dell’inferno saranno lunghi e rigorosi per punire un tale attentato.

2° Diciamo ora che il secondo risultato di una vera contrizione è la fuga dalle occasioni prossime del peccato. Ve ne sono di due tipi: gli uni vi portano per se stessi, come sono i libri cattivi, le commedie, i balli, le danze, le pitture, i quadri o le canzoni disoneste, e la frequentazione di persone di sesso differente; le altre sono occasione di peccato per le cattive disposizioni di coloro che vi sono: come i cabarettisti, i mercanti che ingannano o vendono nelle domeniche; una persona in un impiego per cui non compie i suoi doveri sia per rispetto umano sia per ignoranza. Che deve fare una persona che si trova in una di queste situazioni? Eccolo: ella deve lasciare tutto, a qualunque costo, senza salutare nemmeno! Gesù-Cristo ci ha detto che se il nostro occhio o la nostra mano ci scandalizzano, dobbiamo strapparli e gettare lontano da noi, perché – ci dice – è molto meglio andare in cielo con un braccio ed un occhio solo, che essere gettati nell’inferno con tutto il corpo; vale a dire, a qualsiasi costo, qualunque sia la perdita che ne abbiamo, non dobbiamo omettere il lasciarle; senza di questo, nessun perdono.       

3° Diciamo ancora che il terzo segno di un buon proposito, è il lavorare con tutto ciò che si può, per distruggere le cattive abitudini. Si chiama abitudine la facilità che si ha nel ricadere nei vecchi peccati. Bisogna allora: vegliare accuratamente su se stesso, fare spesso delle azioni che siano contrarie: così se siamo soggetti all’orgoglio, bisogna applicarsi a praticare l’umiltà, esser contenti di venire disprezzati, non cercare la stima del mondo, sia nelle parole, sia nelle azioni; credere sempre che ciò che facciamo sia fatto male; se facciamo bene, rappresentarci che siamo indegni che Dio si serva di noi, non guardandoci nel mondo che come una persona che non faccia che disprezzare DIO durante la sua vita, e che meritiamo ben più di quanto si possa dire di male di noi. Siamo soggetti alla collera? Bisogna praticare la dolcezza, sia nelle parole, sia nella maniera di comportarci verso il prossimo. Se siamo soggetti alla sensualità bisogna mortificarci nel bere, nel mangiare, nelle nostre parole, nei nostri sguardi, imporci delle penitenze ogni volta che ricadiamo. E se non prendete queste precauzioni, tutte le volte che commetterete nuovamente i vostri peccati, potrete concludere che tutte le vostre Confessioni non valgono a nulla e non avete fato che sacrilegio, crimine sì orribile, per il quale sarebbe impossibile poter vivere se ne conosceste tutta l’orribile natura, la tenebrosità, le atrocità … Ecco la condotta che dobbiamo tenere, facciamo come il figliuol prodigo che, colpito dallo stato in cui i suoi disordini lo avevano sprofondato, si assoggettò a tutto ciò che suo padre esigeva da lui per avere la felicità di riconciliarsi con lui. Innanzitutto lasciò su due piedi il paese in cui aveva provato tanti mali, e le persone che per lui erano state occasione di peccato; non si degnò nemmeno di guardarle, ben convinto che non avrebbe avuto la felicità di riconciliarsi con suo padre se non quando si fosse allontanato da esse: di modo tale che dopo il suo peccato, per mostrare a suo padre che il suo ritorno era sincero, non cercò se non di fargli piacere facendo tutto il contrario di ciò che aveva fatto fino al presente.  – Ecco il modello sul quale noi dobbiamo conformare la nostra contrizione: la conoscenza che dobbiamo avere dei nostri peccati, il dolore che dobbiamo averne, devono metterci nella disposizione di sacrificare tutto per non ricadere nei nostri peccati. Oh! Quanto rare sono queste contrizioni: Ahimè! Dove stanno coloro che sono pronti ad intraprendere la medesima via, piuttosto che commettere di nuovo i peccati che hanno già confessato? Ah! non saprei! Ahimè! Quanti al contrario, dice San Giovanni Crisostomo, non fanno al contrario che delle confessioni da teatro, che cessano di peccare per qualche istante senza lasciare interamente il peccato; questi sono, ci dice, simili a quei commedianti che rappresentano combattimenti sanguinosi ed accaniti, e sembrano accusare colpi mortali. Vi si vede uno che è abbattuto, steso, sanguinante: sembrerebbe veramente che abbia perso la vita, ma … aspettate che la tela si abbassi, e lo vedrete rialzarsi pieno di forza e di salute, sarà come era prima della rappresentazione teatrale. Ecco precisamente – ci dice – lo stato in cui si trova la maggior parte delle persone che si presentano al tribunale della penitenza. A vederli sospirare e gemere sui peccati che accusano, voi direste che veramente essi non sono più gli stessi, che si comportano in maniera tutta diversa di quanto abbiano fatto fino al presente. Ma ahimè, aspettate, io non dico cinque giorni, ma uno o due giorni, li ritroverete simili a prima della Confessione: stesso comportamento, stessa vendetta, stessa avidità, medesima negligenza nei doveri verso la Religione. Ahimè! Quante Confessioni e cattive Confessioni! Ah! Figli miei, ci dice San Bernardo, volete avere una vera contrizione dei vostri peccati? Voltatevi dal lato di questa Croce ove il vostro DIO è stato inchiodato per l’amore verso di voi; ah! piuttosto vedrete scorrere le vostre lacrime, ed il vostro cuore si lacererà. In effetti, fratelli miei, quel che fece versare tante lacrime a Santa Maddalena, la quale fu nel suo deserto, ci dice il grande Salviano … , non fu altra cosa che la vista della Croce. Noi leggiamo nella sua vita che, dopo l’Ascensione di Gesù-Cristo, essendosi ritirata in solitudine, domandò a DIO la gioia di piangere per tutta le vita le colpe della sua giovinezza. Dopo la sua preghiera, San Michele Arcangelo le apparve presso la  sua solitudine, piantò una croce davanti alla sua porta, ella si gettò ai piedi come aveva fatto sul Calvario, pianse per tutta la sua vita con tale abbondanza che i suoi occhi erano simili a due fontane. Il grande Ludolfo riporta che un solitario chiedeva un giorno a DIO cosa potesse essere più capace di scuotere il suo cuore per piangere i suoi peccati. In questo momento, DIO gli apparve così com’era sull’albero della Croce, tutto coperto di piaghe, tremante, caricato di una pesante Croce, dicendogli: « guardami, il tuo cuore fu più duro delle rocce del deserto, esso si struggerà e non potrà più vivere alla vista dei dolori che i peccati del genere umano mi hanno causato. » Questa apparizione lo toccò talmente che fino alla sua morte, la sua vita non fu che una vita di lacrime e di singhiozzi. Molto spesso si rivolgeva agli Angeli ed ai Santi, pregandoli di venire a piangere con lui sui tormenti che i suoi peccati avevano causato ad un DIO così buono. – Leggiamo nella storia di San Domenico, che un religioso, chiedendo a DIO la grazia di piangere i propri peccati, Gesù-Cristo gli apparve con le cinque piaghe aperte, e il sangue scorreva in abbondanza. – Nostro Signore, dopo averlo abbracciato, gli disse di avvicinare la sua bocca all’apertura delle sue piaghe; egli ne sentì tale felicità che non poteva comprendere come i suoi occhi potessero versare tante lacrime. Oh! Come erano felici, questi penitenti, fratelli miei, di trovare tante lacrime per piangere i propri peccati, temendo poi di piangerli nell’altra vita! oh! Qual differenza tra essi ed i Cristiani dei giorni nostri che hanno commesso tanti peccati! E nessun rimorso o lacrime! … Ahimè, cosa diverremo? Quale sarà la nostra dimora? Oh! Quanti Cristiani perduti perché bisogna piangere i propri peccati o in questo mondo o andarli a piangere negli abissi! Cosa dobbiamo concludere da quanto detto, fratelli miei? Eccolo: è il domandare incessantemente a DIO questo orrore del peccato, il fuggire le occasioni del peccato e non perdere mai di vista che i dannati non bruciano e non piangono nell’inferno se non perché non si sono pentiti dei loro peccati in questo mondo, che essi non hanno voluto lasciare. No, quanto grandi possano essere i sacrifici che abbiamo da fare, essi non devono esser capaci di trattenerci; bisogna assolutamente combattere, soffrire e gemere in questo mondo, se vogliamo avere l’onore di andare a cantare le lodi di DIO per tutta l’eternità: è la felicità che vi auguro.

LO SCUDO DELLA FEDE (56)

LO SCUDO DELLA FEDE (56)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

FALSITA’ DEL PROTESTANTESIMO

CAPITOLO VI.

 È FALSO IL PROTESTANTISMO PERCHÈ NON HA UNITÀ.

Non solamente è nuovo il Protestantismo, il che è un gran segno di falsità, ma è ancora una Religione che varia in infinito: prova innegabile che è un’invenzione umana. Imperocché come stabilì Gesù Cristo la sua Religione? Egli insegnò un gran numero di verità preziosissime, che riguardano la grandezza e maestà di Dio uno e trino, la grande opera della Redenzione fatta da Gesù Cristo, la natura della S. Chiesa, i Santi Sacramenti che sono la fonte della grazia, il divin Sacrifizio per onorare perfettamente Iddio, e così andate voi discorrendo, tutto quello che dobbiamo credere, praticare, sperare, temere ed amare. Tutte queste cose Gesù le determinò, le fece certe con la sua rivelazione. Volle poi che nella credenza di tutte queste verità, noi fossimo pienamente d’accordo fra noi. San Paolo scriveva che tutti parlassimo e sentissimo ad un modo [2 Cor. XIII, 11]: che Dio non è autore della discordia ma della pace (1. Cor. XIV, 33); che uno è il Signore, uno è il Battesimo, una la Fede, uno Iddio e Padre di tutti (Ephes. IV, 8). Gesù Cristo sempre pregò, perché noi fossimo d’accordo, che mantenessimo l’unità (Ephes, IV, 4). Ci avvertì che ogni regno fra sé diviso sarebbe stato desolato (Luc. XI, 17), che finalmentetutti dovevamo costituire un solo ovile sotto un solo pastore (Ioan. X, 16). Tutto ciò è indubitato dalla Sacra Scrittura. E però è anche indubitato che quella sola Religione è la vera, che tenne sempre e che tiene tutte queste verità e le tiene in una perfettissima concordia ed unità. Chi è convinto d’aver cambiato dottrina anche una volta sola, costui è convinto che forse nell’uno e nell’altro cambiamento ma certo in uno dei due non ha la verità. Non può esser vero nell’istesso tempo il sì ed il no: non può una cosa esser tutto insieme e bianca e nera: e così Gesù Cristo o ha rivelata o non ha rivelata una verità, e questa verità l’ha rivelata di un modo oppure di un altro. Non è egli chiaro? Ma dunque il Protestantesimo che ammette e nega la stessa cosa, che oggi difende quel che domani impugna, che dice e disdice ogni proposizione, che varia Catechismi, riti, pratiche con un moto e variazione perpetua, non è e non può essere la verità. – Ora di qua scendono due belle conseguenze. Avvertitele bene. Una è che dunque tutta la presunzione di possedere la verità è tutta in favore di noi Cattolici i quali abbiamo una stessa professione di fede che è comune a tutto l’Universo e che dura da tutti i secoli, come abbiam veduto sopra. Oh se sapeste che bello spettacolo è mai questo! In tutta la terra i Cattolici parlano allo stesso modo e credono le stesse verità, e sottopongono il capo all’ìstesso supremo Pastore. Nel fondo dell’America quei poveri selvaggi fatti Cattolici, credono quel che credono in Roma, quello che credono in Francia i Cattolici, lo credono i Cattolici dell’Italia, del Belgio, dell’Austria, della Germania, dell’Inghilterra. In tutti i porti, in tutte le isole, nei paesi anche i più barbari, basta che vi sia un Cattolico, perché creda tutto quello che crediamo noi. Con noi sono il Sommo Pontefice, con noi tanti Sacerdoti, con noi tutto il gran corpo dei Cattolici che salgono a più di dugento milioni. Questa è la vera fratellanza, la vera unione. Qui si vede verificato quello che Gesù Cristo aveva tanto raccomandato che fossimo tutti una sola cosa in Lui; quello che il S. Apostolo Paolo inculcava dicendo che sentissimo tutti allo stesso modo e che non fossimo fra noi divisi; quello che Gesù Cristo presso alla morte aveva chiesto al suo divin Padre, che fossimo con lui una cosa sola; quello che per grand’elogio fu detto di noi Cristiani dall’Apostolo S. Paolo, che siamo un corpo solo ed un solo spirito, che vi ha un solo Dio, una sola Fede, un solo Battesimo, perché vi ha un solo Padre e Signore di tutti. Alla vista di questo spettacolo cosi bello, se voi aggiungete quel che abbiamo detto di sopra, che quelle verità, che noi teniamo al presente, furono tenute da tutte le generazioni cattoliche che ci precedettero da Gesù Cristo in qua, voi non potrete non ammirare e ringraziare la bontà di Dio, che ha fatto nascere nella S. Chiesa Cattolica la quale ha tanto sicure prove di verità. – L’altra conseguenza che dovrete pur trarre si è che dunque i Protestanti sono in errore, perché sono sempre tra loro divisi. Voi non vi accorgete di questa loro divisione, perchè non conoscete altro che quei maestrucoli disgraziati che vi parlano: ma se conosceste le loro discordie e guerre intestine, vi sentireste muovere a dispetto e ad indignazione. Attendete. Martin Lutero fu il primo a piantare il Protestantesimo, ma subito ebbe una gran guerra coi suoi primi seguaci che lo condannarono. Zuinglio, Carlostadio etc. lo contraddissero acerbamente. Sorse quasi nello stesso tempo un altro capo per nome Calvino e fece la guerra al primo, ed ebbe ancor egli tutti i suoi seguaci che lo oppugnarono. Dietro a questi primi venne Arrigo VIII ed anch’egli seminò discordie e divisioni. Sulla scorta di questi maestri d’errore ne sorsero altri e poi altri, e ciascuno di loro fabbricava una nuova credenza a suo modo. Di che i Protestanti cominciarono a separarsi in tante sette tutte ostili fra di sé: l’una condannava quel che diceva l’altra: si scomunicavano a vicenda, chiamandosi Eretici gli uni gli altri, si perseguitavano, s’investivano e perfino si bruciavano e scannavano quando il potevano. Sopra ogni punto vi era una dottrina speciale, la quale cambiavano ogni anno. E quello che hanno fatto negli anni passati lo fanno anche adesso. Se voi viaggiaste pei paesi protestanti, voi trovereste che le Religioni presso di loro nascono come i funghi. Ogni capo leggero e superbo presume di essere maestro e di tenere tutti per scolari. Dei sarti anche ivi, dei calzolai e perfino delle donnicciole inventano nuove religioni. Di che si trova talvolta che in una famiglia di sei o sette persone vi sono sei o sette religioni diverse. Questo caso tra i Protestanti degli Stati Uniti è tutt’altro che raro. Ed ora ci vogliono vendere questa Babele, questo disordine, questa confusione, questo ammasso di errori, per la vera Religione di Gesù Cristo! Ci vuole pure una fronte di bronzo per fare questi inviti! Sapete quel che rispose un uomo savio, una volta che fu richiesto di farsi Protestante da uno scellerato? Io mi farò Protestante, egli rispose, quando voi mi saprete dire il numero delle sette in che siete divisi voi, e la ragione per cui io debba credere piuttosto a voi che ai vostri avversari.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (15): Il Sacro Cuore di Gesù e l’Incarnazione

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Ed. Torino,1920Imprim. Can. F. Duvina, Torino, 19 giugno, 1920]

DISCORSO XV.

Il Sacro Cuore di Gesù e l’Incarnazione.

Vi è una pagina del Santo Vangelo, che sant’Agostino avrebbe desiderato, che a caratteri d’oro venisse scolpita su tutte le chiese della terra. Questa pagina è la prima del Vangelo di S. Giovanni, ove quest’aquila degli Evangelisti, sollevando il suo volo sino all’altezza dei cieli, incomincia col dichiarare « l’inenarrabile » generazione del Verbo e termina col metterci innanzi « il grande mistero nascosto ai secoli il Dio, » il mistero della divina Incarnazione. « In principio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio. Tutto fu fatto per Lui, e nulla fu fatto senza di Lui, e tutto ciò che fu fatto era vista in Lui …. E questo Verbo si fece carne ed abitò fra di noi, e noi abbiamo veduto la sua gloria, gloria del Figlio Unigenito del Padre, e ci apparve pieno di grazia di verità. » – Or bene, questo mistero principalissimo di nostra santa Religione, questo mistero così grande, così sublime, questo mistero, che ci dice quanto Iddio abbia amato l’uomo, che costituisce della carità divina per l’uomo la dimostrazione e la prova grande e classica per eccellenza, con maggior eloquenza ed efficacia, che non dalla prima pagina di S. Giovanni ci viene simboleggiato e predicato dal Cuore Sacratissimo Gesù. Ed in vero già molti secoli innanzi, Iddio annunziando agli uomini i mirabili effetti di tanto mistero, per mezzo del profeta Ezechiele aveva detto: E darovvi un nuovo cuore, porrò in mezzo a voi un nuovo spirito, e togliendo dalle vostre viscere il cuore di pietra, vidarò un cuore di carne: Dabo vobis cor novum … dabo vobis cor carneum, (XXXIX, 26) come per dire: Io muterò i vostri cuori così duri e così insensibili all’amor di Dio, e li ammollirò col metter loro innanzi il Cuore di carne di un Dio, che parlandovi della carità immensa, che questo Dio vi ha dimostrato nell’incarnarsi per voi, vi costringerà quasi per forza ad amarlo. Miei cari, dopo tutto ciò che abbiamo studiato intorno alla devozione del Sacro Cuore è tempo ornai che ci mettiamo in devota contemplazione di questo Cuore Sacratissimo. Ma questa contemplazione non ha da essere né inerte, né sterile. Gesù Cristo nel mostrare il suo Cuore a Santa Margherita Alacoque, dicendole: « Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini, » non glielo mostrò nudo e spoglio, quale si trova nell’umano petto. Ma invece glielo fece vedere sopra un trono di fiamme, contornato di spine, sormontato dalla Croce e con una larga ferita nel mezzo. E ciò fece Egli forse a caso? Oh no certamente! Con tutti questi simboli Egli volle indicarci la sua immensa carità per noi sia nel suo complesso sia nelle prove particolari. Epperò sono queste prove di carità che nella contemplazione del Cuore di Gesù e de’ suoi simboli dobbiamo metterci a meditare. E la prima che tra di esse ci si affaccia è appunto la Incarnazione redentrice. La Chiesa nel suo primo inno ad onore del Sacro Cuore di Gesù lo canta espressamente: « O autore beato del mondo, o Cristo di tutti Redentore, Lume dal Lume del Padre, Dio vero da Dio, fu il tuo amore che t’indusse a prendere un corpo mortale per riparare, novello Adamo, il danno cagionato dal primo: Amor coegit te tuus | Mortale corpus sumere \ novus Adam redderes | Quod vetus Me abstulerat. Prendiamo adunque oggi a considerare la gran prova di carità che ci ha dato Gesù Cristo nell’incarnarsi e farsi uomo per la nostra salute.

I. — Iddio da tutta l’eternità era infinitamente beato in se stesso, né aveva alcun bisogno di uscire dalla solitudine e creare. L’amore tuttavia ve lo indusse. Ed ecco, al suono dell’onnipotente suo fiat, uscir fuori la terra ed il cielo con tutte le loro immense meraviglie, sole, luna, stelle, mari, fiumi, laghi, montagne, piante, erbe, fiori, animali, quadrupedi, uccelli, pesci e rettili. Tutto ciò Egli faceva in sei giorni, o sei epoche, i cui la scienza ad onta delle sue ricerche non è ancora riuscita a determinare la durata. Ma a tutto ciò mancava ancora l’opera più bella. E d ecco che Iddio con infinito amore disse: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza.» E come disse, così fece: creò Adamo ed Eva; né contento di ciò li elevò ad uno stato soprannaturale, arricchendoli di grazia, di integrità, di scienza meravigliosa, e facendoli esenti dalla morte e da ogni miseria dell’anima e del corpo. In questo stato, dopo un tempo da Dio stabilito, avrebbero abbandonato questa terra in una dolce estasi di amore divino per passare ai godimenti del cielo per .tutta l’eternità. E tutto ciò Iddio aveva per tal modo congiunto alla natura umana, che i nostri progenitori, generando in quello stato soprannaturale dei figliuoli, insieme colla vita naturale avrebbero in loro trasfusi quegli stessi tesori di grazia, che essi possedevano. Ecco la condizione sublime, in cui il Signore volle costituire da principio i nostri progenitori; condizione che la Chiesa con una frase complessiva chiama giustizia originale. Tuttavia, quasi non bastasse ancora alla bontà ineffabile di Dio, prese per mano i nostri progenitori e li condusse a prender possesso del Paradiso terrestre e a farne il loro speciale soggiorno. Era questo un giardino deliziosissimo irrigato da limpidissimi fiumi e fornito di ogni sorta di piante belle a vedersi e di frutti dolci a mangiarsi, e persino di un albero chiamato della vita, i cui frutti dovevano servire a mantenere l’uomo in una perfetta giovinezza. Oh vita felicissima che doveva esser quella! Qual fortuna lo stare in seno a Dio, e trattare dimesticamente con Lui! Che bel respirare sotto un cielo sempre puro e splendido, non mai intorbidato di lampi, non mai armato di fulmini! Che bel godere sopra una terra, sempre fragrante di primavera, sempre ridente di fiori e di frutti! E poi quel comandare tutto intorno al creato, ai pesci del mare, agli uccelli dell’aria, alle fiere della foresta, e il farsi venire innanzi ora un leopardo, ora una pantera, ora un leone, e averli sotto la mano docili, miti, scherzevoli come agnelli! Oh che incanto! quale felicita! Ma ad un patto, E quale? « Tedi tu, disse Iddio ad Adamo, quell’albero in mezzo a questo Paradiso? È l’albero della scienza del bene e del male. Mangia pure di ogni frutto delle altre piante. Ma del frutto di quell’albero non mangiarne, imperocché in qualunque giorno ne mangerai, indubbiamente morrai. » Ecco la prova che Iddio esige dai nostri progenitori. E qui non vogliate, o miei cari, come taluni, giudicare questa prova come un gioco indegno della grandezza divina. Poiché v’hanno di quelli, i quali ripieni di leggerezza mondana ci dicono, deridendoci, che noi basiamo tutto l’ordinamento del mondo sopra il pomo d’Adamo. Nossignori! noi lo basiamo sulla fede alla parola di Dio e sulla obbedienza alla sua santa volontà. Imperciocché l’albero della scienza del bene e del male era desso nulla più che un albero? Esso era ben altro ancora. Esso era pure un’idea, un simbolo, il limite morale, che Dio aveva posto alla sovranità dell’uomo per provare, nella fede alla sua divina parola e nell’obbedienza al suo divin volere, se Adamo rispondeva ai suoi, benefizi con gratitudine e amore. Là in quell’albero doveva riconoscere, che se era re del mondo visibile, era tuttavia vassallo di Dio. Epperò mentre la proibizione di quel frutto, per una parte si indirizzava ai nostri sensi del corpo, per l’altra si riferiva alle facoltà dello spirito, esigendo per tal guisa una prova da tutto quanto l’uomo, che è corpo e spirito. Or bene, dice S. Agostino, qual precetto più breve da ricordarsi e più facile da eseguirsi? Eppure… quel precetto fu dimenticato e trasgredito. La donna ingannata dal serpente infernale spiccò del frutto vietato, ne mangiò essa, ne diede al marito, il quale ne mangiò esso pure. Così fu consumata la colpa fatale, e Dio non tardò a punirla pronunciando contro i nostri progenitori la condanna, che loro aveva minacciato. E a tale condanna Adamo perde l’originale giustizia e il diritto che aveva al cielo; diventa schiavo di satana e meritevole dell’inferno; e l’ignoranza, l’inclinazione al male, la morte e tutte le altre miserie si scagliano contro dl lui per castigarlo. E in quello stato di scadimento e di dannazione vengono al mondo tutti i suoi discendenti, perciocché egli non può più trasmettere ai suoi figli ciò che ha perduto e tutti gli uomini, secondo l’insegnamento di S. Paolo, sono morti in Adamo, e per natura figliuoli di ira. Quale adunque sarà la sorte dell’umanità? Dovrà essa irreparabilmente perire? Senza dubbio Iddio avrebbe potuto stabilire così. Ma così non volle. Dando alla giustizia quanto chiedeva, volle dare altresì ciò che chiedeva là misericordia,  volle cioè scampare l’umanità dall’eterna rovina. E come? Perdonando senz’altro le iniquità degli uomini senza veruna soddisfazione, oppure anche accontentandosi di una soddisfazione inadeguata alle loro colpe? Certamente anche ciò poteva farlo. Ma in tal caso non sembra che, almeno dinnanzi ai nostri occhi, la sua giustizia avrebbe perduto alcunché del suo splendore? Comunque sia la cosa, egli è corto, che Iddio stabilì di rialzare gli uomini dal loro stato di colpa è di dare agli stessi la salute, esigendo della colpa una adeguata riparazione. Ora se il peccato, come dice S. Tommaso, per ragione della maestà influita di quel Dio, contro del quale è rivolto, riveste una cotale infinità di milizia e se al dir di S. Paolo (Hebr. IX,22) non vi ha remissione senza spargimento di sangue, come mai il peccato poteva essere adeguatamente riparato? Forse col sangue di migliaia e migliaia di animali scannati sugli altari ed offerti in sacrificio di espiazione a Dio? Così credette l’umanità, e così credendo moltiplicava ogni anno le sue ecatombi. Ma indarno! essendo impossibile, come ancora si espresse S. Paolo, (Hebr. X, 4) che col sangue dei tori e dei capri si tolgano i peccati. Ed in vero, che cosa è mai il sangue anche di tutti gli animali del mondo per riparare adeguatamente una colpa di malizia infinita? Allora forse si riparerà con lo spargere il sangue degli uomini? Anche ciò si credette dagli antichi, e non esagero punto dicendo, che a tal fine furono immolate milioni di vittime umane. Talvolta erano uomini colpevoli, il più delle volte prigionieri di guerra, i quali rivestiti di abiti regali, adorno il capo di sacre bende, erano condotti agli altari, ed ivi fra il suono delle cetre e il canto dei sacerdoti venivano crudamente sacrificati. E quando sii pensò, che ciò non fosse ancor bastante per placare il cielo sdegnato si ricorse alle vittime innocenti. Teneri bambini, pudiche verginelle erano dessi, nel cui cuore si piantava il coltello nella folle e vana speranza di farne sgorgare un sangue riparatore. Ma come mai potevano piacere a Dio questi esecrandi delitti? Qual compenso potevano dargli del peccato commesso? Vi era forse una adeguata riparazione? No, assolutamente. Il sacrificio di tutto il genere umano non sarebbe bastato; perché richiedevasi una soddisfazione di una infinita efficacia. Era dunque necessario, che una tal soddisfazione fosse data da chi solo poteva darla, cioè da Colui che è infinito, ossia da Dio medesimo. Ma Iddio poteva egli patire e versare il sangue? No, o miei cari. Dunque la persona destinata a dare la conveniente riparazione del peccato non bastava che fosse Dio, bisognava ancora che fosse uomo, affinché come uomo potesse patire e morire; era necessario insomma, che la vittima d’espiazione di tutti i peccati degli uomini fosse ad un tempo uomo e Dio, uomo per potere acquistar meriti al cospetto di Dio, Dio per comunicare ai propri meriti un valore infinito, nella considerazione dei quali Iddio placasse la sua collera e ridonasse agli uomini la salute. Or bene questa vittima umana divina, che sola poteva salvare l’umanità peccatrice, che realmente l’ha salvata, è appunto Gesù Cristo, Verbo incarnato. Egli, con la sua divina Incarnazione entrando nel mondo, senza lasciare di essere vero Dio e prendendo ad essere vero uomo, congiunsein una sola Persona le due nature umana e divina. Ma questo divin Verbo non ha assunto l’umanità sana, impassibile, immortale, quale era nello stato d’innocenza: Egli l’ha assunta debole, malata, soggetta ai patimenti ed alla morte, quale era divenuta dopo il peccato. Egli ha preso una carne, dice S. Paolo, che senza essere intaccata dal peccato, aveva però tutta la esterna rassomiglianza con la carne del peccato: In similitudinem carnis peccati, (Rom. VIII, 3) e quindi capace di soffrire e di morire. Né solamente prese una carne esternamente simile a quella del peccato, ma sebbene « santo, innocente, senza macchia, segregato dai peccatori, » (Hebr. VII, 26)si sostituì al genere umano colpevole e, senza aver mai conosciuto il peccato, divenne, secondo l’energica espressione dell’Apostolo, il peccato vivente, (Cor. V, 21) poiché fece sue tutte le disobbedienze, tutte le ribellioni, tutte le empietà, tutti i sacrilegi, tutte le bestemmie, tutte le crudeltà, tutte le ingiustizie, tutte le brutture, tutte le colpe insomma che si commisero e si commetteranno da quel giorno, in cui prevaricò Adamo sino a quello in cui il mondo arso e distrutto darà principio all’eternità. Quindi è Lui, sopra del quale il divin Padre, sdegnato per le iniquità degli uomini, scatena le folgori della sua collera divina; è Lui, che nasce nella povertà di una spelonca, che, perseguitato a morte fin dal suo primo apparire su questa terra, prende la via dell’esilio, che per trent’anni soffre la fatica e gli stenti in una oscura bottega, che per tre anni è deriso, disprezzato, calunniato, cercato a morte. È lui, che agonizza in un orto trasudando vivo sangue, che è caricato di catene, satollato di obbrobri, trascinato come vile malfattore davanti ai tribunali, sputacchiato, flagellato, coronato di spine, calpestato. È lui, che è caricato d’una pesante croce, e la porta sulla vetta di un monte, che è spogliato nudo, inchiodatovi sopra, che fra i più atroci tormenti versa il suo sangue divino e muore, esclamando con ragione: Consummatum est: tutto è consumato; la redenzione dell’uman genere è compiuta! Sì, la redenzione del genere umano è compiuta, perché sotto le pelli odiose di Esaù, come osserva il grande S. Agostino, sotto il velo della carne di peccato, il vero Giacobbe, il Verbo eterno, ha conservato la sua voce divina, la santità, i meriti, i diritti, la dignità di Figlio di Dio. Ed essendo vero Dio ha potuto dare alle sue umiliazioni, ai suoi dolori, alla sua morte il valore e il merito munito delle azioni di Dio, ed offrire a Dio una soddisfazione infinita. E fu in questo modo, come aveva vaticinato Davide, che la verità dei decreti di Dio e la misericordia per l’uomo si andarono incontro, che la giustizia e la pace si baciarono a vicenda: Misericordia et veritas obviaverunt sibi: iustitia et pax osculatæ sunt;(Ps. LXXXIV, 11) fu così che ad ogni uomo di buona volontà venne restituita la grazia e l’amicizia di Dio, la vita, la libertà, la pace, l’onore e la fecondità dell’anima; fu così che venne strappato lo scettro alla morte, che fu rovinato l’impero di satana, che fu chiuso l’inferno a chi non si ostina di volervi discendere, che fu aperto il Paradiso a quanti vi vogliono entrare; fu così insomma che venne operato il grande mistero della nostra redenzione. O mio caro Gesù, vero Dio e vero uomo, come potrò io riguardare il simbolo del vostro Cuore, che così efficacemente mi parla della redenzione nostra, e non sentirmi commosso nelle più profonde viscere? Come potrò io pronunciare il vostro nome adorabile, che significa la mia salute, e non erompere nel più nobile e sublime cantico di gratitudine? Come potrò mirarvi così amante dell’anima mia e non istruggermi ancor io d’amore per voi?

II. — Ma se il simbolo del Cuore di Gesù Cristo ci dice con tanta efficacia, che il divin Verbo si è incarnato per operare la nostra salute, con efficacia non minore ci dice in secondo luogo, che si è incarnato per togliere la nostra miseria. Dopo il peccato di Adamo, la miseria di mente e di cuore, in cui cadde l’umanità, fu veramente orribile. In breve oscuratasi la vera nozione di Dio, dalla maggior parte degli uomini si cadde nella più turpe idolatria, adorandosi come divinità statue di legno, di pietra, di metallo, ed anche mostri irragionevoli ed altre cose insensate. Anzi per siffatto riguardo si calò così al basso, da supporre negli dei le più ributtanti passioni e da ritenere quale divinità gli stessi vizi e delitti. Quindi nelle loro più infami laidezze i pagani, a chi avesse cercato di riprenderli e farli vergognare delle loro turpitudini, potevano rispondere: Ciò che è lecito agli dei, perché deve essere illecito per noi? E per questo appunto satana faceva adorare i mostri di iniquità, perché gli uomini commettessero senza ripugnanza ogni sorta di scelleraggini. E così accadeva pur troppo, come attesta S. Paolo: « Gli uomini erano ricolmi di ogni iniquità, di malizia, di dissolutezza, di avarizia, di malvagità, di invidia, di omicidio, di frode, senza amore, senza legge, senza compassione. (Rom. I , 29) Si getti puro lo

sguardo sopra le città più famose: Ninive, Babilonia, Corinto, Efeso, Roma. Si entri pure nei palagi, nelle scuole, nei teatri e persino nei templi, ma da per tutto vedrete nefandità orribili. Vedrete l’uomo individuo impazzito sino al punto da voler essere riputato un Dio e volere come Dio altari, sacrifici ed incensi; talmente avvilito da lasciarsi dietro di gran lunga le bestie nei raffinamenti e negli abissi del male. Sardanapalo, Baldassarre, Nabucodònosor, Tiberio, Nerone, Eliogabalo, Vitellio, Lucullo sono nomi che dicono tutto. E insieme con l’individuo decaduta miseramente anche la famiglia! Il padre è un vero tiranno. La donna è stimata un nulla, tradita, disonorata, malmenata, ripudiata, venduta senza alcun riguardo per la sua dignità di sposa e di madre. Ma alla sua volta essa inferocisce contro dell’uomo, e se si vede ad un tratto il capo di casa impallidire e cadere esanime alla mensa, gli è, che al solo tempo di Cesare cento e settanta mogli avvelenarono i loro mariti. Il bambino che nasce, è palpato a guisa di un bruto e, se non promette di essere uomo robusto, è spietatamente dannato alla morte, e lo si getta a perire nel fondo delle cloache o nei campi ad essere divorato dai cani. I vecchi e gli infermi, come gente inutili, o sono precipitati da altissime torri, o sono scannati, cotti e mangiati per delizia in qualche convito fra i congiunti, sono rinchiusi in qualche isola a perire miseramente di dolore e di fame. Lo schiavo poi trattato come una bestia da soma, e la sua vita rimessa interamente al più stupido capriccio del suo padrone. E insieme con l’individuo e con la famiglia decaduta la società. Barbarie orribili e stragi spaventose durante la guerra; prepotenze, ingiustizie, rapine, concussioni ed usure durante la pace: ricchi sfondati e superbi di fronte a poveri ridotti all’estrema miseria, e cacciati dalla società come gente lurida ed insoffribile; popoli che gavazzano negli spettacoli di sangue e di pubblica dissolutezza, e re, che vorrebbero che l’umanità non avesse che una testa sola per procurarsi il piacere di troncarla di un colpo solo. È bensì vero, che in un mondo così corrotto di mente e di cuore non mancavano dei savi e dei filosofi, che sembravano sollevarsi da tale abbiezione, ma anzi tutto per riguardo alla loro vita per lo più non v’era che parvenza ed ipocrisia; giacché Aristotele, sebbene predicasse la virtù, tuttavia consacrò il furto, l’omicidio e il suicidio; Platone fece innocenti gli amori contro natura e la comunanza delle donne; Cicerone per avere il numero legale di morti, che doveva dar diritto agli onori del trionfo, fece trucidare in una sola notte seimila prigionieri di guerra; Catone così celebrato per la sua severa virtù, per attestato di Orazio, suo panegirista, compiacevasi di attingere le sue forze e il suo calore nel vino. Ecco quali erano le persone più oneste dell’antichità, quali erano i savi ed i filosofi che si sollevavano al disopra degli altri uomini, inspirandosi dal dio del vino e portando i loro omaggi alla dea della sozza voluttà. Per riguardo poi alla loro dottrina difettavano sempre di verità e di autorità. Poiché, sebbene una qualche verità fosse da loro conosciuta, cadevano tuttavia in gravissimi errori ed assurdi e, pur volendo ritrarre il popolo dallo scostumato vivere, non proponevano come premio della virtù come castigo del vizio, se non il passaggio dell’anima nel corpo di un animale bello o brutto, e l’andata ai campi Elisi o al Tartaro, cose al tutto inette e fantastiche. Ecco in qual miseria erasi caduti dopo la prima colpa, lungo il corso di quattromila anni. E tale miseria ora così profonda, che gli uomini stessi conoscendola, non facevano che sospirare da tutte le parti del mondo, dall’Oriente e dall’Occidente, da Bòrea e da Mezzodì, che venisse in sulla terra un universale restauratore. Ora, di fronte ad una miseria così grande, poteva essere che Iddio non ne sentisse pietà e non pensasse a toglierla dal mondo? Ah! il togliere l’altrui miseria, dice l’Angelico S.Tommaso, è cosa che massimamente compete a Dio, e la misericordia, come dice la Chiesa, è perfezione al tutto propria di Lui. Oh sì! Il Cuore di Dio è troppo amante degli uomini perché non si commuova allo stato, in cui sono caduti e non pensi di sollevarli; e se Egli parve essere insensibile per il corso di quattromila anni, ciò non fu, se non perché gli uomini sperimentassero meglio il bisogno che avevano della misericordia sua, e questa facendosi sentire, quando la miseria degli uomini fosse giunta al colmo, avesse a risplendere in tutta la sua grandezza. Ma in qual modo adunque Iddio prese a togliere la miseria dall’umanità? Col grande mistero della divina Incarnazione, attestatoci dal Cuore di carne di Gesù Cristo: propter nos homines et propter nostrani salutem descendit de cœlis, et incarnatus est…. et homo factus estPerciocché, come piacque a Dio creare il mondo per mezzo del divin Verbo, così ancora volle ristorare il mondo in questo Verbo incarnato: instaurare omnia in Christo. (Eph. I, 10)E per la divina Incarnazione « apparve la grazia del divin Salvatore a tutti gli uomini, ammaestrandoli a rinnegare l’empietà e i secolari desideri, e a vivere sobriamente, giustamente e piamente nella speranza della eterna beatitudine. (Tit. II) » Sì, o miei cari, Gesù Cristo, Verbo incarnato, suprema Verità e Maestro infallibile, si fa a predicare agli uomini la vera dottrina, e in opposizione al culto e alla molteplicità degli dei falsi e bugiardi insegna, che bisogna adorare un solo Dio in spirito e verità, amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la volontà, con tutte le forze; in opposizione ai vizi, che deturpano il cuore umano, alla superbia, all’egoismo, all’impudicizia, insegua l’umiltà, la carità, la purità; in opposizione al disprezzo dei poveri, dei meschini e dei sofferenti, insegna la beneficenza, l’amor fraterno, la generosità, il sacrificio; in opposizione allo spirito di ira e di vendetta, insegua la mansuetudine, la dilezione degli stessi nemici, in opposizione all’amore delle ricchezze, dei piaceri e degli onori, insegna la povertà, la pazienza, la mortificazione e l’importanza unica della salvezza dell’anima. E la sua predicazione non è sterile ed infeconda, anzi come per incanto opera i più meravigliosi mutamenti nelle idee e nei costumi degli uomini, e cangia quasi all’improvviso la faccia della terra, perciocché la sua è predicazione di un Dio, comprovata dai più strepitosi miracoli, e tutto ciò che Egli insegna agli altri, lo mostra prima praticato in se stesso nel grado più perfetto, e i premi che promette agli esecutori dei suoi insegnamenti e precetti, non si riducono a ricompense temporali, incerte e chimeriche, ma a ricompense spirituali, eterne e sicure. Né è la mente soltanto, che Egli prende a ristorare, ma con la mente altresì il cuore. Perciocché daimeriti infiniti della sua passione e morte trae fuori quegli immensi tesori di grazia, che scendono sul cuore degli uomini per i canali dei Santi Sacramenti, lo saneranno da tutte sue infermità, gli daranno la vera vita e lo rinforzeranno in ogni età e in ogni stato a combattere le inclinazioni della corrotta natura, e a mantenersi degno della compiacenza di Dio. Ah senza dubbio, anche dopo l’incarnazione dì Gesù Cristo, la miseria dell’errore e della corruzione ha continuato e continua ad esistere, ma non è già perché Gesù Cristo non abbia recato sulla terra ciò che era atto a toglierla, egli è bensì perché molti tra gli uomini hanno continuato e continua tuttora ad opporsi sciaguratamente alla sua opera di ristorazione. Che se tutta l’umanità riconoscendo l’immenso beneficio che Gesù Cristo, con la sua Incarnazione venne a farle, aprisse tutto il suo cuore ben disposto a goderne i frutti, la miseria del peccato, per virtù del Verbo Divino fatto Carne, non esisterebbe più in alcun angolo della terra e regnerebbe da per tutto la ricchezza della grazia. Quanto grande adunque è la prova d’amore, che ci ricorda il Simbolo del Sacro Cuoreparlandoci del mistero della divina Incarnazione!

III. — Ma per tal guisa, questo Sacratissimo Cuore, oltre al dirci che Gesù Cristo si è incarnato per operare la nostra redenzione e per togliere la nostra miseria, ci dice ancora in terzo luogo, che Gesù Cristo si è incarnato per esaltare la nostra natura. Ed invero, fin dalla creazione di Adamo Iddio aveva fatto dell’uomo un essere grande. Perciocché raccogliendo nel suo corpo gli elementi dispersi in tutte le altre creature della terra, ne fece come un compendio ammirabile di tutte, opperò a tutte superiore. Dotandolo poi di un’anima spirituale, intelligente e libera, con cui lo potesse conoscere, amare e servire, lo rese di poco inferiore agli Angeli stessi del Cielo, che sono puri spiriti, e per tal guisa l’uomo non fu più solamente un compendio delle creature terrene a lui inferiori, ma un insieme, più ammirabile ancora, delle creature terrene e delle creature angeliche. Sì, dice S. Gregorio Nazianzeno, l’uomo divenne come la pietra angolare, il centro misterioso, il rappresentante reale di tutto ciò che è stato creato e in cielo e in terra. Quale grandezza! Ha ben ragione il reale salmista di esclamare: Signore, nel tuo immenso amore per l’uomo lo hai coronato di onore e di gloria: Gloria et honore coronasti eum, Domine. (Ps. VIII, 6) Ma per il mistero dell’incarnazione divina l’uomo, già così grande fin dalla sua creazione, fu esaltato immensamente di più. – Avendo il divin Verbo stabilito di redimere il genere umano, di scendere perciò alla condizione delle sue creature, poteva senza dubbio, secondo l’insegnamento di S. Paolo, assumere natura angelica. Gli Angeli del paradiso, come dicono i santi Dottori e specialmente S. Tommaso, non sono, come l’uomo, individui di una stessa specie, ma ciascuno di essi istituisce una specie a sé, perciocché ciascuno differenzia dall’altro per intelligenza e bellezza, e tutti perciò sono l’uno più bello e più intelligente dell’altro. Ora quale degnazione avrebbe avuto Iddio, se per operare il mistero della redenzione  nostra, si fosse fatto simile al più bello ed al più intelligente degli Angeli! Sarebbe stata pur sempre una degnazione infinita, essendo pur sempre infinita la distanza, che passa tra il Creatore e la creatura, per quanto la più sublime. Ma Iddio, non solo non elesse di farsi simile all’Angelo più bello e più intelligente, ma neppure di farsi simile all’infimo di essi. Egli volle discendere tutta la scala delle creature ragionevoli ed arrivare fino all’uomo, incarnandosi e facendosi uomo ancor esso: Nusquam, angelos apprehendit, sed semen Abrahæ; (Hebr. II, 16) alla natura angelica ha preferito larazza di Abramo, la natura umana. Quale riguardo per l’uomo, quale amore! e quale elevatezza per la sua natura! Giacché, intendiamolo bene, pel mistero dell’Incarnazione la carne, che Gesù Cristo ha preso, è la carne nostra, la forma è la forma nostra, la vita è la vita nostra! Ecco adunque spiegato, secondo S. Paolo, il motivo, per cui Iddio alla creazione dell’uomo parve attaccare una speciale importanza ed applicavisi con una speciale attenzione; il primo Adamo era la figura del secondo, cioè di Gesù Cristo: Adæ, qui est form futuri; (Rom. V, 14) Gesù Cristo nel venire a compiere il grande mistero della redenzione avrebbe preso le sembianze dell’uomo, si sarebbe rivestito di un corpo umano.Ma ciò non è ancor tutto. Gli Angeli del Paradiso creati come l’uomo per l’eterna beatitudine, prima di essere ammessi definitivamente alla medesima dovettero sottostare ancor essi ad una prova. Ora lasciando pure da parte, che questa prova, secondo la più comune sentenza dei sacri dottori, dovette consistere nell’adorazione del divin Verbo Incarnato, che Iddio mostrò alle loro intelligenze nella pienezza dei tempi, il certo sì è che senza l’aiuto della grazia divina, nessuno di loro avrebbe potuto vincere la prova; e questa grazia non è loro mancata. Ma donde venne loro, se non da Gesù Cristo, Verbo Incarnato? Sono i meriti suoi, acquistati nella natura umana e resi di valore infinito dalla natura divina, che acquistarono tutte le grazie, che aiutano, adornano ogni creatura e la rendono degna della compiacenza di Dio. Epperò tutti gli Angeli del cielo, che sottostettero alla prova per loro da Dio stabilita, non lo fecero altrimenti se non mediante la fiducia nei meriti di Gesù Cristo, unito alla natura umana e fatto uomo. Il che ha fatto dire a S. Bernardo, che il medesimo Gesù Cristo, fu il Salvatore dell’uomo, fu ancora il Salvatore dell’Angelo: Idem quippe et angeli Salvator et hominis; (Serm. 1 de circum.) non già redimendoli dal peccato di Adamo, che non ha certamente potuto penetrare là dove non vi fu la generazionisua razza, ma aiutandoli colla sua grazia a non cadere, che, come spiega altrove, quel medesimo Gesù Cristo, il quale con la sua mano pietosa ha sollevato l’uomo dalla sua caduta, ha impedito all’Angelo di cadere, quello stesso Verbo incarnato, che ha spezzate le catene del servaggio dai polsi dell’uomo, ha impedito all’Angelo che diventasse schiavo. Così adunque l’umana natura per il mistero della divina Incarnazione non solamente è divenuta partecipe della natura divina, ma per sovrappiù ha servito ad apportare la grazia di salute a tutte le creature intelligenti, e agli uomini e agli Angeli. Poteva adunque essere sollevata a maggiore altezza? Ma finalmente pel mistero della divina Incarnazione l’umana natura divenne capace di rendere a Dio quell’onore infinito e quella infinita gloria, che gli sono dovuti. Qualunque creatura per quanto innocente, pura e perfetta, non avrebbe potuto giammai né onorare né amare Iddio come merita di essere onorato ed amato, perché per la condizione sua di creatura si sarebbe trovata mai sempre ad una distanza infinita dal Creatore. E per tal guisa mancando la creatura capace di rendere a Dio il culto proporzionato alla sua maestà e alla sua grandezza infinita, Egli sarebbe rimasto privo della gloria esterna di questo culto. Ora, sebbene Iddio sia infinitamente beato in se stesso, né abbia bisogno alcuno della gloria accidentale, che gli può venire dalle sue creature, non vi può tuttavia siccome Creatore rinunziare. E dunque, come gli sarà resa in quella misura, che gli si conviene? Come mai l’uomo, ente finito, potrà rendergli un onore e una gloria infinita? Questo mezzo ineffabile, che nessuna mente creata non avrebbe potuto immaginare giammai, l’ha trovato Iddio con la sua sapienza infinita e l’ha operato colla sua virtù, col mistero chiamato dal profeta (Hab. III, 2) l’opera di Dio per eccellenza: Opus tuum, e dall’Apostolo il capolavoro della sapienza e virtù di Dio: Dei virtutem et Dei sapientiam, (I Cor. I, 24) il mistero cioè dell’Incarnazione del Verbo. Per questo mistero si può dire: Un Dio è uomo, ed un uomo è Dio; ed in Gesù Cristo Verbo Incarnato, le cui azioni sono umano-divine, Iddio riceve dall’uomo un culto veramente infinito, perché l’uomo, che gli rende un tal culto, non è uomo soltanto, ma è pur vero Dio. Anzi siccome Gesù Cristo col mistero della divina Incarnazione è venuto a renderci figli di Dio, epperò suoi fratelli, e compartecipi delle sue grandezze, perciò tutti coloro, qui sunt in Christo Jesu, (Rom, VIII, 9) che sono incorporati a Gesù Cristo per mezzo della grazia, e formano le sue vive membra per l’efficacia dei meriti infiniti di Gesù Cristo applicati alle loro opere, anche nella più piccola di esse, rendono essi medesimi a Dio un onore infinito, del quale Iddio non può non infinitamente compiacersi. O grandezza, o dignità, o potenza veramente sublime, a cui l’uomo fu esaltato pel mistero della divina Incarnazione! Sì, il Cuore di Carne del divin Redentore ci predica una delle prove più grandi del suo amore per noi! Ma intanto se per questo mistero noi siamo sollevati ad una dignità così grande, e siamo fatti partecipi della divina natura, oseremo tralignare alla viltà della nostra antica origine? Per questo mistero avendo noi la carne, che Gesù Cristo ha divinizzata, ci sentiremo noi l’ardire di farla carne di peccato? Ah! no, o caro Gesù, noi vogliamo d’ora innanzi comportarci in modo degno della nostra grandezza; vogliamo d’ora innanzi rispettare il nostro essere, da voi sì altamente elevato; e per non dimenticare giammai questo sacrosanto dovere fisseremo sovente il nostro sguardo sopra il vostro Cuore adorabile, che così efficacemente ci simboleggia e ci ricorda l’amore che voi ci avete portato nel mistero della vostra Incarnazione. Aiutateci con la vostra grazia a conseguire da tale considerazione il frutto che desideriamo, cioè di non contaminare più mai il nostro essere con la macchia del peccato, ma di conservarlo invece adorno di quella grandezza e di quella beltà, di cui voi l’avete arricchito, e per cui speriamo renderci degni per sempre della vostra compiacenza.


IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (2)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (2)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

CAPO PRIMO

Volendo tu, figliuola in Cristo amatissima, conseguire l’altezza della perfezione, ed accostandoti al tuo Dio, diventare uno stesso spirito con Lui, ch’è la maggiore e la più nobile impresa, che dire e immaginar si possa, hai prima da conoscere, in che cosa consista la vera e perfetta vita spirituale. – Perché molti, senz’altro pensare, l’hanno posta nel rigore della vita, nella macerazione della carne, nei cilici, nei flagelli, nelle lunghe vigilie, nei digiuni, ed in altre simili asprezze e corporali fatiche. – Altri, e particolarmente le donne, si danno a credere di esser giunte a gran segno, quando dicono di molte orazioni vocali, odono molte Messe, e lunghi Uffizi, frequentano le Chiese, e le Comunioni. Molti altri (tra i quali se ne ritrova talvolta qualch’uno che, vestito d’abito religioso, vive nei Chiostri) si sono persuasi che la perfezione in tutto dipenda dal frequentare il Coro, dal silenzio, dalla solitudine, e dalla regolata disciplina. E così, chi in queste, e chi in altre somiglianti azioni, tiene che sia fondata la perfezione. – Il che però non è così, che siccome dette operazioni sono ora mezzo d’acquistare spirito, ed ora frutto di spirito, così dire non si può che in esse sole consista la perfezione cristiana, ed il vero spirito. – Sono, senza dubbio, mezzo potentissimo d’acquistare spirito a quelli che bene, e discretamente l’usano per prendere vigore e forza contro la propria malizia, e fragilità,- per armarsi contro gli assalti, ed inganni dei nostri comuni nemici, per provvederli di quelli aiuti spirituali, che a tutti i servi di Dio, ed ai novelli massimamente sono necessari. –  Sono poi frutto di spirito nelle persone veramente spirituali, le quali castigano il corpo, perché ha offeso il suo Creatore e per tenerlo soggetto ed umiliato nel suo servigio: tacciono, e vivono solitarie per fuggire qualunque minima offesa del Signore, e per conversare nei cieli: attendono al culto divino ed all’opere di pietà, orano e meditano la Vita e Passione di Nostro Signore non per curiosità e gusti sensibili, ma per conoscere vieppiù la malizia propria, e la bontà, e misericordia di Dio: per Infiammarsi sempre più nell’amor divino, e nell’odio di loro stessi, seguendo con l’abnegazione loro e, Croce in spalla, il Figliuolo di Dio, frequentano i Ss. Sacramenti per gloria dì S. D. M. per più congiungersi strettamente con Dio, e per pigliar nuova forza contro i nemici. – Ma ad altri poi, che pongono nelle suddette operazioni esteriori tutto il fondamento loro, possono non per difetto delle cose in sé (che tutte sono santissime) ma per difetto di chi le usa, porgere talvolta più che i peccati aperti, occasione di rovina; mentre in esse solo intenti, lasciano il cuore in abbandono in mano delle inclinazioni, e del demonio occulto, il qual vedendo, che quelli già sono fuori del diritto sentiero, gli lascia non solamente continuare nei suddetti esercizj con diletto; ma anco spaziare, secondo il loro vano pensiero, per le delizie del Paradiso, dove si persuadono d’essere sollevati tra i Cori Angelici, e di sentire Dio dentro di loro, i quali talora si trovano tutti assorti in certe meditazioni piene d’alti, curiosi, e dilettevoli punti, e quali scordati del mondo e delle creature, par loro d’essere rapiti al terzo Cielo.  – Ma in quanti errori si trovino quelli avviluppati, e quanto siano lontani da quella perfezione che noi andiamo cercando, facilmente si può comprendere dalla vita e costumi loro. Perché vogliono questi in ogni cosa grande e piccola essere preferiti, ed avvantaggiati agli altri sono di proprio capo, ed ostinati ad ogni loro voglia, e ciechi ne’ propri, sono solleciti e diligenti osservatori, e mormoratori dei detti e fatti altrui. Che se tu li tocchi per un poco in una loro vana riputazione, in che essi si tengono, e si compiacciono esser tenuti dagli altri, e li levi da quelle divozioni, che usano a stampa, si alterano tutti e s’inquietano soprammodo. – E se Iddio per ridurli al vero conoscimento di loro stessi ed alla strada della perfezione, gli manda travagli ed infermità, o permette persecuzioni (che non vengono mai senza sua volontà, così volendo o permettendo, e sono la pietra del tocco della lealtà dei servi suoi), allora scoprono il loro falso fondo, e l’interiore corrotto e guasto della superbia, perché in ogni avvenimento o tristo o lieto che sia, non vogliono rassegnarsi, ed umiliarsi sotto la divina mano, acquietandoli nei giusti sempre, benché segreti giudizi di Dio, né ad esempio del suo umiliato ed appassionato Figliuolo, abbassarsi sotto tutte le creature, tenendo per cari amici i persecutori, come strumenti della divina bontà, e cooperatori alla  mortificazione, perfezione e salute di loro stessi. –  La onde certa cosa è, che questi tali sono posti in grave pericolo, perché avendo l’occhio interno ottenebrato, e mirando con quello loro medesimi e l’operazioni esterne che sono buone, s’attribuirono molti gradi di perfezione, e così insuperbiti giudicano gli altri, e per loro non è chi li converta, fuorché uno straordinario aiuto di Dio. –  Perciocché aliai più agevolmente si converte, e riduce al bene il peccatore manifesto, che l’occulto e coperto col manto delle virtù apparenti. – Tu vedi dunque figliuola chiaramente che, nelle suddette cose, nel modo, che ti ho dichiarato, non consiste la vita spirituale. – La quale hai da sapere, che in altro non consiste, che nel conoscimento della bontà e grandezza di Dio, e del nostro niente, ed inclinazione ad ogni male; nell’amor suo, ed odio di noi stessi; nella soggezione non solo a Lui, ma per amor suo ad ogni creatura; nella espropriazione d’ogni nostro volere, e rassegnazione totale nel suo divino piacimento, ed oltre ciò, che tutto quello si voglia, e faccia da noi puramente per gloria di Dio, e per suo solo compiacimento, e così Egli vuole e merita di essere amate, e servito. – Questa è la legge di amore impressa dalla mano dell’istesso Signore nei cuori dei suoi fedeli servi. Questa è la negazione di noi medesimi, che ricerca da noi. Questo è il soave giogo, ed il peso suo leggero. Questa è l’ubbidienza, alla quale con l’esempio e con la voce, il nostro Redentore e Maestro ci chiama. – E poiché aspirando nell’altezza di tanta perfezione, hai da fare continua violenza a te stessa, ad espugnare generosamente, ed annichilare tutte le voglie, o grandi o piccole che siano, di necessità conviene che con ogni prontezza d’animo ti apparecchi a questa battaglia, poiché la corona non si dà se non ai valorosi combattitori. – La quale, siccome è più d’ogni altra difficile (poiché combattendo contro di noi, siamo da noi stessi combattuti), così la vittoria ottenuta, sarà di ogni altra più gloriosa, e a Dio più cara. – Perché se tu attenderai a calcare e a dar morte a tutti i tuoi disordinati appetiti, desideri e voglie, ancorché minime, farai maggior piacere e servigio a Dio, che se tenendo alcune di quelle volontariamente vive, ti flagellassi infino a sangue, e digiunassi più che gli antichi Eremiti ed Anacoreti, o convertissi al bene le migliaia di anime. Che quantunque il Signore abbia cara più in sé la conversione dell’anime che la mortificazione d’una voglietta, nondimeno tu non hai da volere, né da operar altro più principalmente, che quello, che quello Signore da te ristrettamente ricerca e vuole. –  Ed Egli senza fallo più si compiace, che tu ti affatichi, ed attenda a mortificare le tue passioni, che se tu lasciandone pur una avvedutamente, e volontariamente viva in te, lo servissi in qualunque cosa, sia pur grande, e di maggior momento. – Ora, che tu vedi figliuola in che consiste la perfezione Cristiana, e che per acquistarla hai da imprendere una continua, ed asprissima guerra contro te stessa, e fa bisogno, che di quattro cose, come d’armi sicurissime e necessarie ti provveda per riportare la palma e restar vincitrice in questa spirituale battaglia. Queste sono:

la diffidenza di noi stessi.

la confidenza in Dio,

L’esercizio, e

L’orazione.

Delle quali tutte con l’aiuto divino e con facile brevità tratteremo.

Della diffidenza di noi stessi

CAP. II

La diffidenza di te stessa, figliuola, talmente ti è necessaria in questo combattimento, che senza quella tu hai da tenere per certo che non solamente non potresti conseguire la desiderata vittoria, ma neppure superare una ben piccola tua passioncella. – E ciò ti si imprima bene nella mente, imperocché noi siamo pur troppo facili, ed inclinati dalla natura corrotta ad una falsa stima di noi stessi, che essendo veramente non altro che un bel nulla, ci diamo pure ad intendere d’essere qualche cosa, e senza fondamento veruno vanamente delle proprie forze presumiamo. – Questo è difetto assai difficile a conoscersi, e dispiace molto agli occhi di Dio, che ama e vuole in noi una leale cognizione di quella certissima verità, che ogni grazia e virtù derivi in noi da Lui solo, che è fonte d’ogni bene, e che da noi nessuna cosa, neppure un buon pensiero, può venire che a grado gli sia. – Ed avvenga che questa tanto importante diffidenza sia per anche opera della sua divina mano, che suole darla ai suoi cari amici, ora con sante ispirazioni, ora con aspri flagelli, e con violente e quasi insuperabili tentazioni, o con altri mezzi non intesi da noi medesimi, pure volendo Egli, che insieme dalla nostra parte si faccia quello che tocca a noi, ti propongono quattro modi, con i quali aiutata principalmente dal superno favore, tu possa conseguire tal diffidenza.

– Il primo è che tu consideri, e conosca la tua viltà, e nullità e che da te non puoi fare alcun bene, per cui meriti di entrare nel Regno dei Cieli.

– Il secondo è, che con ferventi preghiere la domandi spesso ad esso Signore, polche è dono suo. E per ottenerla, prima ti hai da mirare non pure ognuna d’essa, ma al tutto impotente ad acquistarla da te. Così preferendoti più volte davanti alla Divina Maestà, con una certa fede, che per sua bontà sia per concedertela, e con perseveranza aspettandola per tutto quel tempo che disporrà la provvidenza sua, non v’è dubbio, l’otterrai. –

– Il terzo modo che ti avvezzi a temere te stessa, il proprio Giudizio, l’inclinazione forte al peccato, gli innumerevoli nemici, ai quali non sei bastante a fare una minima resistenza, il lungo lor uso di combattere o le stratagemma, le loro trasfigurazioni in angelo di luce, e le innumerevoli arti e lacci che nella via stessa della virtù nascostamente ci tendono.

– Il quarto modo è, che quando ti avviene di cadere in qualche difetto, tu allora penetri più dentro e più vivamente nella considerazione della tua somma debolezza, che a questo fine Dio ha permesso la tua caduta, acciocché avvisata dall’ispirazione con più chiaro lume, che prima, conoscendoti bene, impari a dispregiare te stessa, come cosa pur troppo vile, e per tale tu voglia anche dagli altri essere tenuta, e parimente dispregiata, che senza questa volontà, non vi può essere virtuosa diffidenza, la quale ha il suo fondamento nell’umiltà vera, e nella detta cognizione sperimentale. – Imperocché chiara cosa è, che ad ognuno, che vuol congiungersi colla superna luce e verità increata, è necessario il conoscimento di se stesso: che ai superbi e presuntuosi dà ordinariamente la divina Clemenza per via de’ cadimenti, lasciando giustamente incorrere in qualche mancamento, dal quale si persuadono di poterli difendere, acciocché così venendoli a conoscere, apprendano a diffidare in tutto di se medesimi. – Ma di quello mezzo così miserabile non si suole servire il Signore, se non quando gli altri più benigni, che abbiamo detto di sopra, non hanno portato quel giovamento che intendeva la sua Divina Bontà. La quale tanto permette, che cada più o meno l’uomo, quanto maggiore , o minore è la sua e propria reputazione, di maniera che, dove niente di presunzione si ritrovasse, come fu in Maria Vergine, niente parimenti vi farebbe di caduta. – Talché, quando tu cadi, corri subito col pensiero all’umile conoscimento di te stessa, e con importuna operazione, domanda al Signore, che ti doni il vero lume di conoscerti, e la totale diffidenza di te stessa, se non vorrai ricadere di nuovo, e talvolta in più grave rovina.

Della confidenza di Dio.

CAP. III

La diffidenza propria, avvenga che in quella pugna, come abbiamo detto, sia tanto necessaria, nientedimeno, se l’avremo sola, o ci daremo in fuga, o resteremo vinti, e superati dai nemici, e però oltre a questa ti bisogni ancora la totale confidenza in Dio, da lui solo sperando, e aspettando qualunque bene, aiuto, e vittoria. Che siccome da noi, che niente siamo, non ci è lecito prometterci altro che cadimenti, onde dobbiamo di noi medesimi diffidare affatto, così dal Signor nostro ogni gran vittoria conseguiremo sicuramente purché, per ottener il suo aiuto, armiamo il cuor nostro d’una viva confidenza in Lui. – E questa parimente in quattro modi si può conseguire. Primo, col domandarla a Dio. – Secondo, col considerare, e vedere coll’occhio della Fede l’onnipotenza, e sapienza infinita di Dio, al quale niente è impossibile né difficile; e ch’essendo la sua bontà senza misura con indicibile voglia sta pronto ed apparecchiato a dare d’ora in ora, e di momento in momento, tutto quello che ci è di bisogno per la vita spirituale, e totale vittoria di noi stessi, ricorrendo alle sue braccia con confidenza. E come farà possibile, che il  nostro Pastore divino, il quale trentatré anni ha corso dietro alla pecorella smarrita, con gridi tanto forti, che ne divenne rauco, e per via tanto faticosa e spinosa, che vi sparse tutto il sangue, e vi lasciò la vita, ora ch’essa pecorella va dietro a Lui con l’ubbidienza dei comandamenti suoi, o pur col desiderio (benché alle volte fiacco) di ubbidirlo, chiamandolo e pregandolo, ch’Esso non le volga quei suoi occhi di vita, non l’oda, e non se la metta sulle divine spalle, facendone festa con tutti i suoi vicini ed Angioli del Cielo? – Che se non lascia il Signor nostro di cercare con diligenza grande ed amore, e di trovare nella dracma Evangelica il cieco e muto peccatore, come sarà possibile che abbandoni quello che, come smarrita pecorella grida e chiama il suo Pastore? – E chi crederà mai che Iddio, il quale batte di continuo al cuore dell’uomo per desiderio d’entrarvi e cenarvi, comunicandogli i doni suoi, e che aprendosigli poi il cuore ed invitandolo, faccia Egli daddovero il sordo, e non vi voglia entrare? – Il terzo modo per acquistare quella santa confidenza, è il ricorrere con la memoria alla verità della Scrittura Sacra, che in tanti luoghi ci mostra chiaramente, che non restò mai confuso chi confida in Dio. – Il quarto modo, il quale servirà per conseguir insieme la diffidenza di te stessa, e la confidenza in Dio, è questo: Quando ti occorre alcuna cosa da fare, e di prendere alcuna pugna, e vincere te stessa, prima che ti proponga, o risolva di volerla fare, rivoltati col pensiero alla tua debolezza, e diffida affatto, voltati poi alla potenza, sapienza e bontà divina, ed in questa confidando delibera d’operare, e di combattere generosamente, e con quelle armi in mano, e con l’orazione, come nel suo luogo dirò, combatti, ed opera poi. – E se non osserverai quell’ordine, avvegnaché ti paresse di fare ogni cosa in confidenza di Dio, ti troverai in gran parte ingannata, essendo tanto propria all’uomo la presunzione di sé medesimo, e tanto sottile, che di nascosto quasi sempre vive nella diffidenza, che ci pare d’avere di noi stessi: e confidenza, che stimiamo aver in Dio. – Perché tu fugga quanto più sia possibile la presunzione, ed operi con la diffidenza di te stessa e confidenza in Dio, fa di bisogno che la considerazione della tua debolezza vada innanzi alla considerazione dell’onnipotenza di Dio, e tutte queste due alle nostre operazioni.

Come possa conoscersi se l’uomo operi con la diffidenza di sé, e confidenza in Dio.

CAP. IV

Pare alle volte assai. al servo presuntuoso, avere ottenuto la diffidenza di sé e la confidenza in Dio, e non sarà così. E di ciò ti chiarirà l’effetto, che produrrà in te il cadimento. – Se tu, dunque, quando cadi, t’inquieti, ti rattristi, e ti senti chiamare ad un certo che di disperazione, di poter andar più innanzi e di far bene, segno certo è che tu confidavi in te, e non in Dio. – E se molta sarà la tristezza, e la disperazione, molto tu confidavi in te, e poco in Dio: essendo che quello che è in gran parte sconfidato  di se stesso, e confidato in Dio, quando cade, non si meraviglia, né si attrista, né si rammarica, conoscendo che ciò gli occorre per sua debolezza, e poca confidenza in Dio, anzi più sconfidato di sé, più assai umilmente confida in Dio, ed avendo in odio il difetto sopra ogni cosa, e le disordinate passioni, cagione del cadimento, con un dolor grande, quieto, e pacifico dell’offesa di Dio, segue poi l’impresa, e perseguita i suoi nemici infino alla morte, con maggior animo e risoluzione. – Quelle cose vorrei, che fossero ben considerate da certe persone, che sanno dello spirituale, le quali, quando sono incorse in alcun difetto, non si possono, né si vogliono dar pace, ed alle volte più per liberarli dall’ansietà ed inquietudine, che nasce dal proprio amore, che per altro, non vedono l’ora d’andar a trovare il Padre spirituale; al quale dovrebbero andare principalmente per lavarsi dalla macchia del peccato, e prender forza contro esso col Santissimo Sacramento.

D’un errore di molti, dai quali la pusillanimità è tenuta per virtù.

CAP. V

Molti in questo ancora s’ingannano, i quali la pusillanimità, ed inquietudine, che segue dopo il peccato (perché è accompagnata da qualche dispiacere) attribuiscono a virtù , non sapendo che nasce da occulta superbia, e presunzione fondata nella confidenza di loro stessi e delle proprie forze, nelle quali perché (stimandosi da qualche cosa) avevano soverchiamente confidato, scorgendo dalla prova della caduta che loro mancano, si turbano e meravigliano, come di cosa nuova e si s’impusillanimiscono, vedendo andato a terra quel sostegno in cui vanamente avevano riposta la confidenza loro. – Non accade quello all’umile, il quale nel suo solo Dio confidando, e di sé niente presumendo, quando incorre in qualsivoglia colpa, ancorché ne senta dolore, non però se ne inquieta, o ne prende meraviglia, sapendo che tutto ciò gli avviene per sua miseria, e propria debolezza da lui, con lume di verità, molto ben conosciuta.

D’altri avvisi, perché acquistiamo la diffidenza di noi, e la confidenza in Dio.

CAP. VI

E perché tutta la forza di vincere i nostri nemici, nasce principalmente dalla diffidenza di noi stessi e dalla confidenza in Dio, di nuovo ti provvedo di avvisi perché la consegua con il Divino aiuto. – Hai da sapere dunque, e da tenere per cosa ferma, che né tutti i doni, o naturali, o acquistati, che siano, né tutte le grazie gratis date, né la cognizione di tutta la Scrittura, né l’aver lungamente servito Dio, e fatto in questo la consuetudine, ci farà fare la sua volontà, se in qualunque opera buona, ed accetta negli occhi suoi, che abbiamo da fare, ed in qualunque tentazione, che abbiamo da vincere, ed in qualunque pericolo che abbiamo da fuggire, ed in qualunque Croce che abbiamo da portare, conforme alla sua volontà, non si trova aiutato ed elevato il cuor nostro dal particolare aiuto di Dio, e ne porga anco la mano per farlo. – Dobbiamo dunque noi in tutta la vita nostra, in tutti i giorni, in tutte l’ore, ed in tutti i momenti avere la detta risoluzione: che a questo modo per niuna via, e pensiero potremo mai confidare in noi. – Quanto tocca poi alla confidenza in Dio, sappi che niente è più facile a Dio vincere i pochi, che i  molti nemici, i vecchi ed esperti, che i fiacchi e novelli. – Onde sia pur un’anima carica di peccati, abbia pur tutti i difetti del mondo, e sia difettosa quanto mai immaginarla si possa, abbia pur tentato quanto si voglia, e pigliato qualunque mezzo, ed esercizio per lasciare il peccato, ed operare il bene, né mai abbia potuto acquetare un puntino di bene,  anzi sia andata più ponderosa al male, con tutto ciò non deve mancare di confidar in Dio, né deve mai lasciare le armi e gli esercizi spirituali, ma combattere sempre generosamente perché ha da sapere che, in quella pugna spirituale non perde chi non lascia di combattere e di confidare in Dio, l’aiuto del quale mai non manca ai combattenti suoi, benché alcune fiate permetta che siano feriti: combattasi pure, che qui sta il tutto, che la medicina per le ferite è pronta ed efficace ai combattenti che cercano Dio, e l’aiuto suo con confidenza, e quando meno vi pensano, li troveranno morti, i nemici.

Dell’esercizio, e prima dell’intelletto, che dobbiamo tenere guardato dall’ignoranza, e dalla curiosità.

CAP. VII

Se la diffidenza di noi, e la confidenza in Dio tanto necessarie in quella battaglia, saranno sole, non pure non avremo vittoria di noi stessi, ma precipiteremo in molti mali, onde oltre a quello ci è necessario l’esercizio, che è la terza cosa proposta di sopra. – Questo esercizio si ha da fare principalmente con l’intelletto, e con la volontà. Quanto all’intelletto dalle due cose che sogliono impugnarlo, dev’essere da noi guardato. – L’una l’ignoranza; che l’oscura e gli impedisce la conoscenza del vero, ch’è il suo proprio oggetto. Onde con l’esercizio si ha sa rendere lucido e chiaro, perché possa vedere, e discernere bene, quanto ci fa di mestieri, per purificare l’anima dalle passioni disordinate ed ornarla delle virtù sante. Questo lume in due modi si può ottenere. Il primo e più importante è l’orazione, pregando lo Spirito Santo, che si degni infonderlo nei cuori nostri. Questo lo farà sempre se in verità cercheremo Dio solo, e di fare la sua santa volontà, e se ogni cosa sottoporremo col proprio giudizio a quello dei nostri Padri spirituali. – L’altro modo è un continuo esercizio di profonda e leale considerazioni delle cose per vedere come siano, buone, o ree , secondo se insegna lo Spirito Santo, e non come di fuori paiono, e si rappresentano ai sensi, e giudica il mondo. – Questa considerazione, fatta come ci conviene, ci fa chiaramente conoscere, che si debbano avere per nulla, per vanità e bugia, tutte quelle cose, che il cieco e corrotto mondo ama, e deriderà, e che con vari modi e mezzi va procurando; che gli onori, e piaceri della terra non sono altro che vanità, ed afflizione di spirito; che le ingiurie e le infamie, che ci dà il mondo, portano vera gloria, e le tribolazioni contento; che il perdonare ai nemici e far loro bene, sia magnanimità, ed una delle maggiori somiglianze con Dio; che più vale il dispregiare il mondo, che l’esserne Padrone; che l’ubbidire volentieri per amore di Dio alle più vili creature, è cosa più magnanima e generosa, che il comandare ai Principi grandi. Che l’umile conoscimento di noi stessi si deve pregiar più che l’altezza di tutte le scienze, e che il vincere e mortificare i propri appetiti, per piccioli che siano, merita maggior lode, che l’espugnare molte Città, superare potenti eserciti con le armi in mano; far miracoli, e risuscitare i morti.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (1)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (1)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

COMBATTIMENTO

SPIRITUALE

DEL PADRE D.

LORENZO SCUPOLI

Chierico Regolare

TEATINO.

PARTE PRIMA.

VENEZIA,

Presso Gio. Antonio Pezzana.

MDCCLXXVI.

Con Licenza dei superiori

AL DEVOTO LETTORE,

Questa Operetta intitolata Combattimento Spirituale, fu composta dal nostro P. D. Lorenzo Scapoli, Religioso di singolar virtù, e mandata alle stampe più volte mentre egli viveva, però senza il suo nome; non comportando la grande umiltà sua ch’egli si chiamasse Autore di quell’Opera, ch’era tutta di Dio. E perché successivamente andava aggiungendo, secondo riceveva da Dio nuova cognizione, e nuovi lumi, quindi è, che in quella si veda varietà, secondo le diverse impressioni, e particolarmente nelle prime, che furono assai diminuite, e mancanti, ed anco nella disposizione, e Capitoli in qualche parte diverge. Che però stimando alcuni, che l’ultima impressione fatta vivente lui in Napoli nell’anno 1610, fosse la più compita, in conformità di quella l’hanno ristampata, e ristampano tuttavia, non solo nel proprio idioma, ma trasferita ancora nel Latino, Spagnuolo, Inglese, Tedesco, e più volte nel Francese per la stima grande in cui fu posta in tutta la Francia da S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra, il quale la proponeva per unica istruzione a quelli che aspiravano alla vita spirituale e devota, come si vedrà dall’onorevoli attestazioni ch’egli ne fa in molte sue lettere, e si metteranno qui aggiunte.  – Ma non si è avvertito finora, che l’ultima impressione fatta in vita dell’Autore non contiene, quanto egli ne aveva composto, essendone stati tralasciati da lui a bella posta molti Capitoli per farne una feconda Parte, con alcuni Trattati particolari, come chiaramente si raccoglie dall’impressione dell’anno 1609 in Venezia, che fu la penultima, vivente l’Autore, la quale è più copiosa dell’ultima suddetta, ed anco dalla Lettera al Lettore nell’Aggiunta al « Combattimento Spirituale » che va stampata colla suddetta ultima impressione, del 1610. Per la qual causa ne è seguito, che non avendo potuto egli perfezionare il suo disegno, sia rimasta l’ultima impressione senza molti Capitoli, e priva di tutto quello, che lasciò da parte. – Avendone avuta dunque io la commissione dal nostro M. R. P. Generale, ho riscontrate tutte le copie, e raccolto in uno tutto ciò, ch’egli compose in ordine al detto Combattimento Spirituale, e con ogni fatica, studio e diligenza possibile, perché nulla mancasse, ed in modo, che non venisse alterata, neppure in minima parte la dettatura candidissima dell’Autore, non avendoci posto del mio altro, che la sola diligenza nel raccogliere quel ch’era sparso in diversi Esemplari, con metterlo insieme secondo l’ordine datole dall’istesso Autore.Ho riconosciuti anco per suoi, alcuni altri Trattateli Spirituali, stampati, quando tutti, e quando in parte per aggiunta all’istesso Combattimento, e per non far troppo volume, non gli ho incorporati in quello. Ma ne ho formato un secondo tometto da stamparsi a parte acciò l’uno, e l’altro riescano più comodi, e più maneggiabili. Della qual fatica, che non è stata poca, non prendo altra mercede, che il profitto spirituale di chi leggerà, e quando Iddio nostro Signore comunicherà per mezzo di questa lettera le celesti grazie all’anima sua, si ricordi della mia per impetrarle il perdono, e preghi per questo miserabile peccatore.

D. Carlo di Palma

Chierico Regolare.

ELOGJ

Del Libro intitolato:

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE

Cavati dalle Lettere di S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra.

Lib. I . lett. 34. Esortando una Dama alla lettura de’ Libri spirituali, dopo aver parlato di alcuni altri, come di composizioni oscure, e difficili ad essere intese e praticate, egli aggiunge: Leggete, e rileggete il Combattimento Spirituale, quello deve essere il vostro Libro caro, egli è chiaro, e tutto praticabile.

Lettera 39. Raccomandando ad Una Dama l’aver cura particolare di acquistare le virtù, delle quali si trovava avere a questo proposito senza parlare altro di maggior bisogno, conclude: Rileggete il Combattimento Spirituale (perché senza dubbio l’aveva già letto per suo consiglio) e fate riflessione particolare ai documenti che vi sono, ve lo troverete molto a proposito.

Lib. 3, lett.13. Prescrivendo qualche esercizio di divozione ad una Signora maritata, dice verso il fine: Leggete assai il Combattimento Spirituale, io ve lo raccomando.

Lib. 4. lett. 8. Scrivendo ad una Vedova, ed esortandola alla Semplicità di cuore, ed a non desiderare tanto d’essere liberata dalle tentazioni: Figlia mia cara, dice egli, leggete il Capitolo 37 Del Combattimento Spirituale, ch’è il mio libro caro, e che io porto in saccoccia, sono bene diciottoanni, né lo rileggo mai senza profitto. La lett. è del 24. Luglio 1607.

Lib. 5. lett. 70. Scrivendo ad una Dama Vedova, e consolandola nella morte di suo figlio, dice queste parole: Bisogna, che noi facciamo una volta la Settimana un esercizio particolare di volere, ed amare la volontà di Dio più vigorosamente (dico più); più teneramente, e più amorosamente, che nessuna cosa del Mondo, e ciò non solo nelle occorrenze sopportabili, ma anco nelle più insopportabili. Voi ne troverete un non so che nel Libretto del Combattimento Spirituale, che vi ho raccomandato tante volte. Eh figlia mia, a dire il vero, quella è una lezione alta, ma dall’altro canto Iddio, per lo quale noi l’impariamo, è l’Altissimo.

Quello, che tradusse in Francese il Combattimento Spirituale, e dedicò la sua Traduzione a S. Francesco dì Sales nell’anno 1608, le dice nella dedicatoria. La considerazione e la stima, che le ho sempre visto fare dell’ utilità di quello Libro, etc.

Il Libro dello Spirito di S. Francesco di Sales: 3 p. sess. 12. che ha per titolo. Del libro del CombattimentoSpirituale, dice: Questo libro tutto d’oro (parla di quello dell’imitazione di Cristo) supera ogni lode. Non era con tutto ciò quello, che il nostro Prelato consigliava maggiormente, ma il Combattimento Spirituale. Questo era il  suo Libro diletto, ed il suo favorito. Egli più volte mi ha detto, che l’aveva portato in saccoccia diciotto anni, leggendone ogni giorno qualche capitolo, o almeno qualche pagina. E chi vi farà riflesso con attenzione, facilmente conoscerà, che tutto lo spirito della divozione del nostro Padre è cavato da questo Libretto: Chi vorrà vederne una mostra, conferisca il primo Capitolo della Filotea con il primo Capitolo del Combattimento Spirituale, e conoscerà, quanto è vero ciò, che io dico.

Seguita appresso. Il nostro Prelato consigliava la lettura del Combattimento Spirituale a tutti i suoi devoti, chiamandolo un libretto tutto amabile, e tutto praticabile. Quanto più io lo leggo, tanto più vi osservo lo spirito del nostro Prelato, come nella sua sentenza.

Dopo conchiude: Quelli che s’immaginano che quello libro sia oscuro (come ne ho conosciuto alcuni) si figurano dell’ombre a mezzogiorno, e si assomigliano a quelli Israeliti, che si infastidirono della manna, perché ella cadeva loro dal Cielo con soverchia facilità, ed abbondanza.

L’istesso par. 7. Sess. 7. che ha per titolo: Di tre Libri di divozione: Dice: Tre piccioli libri di devozione erano in alta stima appresso di lui: Il primo era quello del Combattimento Spirituale, del quale Sorelle mie io vi ho parlato tanto, quello, ch’egli vi ha tanto raccomandato, e che raccomandava con molto studio ai suoi Discepoli, confessando loro a bella posta, ma con verità, ch’egli l’aveva portato diciassette anni continui in saccoccia, leggendone quasi ogni giorno qualche Capitolo, e sempre con nuovi lumi del Cielo. Tralascio molte altre cose, ch’egli dice nell’istessa sessione della stima grande, che S. Francesco fece sempre di quest’opera. – L’istesso Libro dello Spirito di S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra, p. 14. sez. 1^ che ha per titolo: “Consiglio circa un Direttore Spirituale”, dice: Io li domandavo un giorno, chi era il suo Direttore, o il Maestro di spirito? Egli tirò dalla saccoccia il Combattimento Spirituale, e mi disse: Eccolo, quello è quello che col divino aiuto m’insegnò dalla mia gioventù: quello è il mio Maestro nelle cose dello spirito, e della vita interiore. Dopo che, essendo io scolaro in Padova, un Teatino me l’insegnò  e me lo consigliò, io ho seguitato il suo parere  e me ne sono trovato bene; egli fu composto da un santo Personaggio di quell’illustre Congregazione, che nascose il suo nome particolare, e lo lasciò correre sotto il nome della sua Religione, la quale sene ferve quasi nell’istessa maniera, che si fervono i Gesuiti del libro degli esercizi del loro S. Ignazio Lojola. E dopo qualche pagina, dice: Quelli » che hanno scritta la vita del nostro Prelato, osservano, ch’egli ha portato durante diciassette anni interi sopra di sé questo Libro del Combattimento Spirituale, ma è probabile, che quello tempo sia stato più lungo, già ch’egli cominciò così a buon’ora a metterli alla scuola di questo libro: allo spirito del quale si è talmente conformato, ed ha così tenacemente non solo subordinato, ma trasformato il suo, ch’io posso assicurare per l’attenzione, con la quale ho letto molti anni tanto questo Libro, quanto gli scritti del nostro Padre, che tutto è una medesima pennellata e che il nostro Prelato ha scritto poche cose delle quali io non trovi subito la semenza ed il nocciolo in qualche luogo del Combattimento. Egli lo consigliava a tutti quelli, che ricercavano il suo parere in materia di divozione, e principalmente a coloro, che si mettevano sotto la sua guida, nel che mostrava bene di amare il suo prossimo, comese stesso, giacché gli scopriva la stessa fonte, dalla quale aveva bevuto l’abbondanza della divozione che possedeva, comunicando senza invidia ciò che aveva appreso senza finzione, come dice il Savio c. 7. Ed appreso. – Lodandole io il libretto d’oro dell’Imitazione di Cristo, e preferendo di gran lunga il Combattimento Spirituale, egli mi rispose con galanteria, ch’erano le opere di due personaggi animati veramente dallo Spirito di Dio, che le loro facce erano differenti, e che si poteva dire di ciascheduno di loro ciò, che si canta dei Santi, Non est inventus similis illi. – Che le comparazioni in quelle materie avevano sempre qualche cosa di odioso: Che il Libro dell’Imitazione aveva in qualche senso gran vantaggio al Combattimento, ma che il Combattimento riportava ancora qualche vantaggio dell’Imitazione, fra i quali stimava molto l’ordine, l’andare più avanti e toccare il fondo delle materie: Conchiudendo poi con queste sante parole, che a far bene bisognava leggere l’uno, e non lasciare l’altro, sono tutti due così brevi, che la loro lettura non ci può mettere in grandi spese.Stimava molto il Libro dell’Imitazione,per l’orazione, e contemplazione, come pieno di sentenze, ma più il Combattimento Spirituale a riguardo della vita attiva, e della pratica.

* * * * *

* * * *

* * *

A questi elogi fatti da S. Francesco di Sales, potremmo aggiungere l’Encomio, che del medesimo Combattimento Spirituale lasciò registrato Jodocho Lorichio, celebre Scrittore, e professore primario di Sacra Teologia nell’Università Friburgense di Brosgia. Nella versione Latina, ch’egli fece del detto Libro, con una Lettera dedicatoria diretta all’Abate di Selvanegra, ove così dice:

In tractatu hoc per brevi ordinatissime, ac perspicacissime complexus Auctor est omnia ad spiritualis vita; optimam perfectionem parandam necessaria, quæ alìi multis, ac magnis libris vix assequuti sunt. Ed insegnando il modo di valersene, lo chiama: Prætiosum optimarum gemmarum thesaurum, & dignissimum spiritualium pharmacorum myropolium.

A D. FRANCESCO

CARAFFA.

Preposito Gen. de’ Chierici Regolari.

Essendo stata rivista d’ordine nostro l’Opera intitolata: Combattimento Spirituale, di cui sin ora sono state fatte molte Impressioni, però tutte varie, e manchevoli, acciò si ristampasse compiuta e con tutto quel che ne scrisse l’Autore, che fu il nostro P. D. Lorenzo Scupoli, si concede licenza, per quanto spetta a noi, che si possa mandare in luce, perché questo benefizio sia comune a tutti: Ordinando, che ciascheduno de’ nostri Religiosi l’abbia sempre pronta per valersene di guida spirituale per loro stessi, e per indirizzo di quell’anime che dovranno istruire per la perfezione, come con gran profitto si è praticato fino ad oggi nella nostra Religione.

Dato in Roma li 25 Dec. 1656,

D. Francesco Caraffa Prep.

Gen. de’ Chierici Reg.

D. Giacomo Sottani Chier.

Reg. Segr.

* * *

Al Supremo Capitano, e Gloriosissimo Trionfatore:

GESÙ’ CRISTO

FIGLIUOLO DI

MARIA,

Perché sempre piacquero e piacciono tuttavia a V. Maestà i sacrifici, ed offerte di noi mortali, quando da puro cuore a gloria vostra le vengono offerte; perciò io le presento questo Trattatello del Combattimento Spirituale, dedicandolo alla Divina Vostra Maestà. Né mi tiro addietro, perché picciolo sia questo Trattato, che ben si sa, che Voi solo siete quell’alto Signore, che si diletta delle cose umili, e spregia i fumi, e pretendenze del Mondo. E come potevo io senza biasimo, e senza danno ad altra persona dedicarlo, che alla V. Maestà, Re del Cielo, e della Terra? Quanto insegna questo trattatello tutto è dottrina vostra, avendoci Voi insegnato, che:

“Sconfidati di noi stessi

Confidiamo in Voi,

Combattiamo, ed

Oriamo.”

Inoltre se ogni Combattimento ha bisogno di esperto Capo, che guidi la battaglia, ed inanimi i Soldati, quali tanto più generosamente combattono, quanto, che militano sotto un invincibile Capitano, non ne avrà forse bisogno questo Combattimento Spirituale? Voi dunque eleggemmo Cristo Gesù (noi tutti, che già risoluti siamo di combattere, e vincere qualunque nemico) per nostro Capitano, il quale avete vinto il  Mondo, il Principe delle tenebre, e con le piaghe, e morte della vostra sacratissima carne avete vinto la carne di tutti quelli che hanno combattuto generosamente, e combatteranno. – Quando io Signore, ordinava questo Combattimento, avevo sempre nella mente quel detto: Non quod sufjicientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis: Se senza voi, e senza il vostro aiuto noi non possiamo avere pensieri, che buoni siano, come potremo da noi soli combattere contro tanti potentissimi nemici, ed evitare tanti innumerabili, e nascosti lacci? – Vostro è, Signore, da tutte le parti questo Combattimento, perché  (come ho detto) vostra è la dottrina, e vostri fono tutti i Soldati spirituali tra i quali siamo noi Chierici Regolari Teatini, onde tutti chini a’ piedi della vostra A. M. vi preghiamo, che accettiate questo Combattimento, movendoci sempre, ed inanimandoci colla grazia vostra attuale a vieppiù generosamente combattere, perché noi non dubitiamo punto, che combattendo Voi in noi, noi siamo per vincere a gloria vostra, e della vostra Santissima Madre Maria Vergine.

Un S. comprato col vostro Sangue

D. Lorenzo Scupoli Chier. Reg.

LA COMUNIONE SPIRITUALE

[G. B. Scaramelli: DIRETTORIO ASCETICO, Trattato Primo

NAPOLI, LlBRERIA E TIPOGRAFIA SIMONIANA. Strada Quercia nº. 17. 1839.]

– CAPO VII.

Si parla brevemente della comunione spirituale, con cui devono le persone spirituali industriarsi di supplire alla mancanza delle comunioni sacramentali.

441. Giacché pochi son quelli, come ho già detto, a cui possa giustamente concedersi di ricever ogni giorno il Corpo Santissimo di Gesù Cristo sacramentalmente sotto le specie del pane; devono almeno tutti industriarsi di riceverlo spiritualmente con la comunione che chiamasi spirituale. Questa, dice S. Tommaso, consiste in un vivo desiderio di prendere il Santissimo Sacramento. Dicuntur baptizari, et communicari spiritualiter, et non sacramentaliter illi, qui desiderant hæc Sacramenta jam instituta sumere. (3 p. qu. 21, alias 8o, art. 1, ad 3.). E nell’articolo seguente: (in corp. Contingit spiritualiter manducare Christum, prout est sub speciebus hujus Sacramenti inquantum scilicet aliquis credit in Christum, cum desiderio sumendi hoc Sacramentum. Allora accade, dice l’Angelico, che alcuno mangi Spiritualmente Gesù Cristo ricoperto dalle specie sacramentali, quando crede in Cristo con desiderio di riceverlo in questo sacramento. E questo non solo è un ricevere spiritualmente Gesù Cristo, ma è un ricevere spiritualmente lo stesso Sacramento. Se queste brame siano molto fervide, e molto accese, la comunione fatta in spirito sarà tal volta più fruttuosa e più cara a Dio, che molte altre Comunioni reali fatte con tiepidezza, non per difetto del Sacramento, ma di chi freddamente lo riceve. S. Caterina da Siena, come si legge nella sua vita, bramava sì ardentemente di unirsi al suo Sposo sacramentato, e per la vivezza dei suoi desideri cadeva in dolci deliqui, e sollecitava il Beato Raimondo suo confessore a comunicarla per tempo su i primi albori del giorno, temendo di rimanere estinta dall’impeto delle sue brame. Gradiva tanto Gesù Cristo queste ansie amorose della devota Verginella, che una mattina, mentre il detto Raimondo celebrava la santa Messa, nell’atto di frangere l’Ostia sacra, ſe’ sì che gliene volasse dalle mani una parte; e andasse a posarsi su la lingua della santa, che si trovava presente al sacrifizio, e in questo modo appagò il signore i ferventi desideri della sua sposa. (S. Anton. 3 par. Chron. tit. 23, c. 14, S. 8.). Un simile avvenimento accadde in Venezia ad una Monaca avida della santa comunione. (Ber. Just. in ejus vita c. 8.). Non potendo questa comunicarsi nella solennità del Corpus Domini, mandò a significare al gran Patriarca S. Lorenzo Giustiniano il suo desiderio, ed a pregarlo, che almeno in tempo del santo sacrifizio la raccomandasse al Signore. Or mentre il santo celebrava a tutto il popolo la santa Messa in pubblica Chiesa, la detta Monaca se lo vide entrare nella sua cella con la santissima Eucarestia, e presentarle di propria mano il corpo santissimo del Redentore. Se poi questo accadesse replicandosi il santo in due luoghi o comparendo in ispirito dentro il monastero, non si sa. Due cose sole si sanno di certo: la prima che celebrando il santo non partì dall’altare; ma solo dopo l’elevazione dell’Ostia sacra fu veduto starsene lungamente estatico, ed alieno affatto da sensi: la seconda che interrogato su questo fatto, non lo negò, ma solo impose a chi n’era consapevole un rigoroso silenzio. Ho voluto tutto ciò riferire, acciocchè si veda quanto piacciono a Gesù Cristo queste comunioni spirituali: mentre opera talvolta miracoli, per unirsi realmente allo spirito di chi ardentemente la brama. – 442. Or queste comunioni spirituali possono farsi più volte, anzi cento volte in ciascun giorno con gran profitto: perché può l’anima devota spesso slanciarsi con l’affetto in Gesù sacramentato, e desiderare di riceverlo nel suo cuore, e d’incorporarsi col suo corpo santissimo. S. Ignazio Martire, scrivendo ai romani, dice loro così: Non voluptates hujus mundi desiderio; sed panem Dei, panem cœlestem, panem vitæ, qui est caro Jesu Christi Filii Dei vivi, et potum volo sanguinem eius, qui est dilectio incorruptibilis, et vita æterna. Io non bramo, diceva il santo martire, i piaceri vani, e caduchi di questo mondo: solo bramo il pane celeste, il pane divino, il pane di vita, che è la carne di Gesù Cristo, figliuolo di Dio vivo. Solo bramo quel sangue, che è un distillato di amore, ed un estratto di eterna vita. Nello stesso modo può la persona spirituale andar dicendo tra giorno, mentre le si presentano alla vista gli oggetti frali di questa terra, all’apparenza preziosi, deliziosi, e vaghi: Non voluptates hujus mundi desidero, sed panem Dei, panem coelestem, panem vitæ. Io non curo le delizie, le ricchezze, le bellezze, che dona il mondo ai suoi seguaci. Solo desidero ricevere il mio Gesù, che è le delizie degli angeli, che è un tesoro di ricchezze inesausto, che è un fiore di ogni bellezza. Solo bramo partecipare di quel corpo glorioso, che con la gloria del suo volto beato rallegra il Paradiso; di quel sangue, che fu tutto sparso per me; di quell’anima che per me spirò sulla croce; e di quella divinità, che è scaturigine di ogni bene. Cibus meus Christus est, et ego eius: come dice S. Bernardo: (Serm. 61 in Cant.). il mio cibo sia Gesù, ed io il suo: perché egli brama incorporarsi con me, ed io con Lui in questo divinissimo Sacramento. Con questi desideri aderà la persona rinnovando ad ogni ora comunioni spirituali, le quali tanto saranno più perfette, e tanto più profittevoli, quanto sanno più fervidi i suoi affetti verso Gesù Sacramentato.

443. Bisogna però almeno una volta al giorno fare questa comunione spirituale posatamente, a bell’agio, e con speciale apparecchio, acciocchè riesca con maggior divozione, e profitto, e in qualche modo compensi gli effetti della comunione sacramentale. Né per far questo v’è tempo più opportuno di quello, in cui si assiste al santo Sacrifizio della Messa; mentre può allora la persona unirsi col sacerdote a ricevere con l’affetto quel cibo divino, ch’egli riceve in effetto. Faccia dunque ella prima un atto di contrizione, e con esso ripulisca la stanza del suo cuore, dentro cui brama che venga a riposarsi il suo Signore. Poi avvivi la fede circa la presenza reale di Cristo nel santissimo Sacramento. Consideri (come abbiamo detto di sopra, parlando della comunione sacramentale) la grandezza, e la maestà di quel Dio, che sta nascosto sotto il velo di quegli accidenti eucaristici: ponderi quel grande amore, e quella somma bontà, per cui non solo non disdegna, ma brama di unirsi Seco: rifletta alla propria piccolezza, ed alle proprie miserie. Quindi seguano affetti misti di umiliazione, e di desiderio: di umiliazione in riguardo alla propria indegnità, di desiderio in riguardo alla infinita amabilità del suo Signore. Poi vedendo, che in quella mattina non è a lei permesso di unirsi realmente con esso Lui, per mezzo della comunione sacramentale; si abbandoni con l’affetto, e con Lui si unisca col vincolo d’un amore quieto, posato, e tranquillo; finalmente prorompa in affetti di ringraziamenti, e di lodi poiché se Gesù Cristo non è venuto effettivamente nel suo seno, non è rimasto da lui, giacché egli era pronto, anzi quanto è dal canto suo bramava questa congiunzione di amore con grande ardore di carità. Gli chieda quelle grazie, di cui si conosce necessitoso, e faccia quegli altri atti, che è solito di fare dopo le sue comunioni. Oltre l’utile, che di presente gli risulterà da tali comunioni di spirito, gliene proverrà anche questo vantaggio: che si troverà dispostissimo ad accendersi in divozione, qualunque volta avrà da accostarsi alla mensa Eucaristica, per cibarsi realmente delle carni santissime del Redentore. Poiché siccome un legno, che si conservi sempre caldo, e sempre disposto ad infiammarsi alla presenza del fuoco: così un cuore, che si mantenga sempre caldo di amore verso Gesù Cristo sacramentato, è facile a concepire fiamme di carità, avvicinandosi a quella fornace di amore, che arde sempre nel santissimo Sacramento.

444. Voglio aggiungere un fatto, in cui non solo vedrassi quanto siano accette al Redentore queste comunioni spirituali: ma an che il modo, con cui bisogna ad esse apparecchiarsi, acciocché gli riescano più gradite. Riferisce il padre maestro Giovanni Nider del l’ordine venerabile dei Predicatori, (in Formic. lib. 1, cap. 1) che nella città di Nuremberga v’era un uomo plebeo di nascita, ma di costumi illibato, di natura semplice, proclive alla pietà, dedito alla meditazione della passione del Redentore, alle opere di carità, ed alla macerazione del proprio corpo. Bramava questo ardentemente comunicarsi; ma non essendo nella sua patria in uso tra gli uomini la frequenza dei Sacramenti, non si arrischiava ad accostarsi alla sacra mensa, per non parer singolare, e per non essere dalla gente mostrato a dito.  Con tutto ciò sapendo, che Iddio gradisce non solo le opere buone, ma anche la buona volontà, procurava di supplire alle comunioni sacramentali con le comunioni fatte spiritualmente coi santi desideri. Avvicinandosi pertanto quei giorni, in cui avrebbe voluto comunicarsi, si preparava precedentemente con l’astinenza del cibo. La mattina poi se la passava in sante meditazioni, e in esse tutto s’infiammava in desideri del sacro cibo: ripuliva la coscienza con un’esatta confessione d’ogni suo mancamento, assistendo finalmente alla santa Messa si univa col sacerdote con tanto affetto, che nell’atto della comunione quasi che si avesse a comunicare anch’esso, si chinava profondamente, si percuoteva il petto, e apriva la bocca per ricevere la sacrosanta particola. Cosa veramente ammirabile! Nell’atto di aprire la bocca sentiva portarsi su le labbra l’Ostia sacra, e ad un tempo stesso diffondersi per tutto lo spirito una ineffabile soavità. Così Iddio premiava la viva fede: così saziava la santa fame di questo suo fedelissimo servo. Una mattina però quasi non credendo a se stesso, ed alle proprie esperienze, pose un dito nella bocca, per far prova col tatto della mano, s’era vero ciò, che pure esperimentava col tatto della lingua, e col sapore dello spirito; e in quel toccamento rimase al dito attaccata la sacra particola. Onde sempre più certificato del vero, la prese nuovamente con le labbra, e devotamente l’ingoiò.  – Non piacque però a Dio quell’atto non decente a persona secolare, e la poca fede, che in quell’atto aveva dimostrato: e perciò non tornò più il Signore a visitarlo, come aveva fatto per il passato con un sì prodigioso favore, quantunque per altro mantenesse sempre verso il santissimo Sacramento lo stesso sentimento di divozione, e di culto, e perseverasse sempre costante nello stesso tenore di vita santa. Apprenda dunque il lettore dagli altrui esempi ad affezionarsi a queste comunioni spirituali, ed a premetter loro, almeno una volta il giorno, qualche decente apparecchio, acciocchè riescano a Gesù Cristo più gradite, e ad esso più giovevoli. E apprendano i direttori ad insinuarle ai loro penitenti, e a consolare con essa la fame di queste anime buone, che vorrebbero accostarsi alla sacra mensa più spesso di quello che loro conviene.

IL PAPA (sec. San TOMMASO)

Il Papa.

[G. Bertetti: I tesori di S. Tommaso d’Aquino; S. E. I. Torino, 1918]

1. Il Papa è il capo di tutta la Chiesa (Contra Gent., 4, 76). — 2. A lui tutti i fedeli, anche i re, debbono ubbidienza (De Regim. Princ, 1, 14). — 3. In che cosa il Papa può dispensare (Quol., 4, 13).

1. Il Papa è il capo di tutta la Chiesa. — L’unità della Chiesa richiede che tutti i fedeli vadano d’accordo nella fede. Accade che intorno alle cose di fede si sollevino dello questioni? La Chiesa allora si dividerebbe per causa delle diverse opinioni, se non si conservasse nell’unità per la sentenza d’un solo. Dunque, perché si conservi l’unità della Chiesa, ci vuol uno che presieda a tutta la Chiesa. È poi manifesto che nelle cose necessarie Gesù Cristo non vien meno alla sua Chiesa ch’egli amò, spargendo per essa il suo sangue; se anche della sinagoga fu detto dal Signore: « Che cos’altro avrei dovuto fare alla mia vigna, e non ho fatto? » (ISA., V, 4). Nessun dubbio quindi che per ordinazione di Gesù Cristo, ci sia uno che presieda a tutta la Chiesa. Nessun dubbio ci dev’essere che il regime della Chiesa sia ottimamente ordinato, essendo stato costituito da Quello per cui « regnano i re e fan giusti decreti i legislatori» (Prov., VIII, 15). Ora, il miglior governo d’un popolo è quel che risiede in un solo: perché un solo, meglio che molti, è causa di quella pace e di quell’unità ch’è il fine d’ogni governo. Dunque il regime della Chiesa è disposto in modo che uno solo presieda a tutta la Chiesa. – La Chiesa militante trae somiglianza dalla Chiesa trionfante: onde San Giovanni nell’Apocalisse vide la Gerusalemme discendente dal Cielo, e a Mosè fu detto che facesse tutto secondo l’esemplare dimostratogli sul monte. Ebbene, nella Chiesa trionfante presiede un solo, quel solo che presiede pure in tutto l’universo, Dio: « essi saran suo popolo, e lo Stesso Dio sarà con essi Dio loro » (Apoc, XXI, 3). Dunque anche nella Chiesa militante ci sarà uno che presiede a tutti: « saran congregati i figli di Giuda e i figli d’Israele parimenti, e porranno a sé un solo capo » (OSEA, 1, 11); e dice il Signore: « Sarà un solo ovile e un solo pastore » (JOAN., X, 16). Non basterà asserire che il solo capo e il solo pastore è Gesù Cristo, che è l’unico sposo della Chiesa una. Tutti sappiamo che ogni sacramento della Chiesa è compiuto da Gesù Cristo: è Lui che battezza, è Lui che rimette i peccati, è Lui il vero sacerdote che si offrì sull’altare della croce e che dà la virtù di consacrare il suo corpo ogni giorno sui nostri altari: tuttavia, poiché non sarebbe rimasto con la sua presenza corporale in mezzo ai fedeli, s’elesse dei ministri che dispensassero ai fedeli i sacramenti. Per la ragione medesima di sottrarre la sua presenza corporale alla Chiesa, lasciò in sua vece chi avesse cura della Chiesa universale. Quind’è che prima della sua ascensione disse a Pietro: « Pasci le mie pecore » (JOAN., XXI, 17); e prima della passione: « Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » ( Luc. XXII, 32); e a lui solo promise: « A te darò le chiavi del regno dei cieli » ( MATTH., XVI, 19), per dimostrare che la potestà delle chiavi sarebbe da lui derivata ad altri per la conservazione dell’unità della Chiesa. Né si può dire che questa dignità data a Pietro non sia da lui derivata ad altri. È chiaro che Gesù Cristo istituì la Chiesa in modo da durare sino alla fine del mondo: « sederà sul soglio di Davide e sul suo regno, per confermarlo e corroborarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora fino in sempiterno » (ISA., IX, 7). È chiaro dunque che Gesù Cristo costituì nel ministero quei che c’erano allora, sicché la lor potestà derivasse ai posteri, per l’utilità della Chiesa, sino alla fine del mondo; principalmente perché Egli stesso lo dice: « Ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli » (MATTH., XXVIII, 20).

2. Tutti i fedeli, anche i re, debbono ubbidienza al Papa. — Vivere secondo la virtù non è l’ultimo fine del popolo: ma il pervenire con una vita virtuosa all’ultima beatitudine che s’aspetta dopo la morte nel godimento di Dio: beatitudine acquistataci dal sangue di Gesù Cristo, beatitudine per il cui possesso ricevemmo l’arra dello Spirito Santo. Se a quest’ultimo fine noi potessimo arrivare per virtù dell’umana natura, dovrebbe condurvici chi ha in sua mano il supremo potere. Ma poiché il fine del godimento divino non si raggiunge per virtù umana, ma per virtù divina, non all’umano ma al divino regime spetterà il condurci a un tal fine. A capo di questo regime sta un Re, che non solo è uomo ma anche Dio, ossia il Signor nostro Gesù Cristo, che, facendo gli uomini figli di Dio, gl’introduce nella gloria celeste. A lui è stato affidato questo regime che non si corrompe, a Lui che dalla Scrittura è chiamato non solo Sacerdote ma anche Re (JER., XXIII, 5). Da Lui è derivato il regale sacerdozio: e, ciò ch’è più, tutti i fedeli di Cristo, in quanto sono suoi membri, son chiamati re e sacerdoti. Il ministero di questo regno, affinché le cose spirituali rimanessero distinte dalle cose corporali, non fu affidato ai re terreni, ma ai sacerdoti e precipuamente al Sommo Sacerdote successore di Pietro, vicario di Gesù Cristo e Romano Pontefice. A lui appartiene la cura dell’ultimo fine, e a lui devono sottomettersi e lasciarsi dirigere dal suo impero quei che hanno la cura dei fini antecedenti. Era giusto che i sacerdoti dei gentili fossero soggetti ai re: perché il loro sacerdozio e tutto il loro culto era per l’acquisto dei beni temporali. Anche nella legge antica i sacerdoti erano soggetti ai re: perché la legge antica prometteva beni terreni, che non il demonio ma il Dio vero avrebbe dato al popolo religioso. Ma nella nuova legge v’è un più sublime sacerdozio, per cui gli uomini sono condotti ai beni celesti.

3. In che cosa il Papa può dispensare. — Avendo il Papa la pienezza della potestà sulla Chiesa, può dispensare su tutto ciò che fu istituito dalla Chiesa o dai prelati della Chiesa. Son le cose che si dicono di diritto umano o di diritto positivo. Non può dispensare intorno a ciò ch’è di diritto divino o di diritto naturale: perché queste cose traggono efficacia da divina istituzione. – Diritto divino è quel che si riferisce alla legge nuova o alla legge antica. Ma fra l’una e l’altra legge v’è questa differenza: che la legge antica determinava molte cose, tanto nei precetti cerimoniali appartenenti al culto di Dio, quanto nei precetti giudiziali appartenenti alla conservazione della giustizia fra gli uomini; ma la legge nuova, ch’è legge di libertà, non ha più siffatte determinazioni, contentandosi dei precetti morali della legge naturale, e degli articoli della fede, e dei sacramenti della grazia: perciò si dice anche legge di fede e legge di grazia. Le altre cose che appartengono alla determinazione degli umani giudizi o alla determinazione del culto divino, Gesù Cristo, latore della nuova legge, le lasciò liberamente da determinare ai prelati della Chiesa e ai principi del popolo cristiano: perciò queste determinazioni appartengono al diritto umano, in cui il Papa può dispensare. Ma nelle, cose che son della legge di natura, e negli articoli della fede, e nei Sacramenti della nuova legge, il Papa non può dispensare: ciò non potrebbe essere in favore della verità, ma sarebbe contro la verità.

A queste note dell’Angelico aggiungiamo qualche riga di un sermone celebre (… non per i sedevacantisti sembra), di S. Leone Magno che si legge nel Breviario [quello Romano, forse i sedevacantisti ed i fallibilisti ne hanno uno … modificato …] :

Omelia di san Leone Papa

Sermone 2 nell’anniversario della sua elezione, prima della metà


Allorché, come abbiamo inteso dalla lettura del Vangelo, il Signore domandò ai discepoli, chi essi in mezzo alle diverse opinioni degli altri credessero ch’egli fosse, e gli rispose il beato Pietro con dire: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. XVI, 16; il Signore gli disse: « Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te l’ha rivelato la natura e l’istinto, ma il Padre mio ch’è nei cieli Matth. XVI, 17-19: e io ti dico, che tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei: e darò a te le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli». Rimane dunque quanto ha stabilito la verità, e il beato Pietro conservando la solidità della pietra ricevuta, non cessa di tenere il governo della Chiesa affidatagli.

Infatti in tutta la Chiesa ogni giorno Pietro ripete: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; ed ogni lingua, che confessa il Signore, è istruita dal magistero di questa voce. Questa fede vince il diavolo e spezza le catene di coloro ch’esso aveva fatti schiavi. Questa, riscattatili dal mondo, li introduce nel cielo, e le porte dell’inferno non possono prevalere contro di lei. Perché essa ha ricevuto da Dio fermezza sì grande, che né la perversità della eresia poté mai corromperla, né la perfidia del paganesimo vincerla. Così dunque, con questi sentimenti, dilettissimi, la festa odierna viene celebrata con un culto ragionevole; così che nella umile mia persona si consideri ed onori colui nel quale si perpetua la sollecitudine di tutti i pastori e la custodia di tutte le pecore a lui affidate, e la cui dignità non vien meno neppure in un erede.

Ai “distratti” sedevacantisti si potrebbe chiedere, cosa intendano essi per: “OGNI GIORNO fino alla fine dei tempi”, parole che Nostro Signore Gesù Cristo, ed i suoi Vicari poi, avrebbe pronunciato con inganno (bestemmia atroce e totalmente  inverosimile in chi è la VERITÁ e SAPIENZA); ma noi pensiamo che l’inganno sia sempre del solito serpente menzognero che si serve di sempre nuovi adepti! Occorre quindi vegliare su qualsiasi “fur et latro” (Joan. X), … oggi con le vesti sedevacantiste … che voglia intrufolarsi nell’ovile della Chiesa come “pecora matta”, per sbranare gli agnelli.

E a proposito sulle amene idiozie che si dicono sul Papa nascosto da imbecilli vari, coloro che ignorano il Vangelo [… forse ce ne sarà uno “adattato” dagli apostati scismatici sedevacantisti! … cani sciolti e papi di se stessi …] ed i Padri della Chiesa, aggiungiamo:

Léctio sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt X: 23-28
In illo témpore: Dixit Jesus discipulis suis: Cum persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam. Et réliqua.

Homilia sancti Athanasii Epíscopi.
In Apologia de fuga sua, ante med.

La legge ordinava di stabilire delle città di rifugio, in cui, coloro che in qualsiasi modo fossero cercati a morte, potessero rimanervi sicuri. Inoltre, venuto nella pienezza dei tempi quello stesso Verbo del Padre, che antecedentemente aveva parlato a Mosè, diede di nuovo quest’ordine, dicendo: « Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra ». E poco dopo aggiunge: « Quando vedrete l’orrore della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge, comprenda), allora quelli che dimorano nella Giudea, fuggano ai monti; e chi starà sulla terrazza, non discenda per prender nulla di casa sua ; e chi è al campo, non ritorni per pigliar la sua veste ». Istruiti da queste cose, i Santi ne fecero sempre la regola della loro condotta. Infatti il Signore, prima ancora della sua venuta nella carne, aveva già detto ai suoi ministri quanto ora qui comanda ; e questo precetto conduce gli uomini alla perfezione. Perché bisogna assolutamente osservare quanto Dio comanda. Ond’è che lo stesso Verbo fattosi uomo per noi, non ha stimato indegno di nascondersi, come noi, allorché era cercato; e di fuggire altresì e d’evitare le insidie, allorché veniva perseguitato: ma quando venne il tempo da se stesso stabilito, in cui voleva soffrire nel corpo per tutti, si diede spontaneamente da sé nelle mani degl’insidiatori.

CHE LA VERGINE MARIA CI LIBERI DAGLI ERETICI, APOSTATI, SCISMATICI PSEUDO-TRADIZIONALISTI DEI NOSTRI TEMPI!! …

et Ipsa conteret

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: APRILE 2019

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA:

APRILE 2019

Aprile è il mese che la Chiesa dedica alla Santa Pasqua ed alle litanie maggiori.

Surrexit, non est hic. [Marc. XVI]

Asciugate le vostre lagrime, fratelli miei, e date un libero corso alla vostra allegrezza; Colui che è stato dato alla morte per i vostri peccati, è risuscitato per vostra giustificazione; Colui che faceva pochi giorni orsono il soggetto della vostra tristezza, deve in quest’oggi essere l’oggetto del vostro gaudio; non cercate Gesù Cristo tra i morti; non è più nel sepolcro, Egli è risuscitato. Questa fu la felice e gradita nuova che l’Angelo del Signore annunziò a quelle pie donne che vennero al sepolcro di Gesù Cristo tre giorni dopo la sua morte, per imbalsamare il suo corpo. Voi venite a cercare, disse loro quell’Angelo, Gesù nazareno che è stato crocefisso; ma non lo troverete, non è più qui. Affrettatevi solamente di andare ad annunziare la risurrezione del vostro Maestro ai suoi discepoli, e dite loro che lo ritroveranno in Galilea, dove va a precederli.

Ibi eum videbitis, sicut dixit vobis [Marc. XVI).

[Mons. Billot: Discorsi parrocchiali, presso S. Cioffi, Napoli, 1840]

 LITANIE O ROGAZIONI.

[Dom Guéranger: “Istituzioni liturgiche”, vol. I]

ISTRUZIONE.

Litania, che vuol dire Preghiera, è parola greca derivata dal verbo lìtanevo, che significa: “prego”. Le Litanie Maggiori cadono nel giorno 25 Aprile, e si dicono maggiori, o perché ebbero origine dalla maggiore delle Chiese, quale si è Roma, o perché comandate in tutta la Cristianità da S. Gregorio, detto “Magno”, il quale, se non ne fu l’istitutore, dacché egli stesso ne parla come di cosa già in uso, fu però quel Papa che le universalizzò dopo di averle celebrate con una solennità tutta particolare, allorquando nel 598, per impetrare la cessazione della peste che desolava tutta Roma, chiamò tutto il Clero e, tutto il Popolo ad una Processione di penitenza che fece capo alla chiesa di Santa Maria Maggiore e durante la quale si serenò il cielo, cessò la mortalità, e si vide sulla mole Adriana un Angelo che rimetteva nel fodero la propria spada, per significare che il flagello era cessato. Fu in quella circostanza che all’antica mole Adriana si mutò il nome in quello di Castel sant’Angelo, e vi fu eretta la grande statua di S. Michele.

Queste sono le feste che la Chiesa Cattolica celebra in questo mese di Aprile:

2 Aprile S. Francisci de Paula Confessoris    Duplex

4 Aprile S. Isidori Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

5 Aprile S. Vincentii Ferrerii Confessoris    Duplex

1° Venerdì

6 Aprile 1° Sabato

7 Aprile Dominica I Passionis    Semiduplex I. classis *I*

11 Aprile S. Leonis I Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Feria

13 Aprile S. Hermenegildi Martyris    Feria

14 Aprile Dominica II Passionis seu in Palmis    Semiduplex I. classis

17 Aprile S. Aniceti Papæ et Martyris    Simplex

18 Aprile Feria Quinta in Cena Domini    Duplex I. classis *I*

19 Aprile Feria Sexta in Passione et Morte Domini    Duplex I. classis

20 Aprile Sabbato Sancto    Duplex I. classis

21 Aprile Dominica Resurrectionis    Duplex I. classis

22 Aprile Die II infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

23 Aprile Die III infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

                             S. Georgii Martyris

24 Aprile Die IV infra octavam Paschæ    Semiduplex

                      S. Fidelis de Sigmaringa Martyris   

25 Aprile Die V infra octavam Paschæ   

                     S. Marci Evangelistæ    Duplex II. classis

26 Aprile Die VI infra octavam Paschæ    Semiduplex

                      SS. Cleti et Marcellini Summorum Pontificum et Mártyrum   

27 Aprile Sabbato in Albis    Semiduplex

                       S. Petri Canisii Confessóris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

28 Aprile Dominica in Albis in Octava Paschæ    Duplex I. classis

29 Aprile S. Petri Martyris    Duplex

30 Aprile S. Catharinæ Senensis Virginis    Duplex