DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (15): Il Sacro Cuore di Gesù e l’Incarnazione

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Ed. Torino,1920Imprim. Can. F. Duvina, Torino, 19 giugno, 1920]

DISCORSO XV.

Il Sacro Cuore di Gesù e l’Incarnazione.

Vi è una pagina del Santo Vangelo, che sant’Agostino avrebbe desiderato, che a caratteri d’oro venisse scolpita su tutte le chiese della terra. Questa pagina è la prima del Vangelo di S. Giovanni, ove quest’aquila degli Evangelisti, sollevando il suo volo sino all’altezza dei cieli, incomincia col dichiarare « l’inenarrabile » generazione del Verbo e termina col metterci innanzi « il grande mistero nascosto ai secoli il Dio, » il mistero della divina Incarnazione. « In principio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio. Tutto fu fatto per Lui, e nulla fu fatto senza di Lui, e tutto ciò che fu fatto era vista in Lui …. E questo Verbo si fece carne ed abitò fra di noi, e noi abbiamo veduto la sua gloria, gloria del Figlio Unigenito del Padre, e ci apparve pieno di grazia di verità. » – Or bene, questo mistero principalissimo di nostra santa Religione, questo mistero così grande, così sublime, questo mistero, che ci dice quanto Iddio abbia amato l’uomo, che costituisce della carità divina per l’uomo la dimostrazione e la prova grande e classica per eccellenza, con maggior eloquenza ed efficacia, che non dalla prima pagina di S. Giovanni ci viene simboleggiato e predicato dal Cuore Sacratissimo Gesù. Ed in vero già molti secoli innanzi, Iddio annunziando agli uomini i mirabili effetti di tanto mistero, per mezzo del profeta Ezechiele aveva detto: E darovvi un nuovo cuore, porrò in mezzo a voi un nuovo spirito, e togliendo dalle vostre viscere il cuore di pietra, vidarò un cuore di carne: Dabo vobis cor novum … dabo vobis cor carneum, (XXXIX, 26) come per dire: Io muterò i vostri cuori così duri e così insensibili all’amor di Dio, e li ammollirò col metter loro innanzi il Cuore di carne di un Dio, che parlandovi della carità immensa, che questo Dio vi ha dimostrato nell’incarnarsi per voi, vi costringerà quasi per forza ad amarlo. Miei cari, dopo tutto ciò che abbiamo studiato intorno alla devozione del Sacro Cuore è tempo ornai che ci mettiamo in devota contemplazione di questo Cuore Sacratissimo. Ma questa contemplazione non ha da essere né inerte, né sterile. Gesù Cristo nel mostrare il suo Cuore a Santa Margherita Alacoque, dicendole: « Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini, » non glielo mostrò nudo e spoglio, quale si trova nell’umano petto. Ma invece glielo fece vedere sopra un trono di fiamme, contornato di spine, sormontato dalla Croce e con una larga ferita nel mezzo. E ciò fece Egli forse a caso? Oh no certamente! Con tutti questi simboli Egli volle indicarci la sua immensa carità per noi sia nel suo complesso sia nelle prove particolari. Epperò sono queste prove di carità che nella contemplazione del Cuore di Gesù e de’ suoi simboli dobbiamo metterci a meditare. E la prima che tra di esse ci si affaccia è appunto la Incarnazione redentrice. La Chiesa nel suo primo inno ad onore del Sacro Cuore di Gesù lo canta espressamente: « O autore beato del mondo, o Cristo di tutti Redentore, Lume dal Lume del Padre, Dio vero da Dio, fu il tuo amore che t’indusse a prendere un corpo mortale per riparare, novello Adamo, il danno cagionato dal primo: Amor coegit te tuus | Mortale corpus sumere \ novus Adam redderes | Quod vetus Me abstulerat. Prendiamo adunque oggi a considerare la gran prova di carità che ci ha dato Gesù Cristo nell’incarnarsi e farsi uomo per la nostra salute.

I. — Iddio da tutta l’eternità era infinitamente beato in se stesso, né aveva alcun bisogno di uscire dalla solitudine e creare. L’amore tuttavia ve lo indusse. Ed ecco, al suono dell’onnipotente suo fiat, uscir fuori la terra ed il cielo con tutte le loro immense meraviglie, sole, luna, stelle, mari, fiumi, laghi, montagne, piante, erbe, fiori, animali, quadrupedi, uccelli, pesci e rettili. Tutto ciò Egli faceva in sei giorni, o sei epoche, i cui la scienza ad onta delle sue ricerche non è ancora riuscita a determinare la durata. Ma a tutto ciò mancava ancora l’opera più bella. E d ecco che Iddio con infinito amore disse: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza.» E come disse, così fece: creò Adamo ed Eva; né contento di ciò li elevò ad uno stato soprannaturale, arricchendoli di grazia, di integrità, di scienza meravigliosa, e facendoli esenti dalla morte e da ogni miseria dell’anima e del corpo. In questo stato, dopo un tempo da Dio stabilito, avrebbero abbandonato questa terra in una dolce estasi di amore divino per passare ai godimenti del cielo per .tutta l’eternità. E tutto ciò Iddio aveva per tal modo congiunto alla natura umana, che i nostri progenitori, generando in quello stato soprannaturale dei figliuoli, insieme colla vita naturale avrebbero in loro trasfusi quegli stessi tesori di grazia, che essi possedevano. Ecco la condizione sublime, in cui il Signore volle costituire da principio i nostri progenitori; condizione che la Chiesa con una frase complessiva chiama giustizia originale. Tuttavia, quasi non bastasse ancora alla bontà ineffabile di Dio, prese per mano i nostri progenitori e li condusse a prender possesso del Paradiso terrestre e a farne il loro speciale soggiorno. Era questo un giardino deliziosissimo irrigato da limpidissimi fiumi e fornito di ogni sorta di piante belle a vedersi e di frutti dolci a mangiarsi, e persino di un albero chiamato della vita, i cui frutti dovevano servire a mantenere l’uomo in una perfetta giovinezza. Oh vita felicissima che doveva esser quella! Qual fortuna lo stare in seno a Dio, e trattare dimesticamente con Lui! Che bel respirare sotto un cielo sempre puro e splendido, non mai intorbidato di lampi, non mai armato di fulmini! Che bel godere sopra una terra, sempre fragrante di primavera, sempre ridente di fiori e di frutti! E poi quel comandare tutto intorno al creato, ai pesci del mare, agli uccelli dell’aria, alle fiere della foresta, e il farsi venire innanzi ora un leopardo, ora una pantera, ora un leone, e averli sotto la mano docili, miti, scherzevoli come agnelli! Oh che incanto! quale felicita! Ma ad un patto, E quale? « Tedi tu, disse Iddio ad Adamo, quell’albero in mezzo a questo Paradiso? È l’albero della scienza del bene e del male. Mangia pure di ogni frutto delle altre piante. Ma del frutto di quell’albero non mangiarne, imperocché in qualunque giorno ne mangerai, indubbiamente morrai. » Ecco la prova che Iddio esige dai nostri progenitori. E qui non vogliate, o miei cari, come taluni, giudicare questa prova come un gioco indegno della grandezza divina. Poiché v’hanno di quelli, i quali ripieni di leggerezza mondana ci dicono, deridendoci, che noi basiamo tutto l’ordinamento del mondo sopra il pomo d’Adamo. Nossignori! noi lo basiamo sulla fede alla parola di Dio e sulla obbedienza alla sua santa volontà. Imperciocché l’albero della scienza del bene e del male era desso nulla più che un albero? Esso era ben altro ancora. Esso era pure un’idea, un simbolo, il limite morale, che Dio aveva posto alla sovranità dell’uomo per provare, nella fede alla sua divina parola e nell’obbedienza al suo divin volere, se Adamo rispondeva ai suoi, benefizi con gratitudine e amore. Là in quell’albero doveva riconoscere, che se era re del mondo visibile, era tuttavia vassallo di Dio. Epperò mentre la proibizione di quel frutto, per una parte si indirizzava ai nostri sensi del corpo, per l’altra si riferiva alle facoltà dello spirito, esigendo per tal guisa una prova da tutto quanto l’uomo, che è corpo e spirito. Or bene, dice S. Agostino, qual precetto più breve da ricordarsi e più facile da eseguirsi? Eppure… quel precetto fu dimenticato e trasgredito. La donna ingannata dal serpente infernale spiccò del frutto vietato, ne mangiò essa, ne diede al marito, il quale ne mangiò esso pure. Così fu consumata la colpa fatale, e Dio non tardò a punirla pronunciando contro i nostri progenitori la condanna, che loro aveva minacciato. E a tale condanna Adamo perde l’originale giustizia e il diritto che aveva al cielo; diventa schiavo di satana e meritevole dell’inferno; e l’ignoranza, l’inclinazione al male, la morte e tutte le altre miserie si scagliano contro dl lui per castigarlo. E in quello stato di scadimento e di dannazione vengono al mondo tutti i suoi discendenti, perciocché egli non può più trasmettere ai suoi figli ciò che ha perduto e tutti gli uomini, secondo l’insegnamento di S. Paolo, sono morti in Adamo, e per natura figliuoli di ira. Quale adunque sarà la sorte dell’umanità? Dovrà essa irreparabilmente perire? Senza dubbio Iddio avrebbe potuto stabilire così. Ma così non volle. Dando alla giustizia quanto chiedeva, volle dare altresì ciò che chiedeva là misericordia,  volle cioè scampare l’umanità dall’eterna rovina. E come? Perdonando senz’altro le iniquità degli uomini senza veruna soddisfazione, oppure anche accontentandosi di una soddisfazione inadeguata alle loro colpe? Certamente anche ciò poteva farlo. Ma in tal caso non sembra che, almeno dinnanzi ai nostri occhi, la sua giustizia avrebbe perduto alcunché del suo splendore? Comunque sia la cosa, egli è corto, che Iddio stabilì di rialzare gli uomini dal loro stato di colpa è di dare agli stessi la salute, esigendo della colpa una adeguata riparazione. Ora se il peccato, come dice S. Tommaso, per ragione della maestà influita di quel Dio, contro del quale è rivolto, riveste una cotale infinità di milizia e se al dir di S. Paolo (Hebr. IX,22) non vi ha remissione senza spargimento di sangue, come mai il peccato poteva essere adeguatamente riparato? Forse col sangue di migliaia e migliaia di animali scannati sugli altari ed offerti in sacrificio di espiazione a Dio? Così credette l’umanità, e così credendo moltiplicava ogni anno le sue ecatombi. Ma indarno! essendo impossibile, come ancora si espresse S. Paolo, (Hebr. X, 4) che col sangue dei tori e dei capri si tolgano i peccati. Ed in vero, che cosa è mai il sangue anche di tutti gli animali del mondo per riparare adeguatamente una colpa di malizia infinita? Allora forse si riparerà con lo spargere il sangue degli uomini? Anche ciò si credette dagli antichi, e non esagero punto dicendo, che a tal fine furono immolate milioni di vittime umane. Talvolta erano uomini colpevoli, il più delle volte prigionieri di guerra, i quali rivestiti di abiti regali, adorno il capo di sacre bende, erano condotti agli altari, ed ivi fra il suono delle cetre e il canto dei sacerdoti venivano crudamente sacrificati. E quando sii pensò, che ciò non fosse ancor bastante per placare il cielo sdegnato si ricorse alle vittime innocenti. Teneri bambini, pudiche verginelle erano dessi, nel cui cuore si piantava il coltello nella folle e vana speranza di farne sgorgare un sangue riparatore. Ma come mai potevano piacere a Dio questi esecrandi delitti? Qual compenso potevano dargli del peccato commesso? Vi era forse una adeguata riparazione? No, assolutamente. Il sacrificio di tutto il genere umano non sarebbe bastato; perché richiedevasi una soddisfazione di una infinita efficacia. Era dunque necessario, che una tal soddisfazione fosse data da chi solo poteva darla, cioè da Colui che è infinito, ossia da Dio medesimo. Ma Iddio poteva egli patire e versare il sangue? No, o miei cari. Dunque la persona destinata a dare la conveniente riparazione del peccato non bastava che fosse Dio, bisognava ancora che fosse uomo, affinché come uomo potesse patire e morire; era necessario insomma, che la vittima d’espiazione di tutti i peccati degli uomini fosse ad un tempo uomo e Dio, uomo per potere acquistar meriti al cospetto di Dio, Dio per comunicare ai propri meriti un valore infinito, nella considerazione dei quali Iddio placasse la sua collera e ridonasse agli uomini la salute. Or bene questa vittima umana divina, che sola poteva salvare l’umanità peccatrice, che realmente l’ha salvata, è appunto Gesù Cristo, Verbo incarnato. Egli, con la sua divina Incarnazione entrando nel mondo, senza lasciare di essere vero Dio e prendendo ad essere vero uomo, congiunsein una sola Persona le due nature umana e divina. Ma questo divin Verbo non ha assunto l’umanità sana, impassibile, immortale, quale era nello stato d’innocenza: Egli l’ha assunta debole, malata, soggetta ai patimenti ed alla morte, quale era divenuta dopo il peccato. Egli ha preso una carne, dice S. Paolo, che senza essere intaccata dal peccato, aveva però tutta la esterna rassomiglianza con la carne del peccato: In similitudinem carnis peccati, (Rom. VIII, 3) e quindi capace di soffrire e di morire. Né solamente prese una carne esternamente simile a quella del peccato, ma sebbene « santo, innocente, senza macchia, segregato dai peccatori, » (Hebr. VII, 26)si sostituì al genere umano colpevole e, senza aver mai conosciuto il peccato, divenne, secondo l’energica espressione dell’Apostolo, il peccato vivente, (Cor. V, 21) poiché fece sue tutte le disobbedienze, tutte le ribellioni, tutte le empietà, tutti i sacrilegi, tutte le bestemmie, tutte le crudeltà, tutte le ingiustizie, tutte le brutture, tutte le colpe insomma che si commisero e si commetteranno da quel giorno, in cui prevaricò Adamo sino a quello in cui il mondo arso e distrutto darà principio all’eternità. Quindi è Lui, sopra del quale il divin Padre, sdegnato per le iniquità degli uomini, scatena le folgori della sua collera divina; è Lui, che nasce nella povertà di una spelonca, che, perseguitato a morte fin dal suo primo apparire su questa terra, prende la via dell’esilio, che per trent’anni soffre la fatica e gli stenti in una oscura bottega, che per tre anni è deriso, disprezzato, calunniato, cercato a morte. È lui, che agonizza in un orto trasudando vivo sangue, che è caricato di catene, satollato di obbrobri, trascinato come vile malfattore davanti ai tribunali, sputacchiato, flagellato, coronato di spine, calpestato. È lui, che è caricato d’una pesante croce, e la porta sulla vetta di un monte, che è spogliato nudo, inchiodatovi sopra, che fra i più atroci tormenti versa il suo sangue divino e muore, esclamando con ragione: Consummatum est: tutto è consumato; la redenzione dell’uman genere è compiuta! Sì, la redenzione del genere umano è compiuta, perché sotto le pelli odiose di Esaù, come osserva il grande S. Agostino, sotto il velo della carne di peccato, il vero Giacobbe, il Verbo eterno, ha conservato la sua voce divina, la santità, i meriti, i diritti, la dignità di Figlio di Dio. Ed essendo vero Dio ha potuto dare alle sue umiliazioni, ai suoi dolori, alla sua morte il valore e il merito munito delle azioni di Dio, ed offrire a Dio una soddisfazione infinita. E fu in questo modo, come aveva vaticinato Davide, che la verità dei decreti di Dio e la misericordia per l’uomo si andarono incontro, che la giustizia e la pace si baciarono a vicenda: Misericordia et veritas obviaverunt sibi: iustitia et pax osculatæ sunt;(Ps. LXXXIV, 11) fu così che ad ogni uomo di buona volontà venne restituita la grazia e l’amicizia di Dio, la vita, la libertà, la pace, l’onore e la fecondità dell’anima; fu così che venne strappato lo scettro alla morte, che fu rovinato l’impero di satana, che fu chiuso l’inferno a chi non si ostina di volervi discendere, che fu aperto il Paradiso a quanti vi vogliono entrare; fu così insomma che venne operato il grande mistero della nostra redenzione. O mio caro Gesù, vero Dio e vero uomo, come potrò io riguardare il simbolo del vostro Cuore, che così efficacemente mi parla della redenzione nostra, e non sentirmi commosso nelle più profonde viscere? Come potrò io pronunciare il vostro nome adorabile, che significa la mia salute, e non erompere nel più nobile e sublime cantico di gratitudine? Come potrò mirarvi così amante dell’anima mia e non istruggermi ancor io d’amore per voi?

II. — Ma se il simbolo del Cuore di Gesù Cristo ci dice con tanta efficacia, che il divin Verbo si è incarnato per operare la nostra salute, con efficacia non minore ci dice in secondo luogo, che si è incarnato per togliere la nostra miseria. Dopo il peccato di Adamo, la miseria di mente e di cuore, in cui cadde l’umanità, fu veramente orribile. In breve oscuratasi la vera nozione di Dio, dalla maggior parte degli uomini si cadde nella più turpe idolatria, adorandosi come divinità statue di legno, di pietra, di metallo, ed anche mostri irragionevoli ed altre cose insensate. Anzi per siffatto riguardo si calò così al basso, da supporre negli dei le più ributtanti passioni e da ritenere quale divinità gli stessi vizi e delitti. Quindi nelle loro più infami laidezze i pagani, a chi avesse cercato di riprenderli e farli vergognare delle loro turpitudini, potevano rispondere: Ciò che è lecito agli dei, perché deve essere illecito per noi? E per questo appunto satana faceva adorare i mostri di iniquità, perché gli uomini commettessero senza ripugnanza ogni sorta di scelleraggini. E così accadeva pur troppo, come attesta S. Paolo: « Gli uomini erano ricolmi di ogni iniquità, di malizia, di dissolutezza, di avarizia, di malvagità, di invidia, di omicidio, di frode, senza amore, senza legge, senza compassione. (Rom. I , 29) Si getti puro lo

sguardo sopra le città più famose: Ninive, Babilonia, Corinto, Efeso, Roma. Si entri pure nei palagi, nelle scuole, nei teatri e persino nei templi, ma da per tutto vedrete nefandità orribili. Vedrete l’uomo individuo impazzito sino al punto da voler essere riputato un Dio e volere come Dio altari, sacrifici ed incensi; talmente avvilito da lasciarsi dietro di gran lunga le bestie nei raffinamenti e negli abissi del male. Sardanapalo, Baldassarre, Nabucodònosor, Tiberio, Nerone, Eliogabalo, Vitellio, Lucullo sono nomi che dicono tutto. E insieme con l’individuo decaduta miseramente anche la famiglia! Il padre è un vero tiranno. La donna è stimata un nulla, tradita, disonorata, malmenata, ripudiata, venduta senza alcun riguardo per la sua dignità di sposa e di madre. Ma alla sua volta essa inferocisce contro dell’uomo, e se si vede ad un tratto il capo di casa impallidire e cadere esanime alla mensa, gli è, che al solo tempo di Cesare cento e settanta mogli avvelenarono i loro mariti. Il bambino che nasce, è palpato a guisa di un bruto e, se non promette di essere uomo robusto, è spietatamente dannato alla morte, e lo si getta a perire nel fondo delle cloache o nei campi ad essere divorato dai cani. I vecchi e gli infermi, come gente inutili, o sono precipitati da altissime torri, o sono scannati, cotti e mangiati per delizia in qualche convito fra i congiunti, sono rinchiusi in qualche isola a perire miseramente di dolore e di fame. Lo schiavo poi trattato come una bestia da soma, e la sua vita rimessa interamente al più stupido capriccio del suo padrone. E insieme con l’individuo e con la famiglia decaduta la società. Barbarie orribili e stragi spaventose durante la guerra; prepotenze, ingiustizie, rapine, concussioni ed usure durante la pace: ricchi sfondati e superbi di fronte a poveri ridotti all’estrema miseria, e cacciati dalla società come gente lurida ed insoffribile; popoli che gavazzano negli spettacoli di sangue e di pubblica dissolutezza, e re, che vorrebbero che l’umanità non avesse che una testa sola per procurarsi il piacere di troncarla di un colpo solo. È bensì vero, che in un mondo così corrotto di mente e di cuore non mancavano dei savi e dei filosofi, che sembravano sollevarsi da tale abbiezione, ma anzi tutto per riguardo alla loro vita per lo più non v’era che parvenza ed ipocrisia; giacché Aristotele, sebbene predicasse la virtù, tuttavia consacrò il furto, l’omicidio e il suicidio; Platone fece innocenti gli amori contro natura e la comunanza delle donne; Cicerone per avere il numero legale di morti, che doveva dar diritto agli onori del trionfo, fece trucidare in una sola notte seimila prigionieri di guerra; Catone così celebrato per la sua severa virtù, per attestato di Orazio, suo panegirista, compiacevasi di attingere le sue forze e il suo calore nel vino. Ecco quali erano le persone più oneste dell’antichità, quali erano i savi ed i filosofi che si sollevavano al disopra degli altri uomini, inspirandosi dal dio del vino e portando i loro omaggi alla dea della sozza voluttà. Per riguardo poi alla loro dottrina difettavano sempre di verità e di autorità. Poiché, sebbene una qualche verità fosse da loro conosciuta, cadevano tuttavia in gravissimi errori ed assurdi e, pur volendo ritrarre il popolo dallo scostumato vivere, non proponevano come premio della virtù come castigo del vizio, se non il passaggio dell’anima nel corpo di un animale bello o brutto, e l’andata ai campi Elisi o al Tartaro, cose al tutto inette e fantastiche. Ecco in qual miseria erasi caduti dopo la prima colpa, lungo il corso di quattromila anni. E tale miseria ora così profonda, che gli uomini stessi conoscendola, non facevano che sospirare da tutte le parti del mondo, dall’Oriente e dall’Occidente, da Bòrea e da Mezzodì, che venisse in sulla terra un universale restauratore. Ora, di fronte ad una miseria così grande, poteva essere che Iddio non ne sentisse pietà e non pensasse a toglierla dal mondo? Ah! il togliere l’altrui miseria, dice l’Angelico S.Tommaso, è cosa che massimamente compete a Dio, e la misericordia, come dice la Chiesa, è perfezione al tutto propria di Lui. Oh sì! Il Cuore di Dio è troppo amante degli uomini perché non si commuova allo stato, in cui sono caduti e non pensi di sollevarli; e se Egli parve essere insensibile per il corso di quattromila anni, ciò non fu, se non perché gli uomini sperimentassero meglio il bisogno che avevano della misericordia sua, e questa facendosi sentire, quando la miseria degli uomini fosse giunta al colmo, avesse a risplendere in tutta la sua grandezza. Ma in qual modo adunque Iddio prese a togliere la miseria dall’umanità? Col grande mistero della divina Incarnazione, attestatoci dal Cuore di carne di Gesù Cristo: propter nos homines et propter nostrani salutem descendit de cœlis, et incarnatus est…. et homo factus estPerciocché, come piacque a Dio creare il mondo per mezzo del divin Verbo, così ancora volle ristorare il mondo in questo Verbo incarnato: instaurare omnia in Christo. (Eph. I, 10)E per la divina Incarnazione « apparve la grazia del divin Salvatore a tutti gli uomini, ammaestrandoli a rinnegare l’empietà e i secolari desideri, e a vivere sobriamente, giustamente e piamente nella speranza della eterna beatitudine. (Tit. II) » Sì, o miei cari, Gesù Cristo, Verbo incarnato, suprema Verità e Maestro infallibile, si fa a predicare agli uomini la vera dottrina, e in opposizione al culto e alla molteplicità degli dei falsi e bugiardi insegna, che bisogna adorare un solo Dio in spirito e verità, amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la volontà, con tutte le forze; in opposizione ai vizi, che deturpano il cuore umano, alla superbia, all’egoismo, all’impudicizia, insegua l’umiltà, la carità, la purità; in opposizione al disprezzo dei poveri, dei meschini e dei sofferenti, insegna la beneficenza, l’amor fraterno, la generosità, il sacrificio; in opposizione allo spirito di ira e di vendetta, insegua la mansuetudine, la dilezione degli stessi nemici, in opposizione all’amore delle ricchezze, dei piaceri e degli onori, insegna la povertà, la pazienza, la mortificazione e l’importanza unica della salvezza dell’anima. E la sua predicazione non è sterile ed infeconda, anzi come per incanto opera i più meravigliosi mutamenti nelle idee e nei costumi degli uomini, e cangia quasi all’improvviso la faccia della terra, perciocché la sua è predicazione di un Dio, comprovata dai più strepitosi miracoli, e tutto ciò che Egli insegna agli altri, lo mostra prima praticato in se stesso nel grado più perfetto, e i premi che promette agli esecutori dei suoi insegnamenti e precetti, non si riducono a ricompense temporali, incerte e chimeriche, ma a ricompense spirituali, eterne e sicure. Né è la mente soltanto, che Egli prende a ristorare, ma con la mente altresì il cuore. Perciocché daimeriti infiniti della sua passione e morte trae fuori quegli immensi tesori di grazia, che scendono sul cuore degli uomini per i canali dei Santi Sacramenti, lo saneranno da tutte sue infermità, gli daranno la vera vita e lo rinforzeranno in ogni età e in ogni stato a combattere le inclinazioni della corrotta natura, e a mantenersi degno della compiacenza di Dio. Ah senza dubbio, anche dopo l’incarnazione dì Gesù Cristo, la miseria dell’errore e della corruzione ha continuato e continua ad esistere, ma non è già perché Gesù Cristo non abbia recato sulla terra ciò che era atto a toglierla, egli è bensì perché molti tra gli uomini hanno continuato e continua tuttora ad opporsi sciaguratamente alla sua opera di ristorazione. Che se tutta l’umanità riconoscendo l’immenso beneficio che Gesù Cristo, con la sua Incarnazione venne a farle, aprisse tutto il suo cuore ben disposto a goderne i frutti, la miseria del peccato, per virtù del Verbo Divino fatto Carne, non esisterebbe più in alcun angolo della terra e regnerebbe da per tutto la ricchezza della grazia. Quanto grande adunque è la prova d’amore, che ci ricorda il Simbolo del Sacro Cuoreparlandoci del mistero della divina Incarnazione!

III. — Ma per tal guisa, questo Sacratissimo Cuore, oltre al dirci che Gesù Cristo si è incarnato per operare la nostra redenzione e per togliere la nostra miseria, ci dice ancora in terzo luogo, che Gesù Cristo si è incarnato per esaltare la nostra natura. Ed invero, fin dalla creazione di Adamo Iddio aveva fatto dell’uomo un essere grande. Perciocché raccogliendo nel suo corpo gli elementi dispersi in tutte le altre creature della terra, ne fece come un compendio ammirabile di tutte, opperò a tutte superiore. Dotandolo poi di un’anima spirituale, intelligente e libera, con cui lo potesse conoscere, amare e servire, lo rese di poco inferiore agli Angeli stessi del Cielo, che sono puri spiriti, e per tal guisa l’uomo non fu più solamente un compendio delle creature terrene a lui inferiori, ma un insieme, più ammirabile ancora, delle creature terrene e delle creature angeliche. Sì, dice S. Gregorio Nazianzeno, l’uomo divenne come la pietra angolare, il centro misterioso, il rappresentante reale di tutto ciò che è stato creato e in cielo e in terra. Quale grandezza! Ha ben ragione il reale salmista di esclamare: Signore, nel tuo immenso amore per l’uomo lo hai coronato di onore e di gloria: Gloria et honore coronasti eum, Domine. (Ps. VIII, 6) Ma per il mistero dell’incarnazione divina l’uomo, già così grande fin dalla sua creazione, fu esaltato immensamente di più. – Avendo il divin Verbo stabilito di redimere il genere umano, di scendere perciò alla condizione delle sue creature, poteva senza dubbio, secondo l’insegnamento di S. Paolo, assumere natura angelica. Gli Angeli del paradiso, come dicono i santi Dottori e specialmente S. Tommaso, non sono, come l’uomo, individui di una stessa specie, ma ciascuno di essi istituisce una specie a sé, perciocché ciascuno differenzia dall’altro per intelligenza e bellezza, e tutti perciò sono l’uno più bello e più intelligente dell’altro. Ora quale degnazione avrebbe avuto Iddio, se per operare il mistero della redenzione  nostra, si fosse fatto simile al più bello ed al più intelligente degli Angeli! Sarebbe stata pur sempre una degnazione infinita, essendo pur sempre infinita la distanza, che passa tra il Creatore e la creatura, per quanto la più sublime. Ma Iddio, non solo non elesse di farsi simile all’Angelo più bello e più intelligente, ma neppure di farsi simile all’infimo di essi. Egli volle discendere tutta la scala delle creature ragionevoli ed arrivare fino all’uomo, incarnandosi e facendosi uomo ancor esso: Nusquam, angelos apprehendit, sed semen Abrahæ; (Hebr. II, 16) alla natura angelica ha preferito larazza di Abramo, la natura umana. Quale riguardo per l’uomo, quale amore! e quale elevatezza per la sua natura! Giacché, intendiamolo bene, pel mistero dell’Incarnazione la carne, che Gesù Cristo ha preso, è la carne nostra, la forma è la forma nostra, la vita è la vita nostra! Ecco adunque spiegato, secondo S. Paolo, il motivo, per cui Iddio alla creazione dell’uomo parve attaccare una speciale importanza ed applicavisi con una speciale attenzione; il primo Adamo era la figura del secondo, cioè di Gesù Cristo: Adæ, qui est form futuri; (Rom. V, 14) Gesù Cristo nel venire a compiere il grande mistero della redenzione avrebbe preso le sembianze dell’uomo, si sarebbe rivestito di un corpo umano.Ma ciò non è ancor tutto. Gli Angeli del Paradiso creati come l’uomo per l’eterna beatitudine, prima di essere ammessi definitivamente alla medesima dovettero sottostare ancor essi ad una prova. Ora lasciando pure da parte, che questa prova, secondo la più comune sentenza dei sacri dottori, dovette consistere nell’adorazione del divin Verbo Incarnato, che Iddio mostrò alle loro intelligenze nella pienezza dei tempi, il certo sì è che senza l’aiuto della grazia divina, nessuno di loro avrebbe potuto vincere la prova; e questa grazia non è loro mancata. Ma donde venne loro, se non da Gesù Cristo, Verbo Incarnato? Sono i meriti suoi, acquistati nella natura umana e resi di valore infinito dalla natura divina, che acquistarono tutte le grazie, che aiutano, adornano ogni creatura e la rendono degna della compiacenza di Dio. Epperò tutti gli Angeli del cielo, che sottostettero alla prova per loro da Dio stabilita, non lo fecero altrimenti se non mediante la fiducia nei meriti di Gesù Cristo, unito alla natura umana e fatto uomo. Il che ha fatto dire a S. Bernardo, che il medesimo Gesù Cristo, fu il Salvatore dell’uomo, fu ancora il Salvatore dell’Angelo: Idem quippe et angeli Salvator et hominis; (Serm. 1 de circum.) non già redimendoli dal peccato di Adamo, che non ha certamente potuto penetrare là dove non vi fu la generazionisua razza, ma aiutandoli colla sua grazia a non cadere, che, come spiega altrove, quel medesimo Gesù Cristo, il quale con la sua mano pietosa ha sollevato l’uomo dalla sua caduta, ha impedito all’Angelo di cadere, quello stesso Verbo incarnato, che ha spezzate le catene del servaggio dai polsi dell’uomo, ha impedito all’Angelo che diventasse schiavo. Così adunque l’umana natura per il mistero della divina Incarnazione non solamente è divenuta partecipe della natura divina, ma per sovrappiù ha servito ad apportare la grazia di salute a tutte le creature intelligenti, e agli uomini e agli Angeli. Poteva adunque essere sollevata a maggiore altezza? Ma finalmente pel mistero della divina Incarnazione l’umana natura divenne capace di rendere a Dio quell’onore infinito e quella infinita gloria, che gli sono dovuti. Qualunque creatura per quanto innocente, pura e perfetta, non avrebbe potuto giammai né onorare né amare Iddio come merita di essere onorato ed amato, perché per la condizione sua di creatura si sarebbe trovata mai sempre ad una distanza infinita dal Creatore. E per tal guisa mancando la creatura capace di rendere a Dio il culto proporzionato alla sua maestà e alla sua grandezza infinita, Egli sarebbe rimasto privo della gloria esterna di questo culto. Ora, sebbene Iddio sia infinitamente beato in se stesso, né abbia bisogno alcuno della gloria accidentale, che gli può venire dalle sue creature, non vi può tuttavia siccome Creatore rinunziare. E dunque, come gli sarà resa in quella misura, che gli si conviene? Come mai l’uomo, ente finito, potrà rendergli un onore e una gloria infinita? Questo mezzo ineffabile, che nessuna mente creata non avrebbe potuto immaginare giammai, l’ha trovato Iddio con la sua sapienza infinita e l’ha operato colla sua virtù, col mistero chiamato dal profeta (Hab. III, 2) l’opera di Dio per eccellenza: Opus tuum, e dall’Apostolo il capolavoro della sapienza e virtù di Dio: Dei virtutem et Dei sapientiam, (I Cor. I, 24) il mistero cioè dell’Incarnazione del Verbo. Per questo mistero si può dire: Un Dio è uomo, ed un uomo è Dio; ed in Gesù Cristo Verbo Incarnato, le cui azioni sono umano-divine, Iddio riceve dall’uomo un culto veramente infinito, perché l’uomo, che gli rende un tal culto, non è uomo soltanto, ma è pur vero Dio. Anzi siccome Gesù Cristo col mistero della divina Incarnazione è venuto a renderci figli di Dio, epperò suoi fratelli, e compartecipi delle sue grandezze, perciò tutti coloro, qui sunt in Christo Jesu, (Rom, VIII, 9) che sono incorporati a Gesù Cristo per mezzo della grazia, e formano le sue vive membra per l’efficacia dei meriti infiniti di Gesù Cristo applicati alle loro opere, anche nella più piccola di esse, rendono essi medesimi a Dio un onore infinito, del quale Iddio non può non infinitamente compiacersi. O grandezza, o dignità, o potenza veramente sublime, a cui l’uomo fu esaltato pel mistero della divina Incarnazione! Sì, il Cuore di Carne del divin Redentore ci predica una delle prove più grandi del suo amore per noi! Ma intanto se per questo mistero noi siamo sollevati ad una dignità così grande, e siamo fatti partecipi della divina natura, oseremo tralignare alla viltà della nostra antica origine? Per questo mistero avendo noi la carne, che Gesù Cristo ha divinizzata, ci sentiremo noi l’ardire di farla carne di peccato? Ah! no, o caro Gesù, noi vogliamo d’ora innanzi comportarci in modo degno della nostra grandezza; vogliamo d’ora innanzi rispettare il nostro essere, da voi sì altamente elevato; e per non dimenticare giammai questo sacrosanto dovere fisseremo sovente il nostro sguardo sopra il vostro Cuore adorabile, che così efficacemente ci simboleggia e ci ricorda l’amore che voi ci avete portato nel mistero della vostra Incarnazione. Aiutateci con la vostra grazia a conseguire da tale considerazione il frutto che desideriamo, cioè di non contaminare più mai il nostro essere con la macchia del peccato, ma di conservarlo invece adorno di quella grandezza e di quella beltà, di cui voi l’avete arricchito, e per cui speriamo renderci degni per sempre della vostra compiacenza.