UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – HUMANI GENERIS

La lettera enciclica che proponiamo all’attenzione dei lettori, è una delle più importanti nella storia della Chiesa, e uno degli ultimi documenti di un Papa Cattolico, libero di esprimersi, prima della falce massonica e della ruspa liturgico-teologica che hanno determinato un macello putrido tra le anime, ed un cumulo di macerie nella Chiesa di Cristo, alterandone i connotati ideologici, filosofici, teologici, liturgici, con il ribaltone del falso pseudo-concilio c. d. Vaticano II, mediante il quale gli infiltrati marrani della “quinta colonna” si sono appropriati, usurpandoli, di tutti i posti chiave all’interno della struttura ecclesiastica, approfittando sia dei cani guardiani dormienti, sia dei pastori distratti dalla vanità, dai bagordi, dalle passioni sodomitiche, dall’amore dei beni del mondo e dall’amor proprio, novelli Giuda che, per un pugno di denari, dal vessillo di Cristo, sono passati sotto lo stendardo del nemico infernale, determinano la perdita di un numero incalcolabile di anime, comprese le loro. In questo vero syllabus degli errori del neo-ultra-modernismo, viene riaffermato il ruolo di assoluta importanza del Magistero Pontificio, sintesi ed elaborazione infallibile della Tradizione e della Sacra Scrittura, della quale è l’unica interprete autorizzata per diritto divino, e della filosofia e teologia scolastica, il cui apice è ovviamente il Dottore Angelico, proprio quello rigettato dalla blasfema, eretica, gnostica, satanica, la cosiddetta “nouvelle Theologie”, capace di moltiplicare all’infinito i bubboni pestiferi del modernismo già ampiamente condannati, ma mai sopiti e recidivati con virulenza maligna e metastatizzati tra le menti bacate di pseudo-teologi tutti accreditati nella falsa “chiesa dell’uomo”, la meretrice e la degna concubina del “signore dell’universo”, cioè dell’angelo decaduto e sprofondato negli inferi, concubina grottesca, mascherata obbrobriosamente da Sposa di Cristo. Ma senza andare oltre conviene effettivamente attenersi alla lucidissima analisi di S. S. Pio XII, ben coadiuvato nella stesura del documento pontificio da teologi illuminati (… non di Baviera!) ancora fedeli alla Chiesa, alla sua dottrina ed al suo Magistero; tra questi ci piace annoverare il futuro Papa Gregorio XVII, il Cardinal Giuseppe Siri, accanito ed irriducibile difensore della Chiesa, guardiano fedele della Dottrina, della filosofia e della teologia speculativa nonché dei testi canonici, dei quali era indiscussa autorità ai livelli assoluti. Godiamoci allora queste pagine che costituiranno pure una bella rinfrescata di memoria per chi ricorda appena concetti filosofici astrusi e falsi, propagandati ancora oggi dalla cultura laico-massonica (falsamente)progressista, e annichiliti dalla esposizione magistrale del Pontefice Massimo.

ENCICLICA

“HUMANI GENERIS”

DI S. S. PIO XII

“CIRCA ALCUNE FALSE OPINIONI CHE MINACCIANO DI SOVVERTIRE I FONDAMENTI DELLA DOTTRINA CATTOLICA”

AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI,

PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI

E AGLI ALTRI ORDINARI

AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE

PACE E COMUNIONE

PIO PP. XII

SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Introduzione

I dissensi e gli errori degli uomini in materia religiosa e morale, per tutti gli onesti, soprattutto dei i sinceri e fedeli figli della Chiesa, sono sempre stati origine e causa di fortissimo dolore, ma specialmente oggi, quando vediamo come da ogni parte vengano offesi gli stessi principi della cultura cristiana. – Veramente non c’è da meravigliarsi, se fuori dell’ovile di Cristo sempre vi sono stati questi dissensi ed errori. Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere. Le verità che riguardano Dio e le relazioni tra gli uomini e Dio trascendono del tutto l’ordine delle cose sensibili; quando poi si fanno entrare nella pratica della vita e la informano, allora richiedono sacrificio e abnegazione. Nel raggiungere tali verità, l’intelletto umano incontra ostacoli della fantasia, sia per le cattive passioni provenienti dal peccato originale. Avviene che gli uomini in queste cose volentieri si persuadono che sia falso, o almeno dubbio, ciò che essi “non vogliono che sia vero”. Per questi motivi si deve dire che la Rivelazione divina è moralmente necessaria affinché quelle verità che in materia religiosa e morale non sono per sé irraggiungibili, si possano da tutti conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore. (Conc. Vat. D. B. 1876, Cost. “De fide Cath.”, cap. II, De revelatione). – Anzi la mente umana qualche volta può trovare difficoltà anche nel formarsi un giudizio certo di credibilità circa la fede cattolica, benché da Dio siano stati disposti tanti e mirabili segni esterni, per cui anche con la sola luce naturale della ragione si può provare con certezza l’origine divina della Religione cristiana. L’uomo infatti, sia perché guidato da pregiudizi, sia perché istigato da passioni e da cattiva volontà, non solo può negare la chiara evidenza dei segni esterni, ma anche resistere alle ispirazioni che Dio infonde nelle nostre anime. Chiunque osservi il mondo odierno, che è fuori dell’ovile di Cristo, facilmente potrà vedere le principali vie per le quali i dotti si sono incamminati. Alcuni, senza prudenza né discernimento, ammettono e fanno valere per origine di tutte le cose il sistema evoluzionistico, pur non essendo esso indiscutibilmente provato nel campo stesso delle scienze naturali, e con temerarietà sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua evoluzione. Di quest’ipotesi volentieri si servono i fautori del comunismo per farsi difensori e propagandisti del loro materialismo dialettico e togliere dalle menti ogni nozione di Dio. – Le false affermazioni di siffatto evoluzionismo, per cui viene ripudiato quanto vi è di assoluto, fermo ed immutabile, hanno preparato la strada alle aberrazioni di una nuova filosofia che, facendo concorrenza all’idealismo, all’immanentismo e al pragmatismo, ha preso il nome di “esistenzialismo” perché, ripudiate le essenze immutabili delle cose, si preoccupa solo della “esistenza” dei singoli individui. Si aggiunge a ciò un falso “storicismo” che si attiene solo agli eventi della vita umana e rovina le fondamenta di qualsiasi verità e legge assoluta sia nel campo della filosofia, sia in quello dei dogmi cristiani. In tanta confusione di opinioni, Ci reca un po’ di consolazione il vedere coloro che un tempo erano stati educati nei principî del razionalismo, ritornare oggi, non di rado, alle sorgenti della verità rivelata, e riconoscere e professare la parola di Dio, conservata nella Sacra Scrittura, come fondamento della Teologia. – Nello stesso tempo però reca dispiacere il fatto che non pochi di essi, quanto più fermamente aderiscono alla parola di Dio, tanto più sminuiscono il valore della ragione umana, e quanto più volentieri innalzano l’autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente disprezzano il Magistero della Chiesa, istituito da Cristo Signore per custodire e interpretare le verità rivelate da Dio. Questo disprezzo non solo è in aperta contraddizione con la Sacra Scrittura, ma si manifesta falso anche con la stessa esperienza. Poiché frequentemente gli stessi “dissidenti” si lamentano in pubblico della discordia che regna fra di loro nel campo dogmatico, cosicché, pur senza volerlo, riconoscono la necessità di un vivo Magistero. – Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi e dai teologi cattolici, che hanno il grave compito di difendere le verità divine ed umane e di farle penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono bene conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po’ di verità, sia infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche. Se i nostri cultori di filosofia e di teologia da queste dottrine, esaminate con cautela, cercassero solo di cogliere i detti frutti, non vi sarebbe motivo perché il Magistero della Chiesa avesse a interloquire. Ma, benché Noi sappiamo bene che gli insegnanti e i dotti cattolici in genere si guardano da tali errori, è noto però che non mancano nemmeno oggi, come ai tempi apostolici, coloro che, amanti più del conveniente delle novità e timorosi di essere ritenuti ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in quest’epoca di progresso, cercano di sottrarsi alla direzione del sacro Magistero e perciò sono nel pericolo di allontanarsi insensibilmente dalle verità Rivelate e di trarre in errore anche gli altri. Si nota poi un altro pericolo, e tanto più grave, perché si copre maggiormente con l’apparenza della virtù. – Molti, deplorando la discordia e la confusione che regna nelle menti umane, mossi da uno zelo imprudente e spinti da uno slancio e da un grande desiderio di rompere i confini con cui sono fra loro divisi i buoni e gli onesti; essi abbracciano perciò una specie di “irenismo” che, omesse le questioni che dividono gli uomini, non cerca solamente di ricacciare, con unità di forze, l’irrompente ateismo, ma anche di conciliare le opposte posizioni nel campo stesso dogmatico. E come un tempo vi furono coloro che si domandavano se l’apologetica tradizionale della Chiesa costituisse più un ostacolo che un aiuto per guadagnare le anime a Cristo, cosi oggi non mancano coloro che osano arrivare fino al punto di proporre seriamente la questione, se la teologia e il suo metodo, come sono in uso nelle scuole con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo debbano essere perfezionate, ma anche completamente riformate, affinché si possa propagare con più efficacia il regno di Cristo in tutto il mondo, fra gli uomini di qualsiasi cultura o di qualsiasi opinione religiosa. Se essi non avessero altro intento che quello di rendere, con qualche innovazione, la scienza ecclesiastica e il suo metodo più adatti alle odierne condizioni e necessità, non ci sarebbe quasi motivo di temere; ma alcuni, infuocati da un imprudente “irenismo”, sembrano ritenere un ostacolo al ristabilimento dell’unità fraterna, quanto si fonda sulle leggi e sui principî stessi dati da Cristo e sulle istituzioni da Lui fondate, o quanto costituisce la difesa e il sostegno dell’integrità della fede, crollate le quali, tutto viene sì unificato, ma soltanto nella comune rovina. Queste opinioni, provenienti da deplorevole desiderio di novità o anche da lodevoli motivi, non sempre vengono proposte con la medesima gradazione, con la medesima chiarezza o con i medesimi termini, né sempre i sostenitori di esse sono pienamente d’accordo fra loro; ciò che viene oggi insegnato da qualcuno più copertamente con alcune cautele e distinzioni, domani da altri, più audaci, viene proposto pubblicamente e senza limitazioni, con scandalo di molti, specialmente del giovane clero, e con detrimento dell’autorità ecclesiastica. Se di solito si usa più cautela nelle pubblicazioni stampate, di questi argomenti si tratta con maggiore libertà negli opuscoli distribuiti in privato, nelle lezioni dattilografate e nelle adunanze. Queste opinioni non vengono divulgate solo fra i membri del clero secolare e regolare, nei seminari e negli istituti religiosi, ma anche fra i laici, specialmente fra quelli che si dedicano all’educazione e all’istruzione della gioventù.

I

Per quanto riguarda la Teologia, certuni intendono ridurre al massimo il significato dei dogmi; liberare lo stesso dogma dal modo di esprimersi, già da tempo usato nella Chiesa, e dai concetti filosofici in vigore presso i dottori cattolici, per ritornare nell’esporre la dottrina cattolica, alle espressioni usate dalla Sacra Scrittura e dai Santi Padri. Essi così sperano che il dogma, spogliato degli elementi estrinseci, come essi dicono, alla divina rivelazione, possa venire con frutto paragonato alle opinioni dogmatiche di coloro che sono separati dalla Chiesa e in questo modo si possa pian piano arrivare all’assimilazione del dogma con le opinioni dei dissidenti. Inoltre, ridotta in tali condizioni la dottrina cattolica, pensano di aprire cosi la via attraverso la quale arrivare, dando soddisfazione alle odierne necessità, a poter esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia dell’esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema. – E perciò taluni, più audaci, sostengono che ciò possa, anzi debba farsi, perché i misteri della fede, essi affermano, non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli, con i quali la verità viene in un certo qual modo manifestata, ma necessariamente anche deformata. Perciò ritengono non assurdo, ma del tutto necessario che la teologia, in conformità ai vari sistemi filosofici di cui essa nel corso dei tempi si serve come strumenti, sostituisca nuovi concetti agli antichi; cosicché in modi diversi, e sotto certi aspetti anche opposti, ma come essi dicono equivalenti, esponga al modo umano le medesime verità divine. Aggiungono poi che la storia dei dogmi consiste nell’esporre le varie forme di cui si è rivestita successivamente la verità rivelata, secondo le diverse dottrine e le diverse opinioni che sono sorte nel corso dei secoli. – Da quanto abbiamo detto è chiaro che queste tendenze non solo conducono al relativismo dogmatico, ma di fatto già lo contengono; questo relativismo e poi fin troppo favorito dal disprezzo verso la dottrina tradizionale e verso i termini con cui essa si esprime. Tutti sanno che le espressioni di tali concetti, usate sia nelle scuole sia dal Magistero della Chiesa, possono venir migliorate e perfezionate; è inoltre noto che la Chiesa non è stata sempre costante nell’uso di quelle medesime parole. È chiaro pure che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque effimero sistema filosofico; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma, senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principî e nozioni dedotte da una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella, ha illuminato per mezzo della Chiesa la mente umana. Perciò non c’è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene. Per tali ragioni, è massima imprudenza il trascurare o respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le quali, a somiglianza dell’erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento. Il disprezzo delle parole e delle nozioni usate dai teologi scolastici, di per sé conduce all’indebolimento della teologia speculativa, che essi ritengono priva di una vera certezza in quanto si fonda sulle ragioni teologiche. Purtroppo questi amatori delle novità facilmente passano dal disprezzo della teologia scolastica allo spregio verso lo stesso Magistero della Chiesa che ha dato, con la sua autorità, una cosi notevole approvazione a quella teologia. Questo Magistero viene da costoro fatto apparire come un impedimento al progresso e un ostacolo per la scienza; da alcuni acattolici poi viene considerato come un freno, ormai ingiusto, con cui alcuni teologi più colti verrebbero trattenuti dal rinnovare la loro scienza. E benché questo sacro Magistero debba essere per qualsiasi teologo, in materia di fede e di costumi, la norma prossima e universale di verità (in quanto ad esso Cristo Signore ha affidato il deposito della fede – cioè la Sacra Scrittura e la Tradizione divina – per essere custodito, difeso ed interpretato, tuttavia viene alle volte ignorato, come se non esistesse, il dovere che hanno i fedeli di rifuggire pure da quegli errori che in maggiore o minore misura s’avvicinano all’eresia, e quindi “di osservare anche le costituzioni e i decreti. con cui queste false opinioni vengono dalla Santa Sede proscritte e proibite” (Corp. Jur. Can., can. 1324; Cfr. Conc. Vat. D. B. 1820, Cost. “De fide cath.”, cap. 4, De fide et ratione, post canones). – Quanto viene esposto nelle Encicliche dei Sommi Pontefici circa il carattere e la costituzione della Chiesa, viene da certuni, di proposito e abitualmente, trascurato con lo scopo di far prevalere un concetto vago che essi dicono preso dagli antichi Padri, specialmente greci. I Pontefici infatti – essi vanno dicendo – non intendono dare un giudizio sulle questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; è quindi necessario ritornare alle fonti primitive, e con gli scritti degli antichi si devono spiegare le costituzioni e i decreti del Magistero. Queste affermazioni vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti  è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse. Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono poi le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Luc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già per altre

ragioni patrimonio della dottrina cattolica. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi. È vero pure che i teologi devono sempre ritornare alle fonti della Rivelazione divina: è infatti loro compito indicare come gli insegnamenti del vivo Magistero “si trovino sia esplicitamente sia implicitamente” nella Sacra Scrittura o nella divina tradizione. Inoltre si aggiunga che ambedue le fonti della Rivelazione contengono tali e tanti tesori di verità da non potersi mai, di fatto, esaurire. Le scienze sacre con lo studio delle sacre fonti ringiovaniscono sempre; al contrario, diventa sterile, come sappiamo dall’esperienza, la speculazione che trascura la ricerca del sacro deposito. Ma per questo motivo la teologia, anche quella positiva, non può essere equiparata ad una scienza solamente storica. Dio insieme a queste sacre fonti ha dato alla sua Chiesa il vivo Magistero, anche per illustrare e svolgere quelle verità che sono contenute nel deposito della fede soltanto oscuramente e come implicitamente. E il divin Redentore non ha mai dato questo deposito, per l’autentica interpretazione, né ai singoli fedeli, né agli stessi teologi, ma solo al Magistero della Chiesa. Se poi la Chiesa esercita questo suo officio (come nel corso dei secoli è spesso avvenuto) con l’esercizio sia ordinario che straordinario di questo medesimo officio, è evidente che è del tutto falso il metodo con cui si vorrebbe spiegare le cose chiare con quelle oscure; anzi è necessario che tutti seguano l’ordine inverso. Perciò il Nostro Predecessore di imperitura memoria Pio IX, mentre insegnava che è compito nobilissimo della teologia quello di mostrare come una dottrina definita dalla Chiesa è contenuta nelle fonti, non senza grave motivo aggiungeva le seguenti parole: “in quello stesso senso, con cui è stata definita dalla Chiesa”.

II

Ritorniamo ora alle teorie nuove, di cui abbiamo parlato prima: da alcuni vengono proposte o istillate nella mente diverse opinioni che sminuiscono l’autorità divina della Sacra Scrittura. Con audacia alcuni pervertono il senso delle parole del Concilio Vaticano con cui si definisce che Dio è l’Autore della Sacra Scrittura, e rinnovano la sentenza, già più volte condannata, secondo cui l’inerranza della Sacra Scrittura si estenderebbe soltanto a ciò che riguarda Dio stesso o la religione e la morale. Anzi falsamente parlano di un senso umano della Bibbia, sotto il quale sarebbe nascosto il senso divino, che è, come essi dichiarano, il solo infallibile. Nell’interpretazione della Sacra Scrittura essi non vogliono tener conto dell’analogia della fede e della tradizione della Chiesa; in modo che la dottrina dei Santi Padri e del Magistero dovrebbe essere misurata con quella della Sacra Scrittura, spiegata, però, dagli esegeti in modo puramente umano; e non piuttosto la Sacra Scrittura esposta secondo la mente della Chiesa, che da Cristo Signore è stata costituita custode e interprete di tutto il deposito delle verità rivelate. Inoltre il senso letterale della Sacra Scrittura e la sua spiegazione elaborata, sotto la vigilanza della Chiesa, da tali e tanti esegeti, dovrebbe, secondo le loro false opinioni, cedere il posto ad una nuova esegesi, chiamata simbolica e spirituale; secondo quest’esegesi i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti. In questo modo – essi affermano – svaniscono tutte le difficoltà alle quali vanno incontro soltanto coloro che si attengono al senso letterale delle Scritture. – Tutti vedono quanto tutte queste opinioni si allontanino dai principi e dalle norme ermeneutiche giustamente stabilite dai Nostri Predecessori di felice memoria: da Leone XIII nell’Enciclica “Providentissimus Deus“, da Benedetto XV nell’Enciclica “Spiritus Paraclitus“, come pure da Noi stessi nell’Enciclica “Divino afflante Spiritu“. Non deve recare meraviglia che tali novità in quasi tutte le parti della teologia abbiano prodotto i loro velenosi frutti. Si mette in dubbio che la ragione umana, senza l’aiuto della divina Rivelazione e della grazia, possa dimostrare con argomenti dedotti dalle cose create, l’esistenza di un Dio personale; si afferma che il mondo non ha avuto inizio e che la creazione del mondo è necessaria, perché procede dalla necessaria liberalità del divino amore; così pure si afferma che Dio non ha prescienza eterna ed infallibile delle libere azioni dell’uomo: tutte opinioni contrarie alle dichiarazioni del Concilio Vaticano (Cfr. Conc. Vat. Cost. “De fide cath.”, cap. 1: De Deo rerum omnium creatore). Da alcuni poi si mette in discussione se gli Angeli siano persone; se vi sia una differenza essenziale fra la materia e lo spirito. Altri snaturano il concetto della gratuità dell’ordine sovrannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica. Né basta; poiché, messe da parte le definizioni del Concilio di Trento, viene distrutto il vero concetto di peccato originale e insieme quello di peccato in genere, in quanto offesa di Dio, come pure quello di soddisfazione data per noi da Cristo. Né mancano coloro che sostengono che la dottrina della transustanziazione, in quanto fondata su un concetto antiquato di sostanza, deve essere corretta in modo da ridurre la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia ad un simbolismo, per cui le specie consacrate non sarebbero altro che segni efficaci della presenza di Cristo e della sua intima unione nel Corpo mistico con i membri fedeli. Certuni non si ritengono legati alla dottrina che Noi abbiamo esposta in una Nostra Enciclica e che è fondata sulle fonti della Rivelazione, secondo cui il Corpo mistico di Cristo e la Chiesa cattolica romana sono una sola identica cosa. Alcuni riducono ad una vana formula la necessità di appartenere alla vera Chiesa per ottenere l’eterna salute. Altri infine non ammettono il carattere razionale dei segni di credibilità della fede cristiana. È noto che questi errori, ed altri del genere, serpeggiano in mezzo ad alcuni Nostri figli, tratti in inganno da uno zelo imprudente o da una scienza di falso conio; e a questi figli sono costretti a ripetere, con animo addolorato, verità notissime ed errori manifesti, indicando loro con ansietà i pericoli dell’errore.

III

Tutti sanno quanto la Chiesa apprezzi il valore della ragione umana, alla quale spetta il compito di dimostrare con certezza l’esistenza di un solo Dio personale, di dimostrare invincibilmente per mezzo dei segni divini i fondamenti della stessa fede cristiana; di porre inoltre rettamente in luce la legge che il Creatore ha impressa nelle anime degli uomini; ed infine il compito di raggiungere una conoscenza limitata, ma utilissima, dei misteri (Cfr. Conc. Vat. D. B. 1796). Ma questo compito potrà essere assolto convenientemente e con sicurezza, se la ragione sarà debitamente coltivata: se cioè essa verrà nutrita di quella sana filosofia che è come un patrimonio ereditato dalle precedenti età cristiane e che possiede una più alta autorità, perché lo stesso Magistero della Chiesa ha messo al confronto con la verità rivelata i suoi principî e le sue principali asserzioni, messe in luce e fissate lentamente attraverso i tempi da uomini di grande ingegno. Questa stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla Chiesa, difende il genuino valore della cognizione umana, gli incrollabili principî della metafisica cioè di ragion sufficiente, di causalità e di finalità ed infine sostiene che si può raggiungere la verità certa ed immutabile. In questa filosofia vi sono certamente parecchie cose che non riguardano la fede e i costumi, né direttamente né indirettamente, e che perciò la Chiesa lascia alla libera discussione dei competenti in materia; ma non vi è la medesima libertà riguardo a parecchie altre, specialmente riguardo ai principî ed alle principali asserzioni di cui già parlammo. Anche in tali questioni essenziali si può dare alla filosofia una veste più conveniente e più ricca; si può rafforzare la stessa filosofia con espressioni più efficaci, spogliarla di certi mezzi scolastici meno adatti, arricchirla anche – però con prudenza – di certi elementi che sono frutto del progressivo lavoro della mente umana; però non si deve mai sovvertirla o contaminarla con falsi principî, né stimarla solo come un grande monumento, sì, ma archeologico. La verità in ogni sua manifestazione filosofica non può essere soggetta a quotidiani mutamenti specialmente trattandosi dei principî per sé noti della ragione umana o di quelle asserzioni che poggiano tanto sulla sapienza dei secoli che sul consenso e sul fondamento anche della Rivelazione divina. Qualsiasi verità la mente umana con sincera ricerca ha potuto scoprire, non può essere in contrasto con la verità già acquisita; perché Dio, Somma Verità, ha creato e regge l’intelletto umano non affinché alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga altre nuove; ma affinché,, rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero insinuati, aggiunga verità a verità nel medesimo ordine e con la medesima organicità con cui vediamo costituita la natura stessa delle cose da cui la verità si attinge. Per tale ragione il Cristiano, sia egli filosofo o teologo, non abbraccia con precipitazione e leggerezza tutte le novità che ogni giorno vengono escogitate, ma le deve esaminare con la massima diligenza e le deve porre su una giusta bilancia per non perdere la verità già conquistata o corromperla, certamente con pericolo e danno della fede stessa. – Se si considera bene quanto sopra è stato esposto, facilmente apparirà chiaro il motivo per cui la Chiesa esige che i futuri sacerdoti siano istruiti nelle scienze filosofiche “secondo il metodo, la dottrina e i principi del Dottor Angelico” (Corp. Jur. Can., can. 1366, 2), giacché, come ben sappiamo dall’esperienza di parecchi secoli, il metodo dell’Aquinate si distingue per singolare superiorità tanto nell’ammaestrare gli animi che nella ricerca della verità; la sua dottrina poi è in armonia con la Rivelazione divina ed è molto efficace per mettere al sicuro i fondamenti della fede come pure per cogliere con utilità e sicurezza i frutti di un sano progresso (A. A. S. vol. XXXVIII, 1946, p. 387). Perciò è quanto mai da deplorarsi che oggi la filosofia confermata ed ammessa dalla Chiesa sia oggetto di disprezzo da parte di certuni, talché essi con imprudenza la dichiarano antiquata per la forma e razionalistica per il processo di pensiero. Vanno dicendo che questa nostra filosofia difende erroneamente l’opinione che si possa dare una metafisica vera in modo assoluto; mentre al contrario essi sostengono che le verità, specialmente quelle trascendenti, non possono venire espresse più convenientemente che per mezzo di dottrine disparate che si completano tra loro, benché siano in certo modo l’una all’altra opposte. Perciò la filosofia scolastica con la sua lucida esposizione e soluzione delle questioni, con la sua accurata determinazione dei concetti e le sue chiare distinzioni, può essere utile – essi concedono – come preparazione allo studio della teologia scolastica, molto bene adattata alla mentalità degli uomini medievali; ma non può darci – aggiungono – un metodo ed un indirizzo filosofico che risponda alle necessità della nostra cultura moderna. Oppongono, inoltre, che la filosofia perenne non è che la filosofia delle essenze immutabili, mentre la mentalità moderna deve interessarsi della “esistenza” dei singoli individui e della vita sempre in divenire.

Però, mentre disprezzano questa filosofia, esaltano le altre, sia antiche che recenti, sia di popoli orientali che di quelli occidentali, in modo che sembrano voler insinuare che tutte le filosofie o opinioni, con l’aggiunta – se necessario – di qualche correzione o di qualche complemento, si possono conciliare con il dogma cattolico. Ma nessun cattolico può mettere in dubbio quanto tutto ciò sia falso, specialmente quando si tratti di sistemi come l’immanentismo, l’idealismo, il materialismo, sia storico che dialettico, o anche come l’esistenzialismo, quando esso professa l’ateismo o quando nega il valore del ragionamento nel campo della metafisica. Infine alla filosofia delle nostre scuole essi fanno questo rimprovero: che essa nel processo del pensiero bada solo all’intelletto e trascura la funzione della volontà e del sentimento. Ciò non corrisponde a verità. La filosofia cristiana non ha mai negato l’utilità e l’efficacia che hanno le buone disposizioni di tutta l’anima per conoscere ed abbracciare le verità religiose e morali; anzi, ha sempre insegnato che la mancanza di tali disposizioni può essere la causa per cui l’intelletto, sotto l’influsso delle passioni e della cattiva volontà, venga cosi oscurato da non poter rettamente vedere. Di più, il Dottor Comune ritiene che l’intelletto possa in qualche modo percepire i beni di grado superiore dell’ordine morale sia naturale che soprannaturale, in quanto esso esperimenta nell’ultimo una certa “connaturalità” sia essa naturale, sia frutto della grazia, con i medesimi beni (Cfr. S. Thom., Summa Theol. IIa IIæ, quæst. I, art. 4 ad 3; et quæst. 45, art. 2, in c.); ed è chiaro quanto questa, sia pur subcosciente, conoscenza possa essere di aiuto alla ragione nelle sue ricerche. Ma altro è riconoscere il potere che hanno la volontà e le disposizioni dell’animo di aiutare la ragione a raggiungere una conoscenza più certa e più salda delle verità morali, ed altro in quanto vanno sostenendo quei tali novatori: cioè che la volontà e il sentimento hanno un certo potere intuitivo e che l’uomo, non potendo col ragionamento discernere con certezza ciò che dovrebbe abbracciare come vero, si volge alla volontà, per cui egli possa compiere una libera risoluzione ed elezione fra opposte opinioni, mescolando malamente così la conoscenza e l’atto della volontà. Non c’è da meravigliarsi che con queste nuove opinioni siano messe in pericolo le due scienze filosofiche che, per natura loro, sono strettamente collegate con gli insegnamenti della fede, cioè la teodicea e l’etica; essi ritengono che la funzione di queste non sia quella di dimostrare con certezza qualche verità riguardante Dio o altro ente trascendente, ma piuttosto quella di mostrare come siano perfettamente coerenti con le necessità della vita le verità che la fede insegna riguardo a Dio, Essere personale, e ai suoi precetti, e che perciò devono essere accettate da tutti per evitare la disperazione e per ottener l’eterna salvezza. Tutte queste affermazioni e opinioni sono apertamente contrarie ai documenti dei Nostri Predecessori Leone XIII e Pio X, e sono inconciliabili con i decreti del Concilio Vaticano. – Sarebbe veramente inutile deplorare queste aberrazioni, se tutti, anche nel campo filosofico, fossero ossequienti con la debita venerazione verso il Magistero della Chiesa, che per istituzione divina ha la missione non solo di custodire e interpretare il deposito della Rivelazione, ma anche di vigilare sulle stesse scienze filosofiche perché i dogmi cattolici non abbiano a ricevere alcun danno da opinioni non rette.

IV

Rimane ora da parlare di quelle questioni che, pur appartenendo alle scienze positive, sono più o meno connesse con le verità della fede cristiana. Non pochi chiedono instantemente che la Religione Cattolica tenga massimo conto di quelle scienze. Il che è senza dubbio cosa lodevole, quando si tratta di fatti realmente dimostrati; ma bisogna andar cauti quando si tratta piuttosto di ipotesi, benché in qualche modo fondate scientificamente, nelle quali si tocca la dottrina contenuta nella Sacra Scrittura o anche nella tradizione. Se tali ipotesi vanno direttamente o indirettamente contro la dottrina rivelata, non possono ammettersi in alcun modo. – Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità dell’attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell’evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull’origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente sia Dio). Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all’evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l’ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede (Cfr. Allocuzione Pont. ai membri dell’Accademia delle Scienze, 30 novembre 1941; A. A. S. Vol. , p. 506). Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela. Però quando si tratta dell’altra ipotesi, cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. I fedeli non possono abbracciare quell’opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l’insieme di molti progenitori; non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio (cfr. Rom. V, 12-19; Conc. Trident., sess. V, can. 1-4).

V

Come nelle scienze biologiche ed antropologiche, cosi pure in quelle storiche vi sono coloro che audacemente oltrepassano i limiti e le cautele stabilite dalla Chiesa. In modo particolare si deve deplorare un certo sistema di interpretazione troppo libera dei libri storici del Vecchio Testamento; i fautori di questo sistema, per difendere le loro idee, a torto si riferiscono alla Lettera che non molto tempo fa è stata inviata all’arcivescovo di Parigi dalla Pontificia Commissione per gli Studi Biblici (16 gennaio 1948; A. A. S., vol. XL, pp. 45-48). Questa Lettera infatti fa notare che gli undici primi capitoli del Genesi, benché propriamente parlando non concordino con il metodo storico usato dai migliori autori greci e latini o dai competenti del nostro tempo, tuttavia appartengono al genere storico in un vero senso, che però deve essere maggiormente studiato e determinato dagli esegeti; i medesimi capitoli – fa ancora notare la Lettera – con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell’origine del genere umano e del popolo eletto. Se qualche cosa gli antichi agiografi hanno preso da narrazioni popolari (il che può essere concesso), non bisogna mai dimenticare che hanno fatto questo con l’aiuto dell’ispirazione divina, che nella scelta e nella valutazione di quei documenti li ha premuniti da ogni errore. Quindi le narrazioni popolari inserite nelle Sacre Scritture non possono affatto essere poste sullo stesso piano delle mitologie o simili, le quali sono frutto più di un’accesa fantasia che di quell’amore alla verità e alla semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio Testamento, da dover affermare che i nostri agiografi son palesemente superiori agli antichi scrittori profani. Veramente Noi sappiamo che la maggioranza dei dottori cattolici, dei cui studi raccolgono i frutti gli Atenei, i Seminari e i Collegi dei religiosi, sono lontani da quegli errori che apertamente o di nascosto oggi vengono divulgati, sia per smania di novità, sia anche per una non moderata intenzione di apostolato. – Ma sappiamo anche che queste nuove opinioni possono fai presa tra le persone imprudenti; quindi preferiamo porvi rimedio sugli inizi, piuttosto che somministrare la medicina quando la malattia è ormai invecchiata. Per questo motivo, dopo matura riflessione e considerazione, per non venir meno al Nostro sacro dovere, ordiniamo ai Vescovi e ai Superiori Generali degli Ordini e Congregazioni religiose, onerata in maniera gravissima la loro coscienza, di curare con ogni diligenza che opinioni di tal genere non siano sostenute nelle scuole o nelle adunanze e conferenze, né con scritti di qualsiasi genere e nemmeno siano insegnate, in qualsivoglia maniera, ai chierici o ai fedeli. Gli insegnanti degli Istituti ecclesiastici sappiano che essi non possono esercitare con tranquilla coscienza l’ufficio di insegnare che è stato loro affidato, se non accettano religiosamente le norme che abbiamo stabilite e non le osservano esattamente nell’insegnamento delle loro materie. Quella doverosa venerazione ed obbedienza che nel loro assiduo lavoro devono professare verso il Magistero della Chiesa le infondano anche nella mente e nell’anima dei loro scolari.

Conclusione

Cerchiamo con ogni sforzo e con passione di concorrere al progresso delle scienze che insegnano; ma si guardino anche dall’oltrepassare i confini da Noi stabiliti per la difesa della fede e della dottrina cattolica. Alle nuove questioni, che la cultura moderna e il progresso hanno fatto diventare di attualità, diano l’apporto delle loro accuratissime ricerche, ma con la conveniente prudenza e cautela; infine, non abbiano a credere, per un falso “irenismo”, che si possa ottenere un felice ritorno nel seno della Chiesa dei dissidenti e degli erranti, se non si insegna a tutti, sinceramente, tutta la verità in vigore nella Chiesa, senza alcuna corruzione e senza alcuna diminuzione. Fondati su questa speranza, che sarà aumentata dalla vostra pastorale solerzia, come auspicio dei celesti doni e segno della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di gran cuore a voi tutti singolarmente, come al clero e al popolo vostri, l’apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 22 del mese di Agosto dell’anno 1950, XII del Nostro Pontificato.

PIO PP. XII

DOMENICA DELLE PALME (2019)

DOMENICA DELLE PALME [2019]

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis. [Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che  viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]
Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.[ Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI [I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].
D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. . [I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]
Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.
Ant. Púeri Hebræórum  …
Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.
Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.
Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.
Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

OMELIA

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

“In quel tempo Gesù avvicinandosi a Gerusalemme arrivati che furono a Betfage al monte Oliveto, mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: Andate nel castello, che vi sta dirimpetto, e subito troverete legata un’asina, e con essa il suo asinino: scioglietela, e conducetemela. E se alcuno vi dirà qualche cosa, dite che il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rimetterà. Or tutto questo seguì, affinché si adempisse quanto era stato detto dal profeta, che disse: Dite alla figliuola di Sion: Ecco che il tuo re viene a te mansueto, cavalcando un’asina, ed un asinello, puledro di un’asina da giogo. I discepoli andarono, e fecero come aveva lor comandato Gesù. E menarono l’asina e l’asinello, e misero sopra di essi le loro vestimenta, e lo fecero montare sopra. E moltissime delle turbe distesero le loro vesti per la strada; altri poi tagliavano rami dagli alberi, e li gettavano per la strada. E le turbe che procedevano, e quelli che andavangli dietro, gridavano, dicendo: Osanna al Figliuolo di David; benedetto colui che viene nel nome del Signore: Osanna nel più alto de’ cieli”(Matth. XXI, 1-9).

Eccoci, o miei cari, alla settimana santa, settimana, nella quale la Chiesa ci ricorda i più grandi misteri d’amore della nostra SS. Religione. Giacché è in questa settimana, che ci fa anzitutto meditare sopra la Passione e la morte di Gesù Cristo, e poi sopra l’istituzione ammirabile della SS. Eucaristia, che della Passione di Gesù Cristo è il gran memoriale: in quo recolitur memoria passionis eius. Perciò a far degna commemorazione di sì grandi misteri, e a corrispondervi in qualche modo la Chiesa istessa in questo tempo col precetto della Comunione Pasquale vi invita alla sacra mensa. E voi certamente, figliuoli di lei docili e sottomessi, siete per rispondere a questo invito. Lasciate pertanto che io vi ricordi il modo, con cui dovete accostarvi a compiere questo grande atto di pietà cristiana, perché ne abbiate a profittare. Al che mi dà bella occasione lo stesso Vangelo di oggi.

1. Gesù, dice il Vangelo, avvicinandosi a Gerusalemme, arrivati che furono a Betfage al monte Oliveto, mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: Andate nel castello, che vi sta dirimpetto, e subito troverete legata un’asina, e con essa il suo asinino: scioglietela, e conducetemela. Et reliqua … – Ora quello che fecero gli abitanti dì Gerusalemme per ricevere Gesù Cristo nella loro città, è quello che dovete pure fare voi per ricevere Gesù Cristo nell’anima vostra. Essi anzitutto, si spogliarono delle loro vesti per metterle sotto ai piedi di Gesù e tagliarono i rami degli alberi per gettarli sul suo passaggio. Così pure voi dovete prima di tutto togliere dall’anima vostra l’abito del peccato mortale, se mai vi fosse, recidere i rami di tutte le colpe gravi. Guai allo sciagurato che avesse l’ardire di accostarsi a ricevere la Santa Comunione col peccato mortale sopra dell’anima, senza essere in grazia di Dio! Ben diversamente dal ricevere l’abbondanza della divina grazia, egli riceverebbe la sua condanna e la sua maledizione, e come un abisso chiama un altro abisso, il miserabile, dopo aver compiuto un sì orribile sacrilegio, diverrebbe capace di compiere ancora qualsiasi altro più nero delitto. Avreste voi il coraggio d’inghiottire uno stilo, che scannasse la gola e vi lacerasse le viscere? Or peggio assai fareste, se vi cibaste di Gesù Cristo indegnamente, perché voi vi mangereste e vi berreste, secondo l’espressione dell’apostolo Paolo, il vostro giudizio,vale a dire la sentenza di vostra eterna condanna all’inferno. Oh Dio! Che diabolico congiungimento fanno mai coloro, che vanno a ricevere Gesù nella Comunione col peccato mortale. Essi uniscono la luce alle tenebre, Cristo con Belial, il cielo con l’inferno! Una delle più crudeli barbarie inventate da Mazenzio, tiranno, fu quella di far legare un uomo vivo con un uomo morto, unendo bocca a bocca, occhi ad occhi, piedi a piedi, e lasciarli ivi così stretti fintantoché il morto, colla puzza e col fracidume, facesse marcire e morire il vivo. Simile, per non dir maggior crudeltà, usano in certa maniera quegli scellerati, che si comunicano in peccato mortale: imperocché essi uniscono Cristo vivo e glorioso con la loro anima morta e fracida, la quale agli occhi di Dio è la cosa più sozza e più fetida del mondo. Che direste voi, se v’imbatteste a vedere una particola consacrata in un immondezzaio? Non vi farebbe egli raccapriccio una sì orribile vista? Or quando questi empii la ricevono in un’anima imbrattata di peccato mortale, la collocano in un luogo sì schifoso e fetente, che se Gesù Cristo non fosse impassibile ed immortale, verrebbe a morire per la nausea dell’intollerabile fetore; giacché per Lui puzza più un’anima peccatrice, che per noi un cane morto ed inverminito. Oh! che cuori spietati sono coloro, ai quali regge l’animo di commettere sì nero misfatto! Se avessero da ricevere in casa il loro stesso sovrano, gli farebbero trovare in esso una persona, che gli fosse odiosa, un suo nemico, un suo traditore, un suo ribelle? Or quando si fa la Comunione, si riceve nel petto il Sovrano del mondo, il Re dei re, il Creatore, Iddio, e ricevendolo in peccato mortale, gli si fa trovare nel petto medesimo il suo più gran nemico, la cosa più odiosa che Egli abbia al mondo; anzi l’unico oggetto del suo odio divino, ed odio infinito ed essenziale, in guisa che se non odiasse per un momento solo infinitamente ed essenzialmente il peccato mortale, non sarebbe più Dio in quel momento stesso; perché il peccato mortale è quello che alzò lo stendardo di ribellione contro di Lui; il peccato mortale è quello che lo tradì e gli diede morte, quando fu capace di morire. Che Iddio pertanto vi tenga lontani da questa orribile sventura di una Comunione sacrilega. E voi ricordate, che sarebbe mille volte meglio non comunicarvi mai, anziché recarvi anche ogni giorno alla Comunione, ma sempre col peccato sull’anima.

2. Ma le turbe, oltre a togliersi di dosso gli abiti e tagliare i rami da gettare sul passaggio di Gesù Cristo, si diedero ancora ad acclamarlo, a manifestare cioè i sentimenti del loro cuore. Così se ad accostarsi alla Santa Comunione la condizione prima ed indispensabile si è l’essere in grazia di Dio, ad ottenere poi che la Comunione produca in noi frutti di santificazione ci vogliono altresì talune altre prossime disposizioni, ci vogliono cioè i più vivi sentimenti di fede, di speranza e di carità, vale a dire di quelle virtù, che riguardano a Dio, che nella Santa Comunione si va a ricevere. — Che cosa è quell’Ostia, che fra breve il Sacerdote verrà a deporre sulla mia lingua, e che io farò discendere nel mio cuore? In apparenza non altro che un po’ di pane: di pane ha il colore, l’odore, il sapore; ma in realtà essa non è pane, no; essa è il vero Corpo di nostro Signor Gesù Cristo. Col ricevere quell’Ostia io ricevo le sue carni immacolate, il suo preziosissimo sangue, la sua anima e la sua divinità. È proprio Iddio, che viene a me, quel Dio sì grande che, se guarda la terra la fa tremare, se tocca i monti li fa fumare, se chiama le stelle, queste senza indugio gli si presentano dinanzi luminose, pronte ad eseguire i suoi cenni. È quel Dio sì potente, che ha segnato al mare i suoi confini, che comanda alle sue onde, che raffrena la furia dei venti, che signoreggia la natura tutta quanta, che col semplice fiat ha creato il mondo e mille altri ne potrebbe creare con un atto solo della sua onnipotente volontà. È quel Dio così sublime, che abita una luce inaccessibile, ed innanzi a cui gli Angeli stessi stanno col capo velato per rispetto alla sua maestà infinita; sì, sì è proprio desso. Ed io in sua comparazione, quasi nulla più che un verme della terra, ripieno di ogni miseria, lo ospiterò nel mio cuore? Ma come mai, o Signore, Voi volete venire dentro all’anima mia? Ah! Signore, no, non son degno che Voi entriate in me. Ma un’altra volta: chi sto io per ricevere? Io sto per ricevere quel Gesù, che è il tesoro delle anime, la consolazione degli afflitti, la luce dei ciechi, la guida degli erranti, il medico degli infermi, il ristoro dei tribolati, il conforto dei deboli, la gioia degli eletti, il gaudio del paradiso. Io sto per ricevere quel Gesù, che mondava i lebbrosi, che dava la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti, che raddrizzava gli storti e faceva camminare gli zoppi, che sanava ogni sorta di infermi, che cacciava i demoni, che risuscitava persino i morti. Io sto per ricevere quel Gesù, nelle cui mani stanno i tesori di tutte le grazie, che è pieno di bontà e di misericordia, che al trono del suo Divin Padre prega continuamente per la mia salute. In te adunque, o caro Gesù, io ripongo tutta la mia speranza; nel venire a prender possesso dell’anima mia la sanerai dalle sue infermità, la monderai dalle sue imperfezioni, le darai luce, forza, amore, santità, la riempirai di tutte le tue benedizioni: sì, o Gesù, Tu sei tutta la mia speranza. E poi una terza volta ancora: chi è che fra brevi istanti verrà ad unirsi intimamente a me? È quel Dio, che è carità, che mi ha amato da tutta l’eternità, che mi ha creato per amore, che si è incarnato e fatto uomo, che è nato da Maria Vergine, che ha patito ed è morto in croce per me, per la mia salute, quel Dio che mi ha fatti ed è pronto a farmi ancora tanti benefici, e che adesso mi dà l’estrema prova del suo amore col venire a me e col farsi cibo e bevanda dell’anima mia. Oh carità! oh amore infinito del mio Dio per me! Ed io non risponderò a tanto amore? Resterò freddo, insensibile, indifferente? No, no, o mio Gesù e mio Dio, io vi amo, vi voglio amare con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima, con tutte le mie forze; anzi vorrei avere il cuore dei Serafini del cielo, vorrei avere quello istesso della Madre vostra per amarvi, come meritate di essere amato. Venite adunque, o mio bene, o mio tesoro, o mio tutto, venite a prendere possesso del cuor mio: io vi desidero, vi sospiro, vi bramo ardentissimamente. O Maria, datemi voi l’aiuto per ricevere Gesù nell’anima mia, come si conviene che sia ricevuto. — Ecco, è con questi od altri simili sentimenti, che noi dobbiamo recarci alla Comunione: e dopo d’averla ricevuta è pur con questi od altri simili sentimenti, che dobbiamo adorare, ringraziare, lodare, benedire Gesù ed implorare la sua grazia, se desideriamo che la nostra Comunione valga per ciò a farci santi. Ora, sono questi davvero i sentimenti, che portiamo noi alla Comunione? Forse talora si leggono espressi anche sui libri, ma a che vale, se non si accompagnano con l’affetto del cuore? Talora poi si va alla Comunione con freddezza, con indifferenza, irriflessione, e dopo d’averla ricevuta si volge tosto altrove la mente, senza pensar punto a trafficare quei momenti così preziosi per la nostra anima! Non sia così della Comunione, che stiamo per fare in questo tempo e di tutte quelle che faremo ancora nel restante di nostra vita.

3. Imitiamo pertanto, più ancora che gli abitanti di Gerusalemme, l’esempio dei Santi. I Santi nell’atto di comunicarsi erano tutti occupati in credere, sperare ed amare, e si servivano di varie pratiche devote, per rendere più vigorosi i loro sentimenti già pur così vivi. San Bernardo e Santa Caterina da Siena si immaginavano di dover ricevere del latte purissimo di Maria. S. Giovanni Crisostomo figuravasi di mettere la bocca al costato di Gesù per ricevere con più abbondanza quel preziosissimo sangue. San Francesco Borgia si raccoglieva dentro le piaghe del Redentore, come una pecora smarrita dentro l’ovile del suo pastore. Altri s’immaginavano di stare sotto la croce per ricevere sopra del capo, quel diluvio di sangue che Gesù vi sparse per nostro bene. Tutti eccitamenti a far delle sante Comunioni. E chi sa dire lo slancio di affetto, con cui si comunicò per la prima e per l’ultima volta la beata Imelda di Bologna? Era costei una fanciulla di pochi anni, ma già avanzatissima nella virtù e tanto devota del SS. Sacramento, da desiderare ardentissimamente di riceverlo nella Santa Comunione. Ma la sua tenera età le chiudeva la via e non ostante i fervidi suoi desideri, le monache non glielo volevano acconsentire. Il perché non è a dire quant’ella si cruciasse, vedendosi vicino al fonte senza potersi cavar la sete. Basti il dire che non le avveniva mai di vedere le monache accostarsi alla santissima Eucarestia, senza che ella tutta si sentisse divampare internamente e divenire anche esternamente fuoco negli occhi e nel volto, che sembrava quello di un Serafino. Ma non tardò molto il Signore ad appagare le fervide sue brame ed a compiacerla sovrabbondantemente. Trovandosi una mattina in chiesa con le monache, sollecitava più del solito il Signore a venire in lei con brame accese ed intense al possibile, quand’ecco, stupendo miracolo! comparve di repente dal cielo una sacra particola irraggiata da straordinario splendore, che sospesa in aria, si fermò sul capo della fortunata giovinetta. Oh Dio! che mirabile vista da rapire in estasi di stupore e di venerazione ogni cuore! Le monache rimasero trasecolate e come fuori di sé a vista di tanto portento; e recatane quindi la nuova al sacerdote che loro presiedeva, fecero sì che egli stesso venisse in persona a vederlo con i propri occhi. Venuto il sacro ministro, veduto il gran prodigio, fu altamente stupito; poi giudicando che fosse giusto il comunicare quest’anima, il che era approvato dal Cielo con tanta chiarezza, messa la mano alla sacra patena e ricevuta l’Ostia santa la porse ad Imelda, la quale, accolto nel suo seno il suo dilettissimo Gesù, raddoppiò le vampe del suo fervore per siffatta guisa, che di puro amore e di pura gioia spirituale se ne morì e andò a stringere in cielo eterne nozze col suo amorosissimo Sposo. Oh fortuna di chi va a fare una Santa Comunione!

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis».
[Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis». [Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]
Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis». [Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]
Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus CXLVII
Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus». Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!
Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis». [Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
[Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.
[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Introitus

Ps XXI: 20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. [Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

LECTIO 

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II: 5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.”

OMELIA II

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

L’UMILTÀ’

“Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso, prendendo la natura dì servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un nome superiore a ogni altro nome; perchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”. (Fil. II, 5-11).

L’Epistola è tratta dalla lettera ai Filippesi. Per togliere lo spirito di divisione e di rivalità che regnava tra essi. S. Paolo propone l’esempio di Gesù Cristo. Egli, essendo Dio, non considera la sua grandezza come un possesso da conservare a ogni costo, ma se ne spoglia volontariamente, facendosi uomo e umiliandosi fino alla morte di croce. Perciò Dio lo ha esaltato, dandogli un nome, dinanzi al quale tutti devono piegarsi e confessare che Egli possiede la gloria del Padre. Sull’esempio di Gesù Cristo ogni Cristiano deve praticare la virtù fondamentale dell’umiltà. L’uomo umile, convinto dei propri demeriti,

1. Opera con semplicità,

2. È pronto all’ubbidienza,

3. Non si preoccupa della propria gloria, della quale lascia la cura a Dio.

I.

Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso prendendo la natura di servo.  Gesù era Dio : la sua grandezza non aveva limiti. « Se in Lui fossero stati i sentimenti di parecchi Filippesi, egli avrebbe reclamato, discusso, difeso con energia questo bene che gli apparteneva in forza di un titolo eterno. L’avrebbe custodito con l’aspra fierezza del guerriero armato che non si lascia strappare la sua conquista e la sua parte di bottino avuto ». Ben diversi, però, sono i sentimenti di Gesù. Invece di attaccarsi tenacemente alla sua parità divina e alla gloria che ne deriva, se ne spoglia volontariamente ai nostri occhi, prendendo la forma e la natura di servo. Lezione più sublime di umiltà pei Filippesi e per i Cristiani tutti non si potrebbe trovare. Dopo che Gesù Cristo, nel mistero dell’incarnazione, ha tanto sublimato l’umiltà, tutti ne parlano. Pochi, però,la praticano, e non tutti la praticano nel debito modo. La confessione dei nostri demeriti, delle nostre debolezze, del nostro nulla, se non partono da un cuor sincero non possono chiamarsi atti di umiltà. Ci sono coloro che per sfuggire alla possibilità di un castigo, perprocurarsi un atto di clemenza, per rendersi accetti, dichiarano di aver sbagliato, ritrattano il male fatto con le parole e con gli scritti, si dichiarano indegni di perdono ecc; ma il loro interno com’è? Il loro cuore è più che mai lontano, attaccato a ciò che la bocca detesta. Neppure è sempre umiltà l’atteggiamento esterno. Si può esser trascurati negli abiti, col capo basso per le vie, battersi il petto in chiesa: ma accompagnar questi atteggiamenti col desiderio di essere osservati, considerati. È umile l’atteggiamento di S. Pietro, che si getta ai piedi di Gesù, ed esclama: « Signore, allontanati da me che sono un uomo peccatore ». (Luc. V, 8). È umile l’atteggiamento della Maddalena che con le lagrime bagna i piedi di Gesù. Ma al loro atteggiamento esterno corrisponde l’interna disposizione dell’animo. Quando l’atteggiamento esterno non è vivificato dall’aurea massima:« Ama di non esser conosciuto e di esser riputato per niente », non c’è umiltà, ma ipocrisia. Non sono sempre guidati dai sentimenti che erano in Gesù Cristo, quelli che, invitati a far qualche cosa di bene, ad accettare qualche carica onorifica, se ne schermiscono, protestando che non sono capaci, che si mettano altri più adatti e più degni. Anche qui, non raramente, l’apparenza inganna. Son proteste ispirate dal dispetto, dalla gelosia, da un non lodevole puntiglio. Si aspettava di essere invitati prima degli altri, si aspettava una carica più importante. L’ambizione non appagata si veste d’umiltà. Ci sarà in queste proteste e in questi rifiuti molto veleno del serpente, ma manca la semplicità della colomba.

2.

Gesù Cristo abbassò se stesso facendosi ubbidiente fino atta morte, e alla morte di croce. Chi non sa ubbidire non può esser umile. Sarebbe una contraddizione bella e buona dichiararsi un nulla davanti a Dio, riconoscered’aver tutto da Lui, di dover dipendere in ogni cosada Lui, e poi negargli obbedienza. E quel che si dice rispetto a Dio vale anche rispetto a coloro che ne rappresentano l’autorità, come i genitori e i superiori. Vediamo che cosa ci insegna in proposito Gesù Cristo, con gli esempi della sua vita.Il Vangelo, parlandoci degli anni passati nella casa di Nazaret con Maria e Giuseppe, dice: « e stava loro sottomesso» (Luc.. X, 51). Il Creatore è sottomesso alla creatura. Ma in queste creature Egli vede i rappresentanti dell’autorità di Dio, e tanto basta, perché Egli ubbidisca. Un giorno comanderà ai venti, e questi gli ubbidiranno; comanderà ai demoni, e questi si piegheranno alla sua volontà, comanderà alla morte, e questa gli restituirà la sua preda; ma adesso Egli ubbidisce agli altri. Nella vita pubblica la sua missione sarà quella di comandare, adesso è quella di ubbidire. Devo far quello che mi vien comandato, se potrei insegnare a chi mi comanda? Gesù poteva certamente dare dei punti a Giuseppe. Chi ha dato all’universo un ordine così meraviglioso da strappare inni di lodi e di ammirazione dai più eletti ingegni, poteva far senza le istruzioni di Giuseppe. Invece fa l’opposto. Egli lavora nella bottega sotto la sua direzione, e si attiene alle sue istruzioni e ai suoi suggerimenti. Chi gli comanda tiene le veci del Padre: dunque gli si ubbidisca. Se avessimo in noi questi sentimenti di Gesù Cristo, non staremmo a discutere sulla capacità di chi comanda. Ne ha l’autorità! Ne ha abbastanza, perché io debba ubbidire. E s’intende che bisogna ubbidire anche quando si tratta di cose contrarie ai nostri gusti e alle nostre inclinazioni. Gesù Cristo ubbidisce al Padre in ciò che è più duro di tutto. Egli ubbidisce nel sottoporsi ai tormenti, alla morte, e non a una morte comune, ma a una morte ignominiosa, quale era la morte di croce. «Quella morte — dice S. Bernardo — quella croce, quegli obbrobri, quegli sputi, quei flagelli, tutto ciò che Cristo, il nostro capo, ha sofferto, non furono altro che splendidi esempi di ubbidienza, lasciati a noi che siamo il suo corpo». (1 Tractatus De Gradibus humilitatis, 7). E noi resteremo insensibili davanti agli esempi datici dal nostro capo, e ci rifiuteremo ancora di ubbidire, quando l’ubbidienza costa sacrifici? Non dimentichiamoci che il sacrificio dell’ubbidienza è più accetto a Dio che gli altri sacrifici. Gesù Cristo poteva dire di se stesso: «Io non cerco la mia gloria: c’è chi se ne prende cura,». (Giov. VIII, 50). E di fatti Dio lo ha sublimato e gli ha dato un nome superiore a ogni altro nome. Chi è umile, sull’esempio di Gesù Cristo, non cerea la propria gloria nel suo operare. Questa gli verrà un giorno dal Signore, se lo avrà servito fedelmente. Che importa della gloria del mondo al fedele servo di Dio! Essa è come il fumo che in un momento s’innalza, s’allarga, toglie la vista, e in un momento scompare. Come il fiore del prato, ricrea per un giorno, e poi svanisce. E d’altronde qual motivo c’è per gloriarsi? Poiché, chi differenzia te dagli altri? e che cosa hai tu che non abbia ricevuto?» (1 Cor. IV). « Chi stima che tutto dipenda da sé, è ingrato verso colui che ha creduto di onorarlo » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom. 5, 2). Compia pure tante belle opere, senza l’aiuto di Dio non le potrebbe compiere; a lui dunque la gloria. – I superbi non lasciano sfuggire occasione alcuna per magnificare le loro opere fatte, o non fatte. Gli umili tacciono delle cose lodevoli da essi veramente compiute. Non sempre si riesce a nascondere il bene che si fa. Il Cristiano non vive chiuso in una scatola: le sue opere buone sono necessariamente viste da quelli che lo circondano. Delle volte, è necessario che compia le sue opere buone in presenza degli altri, per dare buon esempio; ma allora egli si fa guidare dalla norma: « L’azione sia pubblica, in modo, però, che l’intenzione rimanga in segreto » (S. Gregorio M. Hom. 11, 1). I superbi hanno la pretesa di non sbagliare mai. Perciò non sopportano un avviso, una correzione, un rimprovero. Il loro amor proprio ne resterebbe profondamente ferito. Gli umili, che non si curano delle ferite che potrebbe riceverne l’amor proprio, sono lieti di essere avvisati dei loro sbagli. Il Cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino, capitato un giorno in visita a una parrocchia della sua archidiocesi, fece le più amorevoli accoglienze ad alcuni chierici che vide in sacristia, trascurando un vecchio cappellano, che ne rimase mortificato. Un sacerdote ebbe il coraggio di far rispettose rimostranze al Cardinale il mattino seguente. « Ha fatto bene a dirmelo — rispose il Cardinale — Non l’avevo visto ». E mandatolo a chiamare gli diede segni della più grande stima e del più grande affetto. Poi, ringraziò l’ammonitore: « Quando viene a Torino, passi in arcivescovado, all’ora degli amici s’intende ». (A, Vuadagnotti. Il Cardinale Richelmy. Torino – Roma. 1926 p. 277). Ecco come riceve le giuste osservazioni chi non si preoccupa della propria gloria. Considera gli ammonitori veri amici, meritevoli di ringraziamento e di delicate attenzioni. Se noi non ci preoccupiamo della nostra gloria, non vuol dire che questa non verrà a suo tempo. Ogni atto virtuoso compiuto per amor di Dio, riceverà da Lui un premio. Anche l’umiltà avrà il suo premio. «Premio dell’umiltà è la gloria», dice S. Agostino (In Joan. Evang. Tract. 104,3). E non può essere altrimenti, perché essa è la base della santità. Il fratello di Santa Maddalena Sofia Barat, un sacerdote austero, che guidava alla virtù la sorella, le disse un giorno ruvidamente: «Non sarai mai una gran Santa ». « Mi rivendicherò con l’esser molto umile », rispose pronta la fanciulla (Santa Maddalena Sofia Barat, fondatrice dell’Ist. Del Sacro Cuore. Firenze, 1925, p. 7). E la vendetta riuscì splendidamente. L’umiltà, che possedette in grado non comune, la condusse alle altezze della santità e alla conseguente gloria. Vogliamo arrivare alla gloria un giorno! Disprezziamola ora, umiliandoci per amor di Dio.

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

Credo…

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

Communio

Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

LO SCUDO DELLA FEDE (57)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CAPITOLO VII.

IL PROTESTANTISMO E’ FALSO PERCHE’ SUPPONE CHE LA VERA CHIESA POSSA MANCARE.

La ragione più forte che per allontanarvi dalla S. Chiesa Cattolica vi apportano i Protestanti è sempre questa, che la Chiesa Cattolica è venuta meno, che ha cambiata la Fede, che ha perduta la verità che Gesù Cristo le aveva affidato. Ebbene io vi ho già mostrato che è un fatto indubitabile che non l’ha perduta, perché non ha fatto verun cambiamento: ma adesso vi dirò anche di più, che se, per impossibile, avesse voluto far gettito delle vere dottrine, non avrebbe potuto. Se ciò è vero, non sarà anche vero che sono in un grandissimo errore i Protestanti, che si fondano totalmente sul presupposto che la Chiesa sia venuta meno? – Ebbene, osservate. Chi ha stabilita la S. Chiesa? Gesù Cristo! lo concedono tutti. Chi è Gesù Cristo? è Dio! Ora se Gesù Cristo si protestasse ch’Egli vuole fondare una Chiesa così fatta, così ordinata, così assistita, così assicurata, che fosse impossibile il distruggerla, il farla mancare: se Gesù Cristo Dio protestasse così, potremmo noi credere poi che la Chiesa è veramente indefettibile? Certo sì, se non giungiamo a tanta di audacia e di temerità da affermare che Gesù o non abbia saputo, o non abbia potuto, o non abbia voluto mantenere la sua parola, il che sarebbe una bestemmia orrenda (la stessa orrenda bestemmia, ma nei confronti del Papa, il Vicario “in perpetuo”di Cristo, oggi è pronunziata dai novelli protestanti: i c. d. sedevacantisti pseudo-tradizionalisti! – ndr.-). Tutto si riduce adunque a verificare se Gesù Cristo abbia veramente promesso di stabilire una Chiesa così fatta che non potesse mancare. Ma per verificare questo, basta saper leggere. Gesù Cristo dice espressamente che la Chiesa è di tale saldezza, che le porte dell’Inferno mai non prevarranno contro di lei [… e contro la sua pietra fondante, cioè Pietro ed i suoi successori– ndr. – ] (Matth. XVI, 18). Questa è una maniera orientale di parlare sommamente espressiva, che equivale al dire che, né tutti gli sforzi degli uomini, né tutte le furberie dei seduttori, né tutte le violenze dei persecutori, né le furie medesime dei demoni, mai varranno ad annientare la Chiesa. – Ora la Chiesa, che non vive se non se nella sua dottrina e nei suoi insegnamenti, se errasse in questi non sarebbe affatto annientata? e non avrebbe perduto il suo vero patrimonio, il suo grande scopo sopra la terra? Dunque se la parola di Gesù è vera, la Chiesa non può errare mai, in nessun tempo. Aggiungete che Gesù, per mantenerla nella sua verità, le ha promessa l’assistenza dello Spirito Santo, e questa non per un momento, ma fino alla consumazione dei secoli. Dunque con tale assistenza fino alla consumazione dei secoli debba conservarsi. [… questo prova altresì che il Novus Ordo ecumenico-conciliare degli antipapi marrani, setta che ha ribaltato tutta la dottrina Cattolica dall’interno della Chiesa, è opera satanica, di lucifero che ivi, travestito da “angelo di luce”, si spaccia per divinità facendosi adorare come “signore dell’universo” – ndr. -]. E poi non è essa chiamata dall’Apostolo Paolo « colonna ed il sostegno saldo della verità? » (1 Tim. III, 15)! Come dunque potrebbe esser vero questo nome, se non solo non fosse sostegno dell’edificio, ma fosse cagione di rovina? Più, la Chiesa non è fondata sopra di Pietro, il quale ha da confermare i suoi fratelli nella fede, perché la sua fede, secondo le preghiere di Gesù, non potrà mai venir meno? (Luc. XXII, 32) Aggiungete che Gesù Cristo ha affermato che Egli, se fosse stato innalzato di terra, cioè messo in Croce, avrebbe attratto tutto a sé (Giov. XIII, 32). Ora volete voi che abbia tirato a sé gli uomini per pochi anni e poi li abbia subito lasciati andare in perdizione per tanti secoli? E questo sarebbe l’onore di Gesù, che non avesse fatto neppure quello che fece Mosè, che mantenne per tanti anni la Sinagoga? Questo non sarebbe negare tutta la virtù della Croce di Cristo? Il demonio non si mostrerebbe più potente di Gesù, col togliergli subito tutta la Chiesa, ch’Egli aveva sposata ed unita a sé nel sangue suo? Gesù ha dato al mondo Apostoli, Profeti, Evangelisti, Pastori e Dottori per la consumazione dei Santi, per la opera del ministero, per la edificazione del Corpo di Gesù Cristo, dice S. Paolo (Ephes. IV, 13). Ora è già compito il numero dei Santi? e da quattordici secoli siamo già tutti fuori della salute, dacché non vi è salute fuori della vera Chiesa? E come adunque Dio che ha tanta cura degli uccelli dell’aria, che ebbe tanta sollecitudine del popolo Giudaico, ha lasciato marcire nell’infedeltà per tanti secoli la Chiesa sua sposa? Perché dunque nel Salmo (Ps. LXXX, 30, 38) ha fatto dire della Chiesa, che Dio l’ha fondata nella sua eternità, che il suo trono sarà permanente? Perché ha detto che la S. Chiesa sarà come il Sole davanti a Dio, perfetta come la Luna che sempre risplende nel cielo, come un testimonio fedele? Perché l’Arcangelo Gabriele ha detto che il regno di Gesù mai non avrebbe avuto fine? (Luc. I, 33) . E dunque indubitatissimo che Gesù Cristo promise la indefettibilità alla sua Chiesa. Se l’ha promessa è impossibile che essa venga meno: giacché passeranno il cielo e la terra, ma la parola Divina non passerà. Che dire adunque dei Protestanti, i quali non intendono queste promesse, e poi affermano che tutta la Chiesa era in errore, che essi furono chiamati a riformarla? Ecco quello che si ha a dire: che essi mettendosi all’opera di riformare la Chiesa, trattano Gesù da falsario e da ingannatore, quasi ci avesse illusi, quando le promise la sua assistenza, e quasi non avesse saputo o potuto, o voluto mantenere la suapromessa. Oh che bestemmia esecranda!Ma non vediamo poi talvolta degli abusi e degli scandali nella Chiesa, direte voi? Miei cari attendete bene. Voi vedete sì degli abusi e degli scandali in alcuni che appartengono alla Chiesa, ma non mai nella dottrina che viene insegnata dalla S. Chiesa. Ora qui è tutto l’abbaglio dei Protestanti. Se essi si contentassero di dire che tra i Cattolici vi sono pur troppo di quelli che prevaricando dalla dottrina della buona loro madre si precipitano in molte iniquità, direbbero una cosa verissima, che anche noi Cattolici deploriamo con le lacrime agli occhi: ma non è questo quello che dicono. Dicono invece che la stessa Chiesa nostra madre, fu essa la prevaricatrice, che essa insegnò ai suoi figliuoli degli errori, dellesuperstizioni, delle idolatrie: e questa è la loro orribile empietà. Imperocché può pur troppo errare il Cattolico, quando si scosta dagl’insegnamenti della sua madre; non può errare la madre, quando dà insegnamenti ai suoi figliuoli.Pertanto l’affermare che abbia errato la S. Chiesa è prima di tutto un affronto a Gesù, perché è lo stesso che dire che Egli abbia abbandonata la sua sposa, la Chiesa, alla quale fece promessa di non lasciarla in eterno, e poi è un insulto alla Chiesa, perché è un farla passare per infedele ed adultera, che abbia cacciato Gesù per darsi in preda all’errore ed al demonio. E può un Cattolico pensar così? Ah noi ci consoleremo invece di appartenere ad una Chiesa, che non può mancare mai [anche se oggi è perseguitata ed “eclissata” – ndr. -], e detesteremo con tutto il cuore quei felloni che staccatisi dalla Chiesa per le loro iniquità, onde avere qualche scusa alla loro perfidia, ne rigettano tutta la colpa sopra delitti che calunniosamente appongono alla loro madre.

QUARESIMALE XXXIII

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco,
Ivrea 1844 –

Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843,
Ferraris prof. Rev. Pe]

XXXIII.

NEL VENERDÌ DOPO LA DOMENICA DI PASSIONE

Expedit, ut unus
moriatur homo pro populo.
[Jo. XI, 50]

1. E sia dunque
spediente a Gerusalemme che Cristo muoia? Oh folli consigli! Oh frenetici consiglieri! Allora io voglio che torniate a parlarmi, quando, coperte tutte le vostre campagne d’arme e d’armati, vedrete l’Aquile romane far nido intorno
alle vostre mura; ed appena quivi posate, aguzzar gli artigli, ed avventarsi alla preda; quando udirete alto rimbombo di tamburi e di trombe, orrendi fischi di frombole e di saette, confuse grida di feriti e di moribondi, allora io voglio che sappiate rispondermi s’è spediente. Expedit!E oserete dir expeditallora quando voi mirerete correre il sangue a rivi, ed alzarsi la strage a monti? Quando rovinosi vi mancheranno sotto i piedi gli edifizi? Quando svenate vi languiranno innanzi agli occhi le spose? Quando, ovunque volgiate stupido il guardo, voi scorgerete imperversare la crudeltà,
signoreggiare il furore, regnar la morte? Ah! non diranno già expedit! quei bambini che saran
pascolo alle madri affamate; non diranno quei giovani che andranno a trenta per soldo venduti schiavi; non lo diranno quei vecchi che penderanno a cinquecento per giorno confitti in croce. Eh che non expedit, infelici, no che non expedit. – Non expedit né al santuario, che
rimarrà profanato da abominevoli laidezze; né al tempio, che cadrà divampato da formidabile incendio; né all’altare, dove uomini e donne si scanneranno, in cambio di agnellini e di tori. Non expedit alla Probatica, che si vuoterà di acqua per correr sangue. Non expedit all’Oliveto, che diserterassi di tronchi per apprestare patiboli. Non expedit al sacerdozio, che perderà l’autorità; non al regno, che perderà la giurisdizione; non agli oracoli, che perderanno la favella, non ai profeti , che perderanno le rivelazioni; non alla legge, che qual esangue cadavere rimarrà senza spirito, senza forza, senzaseguito, senza onore, senza comando, né
potràvantar più suoi riti, né potrà salvare i suoi professori: mercecchè Dio vive in cielo, a fine di scornare e confondere tutti quegli, i quali più credono aduna maliziosa ragion di Stato, che a tuttele ragioni sincere della giustizia; ed indi vuole con memorabile esempio far manifesto che non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum (Prov. XXI. 30). Ecco: fu risoluto di uccidere Cristo, perché i Romani non diventassero padroni di Gerosolima; e diventarono i Romani padroni di Gerosolima, perché fu risoluto di uccider Cristo. Tanto è
facile al Cielo di frastornare questi malvagi consigli, e di mostrare come quella politica, che si fonda non nei dettami dell’onestà, ma nelle suggestioni dell’interesse, è un’arte quanto
perversa, altrettanto inutile; e la quale anzi, in cambio di stabilire i principati, gli stermina; in cambio di arricchirle famiglie, le impoverisce; in cambio di felicitare l’uomo, il distrugge.
Questa rilevantissima verità voglio io pertanto questa mattina studiarmi di far palese perpubblico beneficio, provando che non è mai utile quello che non è onesto, onde nessuno si dia follemente a credere che per esser felice giovi esser empio.

II. Ma prima vi confesso, uditori, che mi dà quasi rossore il dovere agitare un tale argomento in questo teatro; quasi che presso ai Cristiani ancor sia dubbioso quello che fu sì chiaro presso ai Gentili. Con che furore non si scagliò Cicerone contro coloro i quali ardirono di seminare i primi nel mondo questa dottrina, che ciò che non è onesto possa esser utile? Non li chiamò perturbatori della quiete, discioglitori delle amicizie, distruggitori delle repubbliche, sterminatori delle virtù, sollevatori del mondo? Quindi a lor confusione narra un successo che molto può valere a confusion nostra, e fu questo ch’or io dirò. Parlando un giorno Temistocle nel senato di Atene, disse di avere un consiglio utilissimo alla repubblica; ma che siccome non voleva proporlo in pubblico, così gli fosse assegnato qualcuno, cui lo confidasse in privato. Fu destinato Aristide per ascoltarlo; e a lui Temistocle distintamente scoperse una certa frode, con cui si poteva maliziosamente dar fuoco ai legni spartani loro nemici, benché allora lor collegati. Udito questo, Aristide tornò
in senato con grandissima espettazione d’ognuno, e senza spiegare il caso in particolare, sol disse in genere, che il consiglio di Temistocle era utile sì, ma non era onesto: perutile est consilium Themistoclis reipublicæ, sed minime honestum. Come? ripigliarono allora
tutti, gridando senza distinzione e senz’ordine, ad una voce: questo è impossibile. Se il consiglio non è onesto, non può nemmeno esser utile: quod onestum non est, non potest esse utile. E cosi, senza neppur degnarsi di udirlo, lo ributtarono: tanto era radicata in quei consiglieri quest’opinione, come conchiuse Cicerone, e con lui Plutarco, ut quod justum
non erat, minime putaretur esse utile
. – Or se alle menti di persone Gentili pareva questa verità così manifesta, com’è possibile che non
vogliam persuadercela noi che pur ne abbiamo tante ampie testimonianze dall’istessa infallibile Verità? Finalmente quei miseri non sapevano, dipendere le sorti di tutti gli uomini dalle mani di un solo Dio. Ammettevano molti Dei, diversissimi e discordissimi, tra i quali però non era gran fatto, che se uno favoriva la virtù,
un altro prosperasse per onta la scelleraggine. Anzi quale scelleraggine si trovava, che non avesse in ciclo il suo protettore? Proteggeva Giove gli adulteri, Mercurio i ladri, Marte i sanguinolenti, Bacco gli ubbriachi, Venere i lussuriosi, Plutone gli avari. Sicché i loro adoratori sarebbero finalmente stati in parte scusabili, se avessero giudicato, poter esser talora il vizio felice, mentre ogni vizio aveva per protettore anche pubblico qualche dio. Ma noi Cristiani, i quali crediamo esserci un Dio unico al mondo, e questo, quanto parziale della virtù, tanto nemico dichiarato del vizio, com’è possibile che con arti malvage dobbiamo mai sperare di farcelo favorevole? – Non dipende forse dalla sua mano qualunque nostra prosperità, così piccola, come grande sicché senza suo volere né spira un fiato per l’aria, né biondeggia una spiga per le campagne? Questo è certissime» In manu Dei prosperitas hominis, così chiaramente protestane l’Ecclesiastico (X, 5). Bona et mala, vita et mors, paupertas et honestas a Deo sunt(Ib. XI, 14). Adunque che politica è questa: per acquistar felicità, maltrattare chi la dispensa, offendere chi la dona? Pare a voi dunque bell’arte, per ricevere grazie, arrecare affronti; per riportare favori, usar villanie?

III. Risponderete, che in Dio forse non vale quest’argomento; perocché disprezzando Egli i beni terreni, non è però gran fatto che li comparta ancora a chi non li merita. Lasciar Lui piuttosto la cura di tali beni alle cagioni da noi chiamate seconde, da cui senza tanti riguardi son dispensati più largamente a coloro, i quali per altro pongono mezzi di lor natura più validi a conseguirli. Ma piano di grazia, perché codesto è un discorso, quanto lusinghevole agli empi, tanto fallace; onde io mi stimo obbligato a scoprirne la falsità, per togliere l’inganno. Ditemi un poco però: Dio non ha sempre sprezzati questi beni terreni all’istesso modo? Dio non si è sempre valso delle cagioni seconde all’istessa forma? Di questo non si può dubitare. E nondimeno io ritrovo, che per conseguire felicità ancor temporale, a nessuno ha giovato l’esser empio, laddove a molti spesso ha giovato esser pio. Parvi forse strana, uditori, questa proposizione? Io mi conforterei di provarvela con l’induzione di tutti quegli uomini memorabili ch’han fiorito fin dai principi del mondo, se il tempo me lo permettesse; ma perché questa mi sarebbe un’impresa, se non troppo difficile, almeno troppo ampia,
ristringiamoci dentro alcuni confini. Ditemi adunque: se nel naufragio del mondo s’ebbe a salvare una famiglia fra tutte, quale fu scelta? quella dell’empio, o quella di un giusto? Se dall’incendio di Sodoma s’ebbe a sottrarre una famiglia fra tante, quale fu favorita, quella di un impudico, o quella di un casto? Chi  possedette ai giorni suoi maggiori ricchezze di un Abramo, di un Isacco, di un Giacobbe, di un Giuseppe,
patriarchi tutti santissimi? Ed a Giuseppe singolarmente qual arte giovò sì per salire al trono, la malvagità o l’innocenza? Quando egli con cuore intrepido resisteva alle violenze ed ai vezzi della padrona, credo io che alcuno di questi odierni politici non avrìa mancato di sussurrargli all’orecchio: Giuseppe, mirate bene a ciò che voi fate. Non so se vi torni conto di disgustar la padrona, e padrona sì ricca, e padrona sì amica, e padrona sì potente. Il
marito è lontano; la camera è segreta: chi lo saprà? Importa troppo la grazia di una donna la quale, impetuosa in qualunque affetto, non sa né amare, né odiare, se non in sommo. Eppure si sarìa trovato consiglio più pernicioso per la
prosperità di Giuseppe? È vero ch’egli, per non avere aderito a questo consiglio, si trovò in prigione ed in ceppi; ma la prigione non lo introdusse alla reggia? I ceppi non gli fabbricarono la corona? Passiamo avanti. Se Mosè, ancor fanciulletto, prezzava il diadema postogli da Faraone sul capo (come Filone racconta), se si rimaneva nella sua Corte, se seguitava i suoi riti, sarebbe mai divenuto quel condottiero di un tanto popolo, quel terrore di un tanto Re? Ricusò egli d’esser suo nipote, e fu constituito suo Dio: ecce constitue te Deum Pharaonis (Exod. VII. 1). Le felicità poi della terra lungamente promessa da chi furono conseguite? Dai sollevatori del popolo? Dagli adoratori del vitello? dai dispregiatori di Dio? Neppur uno di questi, che pur erano più di seicentomila, vi pose il piede. E chi espugnò tante piazze, chi fugò tanti eserciti, chi
riportò tante spoglie ai tempi dei Giudici, se non un Giosuè, un Calebbo, un Otoniello, un Gedeone, ed altri tali a lor somiglianti nella virtù, i quali tutti, come osservò l’Ecclesiastico (XLVI, 12), furono grandemente felici, ut viderent omnes, quìa bonum est, obsequi sancto Deo? E venendo a tempi dei Re, qual di loro
ritroverassi, a cui l’impietà fosse d’utile, e non di danno? Me ne rammenterete pur uno? Se un Saule conseguì lo scettro per la bontà, non lo perdette per la colpa? Se un Davide provò mai fortuna contraria, non fu sol quando trasgredì la
legge divina? E a Salomone quanto giovò l’aver preposta in quella sua famosa elezione alle ricchezze la sapienza! Buon per lui, che non chiamò prima a trattato su questo affare veruno di quegl’iniqui statisti, di cui parliamo; perché io credo fermamente che tutti gli avrebbero detto: sacra maestà, pensateci un poco bene,
non precipitate il giudizio, non avventurate l’elezione. Che rilieva a voi tanta scienza? Mancheranno nello stato vostro dottori, mancheranno legisti, quando si avranno a decidere le controversie, o a ventilare le liti? Non sono le lettere quelle che costituiscono un principe formidabile. A voi si conviene dilatare le possessioni, accrescere le entrate, riempir l’erario; altrimenti si rideranno i nemici vostri di voi, quando vi vedranno ricco di libri, ma povero di danari, liberale d’inchiostro, ma scarso d’oro. Questo senza dubbio sarebbe
stato il consiglio di tali politicastri. Ma quanto fu meglio per Salomone conformarsi ai dettami dell’onestà, che non alle suggestioni dell’interesse! Che se dopo un tempo cominciò a declinare la gran felicità del suo stato, qual
ne fu la cagione? Non fu perch’egli deviò dal sentiero de’ divini comandamenti? Scorrete poi pur con agio tutto il catalogo de’ re di Giuda, suoi successori; voi troverete che i più fortunati furono un Ezechia, un Gioatamo, un Giosafatte, e un Giosia, che furono parimenti i più giusti. Questi goderono lunga vita, questi fabbricarono nuove piazze, questi accumularono ricche entrate, questi acquistarono meravigliose vittorie. In alcuni poi variò il tenore della loro felicità, conforme il vario tener de’ loro costumi, come può vedersi in Asa, in Gioas, in Ozia ed in Manasse. Ma tutti gli altri, sì re di Giuda, come re di Samaria, i quali furono
costantemente malvagi, furono ancora costantemente infelici: che però loro furono le ribellioni, loro le sconfitte, loro i disertamenti, loro le prigionie, loro le stragi. Ma che più? Non è chiarissimo il testimonio registrato sopra di ciò dall’istesso Spirito Santo? Leggasi al capo quinto presso Giuditta (ver. 21). Usque dum non
peccarent in conspectu Dei
sui, erant cum illis bona. Ubicumque ingressi sunt sine arcu et sagitta, et absque scuto et gladio; Deus eorumpugnavit
prò eis vicit.
(ver. 16). Et non fuit (
ponete mente alle parole che seguono), et non fuit qui ìnsultaret populo isto, nisi quando recessit a cultu Domini sui (ver. 17). Ora io vorrei sapere un poco da voi, signori miei cari: Iddio governa oggi più il mondo in quella maniera medesima, con cui governa ai tempi di questi principi, o veramente ha Egli mutato stile? Dite: d’allora in qua ha Egli nella sua mente variate massime? ha Egli nel suo cuor cambiato volere? Forse finalmente s’è indotto ad amare il vizio, se allora lo abbominava? Ovvero non è ora più Egli quel che governa, ma ha cedute per avventura le briglie dell’universo a un Caso cieco, o a una Intelligenza maligna? O, se non altro, è sottentrato in suo luogo qualcuno di quegli dei menzogneri, i quali a gara prendevano il patrocinio delle persone malvagie? Che v’è di nuovo nella natura, che v’è? Ohimè, che solo il cadere in tali sospetti, non che l’esprimerli, è bestemmia troppo inaudita: Ego Dominus, et non mutor; cosi ci fa Dio sapere per Malachia (III, 6). Son quel di prima, son quel di prima. Ma s’è così, come dunque possiamo noi confidare, che per conseguir felicità ci debba mai giovar l’esser empio? Non è questa una presuntuosa baldanza,
quasi che Davide non intendesse di favellare per noi pure, quando egli disse che vultus Domini super facientes mala, non per arricchirli, non per esaltarli, non per accreditarli, ma ut perdat de terra memoriam eorum(Ps. XXXIII. 17), per mandarli tutti in malora?

IV. Ma perché non crediate che a favore mio vada io mendicando forse argomenti da un solo popolo, governato già dal Signore con un’assistenza più particolare, e più propria,
facciamo così: mettete un poco voi da una parte il malvagio Erode, quello il quale per l’antichità si chiama il Maggiore, ed io per confronto metterò frattanto dall’altra il piissimo Costantino, quello il quale per i meriti è
detto il Grande. Ad ambedue questi principi vien proposto un sanguinoso macello d’innocenti bambini: a quello per assicurarsi lo scettro, a questo per salvarsi la vita. Risponde Erode: si faccia questo macello, purché io non perda lo scettro. Risponde Costantino, perda io la vita, purché per me non si faccia questo macello. Ora date voi la sentenza. Che giovò più, ad Erode la sua empietà, o a Costantino la sua giustizia? Volete saperlo? Attendete. Costantino, il quale ricusò quella strage, guarì della sua insanabile
infermità, e godette inoltre tranquillamente lo scettro. Erode, il quale la eseguì, perdé tra poco lo scettro, cadendo in una più orribile infermità. E pur famosa la lagrimevole fine che fece Erode, quando vedendosi cascare a brano a brano le carni, verminose prima che morte, addolorato dalle frequenti punture de’ nervi attratti, annoiato dall’intollerabile fetore delle membra incadaverite, tentò di accelerarsi la morte con un coltello. Ma senza ciò. Se prima Costantino aveva travagliato fra spesse ribellioni, di poi provò una giocondissima pace. Se Erode aveva prima provato gioconda pace, di poi travagliò fra spessissime ribellioni: perciocché congiurandogli contro il medesimo Antipatro suo figliuolo, aveva già concertato di avvelenarlo. Onde laddove potette Costantino, ancora vivente, crear Cesari i suoi figliuoli, Erode fu costretto a farli prigioni. Ma che dico a farli prigioni? Non prevalse ai suoi giorni quel  motto celebre: Melius est Herodis porcum esse, quam filium? E con qual fondamento  prevalse, se non perché chi perdonava la vita a quegli animali, come Giudeo, a due figliuoli la tolse, quantunque padre. Che se gran parte dell’umana felicità si stima l’essere amato, siccome l’essere odiato si tiene gran parte dell’umana miseria, quanto pur furono differenti tra loro Costantino ed Erode per un tal capo! Chi può contare le statue, gli archi, i
trofei che furono a Costantino innalzati dall’amor pubblico? Non così invero
di Erode: perocché avendo egli eretta per sua memoria non so qual aquila d’oro, gli fu tratta a terra, e gli fu fatta in pezzi con pubblica sedizione. Che più? Racconta Gioseffo ebreo, scrittore diligente delle sue antichità, che niuna
cosa recava al malvagio principe tanta angoscia, quanto l’accorgersi dell’indicibile contento che dalle sue disavventure traevano i suoi vassalli, onde, prima di morire, avendo con certa fraude imprigionata nel circo tutta la nobiltà, die ordine che sul punto ch’egli spirava fosse mandata subito a fil di spada, perché così nella sua morte dovessero a forza piangere quei che non s’inducevano a piangere per amore. Ora ditemi dunque, signori miei: per titolo di acquistare felicità qual arte voi giudicate più, vantaggiosa: quella che tenne Erode
uccidendo tanti innocenti bambini, o quella che usò Costantino ricusando di ucciderli?
Conviene che o sia cieco chi non conosce, o protervo chi non si arrende a tal verità, tanto ella è palpabile.

V. Ma questo è poco. Tutte le istorie ecclesiastiche non ci dimostrano anch’esse concordemente quanto più vagliano a conseguire prosperità, ancora supreme, le arti sincere della innocenza, che le stravolte della malvagità? Mirate un poco tre celebratissimi
imperatori, Gioviano, Valentiniano, e Valente. Tutti e tre questi, per quali vie s’incamminarono al soglio, se non per quelle onde l’umana politica avrìa creduto che se ne dovessero dilungare? Ritiraronsi tutti e tre, mentre ancor erano capitani privati dal servigio dell’insolente Giuliano apostata, per non aderire ai suoi
folli comandamenti; e non passò molto che in quella Corte, donde uscirono esuli, rientrarono Imperatori. E qual prudenza mondana doveva all’imperator Onorio approvare quelle belle arti, con le quali egli governava il suo Stato?
Considerate di grazia. Qualora, cinto da mille spade nemiche, vedeva che i Barbari gli movevano guerra, che faceva egli? Prendeva subito a muover guerra agli Eretici; e con questa diversione di armi, con cui pareva che dovesse
indebolire lo Stato, il fortificava. Ma non avrìa creduto altrimenti? Come? (si doveva allora strepitare ne’ suoi Conigli) che prudenza è mai questa? Quasi i Goti e gli Unni inondando sopra di noi dalle Spagne, non siano bastanti a
desolarci lo Stato, irritarci ancora contro l’Africa i Donatisti? Anzi ci dovremmo studiare con tutti i mezzi di renderli a noi concordi e confederati, quando essi ci volessero inimicare in simili congiunture. Qual ragione vuol dunque che da noi medesimi li irritiamo, mentr’essi non ci dan noja? prendasi pur a cuore le ingiurie della Religione; ma quando sieno prima fermati gli interessi della repubblica: altrimenti
cadrà la repubblica e non sosterassi la Religione. Così dovevasi probabilmente discorrere in quei Consigli. Ma quanto fallacemente! perocché Dio con riuscite affatto contrarie dava a conoscere che allora più sicura trovavasi la repubblica, quando per la Religione esponevasi a più cimenti. E non combatté egli però con armi invisibili a favore di Onorio, uccidendo ben
duecento mila soldati fra Goti ed Unni, condotti da Radagaso? Anzi, come se ciò fosse poco, gli estinse ancora nel breve giro di un anno sette usurpatori tirannici dell’impero, un Alarico, un Costantino, un Costante, un Massimo, un Giovino, un Sebastiano, un Saro, e altri simili, i quali a guisa di tanti cani nibbio, se gli erano
avventati alla vita. Tanto che correva
allora nel mondo questo bel detto:
far quasi a gara tra loro Dio ed Onorio: Onorio per sterminare i nemici di Dio; Dio per sterminare i nemici d’Onorio. Che se finalmente una volta pur sotto lui prevalsero i Barbari, e saccheggiarono Roma, rispondetemi, quando fu? Non fu quando il misero si lasciò vincere dalle importune istanze dei suoi, e concedé per alcun tempo sì agli Etnici, sì agli Eretici il
libero uso delle loro religioni? Allora Roma diventò subito preda del furore goto, allora divamparono le sue case, allora rovinarono le sue torri, allor seguì quell’eccidio così famoso, su cui versò tante lagrime san Girolamo quando scrisse: peccatis nostris barbari fortes sunt (Ep. 2 ad Heliod.). E che ciò sia pur vero, si manifesta; perché tosto che Onorio, ravvedutosi dell’errore, annullò le leggi malvagie, ed si affaticò per la distruzione delle fedi false e per la dilatazione della vera; tosto, dico, le cose cambiarono faccia: morirono i suoi principali nemici, e diventarono difensori di Roma quei Goti stessi, i quali n’erano stati gli oppugnatori. Piacesse al Cielo che le strettezze del tempo mi permettessero di trascorrere ad uno ad uno gli annali degli altri principi, a me ben noti: io son certissimo che l’esempio di ognuno porgerebbe baldanza all’iniquità, mentre le vicende stesse
vedreste ne’ due Teodosj, in un Arcadio, in un Giustino e in un Giustiniano, in un Maurizio, in un Eraclio, e in tanti altri, allora miseri, quando fecero ubbidire la Religione all’interesse; allor felici, quando fecero servire l’interesse alla Religione. Se non che, a che vale stancarsi più lungamente in accattare testimonianze dagli uomini, dove abbiamo sì in pronto quelle di Dio?
Ditemi un poco: l’infelicità non fu introdotta nel mondo a cagion del peccato? Certo che sì, risponderà l’Ecclesiastico (XL, 9 et 10): mors, sanguis, contentio, oppressiones, fames, et contritio, et flagella super iniquos creata sunt, et propter illos factus est cataclysmus. Pel peccato hanno inondato nel mondo tante sciagure;
pel peccato le guerre, per il peccato la povertà, pel peccato le pestilenze, pel peccato le carestie, pel peccato l’infamie, pel peccato la morte. Adunque come possiamo mai credere che il peccato sia mezzo acconcio a sfuggir l’infelicità, e non piuttosto ad incorrerla, se egli ne fu la cagione? Falso, falso! Se un iniquo dalla sua iniquità ritrarrà qualche ventura, qualche gloria, qualche grandezza, tutto sarà per mero accidente: di primaria istituzione sarà che avvenga il contrario. E però chi non vede che molto più frequentemente avverrà quello ch’è
d’istituzione primaria, che non quello ch’è per mero accidente?

VI. Ripiglierete: somiglianti ragioni per avventura tutt’essere e belle e buone; nulladimeno non poter voi ribellarvi a ciò che il senso vi attesta, ed a ciò che dimostravi
l’esperienza: che il mondo ha sempre abbondato di empi felici; che questo ha fatto sempre aguzzar mille penne contro la Provvidenza, questo fremere mille lingue; e che a volerla ora negare, bisognerebbe bruciar gli annali dei popoli, le declamazioni degli oratori, le
satire dei poeti, e fino i lamenti de’ profeti medesimi, i quali esclamano: quare via impiorum prosperatur? (Jer. XII, 1). Piano, piano; che voi credete con cotesta replica vostra di avermi a un tratto conquiso, non che convinto: eppur voi nulla provate contra di me. Il mondo ha «sempre abbondato di felici? Questo è falsissimo, perché senza paragone sono stati più gli empi miseri, benché la felicità sia più osservata negli empi, che la miseria, come cosa più sconveniente. Con tutto ciò volete ch’io vel
conceda per cortesia? Su, sia così: che no inferite però contro il mio discorso? Dunque è giovevole il vizio, dunque è utile l’empietà, dunque ad esser felice giova esser empio, ch’è la proposizione ch’io vi contrasto? Nego la conseguenza. Sapete dove consiste l’inganno vostro? Consisto in questo: che voi credete tali uomini esser divenuti felici per la malvagità; ed io vi dico di no. Vi dico ch’essi divennero tali mercé qualche opera buona, o cristiana o naturale, o morale, da loro fatta. Seminanti justitiam merces fidelis; tal è l’assioma infallibile dei Proverbi (XI. 18). Però, non lasciando mai Dio di premiar fedelmente verun’azione virtuosa, qualunque siasi, come non lascia mai
di punirne alcuna malvagia, ha voluto con quella breve prosperità temporale rimunerare coloro ai quali per altro erano destinali tormenti eterni. – Furono crudeli i Goti, ma nemicissimi d’ogni carnalità; bestiali gli Unni, ma alieni
da ogni delizia; rapaci i Vandali ma zelantissimi ancora in sterminare il culto d’idolatria. I Romani per contrario quantunque superstiziosi, non è credibile quanto fossero retti, liberali, fedeli, sobri, magnanimi, ed amanti dei popoli lor aggetti. Ne’ Turchi è insigne l’ubbidienza ai loro Principi; negli Svechi è singolare la fede alle lor consorti; e quel ch’io dico di questi popoli in
genere, dite voi di più personaggi in particolare, come di un Jerone, d’un Pisistrato, d’un Dionisio, d’un Falaride, d’un Periandro, d’un Mario, d’un Gracco, d’un Silla, e di altri tali per alcun tempo felici nell’impietà. Furono tutti costoro malvagi sì; ma si scorse anche chiaro in ciascuno d’essi quanto sia quel dettato comune, che coi gran vizi, sogliono andare bene spesso
congiunte di gran virtù: epperò Iddio, che doveva poi dare a’ lor vizi una lunga pena, volle dar prima alle lor virtù un breve premio, guiderdonandole, siccome erano tutte virtù manchevoli con bastoni di comando, con diademi di principato, con vittorie, con trofei, con tesori, e con altre simili felicità temporali; ch’è quanto dire, coi bricioli della sua mensa, con la polvere dei suoi piedi, con la spazzatura che si getta dai balconi del suo palazzo. Chi non
vede però come questo medesimo non abbatte, ma conferma piuttosto l’intento mio, mentre ancor fra’ Gentili, se ben rimirasi, là si è trovata maggiore prosperità, come lungamente dimostra santo Agostino (De Civ. Dei), dove si sono trovate virtù maggiori, se non vere e
reali, almeno verisimili ed apparenti?

VII. E non è per tutto ciò ch’io non sappia, Cristiani miei, che Dio più d’una volta permette
che l’uomo arrivi con l’istesse malvagità ad acquistare or qualche carico illustre, ed ora qualche rendita copiosa: questo è verissimo. Ma io dico, che neppur in questo caso medesimo si deve chiamare utile quella malvagità; perché, regolarmente parlando, sempre sarà più il male, che il bene, il qual ne derivi. Prosperitas stultorum (come Salomone testifica) perdet illos(Prov. I. 32). Non dice perdit, ma perdet. E perché ciò? Perché non sempre una tale
prosperità produce immediatamente i suoi tristi effetti, ma a passo a passo. Eh aspettate un poco di grazia, aspettale un poco, e vedrete dove andrà a terminare quel carico conseguito con le oppressioni degl’innocenti, dove quell’oro
accumulato con l’estorsioni dei poveri. Non avete mai letto là presso Giobbe, che Dio talvolta con gli uomini si trastulla, e che però adducit consiliarios in stultum fìnem? (Job. XII. 17). Non in stultum principium, no; in stultum finem. La
scia che alzino la gran torre di Babele; ma di poi fa che per la confusione vadano dispersi. Lascia che alzino la bella torre di Siloe; ma di poi fa che
sotto le rovine vi restino seppelliti. Questo è l’inganno, per lo quale molti uomini giudicano talora fortunata l’iniquità, e che ha condotti anche i Profeti medesimi a querelarsi amorosamente di Dio, e quasi ad accusar la sua provvidenza. Hanno i meschini considerato il principio, ma non hanno con Davide atteso il fine: donec intelligam in novissimis eorum (Ps. LXXII, 17); ch’è quanto dire, si sono fissi a mirare il bel capo d’oro dell’eccelso colosso
babilonese, e quivi tutti attoniti, tutti assorti, non hanno subito calati gli occhi a osservare i piedi di fango. Udite, e si stabilisca la verità.

VIII. Se dopo il nascimento di Cristo fu serie d’uomini, i quali con arti inique si avanzassero
a grandi acquisti, furono senza dubbio gl’imperatori, o, se così vogliamo piuttosto chiamarli, tiranni greci. Ora ditemi: vi sono però stati altri ìmperi ch’abbiano dati, o più fortunosi, o più ferali argomenti alle scene tragiche? Niceforo il primo giunse alla fine co’ suoi tradimenti e con i suoi spergiuri ad usurparsi l’impero, scacciandone Irene, giusta posseditrice. Ma che? per le continue calamità divenne a sé medesimo sì obbrobrioso, che si chiamava nuovo Faraone indurato nelle disgrazie; ed alla fine sconfitto e ucciso da’ Bulgari, diede occasione a’ suoi nemici di fare del suo cranio una tazza, dove, non so
se per allegrezza o per onta, tutti beverono i principali del campo. Giunsero pur
Staurazio con illegittime nozze, e Leone Armeno con pubbliche ribellioni a
stabilirsi nel principato: ma quanto andò che per tal cagione morirono trucidati, l’uno in guerra, l’altro all’altare? Michele Balbo arrivò nella sua famosa congiura a passare dalla carcere al soglio, ed a farsi quivi adorare, mentre ancor era con le catene al collo e con i ceppi ai piedi; ma avendo ardire per tale prosperità di sposare una vergine sacra, subito gli si ribellò tutta la Schiavonia, subito gli fu sbaragliato tutto l’esercito; né per ciò ravvedendosi, fu consumato da una infermità stomachevole. Teofilo per le sue ragioni di Stato
arrivò quasi a spegnere affatto il culto delle immagini sacre; ma presto ancora
morì di affanno e di rabbia per una lagrimevole rotta ricevuta da’ Saracini. Michele III, riputato per le sue libidini e per le sue crudeltà novello Nerone, giunse a sterminar i tutori e sbandir la madre, per poter senza direttore regnare più
francamente; ma quanto fu però contro di esso l’odio del popolo, quante le ribellioni, dalle quali alla fine rimase estinto, mentre giaceva sopraffatto dal sonno ed ebbro dal vino! Riuscì ad Alessandro di spogliare gli altari sacri,
per trasportare, nel fisco l’oro de’ tempj; ma incontenente impazzì: né compì prima l’anno del principato, che vomitò col sangue insieme la vita. Che dirò di Romano I? Conseguì egli con astutissima frode di collocare nella sedia
patriarcale di Costantinopoli un suo figliuolo fanciullo con discacciarne il legittimo possessore; ma l’anno stesso da un altro dei suoi figliuoli fu discacciato egli ancor dal trono imperiale, e rilegato in un’isola solitaria. Così il
secondo Romano giunse ancor ei, per vaghezza di dominare, a togliere con veleno il padre dal mondo; ma fra brevissimo tempo fu tolto anch’egli dal mondo pur con veleno. Michele Paflagonio ottenne con arti inique d’intrudersi
nell’imperio; ma fu invasato subito dal diavolo, da cui né per esorcismi, né per limosine, si poté più liberare fino alla morte. Michele Calefate conseguì d’esiliare l’imperatrice per regnar solo; ma fu pigliato incontinente dal popolo, da cui lapidato e accecato, fu strascinato ancor vivo per la città. E l’istessa lagrimosa fine ancor fecero Diogene ed Andronico, saliti ambedue sul
soglio imperiale, l’uno col favore di amore impudico, l’altro col braccio di barbara fellonia. – Rispondetemi ora: pare a voi che si potessero chiamar punto felici le malvagità con cui questi si vantaggiarono? – Dite su: vi contentereste voi di godere dei loro acquisti, mentre dovreste parimente addossarvi le loro perdite? Chi v ‘è, chi v’è così sciocco, il quale stimi invidiabile la lor sorte? Or figuratevi che tal è stata universalmente la sorte di tutti quei che con arti inique anelarono ai lor vantaggi. Prosperitas  stultorum perdet illos; sì, miei signori, prosperitas stultorum perdet illos (Prov. I. 32). Eh che non accade affannarsi in tal verità!
Gridano tutti i libri, esclamano tutti i secoli, e tutti i regni unitamente sentenziano a favore della virtù: Justitia elevat gentes(Prov. XIV. 34); udite se può trovarsi un detto più favorevole al nostro intento, uscito dalla penna pur esso di Salomone: Justitia elevat gentes: la giustizia si è quella la quale sublima i popoli, li risuscita, li ravviva. Che quella che li fa miserabili? Il sol peccatro: miseros autem fàcit populos peccatum (Ibid.). Così pur altrove egli dice: non roborabitur
homo ex impietate
(Ib. XII. 3); ed altrove: in insidiis suis capientur iniqui(Ib. XI, 6); ed altrove: in impietate sua corruet impius(Ib. XI. 5); ed altrove: qui seminat iniquitatem, metet mala(Ib. XXII. 8). La Sapienza concorda in parlar così: malignitas evertet sedes potentium (Sap. V. 24), punto differente è il linguaggio dell’Ecclesiastico, il qual ci ha lasciato questo notabilissimo avvertimento, che i principati si veggono bene spesso andar vagabondi regnum a
gente in gentem transfertur
(Eccl. X, 8). Per qual cagione? per le ingiustizie, per le iniquità, per le fraudi, cui vennero amministrati: propter injustitias et injurias et contumelias et diversos dolos (Ibid.). Che dite dunque? Volete voi lasciarvi sì lusingare dalle fallaci promesse dell’impietà, che, ammirando le sue esaltazioni, non consideriate anche appressi i suoi precipizi? Eh rinunziatele pure, rinunziatele le sue arti,
ed assicuratevi (checché v’insegnino altri nei loro volumi pestilenziali e perversi),
assicuratevi, dico, che non vi sarà utile quello che non è onesto. Telas araneæ texuerunt, dice
Isaia di questi artefici scaltri d’iniquità: opera eorum opera inutilia; cogitationes eorum cogitationes inutiles (Is. LIX, 5, 6 et 7). Tengansi pur per sé il loro expedit maledetto questi
odierni sconsigliatissimi consiglieri; che noi piuttosto con le generose parole di Matatia, nobilissimo maccabeo, vogliamo conchiudere: propitius sit nobis Deus; non est nobis utile relinquere legem et justitias Dei (1 Mach. II. 21). Premettaci pure la malvagità ciò che vuole, non le crediamo. Mai non ci sarà utile lasciare la Religione per l’appetito, la Religione per l’interesse, la legge per l’affetto, Dio per
nessuno. Non est, non est nobis utile
relinquere leges et justitias Dei
.  Che cosa ci sarà utile? La pietà. Pietas omnia utilis,
dice l’Apostolo (1 ad Tim., IV, 8); mercecchè questa ha le promesse di essere favorita non solo nella vita futura, dove sta il vero premio dei Cristiani, ma ancora nella presente, Promissionem habens vitae, quæ nunc est, et futuræ.

SECONDA PARTE

IX. Io vi ho ragionato sinora come se non ci fosse altra vita, che questa sola, la qual da
noi si mena sopra la terra. Ma che? Ci è pur paradiso (o signori miei cari), ci e pur inferno. Se non siamo atei, lo dobbiamo confessare. Adunque, quando anche il vizio (ch’io non concedo) fosse nel mondo generalmente felice, basterebbe questo a poterlo chiamar giovevole? Eh miseri noi, che pensiamo al temporale, e
non consideriamo l’eterno! Quid prodest nomini, si mundum universum lucretur, animæ vero suoi detrimentum patiatur? (Matth. X. 26). Oh
sentimento degno di essere ripetuto a gran voce su tutti i pergami, anzi di essere inciso a caratteri grandi in tutte le sale, in tutte le stanze, a fine di non lo perdere mai di vista! E dove ancora, uditori cari, arrivassimo a
conseguire con i tentativi malvagi l’intento nostro, che avrem noi fatto? Quid prodest? Avremo acquistati alcuni anni di contentezza, ma ce ne saremo giuocata un’eternità. Oh potess’io questa mattina avanti ai vostri occhi spalancare tutto l’inferno, e farvi vedere quelle caverne di terrore, quelle carceri di tormenti! Che vorrei fare? Vorrei chiamare ad uno ad un tutti quegli, i quali vivendo non riconobbero su la terra altro Dio, che il loro interesse; e vorrei
con alti scongiuri violentarli a rispondere, come sian ora contenti delle loro passate felicità. Dove siete, olà, dove siete, voi Geroboami, voi Tiberj, voi Giuliani, voi Arrighi, voi tutti di questa scuola? Venite pure, benché vestiti di fiamme, benché cinti di serpi, benché carichi di catene, che per nostro profitto giova il vedervi. Che dite? Voi vivendo adempiste già tutto ciò che vi
suggerì il vostro perverso volere, con dir tra voi: sit fortitudo nostra lex justitiæ(Sap. II. 11). Non
è così? Non temeste mai uomini, non rispettaste mai Dio; e sol tutti intesi ai vostri interessi domestici, non dubitaste di procurarli con l’oppressione dei poveri, con le calunnie degl’innocenti, col tradimenti degli amici, con le rovine degli emoli, col sangue dei popoli, con lo sconvolgimento dell’universo. Ebbene, che
cavate ora voi dalla rimembranza dei vostri passati delitti? Sono per questo a voi men rigidi i ghiacci, o men voraci le fiamme? Vi ricordate, quanti già vi adoravano nelle reggi e quanti vi corteggiavano per le strade! quanti vi
applaudivano ne trionfi! Vi ritraevano altri su dotte tele, altri vi figuravano in duri marmi; e per la vostra felicità giornalmente sagrificavansi non so se più vite nelle battaglie, o più vittime in su gli altari. Or che vi giova una
tale felicità? rispondetemi, che vi giova? Quid
prodest
? Se voi poteste ritornare ora nel mondo a ripigliare i vostri cadaveri, a ritessere il vostro corso, qual tenore di fortuna vi eleggereste?
Rientrereste voi più nell’istesse regge? rimontereste voi più su gli stessi
troni? Oh Dio, che parmi di sentire che i miseri, bestemmiando, mandino urli per voci, e fremiti per parole. Che regge, gridano gl’infelici, che troni? Maledetta sia l’ora che vi salimmo; maledetti quei servi, che ci ubbidirono; maledetto quel cielo che ci esaltò. Selve, grotte, dirupi, orrori, sepolcri, là dentro correremmo
tutti a nasconderci, se noi potessimo più tornare or al mondo. Così mi pare che i miseri mi rispondano. Ed oh con quanta ragione! Vere mendacium possiderunt; vanitatem, quæ eis non profuit (mi giova qui di ripetere ad alta voce con Geremia – XVI. 19): vere mendacium possiderunt; vanitatem, quæ eis non profuit. Poverini che sono! quanto meglio sarebbe stato per tutti questi nascer servi, nascere schiavi, che nascer grandi! Ubi sunt principes gentium? Dove
sono più questi principi delle genti, dei quali abbiam ragionato? Qui dominantur super bestias, quæ sunt super terram; e per andare in cocchio nutriscono tanti cavalli: qui in avibus cæli ludunt;
e per andare a caccia nutriscono tanti cani: qui argentum thesaurizant et aurum, in quo confidunt homines,et non est finis acquisitionis eorum; e per arricchire le loro case privale non temono difar
gemere le città. Ubi sunt? ubi sunt? Dove sono? dove sono? Exterminati sunt, ripiglia il Profeta. Sono spariti, sono spariti. Spariti? Non sarìa nulla. Exterminati sunt, et ad inferos descenderunt, et alii loco eorum surrexerunt (Baruch. III, 16 et seq.). Lasciarono ai loro posteri gli ostri e gli ori, ed essi andarono a starsene tra le fiamme. Così è di tutti coloro, che non son vissuti secondo le buone leggi. Felici però noi se sapessimo approfittarci alle spese loro! Ma noi troppo insensati invidiamo la loro antica felicità, e non badiamo alla presente loro miseria. Quid prodest, quid prodest homini si mundum universum lucretur, animæ vero suæ
detrimentum patiatur
? Non è di fede, che tra quanti acquisti si facciano, di sogli, di clamidi, di corone, di scettri, di manti, di mitre o di pastorali,uniti ancora fuor d’ogni legge in un fascio,e la perdita che però s’incorra dell’anima, neppur v’è quella proporzione, la qual vi sarebbetra l’acquisto di un praticello selvatico,
e la perdita di una monarchia paria quella che godé Augusto? Adunque come stimeremo
mai felice quell’impietà che porta poi
seco annesso sì grave danno? Non
potest ulla compendii causa consistere
, io dirò, francamente con santo Eucherio (Epist. 1 ad Paræn.), si constet animæ intervenire dispendium.

X. Ma voi direte ch’io stamane non ho fatto altro che parlar sempre di principi e di principesse;
che i più di voi, che soli avete bisogno della mia predica, non siete in sì grande stato; e che però nemmeno siete soggetti a sì gran pericoli. Che le vostre politiche non si stendono se non il più a scavalcare un vostro emolo nella Corte, o a soppiantare un vostro corrispondente in qualche contratto; e che però non dovete forse temere tante infelicità né temporali, né eterne per tali colpe. Sì eh? Oh piacesse al cielo, che pur fosse vera una simile conseguenza! Ma questo
è il peggio, uditori miei, questo è il peggio, che per una cosa di niente offendiamo Dio, strapazziamo i suoi ordini, conculchiamo il suo sangue. Finalmente se per qualche acquisto assai grande lo conculcassimo, faremmo male,
chi ne può dubitare? Faremmo malissimo, ma quanto più conculcandolo per sì poco! E non è questo il lamento che Dio già fece per bocca di Ezechiele quando egli disse: violabant mepropter pugillum hordei, et fragmen panis? (Ezech. XIII, 19). Quasi che volesse egli dire in poche parole: ascoltate voi, cieli; ascoltala,  terra; e voi, cupi abissi, ascoltate. Quel  mio popolo, a me sì caro e diletto, che ha ricevuto da me sì eccelsi favori, che è stato liberato da me di sì misera schiavitudine, che da me è stato esaltato a sì gran potenza; questo mio popolo stesso mi ha strapazzato, sapete, mi ha strapazzato con ingratissime offese. E indovinate perché? Forse per appropriarsi le spoglie di un esercito debellato, come fece un Saule? Non me lo recherei a tanta ignominia. Forse per arrogarsi l’amministrazione di un principato vacante, come fece un’Atalia? Non me lo riputerei a tanto scorno. Forse per usurparsi la possessione d’alcun cittadino innocente, come fece un Acabbo? Mi daria  minor confusione. Forse per sfamare l’ingordigia dell’oro altrui, come
fece un Giezi? Ancor in ciò sentirei minor il rossore. E perché dunque egli mi ha offeso? Perché? Ve lo dirò io. Per un pugno d’orzo, per un frusto di pane; sì, torno a dire, per un pugno di orzo, per un frusto di pane: propter pugillum hordei, et fragmen panis. Per sì leggiero interesse
mi hanno gl’ingrati rivoltate le spalle, hanno dette enormi bugie, hanno inventate vituperose calunnie, hanno orditi bruttissimi tradimenti: ed io lo potrò tollerare? Così dolevasi Dio, signori miei cari, ne’ tempi andati. Sapete
voi come dolgasi nel presenti? Basterebbe, per saper ciò, girare un poco le piazze più popolose della città, entrare ne’ fondachi, visitar le botteghe, vedere i banchi, ed ivi considerare per qual piccioli emolumenti si commettano colpe
ancora mortali. Che menzogne, che contese non si odono colà dentro? che ingiustizie,
che frodi non vi si ascondono? E Dio, ch’ivi è presente, comporterà divedersi per così poco oltraggiato tanto? Come? s’Egli castigherà sì severamente chi, a ragion di esempio, spergiura per un tesoro, non punirà più aspramente chi spergiuri per un quattrino? Fino i Gentili medesimi conoscevano che un istesso peccato,
commesso per emolumento più rilevatile, pareva men grave; onde uno di loro ebbe
a dire: si violandum jus est, regnandi
causa violandum est
. Mai non è lecito di peccare; ma quando inoltre è minore l’allettamento, allora in parità d’altre circostanze sempre è
maggiore la colpa che si commette, perché Dio vien posposto ad un ben più minuto, ad un ben più vile, ad un bene più dispregevole. Conchiudiamo dunque così: se tanto fremeranno nell’inferno quei che vedranno di aver perduto Dio per una provincia o per un principato issai grande di questa terra, che sarà di quei miserabili che vedranno di aver fatta ancor essi una stessa perdita; ma perché? per una usura fecciosa di pochi soldi, per un cambio non sincero, per un censo non sussistente, o per alcun altro contratto di quei sì fini, che sono a voi meglio noti, che non a me? Non urleranno quei miseri di furore, molto più di un Esaù o di un Linneo, venditori sì sfortunati, quegli di una primogenitura, e questi d’un regno? E tali sono le perdite a cui conduco uno scellerato interesse, e conduce tutti, o grandi o piccoli, o governanti o plebei, ch’egli signoreggi. Considerate ora voi se vi è bene, il quale equivalga a perdite così
gravi, e poi sentenziate se mai per esser felice giovi esser empio.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (6)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (6)

(P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Che per combattere bene contro i nemici,  deve il soldato di Cristo fuggire ad ogni suo potere le perturbazioni ed inquietudini del cuore.

CAP. XXV

Siccome avendo noi perduta la pace del cuore, dobbiamo far tutto quello che per noi si possa per recuperarla, così tu hai da sapere che non può occorrere accidente al mondo che ce la debba ragionevolmente togliere oppure turbare. Dei propri peccati abbiamo da rammaricarcene sì, ma con un dolore pacifico, nel modo in cui di sopra in più di un luogo ho dimostrato, così senza inquietudine di animo, si compassioni con pio affetto di carità ogni altro peccatore, e si piangano almeno interiormente le colpe sue. – Quanto agli altri avvenimenti gravi e travagliosi, come infermità, ferite, morti, e dei nostri più congiunti, pesti, guerre, incendi e simili mali, benché come molesti alla natura, siano per lo più rifiutati dagli uomini del mondo, pure tuttavia possiamo, con la divina grazia, non solo volerli, ma inoltre averli cari, come giuste pene degli scellerati e buone occasioni di virtù; che per questi rispetti se ne compiace anche il Nostro Signore Dio, la cui volontà assecondando noi, fra tutte le amarezze e contrarietà di questa vita, ne passeremo con l’animo quieto e tranquillo. E renditi per certa che ogni nostra inquietudine, dispiace ai suoi occhi divini, perché, sia di che forte si voglia, non è mai scompagnata da imperfezione, e procede sempre da qualche mala radice di proprio amore. – Però tieni sempre desta una guardia, che subito che scopre qualsivoglia cosa, che possa turbarti, e inquietarti, te ne dia segno, acciocché tu prenda le armi per la difesa, considerando che tutti quei mali, e molti altri simili, benché di fuori così appaiono, non sono però veri mali, né i veri beni togliere ci possono, e che tutti gli ordina, o permette Iddio per li detti retri fini, o per altri a noi non manifesti, ma senza dubbio giustissimi, e santissimi. – Così tenendoti in qualunque, benché sinistro accidente, l’animo tranquillo ed in pace, li può far molto bene, altrimenti ogni nostro esercizio riesce poco, o nullo fruttuoso. Oltreché, mentre il cuore sta inquieto, è sempre ai diversi colpi dei nemici esposto, e di più non possiamo noi in tale stato bene scorgere il diritto sentiero, e la via sicura della virtù. – Il nostro nemico che abborrisce sovrammodo questa pace, come luogo ove abita lo Spirito di Dio, per operarvi cose grandi, spesse fiate sotto amiche insegne tenta di levarcela con il mezzo di diversi desideri, che hanno apparenza di bene, l’inganno dei quali si può fra gli altri segni conoscere da questo: che ci tolgono la quiete del cuore. – Onde per riparare a tanto danno, quando la sentinella ti da segno di alcun nuovo desiderio, non gli aprire l’entrata del cuore, se prima libera di qualunque proprietà, e volere non lo presenti a Dio, e confessando la tua cecità ed ignoranza, non lo preghi istantemente, che con il lume suo ti faccia vedere se viene da Lui, oppure dall’ avversario, e ricorri ancora, quando puoi, al giudizio del tuo Padre spirituale. Ed ancora, che il desiderio fosse di Dio, fa che tu, avanti che lo eseguisca, mortifichi la tua troppa vivacità, perché l’opera a cui precede tale mortificazione, gli sarà molto più grata, che se fosse fatta con l’avidità della natura, anzi alcuna volta gli piacerà più la mortificazione, che l’operazione stessa. Così scacciando da te i desideri non buoni, ed effettuando i buoni, se prima non hai repressi i movimenti naturali, verrai a tenere in pace, ed in sicuro la rocca del tuo cuore. E per conservarlo in tutto pacifico, fa di bisogno ancora che tu difenda, e custodisca da certe riprensioni e rimorsi interiori contro te stessa, che sono alcuna volta dal demonio, sebbene (perché ti accusano talvolta di qualche mancamento) pare, che siano da Dio; dai frutti loro conoscerai d’onde procedono. Se ti abbassano, ti fanno diligente nel bene operare, né ti tolgono la confidenza in Dio, come da Dio li devi ricevere con rendimento di grazie. Ma se ti confondono, e fanno pusillanime, diffidente, pigra, e lenta nel bene, tieni pure per cosa certa, che vengono dall’avversario,- però non dando loro orecchie, seguita il tuo esercizio. E perché oltre il suddetto, più comunemente nasce nel cuore nostro l’inquietudine dell’avvenimento delle cose contrarie, per difenderti da questi colpi, due cose hai da fare.L’una è, che tu consideri e veda, a chi sono contrari quegli avvenimenti, se allo spirito oppure all’amore proprio, e proprie voglie. Che se sono contrari alle proprie voglie ed amore di te stessa, capitale e principale nemico tuo, non devi  chiamarli contrari, ma tenerli per favori e soccorsi dell’altissimo Dio, onde con allegro cuore e rendimento di grazie devono essere ricevuti. Ed essendo contrari allo spirito, non perciò si deve perdere la pace del cuore, come nel seguente titolo ti sarà insegnato. L’altra cosa è che tu levi la mente a Dio pigliando il tutto ad occhi chiusi, senz’altro voler sapere, dalla pietosa mano della provvidenza divina, come cosa piena di diversi beni, i quali tu per allora non conosci.

Di quello che abbiamo a fare quando siamo feriti.

CAP. XXVI.

Quando tu ti trovi ferita per essere caduta in qualche difetto per debolezza tua, ovvero anco talora per volontà e malizia, non t’impusillanimire, ne t’inquietare per questo, ma rivolgiti subito a Dio, digli così: “Ecco, Signor mio, che io ho fatto, da quella che sono, né da me altro si poteva aspettare che cadute”. E qui con un poco di dimora avvilisciti negli occhi tuoi; dolgati dell’offesa del Signore, e senza confonderti, sdegnati contro le tue viziose passioni, e principalmente contro quella che ti ha cagionato la caduta. Seguita poi, “Né qui Signore mi sarei fermata, se Tu per tua bontà non mi avessi tenuta”. E qui rendile grazie ed amalo più che mai, stupendo di tanta clemenza, poiché offeso da te, ti porge la mano destra, perché tu non cada di nuovo. – Ultimamente dirai con gran confidenza della sua infinita misericordia: “Fa’ tu, Signore, da quello che sei, perdonami, né permettere che io viva da te separata, né lontana giammai, né che più ti offenda. E fatto questo, non ti dare a pensare se Iddio ti abbia perdonato o no, perché ciò non è altro che superbia, inquietudine di mente, perdimento di tempo, ed inganno del demonio, sotto colore di diversi buoni pretesti. Però lasciandoti liberamente nelle mani pietose di Dio, seguita il tuo esercizio, come se non fossi caduta. E se molte volte il giorno tornassi a cadere e restassi ferita, fa quello che io ti ho detto, con niente minore fiducia, la seconda, la terza, ed anco l’ultima volta, che la prima, e dispregiando sempre più te stessa, e più odiando il peccato, sforzati di vivere cauta. Questo esercizio spiace molto al demonio, sì perché vede ch’è gradito a Dio, sì perché ne viene a rimanere confuso, trovandosi superato da chi prima egli vinto aveva. E perciò con diversi fraudolenti modi si adopera, perché lasciamo di farlo, e l’ottiene molte volte per nostra trascuraggine, e poca vigilanza sopra di noi stessi. – Laonde se tu in ciò troverai difficoltà, tanto più ti hai da fare violenza, ripigliando questo esercizio più d’una volta, anche in un solo cadimento. E se dopo il difetto, ti sentissi inquieta, confusa, e sconfidata, la prima cosa che tu hai da fare è di recuperare la pace, e tranquillità del cuore e la confidenza insieme; e fornita di queste armi, ti rivolti poi al Signore, perché l’inquietudine, che si ha per lo peccato, non ha per oggetto l’offesa di Dio, ma il proprio danno. Il modo di ricuperare questa pace, si è che tu per allora ti scordi affatto la caduta, e ti ponga a considerare l’ineffabile bontà di Dio, e come sopra modo sta pronto, e desidera di perdonare qualunque peccato, per grave che sia, chiamando il peccatore in vari modi e per molte vie, perché ne venga a Lui, e si unisca a Lui in questa vita con la sua grazia per santificarlo, e nell’altra con la gloria per farlo eternamente beato. E poiché con queste, o somiglianti considerazioni avrai pacificata la mente, ti volterai al tuo cadimento, facendo come di sopra ho detto. Poi al tempo della Confessione sacramentale (la quale ti esorto a frequentar spesso), ripiglia tutte le tue cadute, e con nuovo dolore e dispiacere dell’offesa di Dio, e proponimento di non offenderlo più, scoprile sinceramente al tuo Padre Spirituale.

Dell’ordine, che tiene il demonio di combattere, e d’ingannare, e quelli che vogliono darsi alla virtù, e quelli che già si ritrovano nella servitù del peccato.

CAP. XXVII

Hai da sapere, figliuola, che il demonio non attende ad altro che alla rovina nostra, e che con tutti combatte ad un istesso modo. E per cominciare a descriverti alcuno dei suoi combattimenti, ordini ed inganni, ti metto innanzi più stati dell’uomo. Alcuni si ritrovano nella servitù del peccato, senza pensiero alcuno di liberarsi. Altri vogliono liberarsi, ma non cominciano l’impresa. Altri si credono camminare per la via della virtù, e se ne allontanano. – Altri finalmente dopo l’acquisto delle virtù, cadono con maggior rovina. E di tutti discorreremo distintamente.

Del combattimento, ed inganni che usa il demonio con quelli, che tiene nella servitù del peccato.

CAP. XXVIII

Non attende ad altro il demonio, tenendo alcuno nella servitù del peccato, che ad acciecarlo vieppiù, e rimuoverlo da qualunque pensiero, che lo potesse indurre alla cognizione della sua infelicissima vita. – Né lo rimuove solamente dai pensieri ed ispirazioni, che lo chiamano alla conversione con altri pensieri alieni ma, con apparecchiate e preste occasioni, lo fa cadere nell’istesso peccato, oppure in altri maggiori. Dal che diventando più folta e cieca la sua cecità, più viene a precipitarsi, e ad abituarsi nel peccato, così da questa maggiore cecità, e da questa a maggior colpa, quasi per giro ne corre la sua misera vita insino alla morte, se Iddio con la sua grazia non vi provvede. – Il rimedio di quello è, per quello che tocca a noi, che chi si ritrova in questo infelicissimo stato, sia presto a dare luogo al pensiero ed ispirazioni, che dalle tenebre lo chiamino alla luce gridando con tutto il cuore al suo Creatore: Deh, Signor mio, aiutami, aiutami presto, né mi lasciate più in questo stato di peccato. Né  lasci di replicare più fiate, e di gridare a quello e somigliante modo. E potendo, subito, subito, corra ad un Padre spirituale, domandando aiuto e consiglio, perché possa liberarsi dal nemico. E non potendovi andare subito, ricorra con ogni prestezza al Crocifisso, buttandosi innanzi ai suoi sacri piedi: con la faccia in terra; e quando a MARIA Vergine, domandando misericordia, ed aiuto. E sappi, che in questa prestezza sta la vittoria, come nel seguente Capitolo intenderai.

Dell’arte, ed inganni con che tiene legati quelli che, conoscendo il loro male, vorrebbero liberarsi, e perché i nostri proponimenti spesso non abbiano il loro effetto.

CAP. XXIX

Quelli che già conoscono la mala vita nella quale si ritrovano e vorrebbero mutarla, sogliono essere ingannati e vinti dal demonio  con le seguenti armi: Poi, Poi, “cras, cras” come dice il corvo! – Voglio prima risolvere e spedirmi di questo negozio, e poi darmi con maggior quiete allo spirito. – Laccio che ha preso molti, e prende tuttavia. Del che n’è cagione la nostra negligenza, e dappocaggine, che in negozio ove va la salute dell’anima e l’onore di Dio, non si prende con prestezza quell’arma tanto ponente: Ora, Ora, e perché poi? Oggi, Oggi, e perché Cras? dicendo a sé  stesso. Ma quando mi si concedesse il Poi, ed il Cras, dunque sarà via questa di salute e di vincere, il voler prima ricever delle ferite, ed il far nuovi disordini? – Sicché tu vedi, figliuola, che per fuggire, e da questo inganno e da quello del precedente Capitolo, e per superare il nemico, il rimedio è la presta ubbidienza ai pensieri, ed alle ispirazioni divine. La prestezza (dico) e non li proponimenti, perché questi spesso fallano, e molti in essi sono rimasti ingannati per diverse cagioni. – La prima toccata anco di sopra, si è che i nostri proponimenti non hanno per  fondamento la diffidenza di noi stessi e confidenza in Dio: nel ciò ci lascia vedere la gran superbia, donde progetto questo inganno e cecità, la luce da conoscerlo e l’aiuto per rimediarci viene dalla bontà di: Dio, il quale permette che cadiamo, chiamandoci coi cadimenti dalla nostra confidenza alla sua sola, e dalla nostra superbia ai conoscimento di noi stessi. – Onde, volendo tu che i tuoi proponimenti siano efficaci e di bisogno, che siano gagliardi, ed allora saranno gagliardi, quando niente avranno di confidenza in noi stessi, e tutti con umiltà saranno fondati nella confidenza in Dio. L’altra cagione è, che quando noi ci muoviamo a proporre, miriamo alla bellezza e valore della virtù la quale tira a sé la volontà nostra per fiacca e debole che sia; onde parandosele poi innanzi la difficoltà che vi bisogna per acquistarla, essendo fiacca e novella, manca e si ritira addietro. Però, tu avvezzati ad innamorarti delle difficoltà, che l’acquisto delle virtù porta innanzi, che delle virtù stesse e di questa difficoltà va sempre nutrendo, tua volontà, quando col poco a poco, e quando col molto, se vuoi davvero farti posseditrice delle virtù. E sappi, che tanto più presto ed altamente vincerai te stessa, ed i nemici tuoi, e quanto più generosamente abbraccerai la difficoltà e più ti saranno care. – La terza cagione è, perché i nostri proponimenti alle volte non mirano la virtù, e la volontà Divina, ma l’interesse proprio; il che suole succedere nei proponimenti che si sogliono fare nel tempo delle delizie dello spirito, e delle tribolazioni, che molto ci stringono, né troviamo in queste altro sollevamento, che proporre di volerci date tutti a Dio, ed agli esercizi delle virtù. Per non cadere tu in questo, sii nel tempo delle delizie molto cauta, ed umile nei proponimenti e particolarmente nelle promesse e voti, e quando trovi tribolata, i tuoi proponimenti siano occupati a tollerare pazientemente la Croce, secondo vuole Iddio, e ad esaltarla ricusando qualunque sollevamento terreno e talora anco quello del Cielo. Una sia la domanda, ed uno il desiderio tuo, che sii da Dio aiutata perché possa tollerare ogni cosa avversa, senza macchia della virtù della pazienza, e senza disgusto del tuo Signore.

Dell’inganno di quelli che si credono di camminare alla perfezione.

CAP. XXX

Vinto già il nemico nel primo e nel secondo assalto ed inganno di sopra, ricorre il maligno al terzo, il quale consiste in far che noi, scordati dei nemici che in atto ci combattono e danneggiano, ci occupiamo in desideri, e proponimenti d’alti gradi di perfezione. – Dal che nasce, che noi siamo del continuo piagati, né curiamo le piaghe, e stimando tali proponimenti come se fossero effetti, vanamente c”insuperbiamo. Onde non volendo comportare una cosarella, o parolina in contrario, consumiamo poi il tempo in lunghe meditazioni di proponimento di soffrire pene grandi, e talora del Purgatorio per amor di Dio. E perché in questo la parte inferiore non sente ripugnanza, come di cosa lontana, perciò noi miseri ci diamo ad intendere d’essere nel grado di quelli che pazientemente in fatti sostengono cose grandi. – Tu dunque per fuggire questo inganno, proponi, e combatti con nemici, che da vicino e realmente ti fanno guerra, che cosi ti chiarirai se i tuoi proponimenti sono veri o falsi, forti o deboli, e camminerai alla virtù, e perfezione della via battuta e regia. – Ma contro i nemici dai quali non sei solita d’essere travagliata, non consiglio che tu prenda la pugna se non quando prevedi verosimilmente, che da indi a qualche tempo siano per assalirti: che per trovarti allora preparata e forte, ti è lecito di fare avanti dei proponimenti. Non giudicare però mai i tuoi proponimenti per effetti, sebbene per qualche tempo con li tuoi debiti modi ti fossi nelle virtù esercitata; ma in essi sii umile, temi te stessa e la tua debolezza e, confidando in Dio, con spessi preghi, ricorri a Lui, ché ti fortifichi e guardi dai pericoli e particolarmente di ogni minima presunzione e confidenza in te stessa. – Che in questo caso, sebbene non si possono superare alcuni piccoli difetti, che talvolta il Signore per nostro umile conoscimento e guardia di alcun bene ci lascia, ci è lecito nondimeno fare proponimenti di più alto grado di perfezione.

Dell’inganno, e battaglia, che usa il demonio, perché si lasci  la  via che conduce alla virtù.

CAP. XXXI

Il quarto inganno proposto di sopra, con che ci assale il maligno demonio, quando vede che camminiamo direttamente alla virtù, sono diversi buoni desideri che ci va eccitando, perché dall’esercizio delle virtù cadiamo nel vizio. Una persona trovandosi inferma, con paziente volontà va tuttavia sopportando l’infermità, l’avversario sagace che conosce che questa possa acquistare l’abito della pazienza, le pone davanti molte buone opere, che potrebbe fare in altro stato, e si sforza di persuadere che se fosse sana, maglio servirebbe a Dio, giovando a sé, ed agli altri ancora. – E poiché a lei ha mosso quelle voglie, le va a poco a poco aumentando talmente, che la rende inquieta, per non poterle mandare ad effetto come vorrebbe. E quanto a lei si vanno facendo maggiori, e più gagliarde, tanto cresce l’inquietudine. E da quello poi pian piano destramente l’inimico la va conducendo ad impazientarci dell’infermità, non come infermità, ma come impedimento di quell’opere che ansiosamente bramava d’eseguire per maggior bene. Quando poi l’ha tirata a quello segno, con la stessa destrezza le toglie dalla mente il fine del divino servigio e delle buone opere, lanciandole il nudo desiderio di liberarsi dall’infermità. Il che non succedendo secondo il suo volere, si turba in modo che ne diventa impaziente affatto. E così viene dalla virtù che esercitava, a cadere nel vizio suo contrario, senza avvedersene. Il modo di guardarsi ed opporsi a quello inganno si è che, quando ti trovi in qualche stato travaglioso, tu sii bene avvertita a non dare luogo a desideri di qualunque bene  che allora non potendo effettuare, verosimilmente ti inquieterebbero. – E devi in ciò con ogni umiltà, pazienza e rassegnazione darti a credere, che i desideri tuoi non avrebbero quell’effetto che ti persuadevi, essendo tu più da poco ed instabile di quello, che ti stimi. – Oppure pensa, che Iddio nei suoi occulti giudizi, o per tuoi demeriti non vuole quel bene da te, ma che piuttosto ti abbassi, ed umili pazientemente sotto la dolce e potente mano della sua volontà. Così parimenti essendo impedita dal Padre spirituale, o da altra cagione, in modo, che tu non possa a tua voglia frequentare le tue devozioni, e particolarmente la Santa Comunione, non ti lasciar turbare ed inquietare dal desiderio di esse, ma spogliati d’ogni tua proprietà,  vestiti del piacimento del tuo Signore, teco stessa dicendo: Se l’occhio della divina provvidenza non vedesse in me ingratitudini, e difetti, io non verrei ora ad essere priva di ricevere il SS. Sacramento, però vedendo io, che il mio Signore con questa mi scopre la mia indegnità, né gli sia Egli sempre lodato, e benedetto. Confido bene, nella tua somma bontà, che tu voglia che col sostenerti e compiacerti in tutto, ti apra il cuore disposto ad ogni tuo volere, acciocché tu in esso entrato spiritualmente, lo consoli e fortifichi contro i nemici, che cercano levarlo da te. Così sia fatto tutto quello, che negli occhi tuoi è bene, Creatore e Redentore mio, la tua Volontà sia ora, e sempre il mio cibo e sostegno. Quella sola grazia, amor caro, ti domando, che l’anima mia purgata, e libera da qualunque cosa, che a te spiaccia, stia sempre con l’ornamento delle virtù sante apparecchiata alla tua venuta, ed a quanto ti piacerà disporre di me.– Se osserverai questi ricordi, sappi certo che in qualsivoglia desiderio di bene, che tu non possa eseguire, o sia egli cagionato dalla natura, o dal demonio per inquietarti e toglierti dal cammino della virtù, oppure anco allora da Dio, per far prova della tua rassegnazione alla sua volontà, avrai sempre occasione di soddisfare al tuo Signore, nel modo che più piace a Lui. Ed in questo consiste la vera divozione e servigio, che da noi ricerca Iddio. Ti avverto ancora, perché tu non t’impazienti nei travagli, siano pur cagionati, da che parte si voglia, che tu usando i mezzi leciti che si sogliono usare dai servi di Dio, non li usi con desiderio ed attacco di esserne liberata, ma perché vuole Iddio che si usino: né sappiamo noi se piace a S. D. M. di liberarci per questo mezzo. Che se altrimenti facessi, verresti a cadere in più mali, perché facilmente cadresti nell’impazienza non succedendo la cosa secondo il tuo desiderio ed attacco, o la tua pazienza sarebbe difettosa, né tutta cara a Dio, e di poco merito.Finalmente ti avviso qui d’un occulto inganno del nostro proprio amore, che suole in certe occorrenze coprire e difendere i nostri difetti. Onde per esempio, essendo alcun infermo poco paziente per l’infermità, nasconde la sua impazienza sotto il velo di qualche zelo di bene apparente, dicendo che il suo affanno non sia veramente impazienza per lo travaglio che sostiene dalla malattia, ma ragionevole dispiacere, perché egli ne ha dato l’occasione: oppure, perché altri per la servitù che gli fanno per altre cagioni, ne sentono fastidio e danno. – Parimente l’ambizioso, che si turba per la dignità non ottenuta, non attribuire ciò alla sua propria superbia e vanità, ma ad altri rispetti, dei quali si sa molto bene che in altre occasioni, che a lui non portano gravezza, non tiene conto veruno,- come ne anco l’infermo si cura, se quegl’istessi, per i quali diceva dolersi molto, che travagliassero per lui, sostengono lo stesso travaglio, e danno per l’infermità di alcun altro.Segno assai chiaro, che la radice della doglianza di questi tali non è per altri o altro rispetto, che l’abborrimento, che hanno delle cose contrarie alle voglie loro.Tu però per non cadere in questo  errore, ed altri, comporta sempre pazientemente qualunque travaglio e pena, venga pure (come ti ho detto) da che cagione si voglia.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (5)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (5)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Del modo di combattere contro la negligenza.

CAP. XX.

Perché tu non cada nella misera servitù della negligenza: cosa che non solo impedirebbe il cammino della perfezione, ma ti darebbe in mano dei nemici. Hai da fuggire ogni curiosità ed attacco terreno, e qualunque occupazione che allo stato tuo  non conviene. Poi t’hai da fare sforzo, perché presto corrisponda ad ogni buona ispirazione, ed a qualunque ordine dei tuoi Superiori, facendo ogni cosa a quel tempo ed in quel modo, ch’è il loro piacimento. Né ritardare pure per una brevissima dimora, perché quel solo prima indugiare, porta appresso il secondo, e quello il terzo, e gli altri ai quali il senso si piega e cede più facilmente che ai primi, essendo già allettato e preso dal piacere che n’ha gustato. Onde si incomincia l’azione troppo tardi, o come noiosa si lascia alle volte del tutto. E così a poco a poco si va facendo l’abito della negligenza, che ci riduce poi a segno tale, che nel punto stesso che da quella siamo tenuti legati, ci proponiamo ancora una volta essere molto solleciti e diligenti, accorgendoci di essere stati per allora negligentissimi, con rossore di noi medesimi. – Quella negligenza scorre dappertutto, e col suo veleno non pure infetta la volontà, facendole abborrire l’opera, ma men acceca l’intelletto perché non veda quanto vani e mal fondati siano i proponimenti di eseguire per l’avvenire, questo e diligentemente quello che dovendosi effettuare allora, volontariamente affatto ti lascia, oppure si prolunga in altro tempo. Né basta il fare presto l’opera che hai da fare, ma s’ha da fare nel tempo proprio che ricerca nel tempo proprio, che ricerca la qualità e l’essere di quell’opera e con tutta quella diligenza che se le conviene, perché abbia ogni possibile perfezione. Che non è diligenza, ma finissima negligenza, fare innanzi tempo l’opera e spedirsene prestamente, e senza che si faccia bene, perché poi quietamente ci diamo all’accidioso riposo; al quale fisso stava il nostro pensiero, mentre che, con prestezza, si faceva l’opera. Tutto questo gran male avviene, perché non si confiderà il valore della buona opera fatta nel suo tempo, e con animo risoluto all’incontrar la fatica, e difficoltà che porta il vizio della negligenza, ai novelli soldati. Hai tu dunque spesso da considerare, che una sola elevazione di mente a Dio, ed un inchino con le ginocchia a terra a suo onore, vale più che tutti i tesori del mondo, e che, qualunque volta facciamo violenza a noi stessi ed alle viziose passioni, gli Angioli portano all’anima nostra dal Regno del Cielo una Corona di gloriosa vittoria. Ed all’incontro che ai negligenti Iddio poco a poco va togliendo le grazie, che loro dato aveva, ed ai diligenti le aumenta, facendoli poi entrare nel suo primo gaudio. Alla fatica e difficoltà, se tu non sei da tanto nei primi principi che le vadi da generoso incontro, hai da occultarla in modo che paia minore di quella che dai negligenti era giudicata. Il tuo esercizio per avventura ricerca molti, e molti atti per acquistare una virtù, ed una fatica per molti giorni, ed i nemici da espugnare ti paiono molti, e forti. Comincia tu a produrre atti, quasi che pochi n’abbi a fare, che per pochi dì ti bisogna faticare, e combatti contro di un inimico, come che altri non vi fossero da combattervi, e con una confidenza grande, che tu con l’aiuto di Dio, sii più forte di loro: che a questo modo facendo, comincerà a debilitarsi la negligenza, ed a disporsi poi, perché vi entri di mano in mano la virtù contraria. L’istesso dico dell’orazione. Ricerca l’esercizio tuo talvolta un’ora di orazione. E questo par duro alla negligenza tua, mettiti in essa, quasi volendo orare per lo spazio  di un ottavo d’ora, che facilmente passerai all’altro, e da questo  a quel che rimane. Che se talora allora nel secondo, o negli altri ottavi sentissi troppo violente ripugnanza, e difficoltà tralascia l’esercizio per non fastidirti ripigliando però d’indi a poco di nuovo il tralasciato esercizio. Questo stesso modo anco hai da tenere nell’opere manuali, quando accade, che ti bisogna fare più cose, le quali alla tua negligenza parendo molte, e difficoltose, tu vieni a disturbarti tutta. Comincia tu con tutto ciò animosamente, e quieta da una, come se altro non avessi a fare, che così diligentemente facendo,verrai a farle tutte con assai minor fatica di quello, che nella negligenza tua ti pareva. Che se tu non farai nel suddetto modo, e non andrai incontro alla fatica e difficoltà, che ti si mostra, di tal modo ti prevalerà il vizio della negligenza, che non solo la fatica e difficoltà, che seco porta nel principio l’esercizio delle virtù, quando sarà presente, ma da lontano ti terrà ansiosa, e noiosa, temendo sempre d’essere esercitata ed assalita dai nemici, e di vederti persona alle spalle che alcuna cosa t’imponga: onde nella quiete stessa vivresti inquieta. E sappi, figliuola, che questo vizio di negligenza col suo nascosto veleno, poco a poco, non solo marcisce le prime e piccole radici, che avevano a produrre gli abiti delle virtù, ma quelle degli abiti già acquistati; come fa il tarlo al legno, così egli va rodendo insensibilmente, e consumando la midolla della vita spirituale, ed ad ognuno, ma agli spirituali particolarmente, il demonio con questo mezzo tende insidie e lacci. Vigila tu dunque orando ed operando bene, e non aspettare di tessere il panno per la veste nunziale, quando devi trovartene ornata per incontrare lo sposo. E ricordati ogni giorno che ti dà la mattina, non ti promette la sera, e dandoti la sera, non ti viene promessa la mattina. E però spendi tutti i momenti delle ore, secondo il piacimento di Dio e come se altro tempo non ti viene concesso, tanto più che d’ogni momento n’hai da rendere minutissimo conto. Conchiudo con l’avvertirti che tu reputi come perduta quella giornata (ancorché avessi spedite molte faccende) nella quale non avrai ottenuto più vittorie contro le tue male inclinazioni e volontà propria, né ringraziato il tuo Signore dei suoi benefizi, e particolarmente della sua penosa passione, che per te soffrì, e dal paterno e dolce castigo, quando ti avrà fatta degna del tesoro inestimabile di alcune tribolazioni.

Del regger i sensi esteriori, e come da quelli si passi a contemplare la Divinità.

CAP. XXI

Grande avvertenza, e continuo esercizio si richiede nel reggere, e regolare bene i nostri sensi esteriori, perché l’appetito, che è come capitano della nostra natura corrotta, inclina strabocchevolmente a cercare i piaceri, e contenti, né potendo per sé solo farne acquisto, si serve dei sensi quasi soldati suoi e strumenti naturali per prendere i loro oggetti, le immaginazioni dei quali cavando e tirando a sé, stampa nell’anima: da che poi ne segue il piacere, il quale per la cognizione ch’è fra essa e la carne, si sparge per tutta quella parte dei sentimenti che sono capaci di tal diletto, onde ne succede tanto all’anima quanto al corpo, una contagione comune che corrompe il tutto. Tu vedi il danno, attendi al rimedio. – Sta ben avvertita a non lasciar andare i tuoi sensi liberamente dove vogliono, né ti servire dell’uso loro, dove la sola dilettazione e non alcun buon fine o utilità o necessità ti muove a farlo; e se non te ne avvenendo sono scorsi troppo avanti, fa’ che tu li ritiri addietro, o li regoli di maniera che, dove prima si facevano miserabilmente prigioni di vari contenti, ottengano da ciascun oggetto notabile preda e le portino dentro all’anima; onde ella raccolta in se stessa spieghi le penne delle potenze verso il cielo delle contemplazioni di Dio. Il che potrai fare in questo modo. – Quando si rappresenta a qualsivoglia dei tuoi sensi esteriori alcun oggetto, separa col pensiero dalla cosa creata lo spirito che è in quella, e pensa ch’ella da sé non ha niente di tutto ciò che a tuoi sensi foggiare, ma che tutto è opera di Dio, che con lo spirito suo invisibilmente le dà quell’essere, bontà o bellezza, ed ogni bene ch’è in lei, e quivi rallegrati, che il tuo Signore solo sia cagione e principio di tante e così varie perfezioni di cose, che in se stesso eminentemente tutte le contenga; non essendo esse che un minimissimo grado delle sue divine ed infinite eccellenze. – Quando ti avvedrai di essere occupata nel mirare cose che hanno un nobile essere, ridurrai col pensiero al suo niente la creatura, fissando l’occhio della mente al sommo Creatore ivi presente, che quell’essere le ha dato, ed in Lui solamente prendendo diletto, dirai: O essenza divina sommamente desiderabile, quanto godo, che tu solo sei principio infinito d’ogni essere creato! Parimente scorgendo arbori, erbe, e cose simili, con l’intelletto vedrai che, quella vita che hanno, non l’hanno da loro, ma dallo Spirito che non vedi, e che solo le vivifica, e potrai cosi dire: Ecco qui la vera vita, da cui, in cui, e per cui, vivono, e crescono tutte le cose. O vivo contento di questo cuore! Così dalla vista degli animali bruti, ti leverai con la mente a Dio, che dà loro il senso, ed il moto, dicendo: “Oh primo motore, che tutto il mondo movendo, sei immobile in te stesso, quanto mi rallegro della tua stabilità e fermezza!” E sentendoti allettare dalla bellezza delle creature, separa quello che vedi, dallo spirito che non ved e considera che tutto quel di bello che fuori appare, e dello spirito solo invisibile, da cui è cagionata quella esterna bellezza, e di’ tutta lieta: Ecco i rivoli del fonte increato, ecco le gocciole del pelago infinite di ogni bene; Oh come nell’intimo del cuore gioiscono, pensando all’eterna immensa bellezza che è cagione d’ogni bellezza creata! –  E scorgendo in altri bontà, sapienza, giustizia ed altre virtù, dirai al tuo buon Dio: Oh ricchissimo tesoro di virtù, qual è il mio compiacimento che da te e per te unicamente derivi ogni bene, e che tutto a paragone delle tue divine perfezioni, sia come niente! Ti ringrazio, Signore, di questo e di ogni altro bene che al prossimo mio hai fatto: ricordati Signore della mia povertà e del bisogno grande che tengo della virtù della N. Stendendo poi le mani a fare alcuna cosa, pensa, che Iddio è prima cagione di quella operazione, e tu non altro, che vivo strumento di Lui, al quale innalzando il pensiero, di’ a questo modo: Quanto è il contento che provo dentro me stessa, supremo Signore del tutto, di non poter operare senza te alcuna cosa, anzi che Tu sei il primo e principale operatore di tutte! Gustando cibo, o bevanda, confiderà che Iddio è quello che le dà quel sapore, ed in Lui solo dilettandoti potrai dire: Rallegrati anima mia, che come fuora del tuo Dio non hai alcun vero contento, così in Lui solo ti puoi in ogni cosa unicamente dilettare. – Se ti compiacerai nell’odorare alcuna cosa al senso grata, non fermandoti in quel compiacimento, passa col pensiero al Signore, da cui ha la sua origine quell’odore, e di ciò sentendo interna consolazione, dirai: Deh fa’ Signore, che come io gioisco che da te proceda ogni soavità, così l’anima mia spogliata e nuda d’ogni terreno piacere, ascenda in alto, e renda gratissimo odore alle tue nari divine. – Quando odi alcuna armonia di suoni e canti, rivolta con la mente al tuo Dio, dirai: Quanto godo, Signore e Dio mio delle infinite tue perfezioni, che tutte insieme, non pure in te stesso rendono sopra celeste armonia, ma ancora unitamente agli Angioli nei cieli ed in tutte le creature fanno meraviglioso concerto.

Come le stesse cose ci sono mezzo per regolare i nostri sensi, passando alla meditazione del Verbo incarnato nei misteri della sua vita e Passione.

CAP. XXII.

Di sopra ti ho mostrato, come noi possiamo dalle cose sensibili levare la mente alla contemplazione della divinità. Ora apprendi un modo di pigliar motivo dalle stesse per la meditazione del Verbo incarnato, considerando i sacratissimi misteri della sua vita, e passione. – Tutte le cose dell’universo possono servire per questo effetto, considerando in esse, come di sopra, il sommo Dio, come cosa prima cagione che loro ha dato tutto quell’essere, bellezza, ed eccellenza che hanno; e da questo passando poi a considerare quanto grande ed immensa sia la sua bontà, ch’essendo unico principio, e Signore di tutto il creato, ha voluto discendere a tanta bassezza di farsi uomo e patire, e morire per l’uomo, permettendo che le stesse fatture della sua mano, si armassero contro di Lui per crocifiggerlo. Molte cose poi particolarmente ci portano avanti gli occhi della mente questi santi misteri, come armi, funi, flagelli, colonne, spine, canne, chiodi, martelli, ed altre, che furono strumenti della sua passione. I poveri alberghi ci ridurranno alla memoria la stalla ed il presepio del Signore. Piovendo ci sovverrà di quella sanguinosa divina pioggia, che nell’orto stillando dal suo sacratissimo corpo, irrigò la terra; le pietre che mireremo, ci rappresenteranno quelle che si spezzarono nella sua morte, la terra, quel moto, che fece allora, il Sole, le tenebre che l’oscurarono, e vedendo le acque verremo a ricordarci di quella, che uscì dal suo sacratissimo costato. Il che parimente dico d’altre cose simili. Gustando il vino, o altra bevanda, rammentati dell’aceto e fiele del tuo Signore. Se la soavità degli odori ti alletta, ricorri con la mente al fetore dei corpi morti, ch’Egli sentiva nel monte Calvario. Vestendovi, ricordati che il Verbo eterno si vestì di carne umana per vestite te della sua divinità. Spogliandoti abbi memoria del tuo Cristo, che fu spogliato nudo  per essere flagellato e confitto in Croce per te. Udendo rumori e gridi di gente, ricordati di quelle abbominevoli voci: Crocifige, crocifige, tolle, tolle, che intuonarono nelle sue divinissime orecchie. – Ogni volta che batte l’orologio, ti sovvenga di quell’affannoso battimento di cuore che al tuo Gesù piacque sentire, quando nell’orto cominciò a temere della sua vicina passione e morte, ovvero ti paia di sentire quelle dure percosse con le quali fu inchiodato in Croce. In qualunque occasione che ti si appresti di mestizia e di dolori tuoi o d’altri, pensa che sono come niente rispetto alle incomprensibili angosce che trafissero ed afflissero il corpo e l’anima del tuo Signore. 

D’altri modi di regolare i nostri sensi, secondo diverse occasioni che ci si rappresentano.

CAP. XXIII.

Avendo veduto, come si abbia da innalzare l’intelletto dalle cose sensibili alla Divinità, ed ai misteri del Verbo incarnato; qui aggiungerò altri modi per cavarne diverse meditazioni, acciocché, come differenti tra loro sono i gusti dell’anime, così abbiano molti e diversi cibi; oltreché ciò potrà servire non pure alle persone semplici, ma a quelle ancora, che sono d’ingegno elevato, e più avanti nella via dello spirito, il quale in chi si sia, non è sempre ugualmente disposto e pronto alle più alte speculazioni. Né tu hai da dubitare di confonderti fra quella varietà di cose, se ti atterrai alla regola della discrezione, ed all’altrui consiglio, il quale intendo, che tu debba seguire con umiltà e confidenza non solamente in quello, ma in ogni altro avvertimento che ti venga da me. Nel mirare tante cose vaghe alla vista, e pregiate in terra, considera che tutte sono vilissime e come sterco, rispetto alle celesti ricchezze, alle quali (dispregiando tutto il mondo) aspira con ogni affetto. Rivolgendo lo sguardo verso il sole, pensa che più di quello è lucida e bella l’anima tua, se sta in grazia del tuo Creatore, altrimenti che ella è più oscura ed abbominevole delle tenebre infernali. Alzando gli occhi del corpo al Cielo che ti copre, penetra con quelli dell’anima più sopra al Cielo empireo, ed ivi affissati col pensiero come in luogo che ti è apparecchiato per eterno felicissimo albergo, se in terra vivrai innocentemente. – Sentendo cantare uccelli, o altri canti, leva la mente a quelli del Paradiso, dove risuona continuo alleluja, e prega il Signore che ti faccia degna di lodarlo perpetuamente, insieme con quelli spiriti celesti. Quando ti avvedi, che prendi diletto delle bellezze della creatura, mira con l’intelletto che ivi nascosto giace il serpente infernale tutto intento e pronto ad ucciderti, o almeno a ferirti, contro il quale così potrai dire: Ah, maledetto serpente, come stai insidiosamente apparecchiato per divorarmi ! Poi rivolto a Dio dirai: Benedetto sii tu, Iddio mio che mi hai scoperto il nemico, e liberato dalle sue rabbiose fauci. E dall’allettamento fuggi subito alle piaghe del Crocifisso, occupando la mente in esse, e considerando quanto soffrì il Signore nella sua sacratissima carne per liberarti dal peccato, e renderti odiosi i diletti della carne. Un altro modo ti ricordo per fuggire questo pericoloso allettamento, ed è che tu t’interni bene a pensare, quale sarà dopo la morte quell’oggetto, che allora piace tanto. Mentre cammini, ricordati che per ogni passo che muovi, ti vai avvicinando alla morte. Così vedendo uccelli per l’aria, e scorrere acque, pensa, che con maggior velocità la tua vita se ne va volando al suo fine. Levandosi venti impetuosi, o folgorando e tuonando, ti sovvenga del tremendo giorno del Giudizio e, posta in ginocchione, adora Dio, pregandolo che ti conceda grazia e tempo di apparecchiarti bene per comparire allora davanti alla sua Altissima Maestà. – Nella varietà degli accidenti, che possono occorrere alla persona, così ti eserciterai quando, per esempio, sei oppressa d’alcun dolore, o melanconia, o caldo, freddo, o altro: solleva la mente a quell’eterna volontà alla quale per tuo bene è piaciuto che in tal misura e tempo, tu senta quell’incomodo, onde tu lieta per lamore, che ti mostra il tuo Dio, e per l’occasione di servirlo in tutto quello che più gli piace, dirai con il tuo cuore: Ecco in me il compiacimento del divino volere, che ad eterno amorosamente ha disposto che io al presente sostenga questo travaglio. Ne sia lodato per sempre il mio benignissimo Signore. E quando si crea nella tua mente pensiero di cosa buona, subito rivoltati a Dio, e riconoscilo da Lui e rendigliene grazie. Quando leggi, ti paia di vedere il Signore fatto quelle parole e ricevile come se venissero dalla sua divina bocca. – Mirando la S. Croce considera che ella è lo stendardo della tua milizia, dal quale scostandoti, cadrai nelle mani dei crudeli nemici, e seguendolo giungerai in Cielo carica di gloriose spoglie. Nel vedere la cara immagine di Maria Vergine, rivolta il cuore a Lei che regna in Paradiso, ringraziandola che sempre fu apparecchiata alla volontà del tuo Dio che ha partorito, allattato, e nutrito il Redentore del mondo, e che nel nostro conflitto spirituale non ci manca mai del suo favore ed aiuto. – Le immagini dei Santi ti rappresentino tanti Campioni, che avendo corsa la loro lancia valorosamente, ti hanno aperta la strada per la quale camminando tu ancora, sarai insieme con essi coronata di perpetua gloria. – Quando vedrai le Chiese, fra le altre devote considerazioni, potrai pensare, che l’anima tua è tempio di Dio, e però come stanza sua la devi conservare pura, e monda. – Sentendo in qualunque tempo i tre segni della Salutazione Angelica, potrai fare le seguenti brevi meditazioni, che sono conformi alle sacre parole che si sogliono dire avanti ciascuna di quelle orazioncelle celesti. Al primo segno, ringrazia Dio di quell’ambasciata, che dal Cielo mandò in terra, e fu il principio della nostra salute. Al secondo, rallegrati con M. V. delle sue grandezze, alle quali fu sublimata per la sua singolare profondissima umiltà. Al terzo segno, insieme con la felicissima Madre e l’Angelo Gabriele, adora il divino Fanciullo nuovamente concepito. Né ti scordare di inchinare per riverenza così un poco il capo per ciascun segno, ed alquanto più che nell’ultimo. – Queste meditazioni divise per i tre segni, servono per tutti i tempi. Le seguenti si dividono per la sera, la mattina ed il mezzo giorno, e sono appartenenti alla passione del Signore, essendo noi purtroppo debitori, ricordarci spesso dei dolori che per quella sostenne la nostra Signora, mostrandoci ingrati, se non lo facciamo. La mattina, compassionandola nelle se azioni per la presentazione a Pilato e ad Erode, per la sentenza della sua morte e per lo portare la Croce. Al mezzo giorno, penetra col pensiero al coltello di doglia che trafisse il cuore della sconsolata Madre, per la crocifissione e morte del Signore, e per la crudelissima lanciata nel suo sacratissimo Costato. Quelle meditazioni de’ dolori della Vergine potrai fare dalla sera del  Giovedì fino al mezzo giorno del Sabato, le altre negli altri giorni. Mi rimetto però alla tua particolare devozione: ed all’occasione, che ne porgeranno le cose esteriori. E per conchiuderti in breve modo, con che hai da regolare i sensi, sii desta sì, che in ogni cosa, ed accidente, non dall’amore loro, o abborrimento, ma dalla sola volontà di Dio tu sia mossa e tirata, e quel tanto abbracciando od abborrendo, che vuole Iddio che tu abbracci, od abborrisca. – Ed avverti, che non ti ho dato io i suddetti modi di reggere i sensi, perché tu ti occupi in questi, dovendo stare quasi sempre raccolta nella mente tua col tuo Signore, il quale vuole, che con frequenti atti attenda a vincere i tuoi nemici e le passioni viziose, e col resistere loro, e con gli atti delle virtù contrarie, ma te l’ho insegnati acciò sappi regolarti quando accade il bisogno. – Perché hai da sapere, che si fa poco frutto quando si prendono molti esercizi, benché in se stessi siano buonissimi, e sono ben spesso intrigamento di mente, amor proprio, instabilità e lacci del demonio. 

Del modo di regolare la lingua

CAP. XXIV

La lingua dell’uomo ha gran bisogno di essere ben regolata e tenuta a freno, perché ognuno è grandemente inclinato a lasciarla correre e discorrere di quelle cose che più ai sensi nostri dilettano. – Il molto parlare ha radice per lo più da una certa superbia, con la quale persuadendoci noi di saper molto e compiacendoci nei propri concetti, ci sforziamo con soverchie repliche, di imprimerli negli animi altrui per fare del maestro sopra di loro, quasi che abbiano bisogno di imparare da noi. Non si possono esprimere con poche parole i mali che nascono dalle molte parole. La loquacità è madre dell’accidia, argomento di ignoranza e pazzia, porta alla detrazione, ministra di bugie e raffreddamento del devoto fervore.  Le molte parole danno forza alle viziose passioni, e da queste è mossa poi la lingua a continuare tanto facilmente nell’indiscreto parlare. –  Non ti allargare in lunghi ragionamenti con chi ti ode mal volentieri, per non infastidirli, e fa lo stresso con chi ti dà orecchia per non eccedere i termini della modestia. – Fuggi il parlare con efficacia, e con alta voce, che l’una e altra cosa è odiosa assai, e da indizio di presunzione, e vanità. – Di te e dei fatti tuoi, e dei tuoi congiunti non parlar mai, se non per pura necessità, e quanto più brevemente, e ristrettamente potrai: se ti paresse che altri parlassero di sé  soverchiamente, sforzati di trarne buon concetto, ma non imitarli, ancorché le lor parole rendessero alla propria umiliazione, ed accusa di se stessi. Del prossimo tuo, e delle cose appartenenti a lui ragiona men che sia possibile,  fuorché per dirne bene dove lo porti l’occasione. Parla volentieri di Dio e particolarmente dell’amore, e bontà sua, ma con timore di poter errare anche in questo, e ti piaccia stare piuttosto attenta quando altri ne ragiona, conservando le sue parole nell’intimo del cuor tuo. Dell’altre il suono solamente della voce percuota le tue orecchie e la mente stia sollevata al Signore, che se pure bisogna udire il ragionante, per intendere e rispondere non lasciar per questo di dare qualche occhiata col pensiero al Cielo, dive abita il tuo Dio, e mira l’altezza sua, com’Egli sempre riguarda la tua viltà. Le cose che ti cadono in cuore per dirle, siano da te considerate prima che passino alla lingua, che di molte ti avvedrai che bene farebbe che da te non fossero mandate fuori. Ma di più ti avverto, che non poche ancora di quelle che allora penserai essere bene che tu le dica, meglio assai farebbe se le seppellissi con il silenzio, e lo conoscerai pensandovi dopo che sarà passata l’occasione del ragionamento. Il silenzio, figliuola mia, è una gran fortezza nella battaglia spirituale, ed una certa speranza della vittoria. – Il silenzio è amico di chi si fida di se stesso, e confida in Dio ed è conservatore della santa orazione, ed aiuto meraviglioso all’esercizio delle virtù. – Per avvezzarsi a tacere, considera spesso i danni e pericoli della loquacità, ed i beni grandi del silenzio, e prendi amore a questa virtù, e per qualche tempo (per farvi l’abito), taci anche dove non sarebbe male a parlare, purché questo non sia a te, o ad altri di pregiudizio. Ti gioverà anco perciò lo stare lontana dalle conversazioni che invece degli uomini avrai per compagnia gli Angioli, i Santi e lo stesso Dio. – Finalmente ricordati del combattimento che hai alle mani, che vedendo, quanto in questo hai da fare, ti verrà voglia di lasciare le soverchie parole.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (4)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (4)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Quello che si debba fare, quando la volontà superiore pare vinta e soffocata in tutto dall’inferiore e dai nemici.

CAP. XIV

E se talora ti paresse, che la volontà superiore nulla potesse contro l’inferiore, e nemici suoi, perché non sentissi in te un potere efficace contro di loro, sta pur salda e non lasciare la pugna, perché hai da tenerti sempre per vittoriosa, mentre apertamente non ti avvedi di aver ceduto. – Che siccome non ha bisogno la nostra volontà superiore per produrre gli atti suoi delle voglie inferiori, così se ella stessa non vuole non può essere costretta giammai a rendersi loro per vinta, per molto aspramente che l’impugnino.  – Perciocchè Iddio ha dotata la volontà di libertà e forza tale che, se tutti i sensi, con tutti i demoni, ed il mondo insieme si armassero e congiurassero contro di lei combattendola, e premendola con tutto lo sforzo loro, può ella nondimeno a dispetto loro liberissimamente volere o non volere tutto ciò, che vuole o non vuole, e quante fiate e per quanto tempo, ed in quel modo ed a quel fine, che più le piace. E se questi nemici alcuna fìate con tanta violenza ti assalissero, e stringessero, che la volontà tua quasi soffocata, non avesse (per cosi dire) fiato per produrre alcun atto di voglie contrarie, non ti perdere d’animo, né gettar le armi per terra, ma serviti in questo caso della lingua, e difenditi, dicendo: “Non ti cedo, non ti voglio”; a guisa di colui, che avendo l’inimico addosso, che lo tiene oppresso, non potendo con la punta, lo percuote col pomo della spada. E siccome quelli tenta di far un salto addietro per poterlo ferire di punta, così tu ritirati nel conoscimento di te stessa, che niente sei, e niente puoi, e con la fiducia in Dio, che tutto può, dà un colpo alla nemica passione dicendo: “Aiutatemi Signore, aiutatemi Dio mio, aiutatemi Gesù e Maria, perch’io non le ceda”. Potrai ancora, quando il nemico ti dà tempo, aiutare la debolezza della volontà, col ricorrere all’intelletto, considerando diversi punti per la considerazione dei quali viene poi la volontà a pigliar fiato e forza contra i nemici. Per esempio: Tu in qualche persecuzione, o altro travaglio, talmente assalita dall’impazienza che la tua volontà quasi non può, oppure non vuole comportarlo; la conforterai dunque con il discorrere con l’intelligenza, intorno ai seguenti, o pure altri punti. – Primo, considera se tu meriti quel male che patisci, perché gli hai dato l’occasione che meritandolo, ogni dover di giustizia vuole che tu sopporti pazientemente quella ferita, che con le proprie mani ti hai data. – Secondo, e non avendone tu colpa alcuna, rivolta il pensiero agli altri tuoi falli dei quali non hai ancora dato il castigo, come si deve, gli hai puniti. E vedendo che la misericordia di Dio ti cangia la pena d’essi, che sarebbe eterna, oppure temporale, ma del Purgatorio, con una piccola presente, devi riceverla non solamente volentieri, ma con rendimento di grazie. – Terzo, e quando a te paresse d’aver fatto molta penitenza, e poco offesa la Divina Maestà (cosa però, che non devi mai persuaderti) hai da pensare, che nel Regno celeste non si entra che per la stretta porta delle tribolazioni. – Quarto, che quantunque tu vi potessi entrare per altra via, per legge d’amore non dovresti neanche pensarlo, essendovi il Figliuolo di Dio con tutti gli amici e membri suoi entrato per mezzo delle spine e croci. – Quinto, ma quello che tu hai in questa, ed ogni altra occasione da mirare principalmente, è la volontà del tuo Dio, che per l’amore che ti porta, e per compiacerti indicibilmente d’ogni atto di virtù e mortificazione, che per corrispondere in amore a Lui ti vedrà fare da sua fedele e generosa guerriera. E tieni per certo, che quanto in sé farà più irragionevole il travaglio, e più indegno dalla parte d’onde viene, e perciò a te più molesto e grave a tollerarlo, tanto al Signore darai più gusto, approvando, ed amando anco nelle cose disordinate in se stesse, e per te più amare, la sua divina volontà e disposizione, nella quale ogni avvenimento, per sregolato che sia, ha regola ed ordine perfettissimo.

Da alcuni avvisi intorno al modo di combattere, e specialmente contro chi e con qual virtù debba farsi.

CAP. XV

Hai già veduto figliuola, il modo con cui si ha da combattere per vincere te stessa, ed ornarti delle virtù. Sappi ora di più, che per riportare la vittoria dei tuoi nemici con facilità, ti conviene combattere, anzi è di bisogno che tu combatta ogni giorno, particolarmente contro l’amore proprio, avvezzandoti ad avere per cari amici i dispregi, e disgusti, che ti potesse mai dare il mondo. E dal non avvertire questa pugna, e dal farne poco conto, è avvenuto ed avviene (come ho tocco di sopra) che le vittorie sono difficoltose, rare, imperfette ed instabili. – Di più ti avviso che il combattimento ha da essere con fortezza d’animo, la quale facilmente acquisterai se la domanderai a Dio; se considerando la rabbia ed odio immortale, ed il gran numero delle loro squadre ed eserciti, considererai all’incontro cui in infinito maggiore è la bontà di Dio, e l’amore, con cui ti ama, e che assai più sono gli Angioli del Cielo e le orazioni de Santi, che dalla parte nostra combattono. – E da questa considerazione è proceduto, che tante e tante femminucce, hanno superato e vinto tutta la potenza e sapienza del mondo, tutti gli assalti della carne, e tutta la rabbia dell’inferno. Onde non ha mai da spaventarti, benché alle volte a te paresse, che la pugna dei nemici più ingagliardisca, e sia per durar per tutta la vita tua, e che ti minaccia quali certe cadute da diverse parti, perché hai da sapere oltre il suddetto, che ogni forza e sapere dei nostri nemici, sta nelle mani del nostro divino Capitano, per onore del quale si combatte, il quale stimandoci indicibilmente, e chiamandoci Egli stesso e rettamente alla pugna, non pure non permetterà mai che ti sia fatta soverchieria, ma combattendo Egli per te, te li darà vinti, quando a Lui piacerà, e con maggior tuo guadagno, quando Egli tardasse in sino all’ultimo giorno di tua vita. Questo solamente tocca a te, che tu combatta generosamente e, se avvenga più fiate, che sia ferita, mai lasci le armi, e ti dia in fuga. – Finalmente, perché tu valorosamente combatta, hai da sapere che questa battaglia non si può fuggire, e chi non vi combatte, di necessità vi resta preso  e morto. Oltre ciò si ha da fare con nemici di tal qualità ed odio ripieni, che non se ne può in modo alcuno, né pace né tregua sperare.

In qual modo la mattina di buon ora si debba mettere in campo il Saldato di Cristo.

CAP. XVI

Svegliata che sarai, la prima che hanno da osservare gli occhi tuoi interni, è il vederti dentro uno steccato chiuso; con questa legge che chi non vi combatte, vi resta morto per sempre. Dentro del quale, t’immaginerai di vedere innanzi a te da una parte quel nemico e mala inclinazione tua che hai già pigliata per espugnare, armata per ferirti, e darti morte, e dal destro piano il tuo vittorioso Capitano Cristo Gesù, con la sua SS. Madre Maria Vergine, insieme col suo carissimo Sposo Giuseppe, con molte squadre d’Angioli, e Santi, e particolarmente S. Michele Arcangelo; e dal sinistro piano il demonio infernale con i suoi, per eccitare la suddetta tua passione istigandoti a cedergli. Nel che ti parerà di sentire una voce,- quasi dell’Angiolo tuo Custode, che cosi ti dica: “Tu oggi hai da combattere contro questo, ed altri tuoi nemici. Non s’impaurisca il cuor tuo, né si perda d’animo, non gli ceda per timore, o altro rispetto in conto alcuno, perché il Signore nostro e Capitano tuo, sta qui teco con tutte quelle gloriose squadre che contro i tuoi nemici tutti combatterà, non permettendo che in forze ti prevalgano, ed in soverchieria”. Sta pur salda, fa a te violenza, e comporta la pena che in violentarti sentirai talora. Grida spesso dall’intimo del cuore, e chiama il tuo Signore e Maria Vergine e tutt’i Santi, che senza dubbio ne riporterai  la vittoria. Se tu sei fiacca, e male abituata, se i nemici tuoi sono forti, e molti, molti anche sono gli ajuti di chi ti ha creato e redenta, e sopra modo e senza comparazione alcuna, più forte è il tuo Dio, più voglia ha Egli di salvarti, che non ne ha il nemico di perderti. Combatti pure, né talora ti rincresca il penare, perché dalla fatica, dalla violenza contro le tua male inclinazioni e dalla pena che si sente per mali abiti, nasce la vittoria ed il tesoro grande, con che si compra il Regno dei cieli, e si unisce l’anima per sempre con Dio. – Comincerai in nome del Signore a combattere con le armi della diffidenza di te stessa e confidenza in Dio, con la orazione e con l’esercizio, chiamando a battaglia quel nemico ed inclinazione tua, che secondo l’ordine di sopra ti sei risoluta di vincere, ora con la resistenza, ora con l’odio ed ora con gli atti della virtù contraria, ferendola più e più volte a morte, per far piacere al tuo Signore che, con tutta la Chiesa trionfante, sta a vedere il tuo combattimento. –  Di nuovo ti dico, che non ti deve rincrescere i1 combattere, considerando l’obbligo che tutti abbiamo di servire e piacere a Dio, e la necessità di combattere, non potendo fuggire senza ferite e morte nostra, da questa battaglia; e ti dico di più, che quando, come ribelle volessi fuggire da Dio e darti al mondo, ed alle delizie della carne, al tuo dispetto ti bisogna combattere con tante e tante contrarietà, che spesse volte ti suderà il volto, e penetrerà il cuore con angosce di morte. – Considera qui, che forte di pazzia sarebbe di pigliare quella fatica e quella pena che induce maggior fatica e pena, con la morte insieme senza finirsi mai, fuggendo da quella, che col finirla presto, si unisce alla vita eterna ed infinitamente beata, o godendo per sempre del nostro Dio.

Dell’ordine di combattere contro le nostre viziose passioni. 

CAP. XVII

Importa assai sapere l’ordine, che si ha da tenere per combattere come si deve, e non a caso ed a stampa, come fanno molti, non senza loro danno. L’ordine di combattere contro i nemici e mali inclinazioni tue è, che tu, entrando dentro al tuo cuore, guardi con diligente esame da qual sorta di pensieri ed affetti è circondato, e da qual passione è più posseduto e tiranneggiato; e contro quella principalmente tu prenda le armi, e la pugna. E se avviene, che tu sii assalita da altri nemici, sempre devi combattere contro quello che allora in atto e più da vicino ti fa guerra, ritornando però poi alla principal impresa.

Del modo di resistere ai subiti moti delle passioni.

CAP. XVIII

Non essendo ancora assuefatta a riparare i subiti colpi delle ingiurie, o d’altra cosa contraria, per fare quell’uso, avvezzati a prevederli e volerli poi più e più volte, aspettandoli con animo preparato. – Il modo di prevederli è che, considerata la condizione delle tue passioni, consideri anco le persone e i luoghi dove, e con le quali tratti, dal che facilmente potrai congetturare quel, che ti potrebbe avvenire. – E sopravvenendoti qualsivoglia altra cosa avversa non pensata, oltre l’aiuto, che ti avrà recato il tenere l’animo preparato alle altre che prevedevi, potrai di più servirti di questo altro modo. In quello che tu incominci a sentire i primi colpi dell’ingiuria, o altra cosa penosa, sta desta a farti forza per levare la mente a Dio, considerando la sua ineffabile bontà, e l’amore verso di te col quale ti manda quell’avversità, acciocché sopportandola per suo amore, più ti purghi ed accosti, ed unisci a Lui. E veduto, quanto Egli si compiace, che tu la sopporti, voltati a te stessa, riprendendoti, e dicendo teco: “Ah, perché non vuoi sostenere questa Croce, che non questi o quegli, ma il tuo Padre celeste ti manda”. Poi rivolta alla Croce abbracciata con la maggior pazienza ed allegrezza, che puoi, dicendo: O Croce fabbricata dalla previdenza divina, innanzi ch’io fossi! O  Croce indolcita dal dolce amore del mio Crocifisso! Inchiodami ormai in te, perché possa darmi, a chi morendo in te, mi ha redenta. – E se nel principio, prevalendo in te la passione, non potessi levarti in Dio, ma restassi ferita, cerca non tutto ciò di farlo quanto prima, come se ferita non fossi. Ma per efficace rimedio contro questi sopiti moti, toglierai a buon ora la cagione, d’onde procedono. – Come se per l’affètto che hai ad alcuna cosa, vedi che, quando in essa vieni molestata, sei solita cadere in subita alterazione d’animo, il modo di provvedere a ciò per tempo è che tu ti avvezzi a toglierne l’affetto. Ma se l’alterazione procede non dalla cosa, ma dalla persona della quale, perché non vi hai sangue, ogni piccola azione ti infastidisce e ti commuove, il rimedio è che ti sforzi d’inchinare la volontà ed amarla, ed averla cara, perché oltre ch’è creatura come tu, dalla sovrana mano formata, e con lo stesso divino Sangue come tu, riformata, ti porge anche occasione (se la comporterai) di assomigliarti al tuo Signore, amoroso e benigno con tutti.

Del modo di combatterecontro il vizio della carne

CAP. XIX

Contro questo vizio hai da combattere con particolare e diverso modo dagli altri. Onde, perché tu sappia combattere ordinatamente, tre tempi hai da osservare:

Avanti che siamo tentati.

Quando siamo tentati.

Dopo che la tentazione è passata.

Avanti la tentazione, la pugna sarà contro le cagioni che sogliono produr quella tentazione. Prima tu hai a combattere, non affrontando il vizio, ma fuggendo ad ogni tuo potere qualsivoglia occasione e persona, da cui te ne possa venire un minimo pericolo. E bisognando talora trattarci, prestissimamente, con volto modesto e grave, e piuttosto le parole hanno d’avere dell’asprezze che dell’amorevolezza ed affabilità soverchia. Né ti fidare, perché non senta, né abbi tanti e tanti anni praticato, sentito stimoli della carne, perché questo maledetto vizio, quello che non ha fatto in molti anni, lo fa in un’ora, e spesso ordina i suoi apparecchi occultamente, e tanto più nuoce, ed incurabilmente ferisce, quanto più sa dell’amico meno dà sospetto di sé. – E molte volte v’è più da temere (come non poche fiate l’esperienza ha mostrato e mostra tuttavia), dove la pratica si continua sotto pretesto di cose lecite, come di parentela, o debito uffizio, oppure di virtù, che sia nella persona amata, perché col troppo ed imprudente praticare, si va mescolando il velenoso diletto del senso, che insensibilmente stillando a poco a poco, e penetrando fino al midollo dell’ anima, va offuscando sempre più la ragione, in modo che si cominciano a stimare come niente le cose pericolose, gli sguardi amorevoli, le parole dolci dell’una e l’altra parte, ed i gusti della conversazione, e così, passandosi dall’una all’altra parte, si viene poi a cadere in rovina, o in alcuna travagliata tentazione malagevole a superarsi. – Di nuovo ti dico che tu fugga, perché sei stoppa, né ti fidare, che sei bagnata, e ben piena d’acqua di buona e forte volontà; e risoluta piuttosto, e pronta alla morte, che all’offesa divina, perché con lo spesso praticare, il fuoco col suo calore a poco a poco, dissecandone l’acqua della buona volontà, quando manco vi si pensa, se le attaccherà in modo che non porterà rispetto a parentela, né ad amici; non temerà Dio, non stimerà l’onore, non la vita, né le pene dell’inferno tutte. Però fuggi, fuggi, se daddovero non vuoi essere sopraggiunta, presa, ed uccisa. Secondo, fuggi l’ozio, e sta vigilante e desta con i pensieri, e con le opere al tuo stato convenienti. Terzo, non fare mai resistenza, ma ubbidisci facilmente ai tuoi Superiori, eseguendo con prontezza le cose imposte, e quelle più volentieri che ti umiliano, e sono più contro la tua volontà e naturale inclinazione. Quarto  non far mai giudizio del prossimo, e principalmente di questo vizio, e se manifestamente fosse caduto, abbigli compassione, né ti sdegnare contro di lui, non lo avere a scherno, ma cavane frutto di umiltà, e di conoscimento di te stessa, conoscendoti polvere e niente; con le orazioni accostati a Dio, e più che mai fuggi le pratiche, dove sia pure ombra di pericolo. Che se tu sarai facile a giudicare gli altri e dispregiarli, iddio a tuo costo ti correggerà, permettendo che tu cada nello stesso difetto, acciocché tu ti avveda della tua superbia, ed umiliata, ad ambedue questi vizi, procuri rimedio. E non cadendo, né mutando pensiero, sappi pure, che vi è da dubitare grandemente dello stato tuo. Quinto ed ultimo avverti bene, che ritrovandoti tu con qualche dono e gusto di delizie spirituali, tu non prenda di te stessa un certo vano compiacimento, persuadendoti di essere da qualche cosa, e che i tuoi nemici non siano più per farti guerra, giacche ti pare di guardarli con nausea, orrore, ed odio, che se in ciò sarai in cauta, cadrai facilmente. Nel tempo della tentazione considera, se procede da cagione intrinseca, o estrinseca. Estrinseca intendo io, che sia la curiosità degli occhi, delle orecchie, la soverchia politezza delle vesti, le pratiche ed i ragionamenti che incitano a quello vizio. Il rimedio di quelli casi è l’onestà, la modestia, non volendo né vedere, né sentire, cose che incitino a questo vizio, e la fuga, come di sopra ho detto. –  L’intrinseca procede, o dalla vivacità del corpo, o dai pensieri della mente; che ci vengano da nostri mali abiti, o pure per suggestione del demonio. La vivacità del corpo si ha da mortificare con digiuni, discipline, cilici, vigilie, ed altre simili asprezze, secondoché insegna la discrezione, e l’ubbidienza. Quanto ai pensieri, vengano pure da qual parte si voglia, che i rimedi son quelli: L’occupazione in diversi esercizi al proprio stato convenienti. L’orazione e la meditazione. L’orazione sia di questa maniera. Quando tu cominci pur un poco ad accorgerti, non pure di tali pensieri, ma dell’antiguardia loro, subito ritirati con la mente al Crocifisso, dicendo: “Gesù mio, Gesù mio dolce, aiutatemi presto, perché io non sia presa da questo nemico”. Ed alle volte abbracciando la Croce, d’onde pende il tuo Signore, bacia più volte le piaghe dei suoi sacrati piedi, dicendo affettuosamente: “piaghe belle, piaghe caste, piaghe sante, piagate ormai questo misero ed impuro cuore, liberandomi dall’offesa vostra.” – La meditazione non vorrei, che nel tempo che abbondano le tentazioni carnali, fosse intorno a certi punti, che propongono molti libri per rimedio di questa tentazione, come il considerare la viltà di questo vizio, l’insaziabilità, i disgusti, le amarezze, che ne seguono, i pericoli e rovine della roba, della vita, dell’onore, e cose simili. Perché quello non è sempre sicuro mezzo per vincere la tentazione, anzi può apportare danno: che se l’intelletto per una via scaccia questi pensieri, per l’altra ci  porge occasione e pericolo di dilettarcene, e consentire al diletto; onde il rimedio vero è il fuggire in tutto, non pure da essi, ma anco da ogni cosa, benché loro contraria, che ce li rappresenti. Però la tua meditazione, per questo effetto, sia intorno alla vita e alla passione del nostro Crocifisso. E se meditando, ti si facessero innanzi contro tua voglia gli stessi pensieri, e più del solito ti molestassero (come facilmente ti avverrà), non perciò ti sgomenterai, né lascerai la tua meditazione, nè a far loro resistenza ti rivolterai, ma seguirai, quanto più intensamente ti sia possibile, la tua meditazione, non curandoti di tali pensieri, come se tuoi non fossero, che non vi è di questo modo migliore per opporsi loro, ancorché ti facessero continua guerra. – Conchiuderai poi la meditazione  con questa o somigliante domanda: “Liberatemi, Creatore e Redentor mio dai miei nemici ad onore della vostra passione e bontà ineffabile”; non rivoltando la mente al vizio, perché la sola memoria di esso non è senza pericolo. Né sta a disputare mai con simile tentazione, se tu abbi consentito o no; perché questo sotto specie di bene, è inganno del demonio per inquietarti  e renderti sconfidata o pusillanime; perché rendendoti occupata in tali discorsi spera di farti cadere in qualche delitto. Però in questa tentazione (quando il consenso non è chiaro), ti basti confessare il tutto con brevità al tuo padre spirituale, rimanendoti di poi col suo parere quieta, senza pensarci più. E fa che gli scopri sempre fedelmente ogni tuo pensiero, né mai te ne ritenga rispetto alcuna o vergogna. Che se con tutti i nostri nemici abbiamo bisogno della virtù dell’umiltà per vincerli, in questo più che in altro dobbiamo umiliarci, essendo questo vizio quasi sempre castigo di superbia. Passato il tempo della tentazione, quello che abbi da fare è, che per libera, che ti pare di essere, e del tutto sicura, tu stia però con la mente lontana affatto da quegli oggetti che ti cagionavano la tentazione, ancorché per fine di virtù, o di altro bene ti sentissi muovere a fare altrimenti, perché questa è frode della viziosa natura, e laccio del sagace nostro avversario, che si trasforma in Angiolo di luce per indurci alle tenebre.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (3)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (3)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Delle cagioni, per cui non si discernono le cose rettamente da noi, e del modo che si ha da tenere per conoscerle bene.

CAP. VIII

La cagione, per cui da noi tutte le cose suddette, con altre non si discernono rettamente, perché alla prima loro apparenza vi attacchiamo o l’amore, o l’odio, dal che ottenebrato, l’intelletto non le giudica direttamente per quelle che sono. – Tu, perché in te non trovi luogo questo inganno, sta sull’avviso di tenere sempre, quanto più puoi, la tua volontà purgata e libera dall’affetto disordinato di qualche cosa. – E quando ti viene proposto avanti qualunque oggetto: riguardalo coll’intelletto, e consideralo maturamente, prima che da odio, s’è di cosa contraria alle nostre naturali inclinazioni: o da amore, se ti apporti diletto, tu sii mossa a volerlo, o pure a rifiutarlo. – Perché allora l’intelletto, non ingombrato da passione, è libero e può conoscere il vero, e penetrare dentro al male che sta nascosto sotto il falso piacere, ed al bene coperto dall’apparenza del male. – Ma se la volontà si è prima inclinata ad amare la cosa, o l’ha presa in aborrimento, l’intelletto non la può ben conoscere, perché quell’affetto, che si è porto fra mezzo, l’offusca di modo che la stima per altra da quella che è, e per tale rappresentandola alla volontà, si muove ella più ardentemente, che prima ad amarla, oppure odiarla, contro ogni ordine e legge di ragione. Dal qual affetto si viene ad oscurare maggiormente l’intelletto, e così oscurato fa di nuovo parere alla volontà, la cosa più che mai amabile, o odiosa. Onde se non si tiene la regola che ho detto (il che in tutto questo esercizio è di somma importanza) quelle due potenze, intelletto e volontà, tanto nobili ed eccellenti, vengono miseramente a camminare sempre come in giro di tenebre in più folte tenebre, e di errore in maggior errore. – Guardati, dunque, figliuola, con ogni vigilanza da ogni non bene ordinato affetto di qualsivoglia cosa, che prima non sia da ben eliminata e riconosciuta per quella che ch’è veramente col lume dell’intelletto, e principalmente con quello della grazia e dell’orazione, e col giudizio del tuo Padre spirituale. – Il che intendo, che tu debba osservare talora, più che nelle altre cose, che in alcune opere esteriori, che buone e tante e sante sono, perché in queste per essere tali, vi è più che in quelle pericolo d’inganno, e di indiscrezione. – Onde per qualche circostanza di tempo, di luogo, e di misura, e per rispetto dell’ubbidienza, a te alcuna volta potrebbero recare non picciolo nocumento, come di molti si sa, che ne’ lodevoli e santissimi esercizi hanno pericolato.

D’un’altra cosa, da cui si deve guardare l’intelletto, perché bene possa discernere.

CAP. IX

L’Altra cosa, da cui abbiamo a tenere difeso l’intelletto, è la curiosità; perché riempiendolo di pensieri nocivi, vani, ed impertinenti, lo rendiamo inabile ed incapace, per apprendere ciò che più appartiene alla nostra vera mortificazione e perfezione. – Per lo che tu hai da essere come morta in tutto, ad ogni investigazione delle cose terrene non necessarie, ancorché lecite. Ristringi sempre il tuo Intelletto guanto puoi, ed ama di farlo stolto. Le novelle e mutazioni del mondo,  e picciole, e grandi, a te siano appunto come se non fossero, e se ti sono offerte, opponiti loro, e scacciale lungi da te.  – Nel desiderio d’intendere le sole celestiali, fa che tu sii sobria ed umile, non volendo altro sapere, che Cristo Crocifisso, e la vita e morte sua, e quanto da te domanda. Tutto il resto tieni da te lontano, che ne farai gran piacere a Dio, il quale ha per suoi cari e diletti coloro che desiderano da Lui e cercano quelle cose che bastano per amare la sua divina bontà e fare la sua volontà. Ogni altra domanda ed inquisizione è proprio amore, superbia, e laccio del demonio. – Se tu seguirai questi ricordi, potrai scampare da molte insidie, perché vedendo l’astuto serpente, che in quelli che attendono alla vita spirituale, la volontà è gagliarda e forte, tenta di abbattere l’intelletto loro, acciò così si faccia padrone e di questo e di quella. – Onde suole molte fiate dar loro sentimenti alti, vivi, e curiosi, e massimamente agli acuti e di grand’ingegno, e che sono facili a levarsi in superbia, perché occupati nel diletto, e discorso di quei punti nei quali falsamente si persuadono di goder Dio, si scordino di purificare il cuore, ed attendere al conoscimento di loro medesimi, ed alla vera mortificazione. Così entrati nel laccio della superbia, si fanno un idolo del proprio intelletto. – Da quello ne segue, che a poco a poco non se ne avvedendo, vengono a darsi ad intendere di non avere bisogno dell’altrui consiglio ed ammaestramento, essendo già assuefatti a ricorrere in ogni occorrenza all’idolo del loro proprio giudizio. – Cosa di grave pericolo, e molto difficile a curarsi, perciocché è più pericolosa la superbia dell’intelletto che della volontà, perché  essendo la superbia della volontà manifesta al proprio intelletto, facilmente potrà un giorno, coll’ubbidire a chi deve, curarla. Ma chi ha ferma opinione che il parer suo sia migliore di quello d’altri, da chi e come, potrà essere sanato? come si sottoporrà al giudizio d’altri, che non ha per tanto buono, quanto il suo proprio. – Se l’occhio dell’anima, ch’è l’intelletto, con cui si aveva da conoscere, e purgare la piaga della superba volontà, è infermo e cieco, e pieno della stessa superbia, chi lo potrà curare? E se la luce diventa tenebre, e la regola falla , come ne andrà il resto. Per la qual cosa tua buon’ora, opponiti a così pericolosa superbia; prima che ti penetri dentro alle midolla dell’ossa. – Rintuzza l’acutezza del tuo intelletto; sottoponi facilmente il tuo proprio all’altrui parere, diventa pazza per amor di Dio, è sarai più savia di Salomone.

Dell’esercizio della  volontà, e del fine al quale si hanno da indirizzare tutte le azioni interiori.

CAP. X

Oltre l’esercizio che tu hai da fare intorno all’intelletto, ti è di bisogno di regolare talmente la tua volontà, che non lasciandola nei suoi desideri, si rende in tutto conforme al piacimento divino. – Ed avverti bene, che non ti ha da bastare quello solo di volere, e procurare le cose che a Dio sono più grate; ma di più ancora hai da volerle ed operarle, e come mosse da Lui, e per fine di piacere a Lui puramente. – In questo abbiamo pure, più che nel suddetto, contrasto grande con la natura; la quale è talmente inclinata a te stessa, che in tutte le cose, e più talora che nelle altre, nelle buone  e spirituali, cerca il proprio comodo e diletto che con che si va trattenendo e di quelle come di cibo niente sospetto, avidamente pascendo. – E però quando ci fono offerte, subito le adocchiamo e vogliamo, non come mossi dalla volontà di Dio, né affine di piacere a Lui solamente, ma per quel bene e contento, che dal volere le cose volute da Dio ne deriva. – Il qual inganno è tanto più occulto, quanto la cosa voluta è per se stessa migliore. Onde fino nel desiderare lo stesso Dio, vi sogliono essere degl’inganni dell’amor proprio, mirando spesso più al nostro interesse e bene che ne aspettiamo, che alla volontà di Dio, che per sua gloria si compiace, e vuole da noi essere amato, desiderato, ed ubbidito. – Per guardarti da questo laccio, che t’impedirebbe il cammino della perfezione, e per avvezzarti a volere ed operare tutto come mossa da Dio, e con pura intenzione d’onorare e contentare Lui solo, (il quale d’ogni nostra azione, e vuol essere unico principio e fine) terrai questo modo; questo modo, quando ti si offre alcuna cosa voluta da Dio, non inchinare la volontà a volerla, se prima non innalzi la mente a Dio, a vedere, se volontà sua, che tu la voglia, e perché Egli così vuole, e per piacere a Lui solamente. – Così da questa volontà mossa e tirata la tua, si pieghi poi a volerla, come voluta da Dio, e per suo solo compiacimento ed onore. –  Parimente volendo tu rifiutare le cose non volute da Dio, non le rifiutare, se prima non affissi lo sguardo dell’intelletto nella sua Divina volontà, la quale vuole che tu per piacergli le rifiuti. – Ma hai da sapere, che le frodi della sottile natura sono poco conosciute, la quale cercando sempre occultamente sé medesima, molte volte fa parere che in noi sia il detto motivo e fine di piacere a Dio, e non e così. – Onde spesso avviene, che quello che si vuole, o non vuole per proprio nostro interesse pare a noi di volerlo, o non volerlo, per piacere, ovvero non piacere a Dio. Per fuggire da questo inganno, il rimedio più proprio, ed intrinseco sarebbe la purità del cuore, la quale consiste (al che si indirizza tutto questo Combattimento?) nello spogliarsi dell’uomo vecchio, e vestirsi del nuovo. – Pure per provvederti d’arte, giacché sei piena di te stessa nel principio delle tue azioni, sta avvertita a spogliarti, quanto puoi d’ogni mistura, dove tu possa stimare che vi sia alcuna cosa del tuo, e non volere né operare, né rifiutare cosa alcuna, se prima non ti senti muovere, e tirare dal puro e semplice volere di Dio. – Se in tutte le operazioni, e particolarmente nelle interiori dell’anima, e nell’esteriori, che presto, come un soffio di vento svaniscono, non potrai così sempre in atto sentire questo motivo, contentati di averlo in ciascuna virtualmente, tenendo sempre intenzione vera di piacere in tutto al tuo solo Dio. –  Ma nelle azioni che continuano per qualche spazio di tempo, non solamente nel principio e bene, che cu ecciti in te quello motivo, ma devi stare sull’avviso di rinnovarlo spesso, e tenerlo svegliato fino all’ultimo; perché altrimenti vi sarebbe pericolo d’incappare in un altro laccio, pure dell’amor nostro naturale, che per esser più inclinato e pieghevole a se stesso, che a Dio, suole molte volte con intervallo di tempo farci inavvedutamente cangiare gli oggetti, e mutare i fini. – Il  servo di Dio, che in ciò non esta ben avvertito, spesse fiate, comincia ad operare alcuna cosa, col pensiero di piacere solamente al suo Signore, ma poi così a poco a poco, quasi non se n’accorgendo, talmente si va compiacendo in quella col proprio senso, che scordatosi della Divina volontà, si rivolta ed attacca di maniera al gusto che ne sente, ed all’utile ed onore, che glie ne può avvenire, che se l’istesso Iddio mette impedimento all’opera con una qualche infermità, o accidente, o mezzo d’alcuna creatura, egli ne rimane tatto turbato, ed inquietato, ed alle volte cade nella mormorazione di questo, e di quello; per non dire talora dell’istesso Iddio. Segno assai chiaro, che se l’intenzione sua non era in tutto di Dio, ma nasceva da radice e fondo guasto, e corrotto. Perché chiunque si muove, come mosso da Dio, e per piacere a Lui solo, non vuole più l’una, che l’altra cosa, ma solamente averla, se a Dio piacerà, che l’abbia, e nel modo, e tempo, che gli farà grato; ed avendola o no, ne resta ugualmente pacifico, e contento poiché ad ogni modo ottiene l’intento suo, e consegue il fine, che altro non era che il piacimento di Dio. Onde sta ben raccolta in te stessa, ed avvertita d’indirizzare sempre le tue azioni a quello perfetto fine. – E se talora (così ricercando la disposizione dell’anima tua) tu ti movessi ad operare il bene, affine di fuggire le pene dell’inferno, o per la speranza del Paradiso; puoi ancora in quello proporti per ultimo fine il piacimento, e volontà di Dio, che si compiace, che tu non vada all’inferno, ma ch’entri nel Regno suo. – Questo motivo, quanto abbia di forza e di virtù, non è chi possa pienamente conoscerlo, poiché una cosa, sia pur bassa, o minima quanto si voglia, fatta con fine di piacere a Dio solo, o per sua gloria, val più (per così dire) infinitamente, che molte altre di grandissimo pregio e valore, che siano fatte senza questo motivo. – Onde gli è più grato un solo danaro dato ad un poverello, per questo solamente di farne piacere a sua divina Maestà, che se con altra intenzione anche di godere i beni del Cielo (ch’è fine ma sommamente desiderabile) alcuno si privasse di tutte le sue facoltà per ampie che fossero. – Questo esercizio di operare il tutto con fine di piacere a Dio puramente, parrà da principio malagevole, ma si renderà piano, e facile dall’uso, e dal desiderar molte volte lo stesso Dio, ed a Lui aspirare con vivi affetti di cuore, come a perfettissimo, ed unico nostro bene, che per se stesso merita, che tutte le creature lo cerchino, e servano, ed amino sopra qualunque altra cosa. – La qual considerazione del suo infinito merito, quanto sarà fatta più profondamente, e più spesso, tanto saranno più ferventi e frequenti gli atti suddetti della volontà, e così con maggior facilità, e più presto verremo ad acquistar l’abito di fare ogni operazione per rispetto ed amor di quel Signore, che solo n’è meritevole. – Ultimamente ti avviso, perché tu consegua questo divino motivo, che tu, oltre il suddetto, lo domandi a Dio con importuna orazione, e che consideri spesso gl’innumerevoli benefizi che Iddio ci ha fatti, e fa tuttavia per puro amore, e senza suo interesse.

Di alcune considerazioni, che inducono la volontà a volere in ogni cosa il piacimento di Dio.

CAP. XI

Di più per indurre con maggior facilità la tua volontà a voler in tutte le cose il piacimento di Dio, e l’onor suo, ricordati spesso, ch’Egli ti ha prima in vari modi onorata, ed amata. Nella creazione, creandoti da nulla a sua sembianza, e le altre creature tutte a tuo servigio. Nella Redenzione, mandando non un’Angiolo, ma l’unigenito Figliuolo suo a ricomprarti, non con prezzo corruttibile d’oro, ed argento, ma col sangue suo prezioso e con la sua penosa, e vituperosa morte. – Che ogn’ora poi, anzi ogni momento, ti tenga guardata dai nemici, combatta per te con la sua grazia, tenga continuamente apparecchiato per tua difesa, e cibo, il suo diletto Figliuolo nel Sacramento dell’Altare, non è segno di inestimabile stima, ed amore che l’immenso Iddio ti porta? Tanto che non è chi possa capire quanto conto faccia sì gran Signore di noi poverelli, della bassezza e miseria nostra, e quello all’incontro, che noi siamo tenuti a fare per così alta maestà, che tali, e tante cose ha operato per noi. – Che se i Signori terreni, quando son onorati da persone anche povere e basse, pur tuttavia si sentono obbligate a rendere loro onori, che dovrà fare la nostra viltà con il supremo Re dell’universo, da cui si vede così altamente pregiata, e tenuta cara? Oltre il suddetto, tieni sempre sopra ogni cosa viva memoria, che la Divina Maestà da se stessa merita infinitamente di essere onorata, e servita puramente per suo piacimento.

Di molte volontàche sono nell’uomo,e della guerra, chehanno tra loro.

CAP. XII

Avvegnaché si possa dire in questo Combattimento, che in noi siano due volontà, l’una della ragione, detta perciò ragionevole, e superiore: l’altra del senso, che inferiore e sensuale è chiamata, la quale con quelli nomi d’appetito, carne, senso, e passione, si suole significare; nondimeno perché noi siamo uomini per la ragione, quando col senso solo vogliamo alcuna cosa, non s’intende che mai da noi veramente si voglia, fino a tanto, che con la superiore volontà non c’inchiniamo a volerla. Onde tutta la nostra battaglia spirituale sta in questo  principalmente, che la ragionevole volontà, essendo posta come in mezzo tra la volontà Divina, che le sta sopra, e l’inferiore, ch’è quella nel senso, continuamente dall’una, e dall’altra è combattuta, mentre ciascuna di queste tenta di tirarla a sé, e farla sì soggetta, ed obbediente. – Ma gran pena, e fatica, massimamente nel principio, provano i mal abituati, quando risolvono di mutare in migliore la loro malvagia vita, e togliendosi al mondo ed alla carne, darsi all’amore e servitù di Gesù Cristo. – Perché  i colpi, che la loro superiore volontà sostiene dalla volontà divina e dalla sensuale, che le stanno sempre intorno, battagliandola, sono possenti e forti, e si fanno bene sentire, non senza grave pena. – Il che non avviene a quelli che di già, sono abituati nelle virtù e non nei vizi; e così intendono tuttavia d’andare continuando, perché i virtuosi facilmente alla volontà divina consentono, ed i viziosi a quella del senso si piegano, senza contrasto. – Ma non presuma alcuno di poter conseguire le vere virtù Cristiane, né servire a Dio, come si conviene, se non vuole farsi violenza daddovero, e sopportar la pena, che si sente nel lasciare non pure i maggiori diletti, ma i piccoli ancora, ai quali prima stava attaccato con affetto terreno. – E da questo avviene, che molto pochi arrivano al segno della perfezione, perché dopo d’aver con fatica superati i vizi maggiori, non vogliono poi farsi violenza, continuando a soffrire le punture ed il travaglio, che si prova nella resistenza di quasi infinite vogliette proprie, e passioncelle di minor conto, le quali ogni ora prevalendo in essi, vengono ad acquistare sopra i cuori, il loro dominio e signoria. – Fra quelli se ne trovano, alcuni che se non tolgono i beni altrui, si affezionano soverchiamente a quelli, che giustamente possiedono: se non procurano onori con mezzi illeciti, non gli abborriscono però, come dovrebbero, né restano di desiderarli, ed alcune volte cercarli per altre diverse vie: se osservano i digiuni d’obbligo, non mortificano per questo la gola nel mangiare superfluamente, ed appetire delicati cibi, e vivendo continenti, non si staccano da certe pratiche di lor gusto, che portano grand’impedimento all’unione con Dio, ed alla vita spirituale; oltre che essendo in qualsivoglia persona, per santa che sia, e più, in chi meno le teme, molto pericolose, sono da fuggirsi da ciascuno, quanto più si possa. –  Dalle quali cose ancora ne avviene, che le altre lor opere buone, sono fatte con tiepidezza di spirito, ed accompagnate da molti interessi, ed imperfezioni occulte, e da non certa stima di loro stessi, e dal desiderio d’essere lodati, e pregiati dal Mondo. – Quelli che sono tali, non pure non fanno progresso nella via della salute, ma tornando addietro, stanno a rischio di ricadere nei primi mali, poiché non amano la vera virtù, e si mostrano poco grati al Signore, che gli tolse dalla tirannia del demonio, ed inoltre sono ignorati e ciechi per vedere il pericolo, in cui si trovano, mentre falsamente si persuadono d’essere in stato come sicuro. – E qui si scopre un inganno tanto più dannoso, quanto meno avvertito, che molti che attendono alla vita spirituale, essendo più di quello che bisognerebbe, di essere amatori (sebbene in verità non fanno amarsi), per lo più prendono quegli esercizi, che più si confanno col gusto loro, e lasciano gli altri, che toccano sul vivo della propria naturale inclinazione, e dei sensuali loro appetiti, contro i quali vorrebbe ogni ragione, che si voltasse tutto lo sforzo della battaglia. Onde, figlia mia diletta, ti avviso, ed esorto ad innamorarti della difficoltà, e pena che seco porta il vincerli; che qui sta il tutto, e tanto farà più certa la vittoria e presta, quanto più fortemente t’innamorerai della difficoltà, che ai principianti mostra la virtù, e la guerra; e se tu più sarai amatrice della difficoltà, e del penoso combattere, che delle vittorie e delle virtù, che presto acquisterai ogni cosa.

Del modo di combattere contro i moti del senso e degli atti, che  ha da fare l’acquistare gli abiti della virtù.

CAP. XIII

Qualunque volta la tua ragionevole volontà è combattuta del senso da una parte, e dalla divina dall’altra, mentre ciascuna cerca di riportarne la palma, fa di mestiere che tu,  acciocché in te prevalga in tutto la volontà divina, ti eserciti in più modi. – Prima, quando sei assalita e battagliata dai moti del senso, hai da fare gagliarda resistenza, perché a quelli che la volontà superiore non acconsenta. – Secondariamente, poiché sono cessati, eccitali di nuovo in te, per reprimerli con maggiore impegno e forza. – Di poi, richiamali alla terza battaglia, nella quale ti avvezzerai di scacciarli da te con sdegno, ed aborrimento. I quali due eccitamenti a  battaglia si hanno da fare in ogni nostro disordinato appetito, fuori che negli stimoli carnali, dei quali ragioneremo a suo luogo. Ultimamente hai da fare atti contrari ad ogni tua viziosa passione. Col seguente esempio ti si farà il tutto più chiaro. Tu sei per avventura combattuta dai moti dell’impazienza; se dentro te stessa dimorando, starai ben attenta, sentirai, ch’essi di continuo battono alla volontà superiore, perché loro s’inchini, ed acconsenta. E tu per lo primo esercizio con replicate voglie, opponendoti a ciascun moto, fa quanto puoi, perché la volontà tua non vi dia consentimento. Non celiare mai di questa pugna, finché tu non ti avveda, che l’inimico quasi stanco, e come morto, si renda per vinto. Ma vedi, figliuola, la malizia del demonio. Quando egli si accorge, che noi gagliardamente ci opponiamo ai moti d’alcuna passione; non pure si rimane da eccitarli in noi, ma essendo eccitati, tenta per allora d’acquetarli, perché coll’esercizio non acquistiamo l’abito della virtù contraria ad essa passione e per farti oltre ciò cadere nei lacci della vanagloria e superbia, col darci poi destramente ad intendere, che noi da generosi soldati abbiamo presto conculcato i nostri nemici. – Perciò tu passerai alla seconda battaglia, riducendoti alla memoria ed eccitando in te quei pensieri che ti cagionavano l’impazienza, in modo che tu ti senta da essi commossa nella parte sensitiva, ed allora con spesse voglie e sforzo maggiore che prima, reprimi i moti suoi. – E quantunque noi ributtiamo i nostri nemici, perché conosciamo di far bene e di piacere a Dio, tuttavia per non averli del tutto in odio, corriamo pericolo di rimanere da essi altra volta superati: per questo tu hai da farti loro incontro col terzo assalto e scacciarli lungi da te con voglie non pure ripugnanti, ma sdegnose, sin tanto che ti si rendano. Finalmente per ornare e perfezionare l’anima tua con gli abiti delle virtù, hai da produrre interiori atti che siano direttamente contrari alle tue disordinate passioni. Come volendo tu acquistare perfettamente l’abito della pazienza, se uno col dispregiarti ti porge occasione d’impazienza, non basta, che ti eserciti nelle tre maniere di pugna, che ho detto, ma devi di più volere, ed amare il dispregio ricevuto desiderando d’essere di nuovo nell’istesso modo, e dalla stessa persona oltraggiata, aspettando e proponendoti di sostenere anche cose più gravi. – La cagione, perché tali atti contrari sono necessari per perfezionarci pelle virtù, si è, perché altrimenti gli altri atti, per molti, che siano e forti, non sono bastevoli ad estirpare le radici che producono il vizio. Onde (per continuare nello stesso esempio) ancorché noi essendo dispregiati, non consentiamo ai moti dell’impazienza, anzi contra essi combattiamo coi tre modi mostrati di sopra; nondimeno se non ci avvezzeremo con molti e frequentati atti ad avere caro il dispregio, e rallegrarcene, non ci potremo mai liberare dal vizio dell’inclinazione nostra, alla propria riputazione, che si fonda nell’abborrimento del dispregio. – E restando viva la radice, viva la radice viziosa, va sempre germogliando, di maniera che, rende languida la virtù, anzi talora la soffoca in tutto, ed inoltre ci tiene in continuo pericolo di ricadere in ogni occasione che ci rappresenti. – Dalle quali cose ne segue, che senza i detti atti contrari non possiamo acquistare giammai il vero abito della virtù. – E di più si avverta, che questi soli atti hanno da essere tanto frequenti ed in tanto numero, che possano affatto distruggere l’abito vizioso, il quale siccome da molti atti viziosi ha preso nel cuore nostro possesso, così con molti atti contrari li ha da svellere da quello, per introdurvi l’abito virtuoso. Anzi dico di più, che più atti buoni si ricercano per far l’abito virtuoso, essendo che quelli non sono come questi aiutati dalla natura corrotta dal peccato. – Oltre a quello che fin qui si è detto, aggiungo che se la virtù che allora eserciti, così richiede, hai anche da fare atti esteriori, conformi agli interiori, come per stare nel detto esempio, usando parole di mansuetudine e d’amore, e servendo, se puoi, chi ti è stato noioso e contrario in qualunque nodo. E quantunque questi atti tanto interiori, quanto esteriori fossero, e ti paressero accompagnati da tanta debolezza di spirito, che ti paresse di farli contro ogni tua voglia, non però devi per modo alcuno tralasciarli, perché per deboli che siano, ti tengono ferma e salda nella battaglia, e ti agevolano la strada alla vittoria. E sta bene avvertita e raccolta in te stessa, per combattere non pure contro le voglie grandi ed efficaci, ma ancora contro le piccole e lente di ciascuna passione, perché queste aprono la strada alle grandi, onde poi si generano in noi gli abiti viziosi. E dalla poca cura che hanno tenuto alcuni, di sradicare dai cuori loro queste vogliette, dopo d’aver superate le maggiori della medesima passione, è avvenuto loro, che quando meno vi pensavano, sono stati assaliti, e vinti dagli stessi nemici più gagliardamente e che prima. – In più ti ricordo, che tu attenda a mortificare e rompere alle volte le tue voglie, anche di cose lecite non necessarie, perché da questo ne seguiranno molti beni, e ti renderai sempre più disposta, e pronta a vincerti nelle altre. Ti farai forte ed esperta nella battaglia delle tentazioni,  fuggirai varie insidie del demonio, e farai cosa gratissima al Signore. – Figliuola chiaramente ti parlo: se nel modo che ti ho detto andrai continuando in questi leali e santi esercizi, per la riforma e vittoria di te stessa, ti assicuro che fra poco tempo ti avanzerai molto, e diventerai spirituale davvero, e non di nome solamente; ma in altra maniera e con alcuni esercizi, ancorché a tua stima fossero eccellenti, e tanto al tuo gusto dilettevoli, che ti paresse di stare in essi tutta unita, ed in dolci colloqui col Signore, non ti dare ad intendere d’acquistare giammai virtù, e spirito vero. Il quale (come ti ho detto nel primo capitolo) non consiste né nasce da esercizi dilettevoli e conformi alla nostra natura, ma da quelli che la mettono in Croce con tutti gli atti suoi, onde rinnovato l’uomo per mezzo degli abiti delle virtù evangeliche, lo congiungono al suo Crocifisso e Creatore. – Né vi è, chi dubiti, che siccome gli abiti viziosi vengono a  farsi con molti, e frequentati atti della volontà superiore, mentre cede agli appetiti del senso, così all’incontro, gli abiti delle virtù evangeliche s’acquistano con fare atti, spesse e spessissime volte, conformi alla volontà divina, da cui or a questa, or a quell’altra virtù siamo chiamati. – Che siccome la volontà nostra non puote giammai essere viziosa e terrena, per molto che sia battagliata dalla parte inferiore e dal vizio, per fino a tanto che a quella non cede, e s’inchini: così non sarà mai virtuosa, e congiunta a Dio, benché molto vivamente sia chiamata, e combattuta dalle ispirazioni, e grazia divina, mentre cogli atti interni non si conforma ad essi, e con gli esterni, quando bisogna.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – JAM VOS OMNES

Jam vos omnes

Pubblichiamo questa Lettera Apostolica con la quale il Papa Pio IX, all’occasione della convocazione del Concilio Vaticano, invitava i “fratelli separati” a rientrare nella Chiesa Cattolica.  In questo importante documento, molti spunti interessanti mettono in rilievo, qualora ancora ce ne fosse bisogno, per gli ipovedenti neo-pagani, le contraddizioni delle nuove dottrine del satanico Concilio c. d. Vaticano II – scomunicato anzitempo dalla bolla Execrabilis di S. S. Pio II – e dell’ancor più luciferino post-concilio, con il Magistero perenne della Chiesa. – Innanzitutto Pio IX mostra quello che è sempre stato lo scopo di un Concilio Ecumenico, e per cui gli è garantita l’assistenza divina, cioè la condanna degli errori e la diffusione della fede. Notevole poi l’appello accorato a tutti  coloro che si trovano in comunità pseudo-religiose fuori della Chiesa, per spingerli alla conversione e a rientrare nell’ovile di Cristo, al di fuori del quale non c’è salvezza … extra Ecclesiam nulla salus! Il Papa afferma chiaramente che in nessuna di quelle società religiose, sette scismatiche ed eretiche (tra le quali oggi annoveriamo pure il neomassonico “Nuvus ordo” dei modernisti ecumenisti-adoratori del “signore dell’universo” [cioè il baphomet-lucifero], nonché i gallicani fallibilisti eredi ed emuli del “cavaliere kadosh” Lienart, le varie sette dell’arcipelago dei “cani sciolti”, cioè i liberi sedevacantisti e tesisti vari …), si può identificare la Chiesa di Gesù Cristo che è soltanto la Chiesa Cattolica. Il Pontefice sottolinea poi come il diffondersi delle sette produca gravi danni anche per la società civile (dopo un secolo e mezzo vediamo che aveva perfettamente ragione … come al solito!), e se ne deduce quindi che esse non abbiano nessun diritto a non essere impedite di diffondersi pubblicamente, come vuole il diktat mondialista massonico-ecumenista. Il Papa termina la lettera mostrando come il motivo di questo appello sia dettato dal suo preciso dovere di fare tutto il possibile per la salvezza delle anime e per il bene della società cristiana. .. IAM VOS OMNES noveritis, Nos licet immerentes ad hanc Petri Cathedram evectos …­

Pio IX

Iam vos omnes

Tutti voi sarete senz’altro a conoscenza che Noi, innalzati, pur senza alcun merito, a questa Cattedra di Pietro e posti quindi a capo del supremo governo e della cura dell’intera Chiesa Cattolica dallo stesso Signore Nostro Gesù Cristo, abbiamo ritenuto opportuno convocare presso di Noi i Venerabili Fratelli Vescovi di tutto il mondo e di riunirli, nel prossimo anno, in Concilio Ecumenico, per approntare, con gli stessi Venerabili Fratelli chiamati a condividere la Nostra sollecitudine pastorale, quei provvedimenti che risulteranno più idonei e più incisivi sia a dissipare le tenebre di tanti pestiferi errori che ovunque, con sommo danno delle anime, ogni giorno più si affermano e trionfano, sia a dare sempre più consistenza e a diffondere nei popoli cristiani, affidati alla Nostra vigilanza, il regno della vera fede, della giustizia e dell’autentica pace di Dio. – Riponendo piena fiducia nello strettissimo e amabilissimo patto di unione che in modo mirabile lega a Noi e a questa Sede gli stessi Venerabili Fratelli, come testimoniano le inequivocabili prove di fedeltà, di amore e di ossequio verso di Noi e verso questa Nostra Sede, che mai tralasciarono di offrire nel corso di tutto il Nostro Supremo Pontificato, nutriamo la speranza che, come avvenne nei secoli scorsi per gli altri Concili Generali, così, nel presente secolo, il Concilio Ecumenico da Noi convocato possa produrre, con il favore della grazia divina, frutti copiosi e lietissimi per la maggior gloria di Dio e per la salvezza eterna degli uomini. – Sostenuti dunque da questa speranza, sollecitati e spinti dalla carità di Nostro Signore Gesù Cristo, che offrì la sua vita per la salvezza di tutto il genere umano, non possiamo lasciarci sfuggire l’occasione del futuro Concilio senza rivolgere le Nostre paterne e Apostoliche parole anche a tutti coloro che, quantunque riconoscano lo stesso Gesù Cristo come Redentore e si vantino del nome di Cristiani, non professano tuttavia la vera fede di Cristo e non seguono la comunione della Chiesa Cattolica. Così facendo, Ci proponiamo con ogni zelo e carità di ammonirli, di esortarli e di pregarli perché considerino seriamente e riflettano se la via da essi seguita sia quella indicata dallo stesso Cristo Signore: quella che conduce alla vita eterna. – Nessuno potrà sicuramente mettere in dubbio e negare che lo stesso Gesù Cristo, al fine di applicare a tutte le umane generazioni i frutti della sua redenzione, abbia edificato qui in terra, sopra Pietro, l’unica Chiesa, che è una, santa, cattolica e apostolica e che a lei abbia conferito il potere necessario per conservare integro ed inviolato il deposito della fede; per tramandare la stessa fede a tutti i popoli, a tutte le genti e a tutte le nazioni; per tradurre ad unità nel suo mistico Corpo, tramite il Battesimo, tutti gli uomini con il proposito di conservare in essi, e di perfezionare, quella nuova vita di grazia senza la quale nessuno può meritare e conseguire la vita eterna; perché la stessa Chiesa, che costituisce il suo mistico Corpo, potesse persistere e prosperare nella sua propria natura stabile ed indefettibile fino alla fine dei secoli, e offrire a tutti i suoi figli gli strumenti della salvezza. – Chiunque poi fissi la propria attenzione e rifletta sulla situazione in cui versano le varie società religiose, in discordia fra loro e separate dalla Chiesa Cattolica, la quale, senza interruzione, dal tempo di Cristo Signore e dei suoi Apostoli, per mezzo dei legittimi suoi sacri Pastori ha sempre esercitato, ed esercita tuttora, il divino potere a lei conferito dallo stesso Signore, dovrà facilmente convincersi che in nessuna di quelle società, e neppure nel loro insieme, possa essere ravvisata in alcun modo quell’unica e cattolica Chiesa che Cristo Signore edificò, costituì e volle che esistesse. Né si potrà mai dire che siano membra e parte di quella Chiesa fino a quando resteranno visibilmente separate dall’unità cattolica. Ne consegue che tali società, mancando di quella viva autorità, stabilita da Dio, che ammaestra gli uomini nelle cose della fede e nella disciplina dei costumi, li indirizza e li governa in tutto ciò che concerne la salvezza eterna, mutano continuamente nelle loro dottrine senza che la mobilità e l’instabilità trovino una fine. Ognuno può quindi facilmente comprendere e rendersi pienamente conto che ciò è assolutamente in contrasto con la Chiesa istituita da Cristo Signore, nella quale la verità deve restare sempre stabile e mai soggetta a qualsiasi mutamento, come un deposito a lei affidato da custodire perfettamente integro: a questo scopo, ha ricevuto la promessa della presenza e dell’aiuto dello Spirito Santo in perpetuo. Nessuno poi ignora che da questi dissidi nelle dottrine e nelle opinioni derivano divisioni sociali, traggono origine innumerevoli comunioni e sette che sempre più si diffondono con gravi danni per la società cristiana e civile. – Pertanto, chi riconosce la Religione come fondamento della società umana, dovrà prendere atto e confessare quale grande violenza abbiano esercitato sulla società civile la discrepanza dei principi e la divisione delle società religiose in lotta fra loro, e con quanta forza il rifiuto dell’autorità voluta da Dio per governare le convinzioni dell’intelletto umano e per indirizzare le azioni degli uomini, tanto nella vita privata che in quella sociale, abbia suscitato, promosso ed alimentato i lacrimevoli sconvolgimenti delle cose e dei tempi che agitano e affliggono in modo compassionevole quasi tutti i popoli. – È per questo motivo che quanti non condividono “la comunione e la verità della Chiesa Cattolica” debbono approfittare dell’occasione del Concilio, per mezzo del quale la Chiesa Cattolica, che accoglieva nel suo seno i loro Antenati, propone un’ulteriore dimostrazione di profonda unità e di incrollabile forza vitale; prestando orecchio alle esigenze del loro cuore, essi debbono impegnarsi per uscire da uno stato che non garantisce loro la sicurezza della salvezza. Non smettano di innalzare al Signore misericordioso fervidissime preghiere perché abbatta il muro della divisione, dissipi la caligine degli errori e li riconduca in seno alla santa Madre Chiesa, dove i loro Antenati trovarono salutari pascoli di vita; dove, in modo esclusivo, si conserva e si trasmette integra la dottrina di Gesù Cristo e si dispensano i misteri della grazia celeste. – È dunque in forza del doveroso Nostro supremo ministero Apostolico, a Noi affidato dallo stesso Cristo Signore, che, dovendo espletare con sommo impegno tutte le mansioni del buon Pastore e seguire ed abbracciare con paterno amore tutti gli uomini del mondo, inviamo questa Nostra Lettera a tutti i Cristiani da Noi separati, con la quale li esortiamo caldamente e li scongiuriamo con insistenza ad affrettarsi a ritornare nell’unico ovile di Cristo; desideriamo infatti dal più profondo del cuore la loro salvezza in Cristo Gesù, e temiamo di doverne rendere conto un giorno a Lui, Nostro Giudice, se, per quanto Ci è possibile, non avremo loro additato e preparato la via per raggiungere l’eterna salvezza. In ogni Nostra preghiera e supplica, con rendimento di grazie, giorno e notte non tralasciamo mai di chiedere per loro, con umile insistenza, all’eterno Pastore delle anime l’abbondanza dei beni e delle grazie celesti. E poiché, se pure immeritevolmente, adempiamo sulla terra all’ufficio di Suo vicario, con tutto il cuore attendiamo a braccia aperte il ritorno dei figli erranti alla Chiesa Cattolica, per accoglierli con infinita amorevolezza nella casa del Padre celeste e per poterli arricchire con i Suoi tesori inesauribili. Proprio da questo desideratissimo ritorno alla verità e alla comunione con la Chiesa Cattolica dipende non solo la salvezza di ciascuno di loro, ma soprattutto anche quella di tutta la società cristiana: il mondo intero infatti non può godere della vera pace se non si fa un solo ovile e un solo pastore.

Datum Romæ, apud S. Petrum, die XIII Septembris anno 1868, Pontificatus Nostri anno vigesimotertio.

DOMENICA DI PASSIONE (2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLII: 1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX: 11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

GESÙ CRISTO SACERDOTE

“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio, monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente? E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”. (Ebr. IX, 11-15).

L’Epistola di quest’oggi è tratta dalla lettera agli Ebrei, della quale si è già parlato nella solennità di Natale. Qui si parla della superiorità e della efficacia del Sacrificio di Gesù Cristo, in confronto del sacrificio della legge ebraica. Difatti Gesù Cristo:

1. È il Sacerdote della nuova legge,

2. Che offre a Dio il proprio sangue,

3. E si fa nostro mediatore.

1.

Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri; cioè dei beni del Nuovo Testamento, come: l’espiazione valevole per tutti i tempi, la santificazione interna, l’eterna felicità ecc.; venivano, necessariamente, a perdere tutta la loro importanza i riti del culto levitico. Ciò che è imperfetto dove cedere il posto a ciò che è perfetto. Gesù Cristo è il Sacerdote della nuova legge. Non si assume da sé la dignità sacerdotale: ma vi è destinato da Dio, come da Dio vi fu destinato Aronne. Il Padre, che dall’eternità gli dà l’essere di Figlio, con giuramento solenne, irrevocabile, lo dichiara: «Sacerdote in eterno,secondo l’ordine di Melchisedech» (Salm. CIX, 4). Sarà un sacerdote che durerà in eterno. Melchisedech, sacerdote e re, tipo di Gesù Cristo, è introdotto nella Sacra Scrittura, così minuziosa nelle genealogie dei  Patriarchi, senza che si faccia menzione né del padre né della madre, né del tempo della nascita né del tempo della  morte, né di chi l’abbia preceduto né di chi gli sia succeduto nel sacerdozio. Gesù Cristo, come non ebbe antecessori, non avrà successori nel suo sacerdozio. Vivendo Egli in eterno, il suo sacerdozio non avrà mai fine, a differenza del sacerdozio secondo l’ordine di Aronne, che aveva carattere transitorio. Mediante il sacerdozio di Gesù Cristo abbiamo un’espiazione valevole per tutti i tempi. Al pari degli antichi re e sacerdoti, anche il sacerdote della nuova legge, Gesù Cristo, riceve l’unzione, ma in modo più eccellente. Egli viene unto «non con olio visibile, ma col dono della grazia … E deve intendersi unto con questa mistica e invisibile unzione, quando il Verbo di Dio si è fatto carne» (S. Agostino, De Trinit. L . 15. c. 26). In virtù dell’unione ipostatica con la divinità, la natura umana di Gesù Cristo ricevette, fin dal primo momento dell’incarnazione, la pienezza di tutte le grazie e di tutti i doni dello Spirito Santo. Così, la natura umana assunta riceve l’unzione dalla divinità. Gesù è, quindi, sacerdote fin dal principio della sua esistenza. È sacerdote nella culla, è sacerdote nell’esilio, è sacerdote durante la vita nascosta di Nazaret.

2.

Gesù Cristo, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio. Negli antichi sacrifici la vittima che doveva essere immolata veniva trascinata all’altare. Gesù Cristo, che sostituirà se stesso alle vittime del sacrificio levitico, non ha bisogno d’essere condotto per forza al luogo dell’immolazione. Prima di sacrificare il suo corpo sacrifica la sua volontà. Al Padre non piacciono più i sacrifici dell’antica legge, e fa conoscere la sua volontà che il Figlio, assumendo un corpo, lo offra in sacrificio per la salvezza degli uomini. E il Figliuolo, incarnandosi, può ripetere le parole del salmista: «Ecco io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà» (Ebr. X, 7). Ecco, io assumo un corpo, mi faccio uomo, affinché offra me stesso in luogo del sacrificio mosaico. E questa spontanea ubbidienza dimostra in tutte le circostanze della sua vita mortale. La volontà del Padre è volontà sua. È volontaria la povertà di Betlemme, l’amarezza della fuga in Egitto, il sudore della bottega, le fatiche dell’apostolato. Sono volontarie tutte le privazioni, le persecuzioni, i dolori della vita pubblica; è volontario il sacrificio supremo sulla croce. Venuta l’ora dell’immolazione « non ha aperto la sua bocca; come pecorella sarà condotto ad essere ucciso: e come un agnello si sta muto dinanzi a colui che lo tosa, così Egli non aprirà la sua bocca » (Is. LIII, 7). – Siamo al sacrificio cruento. Il sangue scorre; ma questa volta non scorre sangue di capretti e di vitelli; scorre il sangue del Figlio di Dio fatto uomo; sangue d’un valore infinito. Per mezzo di questo sangue offerto a Dio, l’uomo è liberato dalla schiavitù di satana. Gli antichi schiavi che ottenevano la libertà, l’ottenevano depositando essi stessi il prezzo della propria liberazione. Noi pure siamo stati liberati dalla schiavitù mediante un prezzo e « caro prezzo »; (I Cor. VI, 20) ma questo caro prezzo, non l’abbiamo sborsato noi. L’ha sborsato Gesù Cristo « il quale ha dato se stesso quale riscatto per tutti », (I Tim. II, 6) versando il suo prezioso sangue. La pena dovuta ai nostri peccati, e che noi non avremmo mai potuto scontare, con questo sangue è cancellata. La giustizia di Dio è soddisfatta: l’uomo è riconciliato col suo creatore.

3.

E per questo egli è il mediatore del nuovo testamento. – « Egli è il solo mediatore tra Dio e gli uomini » (1 Tim. II, 5). Il sacerdote è mediatore tra Dio e gli uomini specialmente per mezzo del sacrificio e della preghiera. « Il buon mediatore offre a Dio le preghiere e i voti dei popoli, e porta loro da parte di Dio benedizioni e grazie. Supplica la divina maestà per le mancanze dei peccatori; e redime negli offensori l’ingiuria fatta a Dio» (S. Bernardo, De mor. et off. Epist. c. 3, 10). La preghiera del Sacerdote ha sempre grande valore: è la preghiera dell’uomo di Dio. Qual valore non avrà la preghiera di Gesù Cristo? « Facilmente si ottiene quando prega un figlio ». (Tertulliano, De pœn. 10). E Gesù Cristo è Figlio di Dio: « Figlio diletto », (Luc. III, 22). « Figliuolo dell’amor suo ». (Col. 1. 13) Egli stesso ha assicurato agli Apostoli che otterrebbero dal Padre qualsiasi cosa, se chiesta in nome suo. A maggior ragione si otterrà dal Padre, quanto chiede Egli stesso. Gesù Cristo innalza al Padre la sua efficace preghiera, quando appare in questo mondo; l’innalza durante la sua vita. Egli prega in ogni tempo e in ogni luogo. Prega di giorno, prega di notte. Prega in pubblico, prega nella solitudine. Dopo aver parlato agli uomini di Dio, del suo regno, si ritira a parlare degli uomini a Dio. – Nel tempio, nel deserto, nell’orto s’innalza a Dio il profumo della sua preghiera. Ma sul Calvario specialmente, quando pende dalla Croce, la sua preghiera sacerdotale si innalza ad interporsi tra la giustizia e la misericordia di Dio. – E sui nostri altari continua ancora oggi a innalzare al Padre la sua preghiera in favore dell’umanità. Ogni qualvolta s’immola misticamente il suo Corpo e il suo Sangue offerti all’eterno Padre, hanno forza più efficace di qualsiasi voce sensibile, presso la maestà di Dio offesa, ad ottenere il perdono per gli offensori. Egli continua il suo ufficio sacerdotale di mediatore su in cielo, dove si fa nostro avvocato alla destra del Padre. Lassù Gesù Cristo continua ad essere il nostro sacerdote, che prega, manifestando al Padre il suo vivissimo desiderio della nostra salute, e presentandogli l’umanità assunta, coi segni gloriosi dei misteri in essa compiuti. E continuerà il suo ufficio di mediatore per noi sino alla fine dei secoli. I Sacerdoti, suoi rappresentanti su questa terra, passeranno. Agli uni succederanno gli altri: il loro ministero sarà limitato dal tempo. Ma Gesù, Sacerdote eterno, non passerà « vivendo egli sempre affine di supplicare per noi ». (Ebr. VII, 25). Gesù Cristo, Sacerdote della Nuova Alleanza, s’interessa di noi al punto da offrire al Padre il suo Sangue per i nostri debiti, e continua a far l’ufficio di nostro difensore lassù in cielo. E noi fino a qual punto ci interessiamo di Gesù? Forse l’abbiamo completamente dimenticato. La Serva di Dio suor Benedetta Cambiago, entrata un giorno nella sala da lavoro dell’educandato da lei diretto, ove si trovavano delle fanciulle esterne, domanda: — Mie care, vorrei sapere da voi una cosa. Là vi è il Crocifisso, amor nostro, morto per noi sulla croce. Quanti atti di offerta gli avete fatto oggi? E visto che nessuna di loro si era ricordata di Gesù ripiglia: — Ebbene, chi si scorda di Gesù è indegna di star con Lui. — E senz’altro piglia una sedia, stacca il Crocifisso dalla parete e lo porta via. A questa conclusione le fanciulle si mettono a piangere, e pregano Benedetta che riporti loro il crocifisso. (Vittorio Bondiano, Suor Benedetta Cambiagio, fondatrice delle Suore di N. S.  della Provvidenza ecc. Verona, 1925; p. 92). – Se noi dovessimo piangere sulle giornate trascorse senza fare un’offerta a Gesù, che per noi offrì se stesso, senza rivolgere un pensiero a Lui, che continuamente intercede per noi, forse dovremmo piangere ben frequentemente. Un degno cambio per tutto quello che Gesù Cristo ha fatto, e fa continuamente per noi, non lo potremo mai rendere: nessuno può dubitare. Possiamo però tener sempre presenti i suoi benefici. Sarebbe già qualche cosa: ama chi non oblia. Possiamo offrirgli giornalmente i nostri pensieri, i nostri affetti, le nostre fatiche, i nostri dolori. Possiamo offrirgli le nostre preghiere. « Gesù Cristo nostro Signore — osserva S. Agostino — prega per noi come nostro Sacerdote… è pregato da noi come nostro Dio ». (Enarr. in Ps. LXXXV, 1) Lo preghiamo davvero come nostro Dio? Lo preghiamo frequentemente?

Graduale

Ps CXLII: 9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII: 48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus

Ps CXXVIII:1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres. [Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum. [Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et júdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XIX.

“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46 59).

Il nostro divin Redentore era senza dubbio la santità in persona. E la santità perfetta, di cui Egli era adorno, traspirava da tutte le sue parole, da tutti i suoi atti, da tutto il suo portamento. – Eppure vi erano dei maligni, massime tra i principi dei sacerdoti che, odiandolo a morte, lo riguardavano come il peggiore di tutti gli uomini. Costoro lo accusavano di assidersi alla mensa dei pubblicani, di conversare coi peccatori, di accogliere le donne peccatrici, le quali venivano ai suoi piedi per confessare le loro miserie ed implorarne il perdono; giunsero perfino a chiamarlo un miserabile indemoniato. Ma le ingiurie, comunque siano sanguinose, comunque villane, non sono ragioni, non sono prove, e sovente ricadono sopra coloro che le prodigano. Difatti il Salvatore alle calunnie de’ suoi persecutori, rispose mai sempre con argomenti così trionfali da confondere nel modo più umiliante e vergognoso i suoi nemici. Ne abbiamo una prova nel Vangelo di questa domenica, dal quale sebbene potremmo prendere molte lezioni, ci accontenteremo di prendere le tre più ovvie e per noi più importanti.

1. Dice adunque il Santo Vangelo che Gesù trovandosi nel tempio ad insegnare, volto alle turbe dei Giudei ed ai principi de’ Sacerdoti disse: Chi di voi mi convincerà di peccato? E voleva dire:Per quanto voi, pieni di malignità, e non ostante le grandi prove che già vi ho date della mia santità, vi ostiniate a riguardarmi come un peccatore, e persino come un uomo posseduto dal demonio, tuttavia nessuno di voi potrà addurre delle prove che in me vi sia stato mai alcun peccato, perciocché io sono santo, il Santo dei santi, la santità per eccellenza. Ed in vero, sebbene nostro Signor Gesù Cristo nella sua immensa bontà per noi, abbia voluto farsi in tutto e per tutto simile agli uomini, in questo solo tuttavia ha fatto eccezione, e non ebbe mai sopra di sé neppur l’ombra della più piccola colpa. In tutta la sua vita di trentatré anni, pur facendo libero esercizio della libertà, fin dal primo istante della sua concezione, né mai la contrasse, né mai conobbe che cosa fosse. Epperò ben sicuramente Egli poté volgersi ai suoi nemici e lanciar loro questa nobile sfida: Chi di voi mi accuserà di peccato? Quis ex vobis arguet me de peccato? Or bene, o miei cari, certamente nessuno degli uomini potrà mai fare agli altri la sfida che fece Gesù: poiché dice S. Giovanni che « colui il quale si crede senza peccato è vittima della più volgare illusione ». Tuttavia è certo che se noi per nostra sventura ci siamo macchiati di peccato ed anche di molti e gravissimi peccati, possiamo, purché lo vogliamo, liberarcene subito e ridonare a noi con la grazia di Dio, la santità; e ciò per mezzo di una santa Confessione. Ora sono veramente molti tra i Cristiani, coloro che si affrettino a riacquistare la santità perduta per il peccato? O non sono molti piuttosto coloro che vi dormono sopra i giorni, le settimane, i mesi e persino gli anni? E come spiegare questa mostruosità di un Cristiano che rimanga anche solo un istante in peccato mortale? Udite. È verità di fede che un sol peccato mortale  è sufficiente per rendere il Cristiano meritevole dell’eterna dannazione. Ed è questa una verità pienamente conforme alla retta ragione: imperciocché se nel peccato mortale vi è una malizia infinita, perché offende Iddio infinitamente perfetto, egli è troppo giusto che il peccato mortale abbia un castigo infinito, sia nella sua intensità come nella sua durata. È pur verità registrata nelle sacre carte e tutto giorno dimostrata dall’esperienza, che la morte coglie la maggior parte degli uomini all’impensata. Nel Santo Vangelo Gesù Cristo dice: qua hora non putatis Filius hominis veniet tanquam fur; e l’esperienza sempre ci dimostra che si muore quando meno ci si pensa: imperciocché, come disse Cicerone, non vi ha alcun uomo per quanto vecchio, il quale non pensi di vivere almeno ancora un anno. Ciò premesso, non è egli veramente mostruoso, che un Cristiano stia anche solo per un istante in peccato mortale? — Se in tale stato è all’improvviso colpito dalla morte, andrà certamente in eterno perduto. … Forse la morte non mi colpirà; Iddio forse mi aspetterà ancora, ma ne sono io certo? E sopra di un forse vorrò riporre la mia tranquillità! — Andreste voi a riposare in un letto ove stesse accovacciata una serpe col lusingarvi che forse non vi morderà? Vi adagereste voi a pigliar sonno sull’orlo di un precipizio col persuadervi che forse non vi cadrete entro? Ah tutt’altro! E se voi fuggireste dal letto ove si accovaccia una serpe, se voi vi terreste lontano dall’orlo di un precipizio, come mai riposate tranquilli in istato di peccato mortale? Chi trovasi in tale stato non è egli forse tra le spire dell’infernale serpente, non sta egli forse sull’orlo dell’inferno? Manca solo che Iddio lasci cadere un colpo di spada della sua terribile giustizia. E non è egli veramente mostruoso che il peccatore se ne stia in pace e tranquillo mentre la spada della divina giustizia ad ogni momento gli sta sospesa sul capo e minaccia colpirlo? Ma che dico minaccia? Spesse volte lo colpisce, e lo colpisce per l’appunto perché peccatore. È questa una verità, che la Scrittura e la storia ci rendono manifesta con somma chiarezza. Nell’Ecclesiaste sta scritto: Noli esse stultus, ne moriaris in tempore non tuo. Davide ne’ suoi salmi dice: Viri sanguinum et dolosi non dimidiabunt dies suos. E nel libro dei Proverbi: Anni impiorum breviabuntur. E Gesù Cristo nel santo Vangelo a quel ricco, che dopo d’avere ingiustamente ammassati molti beni dice all’anima sua: Godi, sta allegramente, intuona severo: Stulte, hoc nocte animam tuam repetunta te. E l’Apostolo San Paolo con energica espressione: Stimulus autem mortis peccatum est. Mirate Baldassare: commette l’orribile sacrilegio di profanare i vasi sacri, e tosto una mano misteriosa apparisce sulla parete, che gli sta di fronte, a segnare la condanna di morte, che subirà nella notte seguente. Mirate Oloferne,Onan, Sichem, Zambri, Cozbi, Gezabele, Giuliano l’apostata, sono colpiti da Dio nelle loro stesse voluttà, nelle loro bestemmie. Stimulus autem mortis peccatum est. Or dunque se è così, che il peccato accelera lo scoppio dell’ira divina, non è egli mostruoso, io torno a dire, che il Cristiano rimanga in tale stato anche per un solo istante?Ma vi ha ancora una ragione che rende vieppiù mostruoso un tale stato, ed è la facilità di uscirne. Ed invero se caduti una volta in peccato fosse cosa gravosissima e difficile il risorgerne, quasi quasi potrebbesi in qualche modo scusare il peccatore. Ma è egli così? Tutt’altro. Poteva, è vero, il Signore far sentire in ciò il peso della sua giustizia ed imporre al perdono della colpa a durissime condizioni: poteva ad esempio stabilire, che non altrimenti fossimo perdonati dei nostri peccati, che col recarci umilmente ai piedi del suo Vicario, il Romano Pontefice: poteva stabilire, che non fossimo perdonati che col manifestare il nostro peccato al cospetto di una gran moltitudine raccolta in chiesa in un giorno di grande solennità: poteva stabilire tutto questo ed altro ancora di più duro; ma no, non è nulla di ciò, che Egli c’impose per darci il suo perdono. Non ci impose altro che una buona confessione. Ed è cosa troppo grave una confessione, che si può compiere anche in pochi minuti? Come mai adunque non vi risolvereste di farla, se vi trovaste al caso di averne bisogno? Miei cari, siamo vicini alla Pasqua. Iddio vuole che tutti per quella festa ci disponiamo ad essere senza peccato. Ascoltiamo adunque l’ordine del Signore. Esaminiamo bene la nostra coscienza e se in essa vi troviamo delle colpe gravi, risolviamo senz’altro di non voler più oltre rimanere in questo stato. Andiamo a gettarci ai piedi di un confessore, e con una confessione sincera e dolorosa rendiamoci di nuovo santi al cospetto del Signore, ed allora se non potremo dire giammai, come disse Gesù Cristo: Chi mi convincerà di peccato? potremo dire tuttavia: Fui già peccatore, ma ora per la grazia di Dio non vi ha più in me il peccato.

2. Continuando il Divin Redentore il suo ragionamento disse: Se vi dico la verità, per qual ragione non mi credete? Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. A queste parole, tanto schiette, e nel tempo stesso così nobili, i Giudei non sapendo che cosa rispondere si appigliarono al mezzo, cui si appigliano tutti i malvagi, quando non hanno ragione e pur vogliono averla, vale a dire alle ingiurie. Gli risposero perciò i Giudei e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano (vale a dire un trasgressore della legge) e un indemoniato? Ma a queste ingiurie così gravi si risentì forse nostro Signor Gesù Cristo e rispose forse a sua volta con ingiurie? Tutt’altro. Si contentò di negare la calunnia fattagli, e con parole così semplici e decorose da far conoscere che non c’era in Lui il minimo risentimento per l’oltraggio ricevuto. Rispose adunque: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma Io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi ne prende cura e ne farà vendetta. Che parole al tutto ammirabili! Che condotta eroica! Che mansuetudine! Si esalti pure fin che si voglia la mansuetudine di uomini illustri sotto le diverse forme in cui essa si mostra, di clemenza, di compassione e di dolcezza, si ammiri pure la mitezza di Socrate di fronte alle stranezze della sua moglie bisbetica: si lodi la bontà di Filippo il Macedone, che ad un soldato mormorante dietro la sua tenda non disse altro che di allontanarsi; si celebri la condotta di Alessandro verso il suo medico Filippo, verso la moglie di Dario e verso i mutilati prigionieri di Persepoli; si canti la clemenza di Scipione e di Augusto; si celebri la dolcezza di Cesare e di Tito; tutto ciò è meno che nulla rispetto alla mansuetudine incomparabile di cui Gesù Cristo ci ha dato esempio nel trattare con i suoi nemici e calunniatori, nel non risentirsi delle loro atroci ingiurie. – Or bene, o miei cari, possiamo dire di fare lo stesso anche noi, che siamo Cristiani e dobbiamo seguire gli esempi che Gesù Cristo ci ha dati? Ahimè! La nostra condotta è tutt’altra. Non appena abbiamo ricevuto una qualche offesa, l’amor proprio, che è il nostro maggior nemico, subito e in un attimo fa sentire la sua voce, e … vorrai, dice a ciascuno di noi, vorrai soffrire in pace tale ingiuria? vorrai ristarti dal renderle la pariglia? Ma se tu non ricambi quell’insulto, se tu non ripaghi quell’affronto, se tu non fai la vendetta, o i tuoi avversari o gli stessi tuoi amici diranno che sei un folle, che non sai fare le tue ragioni, che hai paura, diranno in una parola che sei un vile. Così parla l’amor proprio, quando si è stati offesi. Ed è appunto a questa parola dell’amor proprio, che non pochi Cristiani danno ascolto di preferenza che agli esempi di Gesù Cristo. Ora, o miei cari, è egli proprio vero che sia un vile colui che per mansuetudine non si risente delle offese ricevute? Ma era dunque un vile il nostro divinissimo Redentore? Furono vili tutti i Santi che seguirono con tanta esattezza questo suo esempio? Benché non è vero che il mondo reputi vile colui che è mansueto e perdona. Così faceva il mondo degli uomini stravolti di cervello, il mondo dei malvagi e dei viziosi, ma non già il mondo dei savi, dei buoni, dei ben pensanti, perciocché questo mondo ha sempre invece riguardato come vile colui che infuria e si vendica. Ed in vero non è proprio da vile il risentirsi e il vendicarsi, facendo così quello che fanno le bestie, quello che fa la vespa, che punge chi la stuzzica, quello che fa il mulo, che spranga calci contro chi lo percuote? Si, lo diceva già Aristotile, filosofo pagano: l’ira e la vendetta sono appetiti bestiali. Del resto, mettiamo pure che tutto il mondo, e buono e malvagio, ritenga per vile chi è mansueto e perdona. Che perciò? Anche facendo la figura dello sciocco, dell’uomo capace a nulla, del pauroso, del vigliacco, non si dovrà lo stesso essere mansueti e combattere i nostri sentimenti? Senza dubbio, perché alla fin fine si tratta di seguire l’esempio di Gesù Cristo, e per seguire l’esempio di Gesù Cristo bisogna far volentieri qualche sacrificio, qualora ci è richiesto. Ecché? si pretenderebbe di andar in Paradiso in carrozza? senza superare difficoltà, senza far opposizioni alle proprie inclinazioni? Il regno dei cieli, ha detto Gesù Cristo, patisce forza, e lo guadagnano coloro che si fanno violenza; Regnum Dei vim patitur et violentis rapiunt illud. Che anzi in Paradiso non si va assolutamente senza la mansuetudine, avendo pur detto lo stesso Gesù Cristo nel Vangelo di oggi: In verità, in verità vi dico: chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno; volendo pur dire per converso che chi non custodirà gl’insegnamenti suoi, tra i quali tiene un posto principalissimo questo di non risentirsi dello offese, vedrà la morte in eterno. Benché ciò non è ancor tutto, perché oltre all’eterna morte chi si risente e ascoltando i suoi risentimenti anela alla vendetta, si condanna altresì a menare quaggiù una vita di rabbia e di agitazione. E come può vivere tranquillo chi ha in cuore l’amarezza, l’odio, il livore, la brama di vendicarsi? È ancora per lui la pace, la gioia, la felicità? No, affatto! Più non dorme quieto la notte; di giorno, anche in mezzo agli affari, lo tormenta un pensiero funesto, tra gli stessi divertimenti una larva, che conturba, gli si para dinnanzi, la larva della sua inimicizia. E poi ha da sacrificare le compagnie, le adunanze, le ricreazioni dove pratica l’avversario; deve evitare quelle strade per dove egli passa, deve star pronto a voltare la faccia quando lo incontra; e quando pure è riuscito a umiliarlo, a vendicarsi di lui, più che mai deve temere, che o egli o i suoi parenti, o i suoi amici preparino di ripicco un’altra vendetta. E questa condizione di vita non è un inferno anticipato? E non è dunque meglio le mille volte essere mansueti, non risentirsi e lasciar a Dio la cura di vendicarci? Su, adunque, decidiamoci una buona volta d’imitare anche in questo la condotta di Gesù Cristo.

3. Ma torniamo ancora una volta al Vangelo. Dopo aver riferite quelle ultime parole da Gesù indirizzate ai Giudei: Chi custodirà i miei insegnamenti non vedrà morte in eterno; prosegue narrando che a tale sentenza i Giudei dissero a Gesù: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e morirono i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più, del padre nostro Abramo, il quale morì? e dei profeti che morirono? Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se Io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto; Io sì, che lo conosco: e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo, come voi! Ma lo conosco, e osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro sospirò di vedere questo giorno: lo vide (da lontano per particolar rivelazione) e ne tripudiò. Gli disser però i Giudei: tu non hai ancora cinquantanni, e hai veduto Abramo? Gesù disse loro: In verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose e uscì dal tempio. – Gesù Cristo adunque dicendo: Io sono prima che fosse Abramo, fa intendere l’eternità della sua essenza, che cioè in Lui, come Dio, non c’è tempo passato e futuro, ma tutto presente. Così pure con la stessa asserzione fa capire, che Egli non riceve l’esistenza, come l’ha ricevuta il patriarca Abramo; che perciò non è una semplice creatura, ma Colui che è, vale a dire Iddio sommo ed infinito; insomma Egli dichiara apertamente la sua divinità. Ed è appunto perciò, perché si dice chiaramente Dio, che i Giudei, ostinandosi a non volerlo riconoscere come tale e riguardandolo come bestemmiatore, danno di mano ai sassi per lapidarlo. Ma a questo atto dei Giudei che cosa fa Gesù Cristo! Afferma ancora una volta la sua divinità con un miracolo, col nascondersi cioè miracolosamente ai loro sguardi e con l’uscire così tranquillamente dal recinto del tempio, senza che quei malvagi possano fargli alcun male. Ora con quest’ultima prova, che in questa circostanza Gesù Cristo diede della divinità sua, non sembra aver voluto rendere inescusabìli quei Giudei della loro malvagia ostinazione nel non volerlo riconoscere per Dio? Sì senza dubbio. Ma qui riflettiamo, che Gesù Cristo continua a far la stessa cosa anche ai dì nostri con tanti peccatori, i quali si ostinano nei loro peccati. In quante maniere prova loro che Egli è Dio, sommamente degno di essere conosciuto, amato e servito come tale! Con quanti mezzi li sprona a compiere questi doveri! Quante illustrazioni manda loro, perché riconoscano di essere nell’inganno servendo il demonio e accontentando le loro passioni! Con quante ispirazioni li anima a risorgere dall’abisso in cui si trovano! Insomma sono grazie sopra grazie, che Egli va facendo loro incessantemente, di modo, che se essi non lo assecondano e continuando ad ostinarsi nelle loro colpe, finiranno per andare un giorno dannati nel fondo dell’inferno, là certamente non potranno muovere lamento contro la bontà di Dio, ma in quella vece dovranno riconoscere di essere affatto inescusabili della loro perdizione e sentirsi perciò ciascuno risuonare di continuo all’orecchio quella tremenda sentenza: Perditio tua ex te: La perdizione tua è interamente opera tua. Or bene, miei cari, se non vogliamo un giorno trovarci nel numero di questi sventurati, facciamo ora gran conto delle grazie di Dio e delle tante maniere con cui Egli ci mostra il dovere che abbiamo di riconoscerlo per quello che è, e di amarlo come si merita. Se per sventura pel passato ci siamo induriti anche noi nella colpa, spezziamo ora i nostri cuori col dolore dell’offesa che abbiamo recato a Dio, e promettendogli di non più offenderlo in avvenire cominciamo subito adesso una vita tale, che riesca una confessione solenne, di parole e di fatto, della sovranità che Iddio ha sopra di noi sue creature.

Credo …

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII:17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

 Communio

1 Cor XI: 24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]