QUARESIMALE -XV-

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco, Ivrea 1844 – Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843, Ferraris prof. Rev. Per la G. Cancell.]

XV. NEL VENERDÌ DOPO I.A SECONDA DOMENICA.

… Malos male perdet.

(… farà morire quei malvagi).- Matth, XXI, 41.

I. È per intimare castighi ad una città meritevole d’ogni bene son io stamane comparso su questo pulpito? Ah no, Signore. Se pur volete che anch’io vi serva di Giona, mandatemi a qualche Ninive, a città scellerate, a città sacrileghe, ch’io vi volerò volentieri; no dubitate ch’io colà non annunzi ogni più ferale sterminio, come a voi piace. Ma mentre voi mi avete fatto venire ad una città cattolica, quali altri auguri volete voi ch’io qui faccia, se non di prosperità, di vita lunga, di stagioni propizie, di messi liete? Così vorrei certamente che succedesse. Ma chi fia che me n’assicuri? l’iniquità pur troppo vedo che da per tutto si dilata, s’inoltra, si impadronisce; e però temo, o mia N., che ancora in te possa ormai giungere a segno, che provochi a tuo gran danno il divin furore. Comunque siasi, ecco l’espressa denunzia, la qual Dio vuole che assolutamente io ti faccia: malos male perdet. Non si riguarda ad antichità di natali, non si riguarda a merito di antenati; chi è reo, convien che porti a lungo andare la pena del suo delitto. E qual città più gradita al Cielo una volta di Gerosolima? se l’era Dio, qual cara vigna, piantata per suo diporto su gli amenissimi colli di Palestina; le aveva data la sua legge per siepe, le aveva aggiunta la sua protezione per maceria, l’aveva nettata da que’ virgulti spinosi che la ingombravano, da’ Cananei, dagli Ammoniti. dagli Amorrei, e da altri simili popoli a lei molesti; vi avea per torre collocato il suo tempio, vi aveva per torchio costituito il suo altare, e nulla aveva risparmiato o di spesa o di arte ch’egli vi potesse impiegare. Quid debui facete vinea mea, et non feci! (Is. V. 4) Eppur che n’è di presente? Andate, e miratela. Ella è tutta insalvatichita. E per qual cagione? Per non avere già voluto la misera prestar fede all’odierna intimazione evangelica: malos male perdet. Ché tante minacce? non veniet super nos malum (Jer: V. 12). Quest’erano le parole che fin da’ tempi di Geremìa sempre avevano su la lingua gl’increduli Israeliti. Profetæ fuerunt in ventum locuti (Ibid. 13). Questi predicatori pretendono spaventarci; badiamo a campare, badiamo a conversare, attendiamo a ridere. Ah contumacissimi Ebrei! Numquid super gentem hujuscemodi noti ulciscetur anima mea? Dicit Dominus (Ibid. 29). Date un poco di tempo al furor divino, e di poi vedrete. Ma perché frattanto, uditori, di esempio tale non ci vagliamo per nostro ammaestramento? Non manca forse nel Cristianesimo ancora chi sprezzi Dio come inabile alla vendetta, e chi sempre dica: non veniet super nos malum, non veniet super nos malum? [non ci accadrà nulla di male]. Però mi sono risoluto stamane, sapete a che? a confondere questi increduli, ed a mostrar loro da parte di Dio sdegnato, che se non vogliono in tempo dar fede ai tuoni, non tarderanno ancor essi a provare il fulmine.

II. Uno dei maggiori argomenti, che forse abbiamo della misericordia immensa di Dio, sono, a mio credere, le minacce orrendissime, con le quali Egli è stato sempre solito di tonare sopra de’ peccatori. E che altro mai ha preteso egli con esse, se non dare agio ai peccatori medesimi di salvarci? Non ha volontà di ferire chi molto prima si stanca nel minacciare; conciossiachè (conforme il detto acutissimo di colui) la minaccia altro non è che uno scudo del minacciato, siccome quella che gli dà sempre tempo o di mettersi in fuga speditamente, o di porsi in guardia. Quindi asseriva santo Agostino (Ser. 38. de Sanctis), che si nos Deus noster punire vellet, non nos tot ante sæcula commoneret. Invitus quodammodo vindicat qui quomodo evadere possimus, multo ante demonstrat; non enim te vult ferire qui libi clamat: observa. [ se Dio volesse punirti, non ti avviserebbe secoli prima … non ti vuol ferire che grida: sta’ attento!]. Chi prima di ferirti ti dice: guardati, non ha volontà di ferirti. E però (replica il Santo) se Dio avesse diletto di castigarci, non farebbe precedere il tuono al fulmine, non farebbe precorrere il lampo al tuono. Eppure nessun castigo quasi leggiamo aver esso mandato al mondo innanzi di minacciarlo, non solo in genere, ma ancora in particolare; tanto che questa una fu delle principali cagioni per cui spedì varj profeti al suo popolo in varj tempi. Sentite. Volle denunziare al suo popolo l’universale saccheggiamcnlo de’ beni; e che fece? Fece andare per la città Isaia tutto ignudo dei vestimenti (Is. XX. 2). Volle denunziare al suo popolo la cattività lagrimosa delle famiglie; e che fece? Fece andare per la città Geremia tutto carico di catene (Jer. XXVII. 2). Volle parimente al suo popolo denunziare l’orribilissima fame, la quale già preparavasi agli assediati; e fece che Ezechiele) per trecento novanta giorni, nei quali si stette sempre a giacere sopra di un medesimo lato, non si cibasse mai d’altro che di sterco secco di bue, sfarinato in polvere e cotto in pani (Ezech. IV,8 ad 12). E nella stessa maniera ha poi seguitato a predire diversi flagelli in diverse forme. Il che non è altro che un intimare ai popoli, che si guardino, che piangano le lor colpe, che riformino la lor vita, che fuggano dalla faccia del suo furore; al che pensando, prorompeva il buon Davide in quegli affetti: dedisti metuentibus te significationem, ut fugiant a facie arcus: ut liberentur dilecti tui (Ps. LIX. 6). Eppure chi il penserebbe!’ non poté Dio conseguir con tante proteste che gli uomini gli credessero. Onde quanto più egli stanca Vasi in minacciare che malos male perdet, tanto più essi attendevano ad oltraggiarlo; quasi che ciascuno degli uomini portasse impresso nel cuore a note indelebili quel perfido sentimento: s’io non veggo, non crederò: nisi videro, non credam (Joan. XX 25). E che si è fatto, Cristiani miei, con questa incredulità, se non costringere Dio a fulminar quei castighi ch’Ei minacciava, per non giungere all’atto di fulminarli? Questa incredulità sommerse il mondo scorretto nel diluvio dell’acque, quando non die fede a Noè che lo prediceva (Gen. VII). Questa chiamò sopra i perfidi Sodomiti piogge di fuoco, quando derisero la parola di Lot che lo significò (Gen. IX. 24). Questa condusse i contumaci Egiziani a naufragare nell’Eritreo, quando si indurarono ai portenti del Cielo che precederono (Exod. XIV). Questa condannò innumerabili Israeliti a morir nella solitudine, quando sprezzavano le proteste di Mosè che lo presagiva (Num. XIV, 10). Questa costrinse debellati gli Assirj a perire sotto Betulia, quando si sdegnarono della libertà di Achior che Io denunziava (Judith V. ad XV). E piaccia a Dio che non sia questa, uditori, quella che nel secolo nostro ci fomenta nel seno tante calamità, ci sottopone il dorso a tanti flagelli. Eh (diciam noi) che non bisogna spaventarsi si presto: non veniet super nos malum, non veniet super nos malum. Si? E che vorresti veder tu, peccatore, per credere che Dio, sedendo come in suo trono nel Cielo, ha occhi da rimirarle tue colpe, ha cuore da offendersene, ha braccio da castigarle? Vorresti vedere che com’egli minaccia di castigarle, così le castiga? Vedilo: io son contento. Né voglio io già che, per chiarirti di ciò, tu trasporti il pensiero negli altrui secoli; voglio che lo fissi nel nostro, giacché gli oggetti presenti più forza di muoverci, che i passati.

III. Di’: in questo secolo stesso, toccato a noi, non ha Dio chiaramente dato a conoscere che le sue minacce non sono altrimenti fallaci, quali tu pensi, ma infallibili, quali tu non vorresti? Non veniet super nos malum? E non hai tu forse occhi in fronte da rimirare tanti rivi di sangue, tante cataste di ossa, tanti cumuli di cadaveri? Basterebbe che tu passeggiassi un poco pel mondo, e li vedresti. Che alto vestigia di furor militare non sono ivi stampate per ogni parte! Evvi nella misera Europa o regno, o provincia, o principato o città, la qual non abbia in questo secolo udito su le sue porte strepito di tamburi, fragor di trombe, rimbombo di artiglierie? Non l’Italia, non la Spagna, non la Francia, non la Germania, non la Fiandra non l’Inghilterra hanno potuto godere in veruna parte ozj piacevoli, ovvero sonni sicuri. Quant’anime però credi tu che siano mancate in questi universali tumulti? Chi può contarle? Basta dire, che la prima impresa, seguita entro a questo secolo (che fu la presa di Ostenda), non costò meno di ottantamila persone sacrificate con alto lutto alla morte. Ora da questo solo fa tu argomento delle stragi avvenute in luoghi sì varj, in fazioni sì numerose, da spiriti sì feroci, in tempi sì lunghi. Ma che serve parlar di quello che non si sa, mentre possiam trattar di quel che si vede? Quanti poderi si mirano, dianzi deliziosi, ed ora diserti! quante campagne, dinanzi verdeggianti, ed or arse! quanti villaggi, dianzi popolati, ed or solitari! quante città, dianzi intere, ed ora distrutte! E sono altro questi, che adempimenti delle minacce che fece Dio quando disse: si spreveretis leges meas, evaginabo post vos gladium, eritque terra vestra deserta et civitates vestræ dirutæ (se disprezzerete le mie leggi, sguainerò la spada dietro di voi, … la vostra terra sarà deserta, le vostre città distrutte – (Levit. XX. 15 et 33). O meschino, che dici? non veniet super nos malum? – Apri pur gli occhi, tuo malgrado, e rimira in breve giro di anni le sollevazioni sì strane di tanti popoli, giacché continue sono state ai dì nostri le rivolte or di Germania, or di Portogallo, or di Catalogna, or d’Inghilterra, or di Parigi, or di Napoli, ordi Polonia. A chi per queste confiscate le rendite, a chi tolti gli onori, a chi imprigionata la libertà, a chi atterrati i palazzi, a chi troncata la vita, a chi infamata ancor la memoria. In qual altro secolo si raccontano litigi più pertinaci o più frequenti, tradimenti più ingiuriosi o saccheggiamenti più ingiusti, uccisioni più barbare o crudeltà più nefande? A noi forse nella nostra Italia è toccata la maggior parte di tali disavventure, benché qui ancora debbano essere lungamente famosi i desertamenti del Monferrato, i desolamenti di Mantova, e le calamità lacrimevoli di Torino. Ma chi, girando un poco, andasse a credere quel che altrove hanno patito i Cattolici dagli Eretici, i Cristiani dagli Etnici, e, quel ch’è peggio, i Cristiani medesimi da’ Cristiani, non si raccapriccerebbe per l’orrore? che direbbe in vedere ancora stampate per le campagne polacche l’orme di ben trecentomila soldati tra Turchi e Tartari, condotti là dal Sultano? eppure peggiori ancor de’ Turchi e dei Tartari, sono di poi stati a’ Polacchi i Polacchi stessi, nonché solamente i Cosacchi ribelli alteri. Infelice Germania! Miransi nel tuo seno ancora fumanti gli avanzi di quell’incendio sollevato in te da quel tuo nemico trionfale, dico Gustavo, quando per le tue provincie scorrendo, a guisa di un folgore, veloce ma rovinoso, si impadronì in breve tempo d’Erbipoli, di Bamberga, di Magonza, d’Augusta, e di quasi tutta la Franconia, la Svevia, il Palatinato. E il Turco fattosi possessor novello di Varadino, di Nitria, di Novarino, e di tanto già d’Ungheria, in quante altre parti della combattuta Cristianità anela di portar, se riescagli, le catene di misero vassallaggio? Quindi continuamente egli infesta ora i nostri mari con le scorrerie, ora i nostri porti con li saccheggiamenti, ora i nostri domini con le conquiste. Che però se la Candia, caduta al fine sotto il suo barbaro giogo, potesse far interi qui giungere i suoi lamenti, senza che l’alto strepito di quei flutti, che la circondano, glieli assorbisse per via, non ci spremerebbe dagli occhi a forza le lacrime? Evvi secolo, il quale abbia veduto, nondirò tanti principati vagabondi o quasi venali, non dirò tanti principi prigionieri o almeno fuggiaschi (perché questi ormai sono esempi comuni a molti), ma dirò un Re di sì antica sorte, qual era quel d’Inghilterra, giustiziato pubblicamente sopra d’un palco per sentenza di sudditi usurpatori di una autorità non più scorta su l’universo? Non veniet super nos malum? – E che? chi ha scampato dal ferro, ha potuto forse difendersi dalla fame? Ah che mi pare di poter anzi di esclamare con Geremia: Si egressus fuero ad agros, eoce

occisi gladio: et si introiero in civitatem, ecce attenuati fame (Jer. XIV, 18). Parlinotante famiglie spiantate in ogni città pellegravezze antiche già di tanti anni; tantecomunità desolate, tanta mendicità vagabonda.E forsechè non erano per sé solebastanti queste gravezze, se il Cielo stessonon concorreva ad accrescerlo con la sterilità?Non ha molt’anni che in Buda, cittàd’Ungheria, in cambio di piover acqua vi piovve piombo, per avverare in essa letteralmente quella minaccia; sit cœlum, quod supra te est, œneum; et terra, quam calcas, ferrea [Il cielo sarà di rame sopra il tuo capo e la terra sotto di te sarà di ferro – Deut. XXVIII, 23]. Non così tra noi, dove con flagello contrario la sterilità è proceduta quasi sempre dalle orride inondazioni: quindi si è veduto per tutto il volgo famelico marcire, consumato dall’inopia ed inabile alla fatica. Mi ritrovai pur io stesso nella città regina del mondo, quando giornalmente morivano per le strade i mendici, altri assiderati dal freddo, altri languidi dalla fame, non potendo supplire il numero, benché grande, di quei che porgevano loro soccorso, alla moltitudine assai maggiore di quei che lo richiedevano. Or che sarà stato in quelle terre, in quei villaggi, in quei campi, dov’era eguale il bisogno, minor l’ajuto? Non si sarà ivi veduta adempir manifestamente quella denunzia: Percutiet te Dominus egestate et frigore? – Il Signore ti colpirà con l’arsura e il freddo (Deut. XXVIII. 22) et populi erunt projecti in viis pæ fame?Gli uomini ai quali essi predicono saranno gettati per le strade di Gerusalemme in seguito alla fame (Jer. XIV. 16 ) Non veniet super nos malum? Oh cecità, che non hai voluto mirare icontagi, le pestilenze, le mortalità sì comunia tutta l’Europa! E chi sa che di questasollecita annunziatrice non comparisse quella prima orribil cometa, che in questo nostro secolo occupò il cielo per lo spazio intero d’un mese? Furono attribuite ad essa le morti, succedute in breve, d’un sommo Pontefice, di due Re, uno di Spagna e uno di Svezia, d’un figliuolo d’Imperatore, e di una madre d’Imperatrice, un gran Soldano de’ Turchi, e di altri potentati assai, che mancarono dentro un anno. Ma io non credo che per sì pochi parli il Cielo, quando egli muove la lingua: il volgo, che non l’intende, interpreta il suo linguaggio a disfavore solo de’ Principi, da’ quali ha diverso lo stato: non l’interpreta a danno ancor dei plebei, co’ quali ha comune la sorte. E non si vide ben tosto, dopo quella comparsa, scoppiar quella pestilenza, che ha assorbito finora e ancor assorbisce tante fiorite parti d’Europa? In questo momento medesimo, chi potesse girar un poco per essa, troverìa le fauci ancora fioche alle madri ch’hanno singhiozzato di fresco per i loro figliuoli, le trecce ancora scarmigliate alle spose ch’hanno deplorati di breve i loro consorti. Che orrore è stato vedere città, dianzi si adorne, sì allegre, sì popolate, riempirsi ad un tratto di squallore, di urli, di solitudine! Dovunque tu volgevi lo sguardo, tu rimiravi d’intorno o malati senza speranza, o moribondi senza conforto. Le carra de’ cadaveri accumulati giravano ogni giorno per la città, quasi portassero in trionfo la morte, quanto più pallida, tanto più baldanzosa. Ogni cosa concorreva pronta a gettare dalle finestre il suo doloroso tributo. Chi dava amici, chi padroni, chi mogli, chi sorelle, chi padri, con timor forse di dover ancor essi seguire a sera quei che sul mattino inviavano. Che se tu mi domandassi dove in questo nostro secolo ha scorso principalmente sì trionfante la peste, che dovrei fare? Prima ti dovrei mostrar la Sicilia, d’ond’ella uscì; e di poi tutta affatto la nostra Italia, la quale ad una fiera sì ingorda non si valuta avere contribuito ai dì nostri meno di pascolo, che un milion di cadaveri. Indi ti dovrei mostrar la Francia e la Spagna, la Dalmazia e la Candia: ed oltre a queste, l’Inghilterra, la Polonia, la Corsica, la Sardegna, la Catalogna, in cui per lungo tempo son poi rimaste le vestigia dell’ampia mortalità, come nel maro dianzi fremente i contrassegni dei numerosi naufragi. E questo non è stato un vedere chiaramente compite quelle minacciose proteste: Augebit Dominus plagas vestras, plagas magnas et perseverantes, infirmitates pessimas et perpetuas – allora il Signore colpirà te e i tuoi discendenti con flagelli prodigiosi: flagelli grandi e duraturi, malattie maligne e ostinate (Deut. XXVIII, 59), desertæque fìent viae vestræ – le vostre strade diventeranno deserte ( Lev. XXVI, 22). Or che dici? Sei tu però ostinato nel tuo incredulo sentimento: non veniet super nos malum? E che vorresti veder tal di vantaggio per chiarirti che Dio malos male perdet? Vorresti vedere terre ingoiate dall’acque? Domandane alla Fiandra. Vorresti vedere campi divorati dal fuoco? Chiedine a Napoli. Vorresti vedere popoli sprofondati dai gran terremoti? Interrogane la Calabria. Che spettacoli di spavento non si sono aperti in queste provincie agli occhi della curiosa posterità! Nuvole caliginose di fumo, piogge portentose di cenere, gragnuole strepitose di sassi, torrenti bituminosi di zolfo, fiumi bollenti di fuoco, rovine precipitose di case, ingojamenti orribili di bestiami. Che dissi sol di bestiami? D’interi popoli; mentrecchè solo a un alto aprir di fauci, che là faceva di tratto in tratto, quasi affamata, la terra, restavano a mille a mille le genti assorte. Ma che più dissimulo ornai? Non sono forse assai fresche le orrende stragi e di Ragusi e di Rimini? Ambedue questi popoli, nel dì d’oggi, pochi anni sono, ogni altro mal si temevano, che quello il qual poi seguì: trattavano, trafficavano, e si credevano di dover lieta celebrare ancor essi la loro Pasqua. Eppure oh quanto ambedue la sortirono luttuosa! Si ode fin ora quasi il rimbombo di quelle strida, quando non trovando i miseri terra che li volesse sostenere, fuggivano dall’abitato nei campi, dai campi nell’abitato, portando sempre frattanto sotto a’ lor piedi il tremuoto, presso alle loro spalle la morte, e dinanzi a’ lor occhi la sepoltura. E non è chiaro che nel ferale spavento di questi popoli videsi puntualmente adempita quella intimazione divina: timebis nocte et die non credes vitæ tuæ. Mane dices: Quis mihi det vesperum ? et vespere : Quis mihi det mane? propter cordis lui formidinem, qua terreberistemerai notte e giorno e non sarai sicuro della tua vita. Alla mattina dirai: Se fosse sera! e alla sera dirai: Se fosse mattina!, a causa del timore che ti agiterà il cuore e delle cose che i tuoi occhi vedran (Deut. XXVIII, 66 et 67). Va pure dunque, va pure, e di’ baldanzoso: non super nos malum, non veniet super noi malum. Quel ch’io t’ho detto, l’hai pur veduto tu con i tuoi occhi, o almeno l’hai tu pur letto dentro i pubblici fogli, o per lo meno hai tu pur udito da numerosissimi testimoni; che la fama n’ha così colme le sue cento bocche, che il saperlo non è di gloria veruna, ma ben sarebbe d’ignominia grandissima l’ignorarlo.

IV. Ma, sciocco me! Perché tanto io qui mi sono stancato a fin di confondere la nostra incredulità? Eh che bisognerebbe esser cieco, per non vedere i così strani flagelli ch’ogni dì vengono. E però tengo per certo, signori miei, di non essermi apposto nel dire che non vogliamo credere fino a che non vediamo: dovevo io dire, che quantunque vediamo, non vogliamo credere. E questo appunto è l’eccesso maggior di incredulità che trovar si possa, conforme a che diceva Geremìa: flagellasti eos, nec valuerunt ut credere. Quasi egli dica: Ecco come procedono i peccatori: finch’odono solamente il tuono delle minacce, se ne beffan dicendo, che se non vedono, essi non vogliono credere, quando poi sentono il fulmine del castigo, si ostinano imperversando che non vogliono credere, benché vedano: flagellasti eos, nec voluerunt credere (Jer. V, juxta s. Cypr. ad Demetr.). Ma come può star questo, o santo Profeta? non hanno essi il flagello dinanzi agli occhi? non lo toccano? non lo palpano? Non lo provano? Come dunque può stare che non lo credano? Sapete come? Negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse!Hanno rinnegato il Signore, hanno proclamato: “Non è lui! (Jer. V, 12). – Credono bensì essi che quello sia veramente flagello, e flagello atroce; ma non credono che quello sia flagello di Dio. Non credono esser Dio quello che manda lor quelle guerre, quelle carestie, quelle pestilenze, quelle inondazioni, quegl’incendi, quei turbini, quei terremoti: negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse. Venite qua. Non vedeva Faraone chiarissimamente tanti castighi che piovevano del continuo sopra il suo capo, le tenebre, che gli rubavano il giorno, le grandini che gli schiantavano gli alberi, le locuste che gli divoravano i seminali, le piaghe che gli ulceravano gli uomini, le pesti che gli consumavano gli animali? Certo le vedeva. – Eppure quanto fece il protervo per non si arrendere a quella proposizione che i suoi cortigiani medesimi confessavano: Digitus Dei est hic! (Exod., VIII. 10). Convocò d’ogni parte tutti i più celebri incantatori a consulta, per definire se quei portenti potevano attribuirsi a qualch’altra mano, almanco diabolica; cercò, studiò, specolò; procurò ch’anch’essi facessero prove eguali, di cambiar verghe in serpi, di colorire acque in sangue, di assoldare rane da’ fiumi, di adunare mosche nell’aria. E ben vedendo che questi ancora si davano alfin per vinti, cede egli però, appagossi, arrendettesi? Anzi non volle trarsi giammai di capo, che quei prodigi non fossero arti malefiche di Mosè: tanta è la ripugnanza che provano i peccatori in riconoscere un solo Dio per autore di tutte le avversità. Io non dico già che i Cristiani arrivino comunemente alla stupidezza di Faraone, che sarìa troppo; ma nondimeno quando mal volentieri s’inducono anche i Cristiani a riconoscere, benché percossi, la mano che li percuote! Voi lo sapete. Entra nel vostro ovile un lupo famelico a divorarvi la greggia? Voi l’ascrivete alla negligenza del guardiano. S’appicca nel vostro campo nn fuoco capace

ad incenerirvi le biade? voi n’incolpate la malignità de’ vicini. S’ostina nel vostro corpo una febbre lenta a logorarvi la vita? voi l’attribuite all’ignoranza del medico. Tutte quelle guerre quasi che accadono, non si appongono o all’avidità ch’hanno i Principi d’ingrandir la dominazione, o al desiderio ch’hanno i vassalli di alleggerire la servitù? Alla licenza dei soldati si ascrivono i disertamenti delle campagne ed i saccheggiamenti delle città; all’imperizia dei capitani le rotte degli eserciti, e la moltitudine delle stragi; alla inavvertenza dei marinari i fracassamenti dei vascelli, ed il getto delle merci; alla rapacità dei ministri le estorsioni de’ tributi e lo oppressioni dei popoli; alla ingiustizia dei giudici la perdita delle liti e lo scapitamento dei patrimoni. Né contenti di ciò, noi siamo anche andati ad inventar vocaboli vani, di disastro, di disavventura, di caso. Disgrazia chiamiamo il precipitar da una rupe, disgrazia l’affogarsi in un fiume, disgrazia il perdersi in un incendio, disgrazia il perire sotto una rovina. Anzi, avanzandoci anche più oltre con l’incredulità pertinace, abbiamo fin tentato di leggere nelle stelle gli annali delle nostre calamità, per attribuirle piuttosto a creature insensate, che a Dio vivente. Oh cecità! oh stoltezza! oh deliri di uomini imperversati! i quali, giacché non possono negare di vedere il castigo, non voglion giungere a confessarne l’autore; Flagellasti eos, ncc voluerunt credere: negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse.

V. Eh non c’inganniamo, Cristiani, non c’inganniamo, che questo è errore gravissimo. Né parlo or io solamente quanto allo stelle, che non cagioni, ma segni al più possono essere, e ancor fallaci, degli effetti pendenti dal nostro arbitrio; onde saviamente Geremia ci confortò a non farne stima: a signis cœli nolite metuere quæ timent gentes(Jer. X. 2 ); ma parlo di tutto l’altre creature, o ragionevoli, o sensitive, o insensate. Non sappiamo noi bene che tutte queste non altro sono, se non che meri strumenti del divino furore? Questo è certissimo, so noi crediamo a Isaia: Virga furoris Domini, et baculus ipsa sunt(Is. X. 5). Adunque perché questo abuso di guardare alla verga che ci percuote, e di non badare alla mano? Evvi rozzo che, ferito dall’inimico con una spada, dica: la spada mi ha ferito; e non dica: m’ha ferito il nemico? Evvi fanciullo che, battuto dal maestro con una sferza, dica: la sferza mi ha battuto; e non dica: m’ha battuto il maestro? E se un reo, per sentenza del principe, riceve la morte dalla mano del manigoldo, l’attribuisce alla mano del manigoldo, o alla sentenza del principe? Adunque perché, quando ancora Dio ci castiga, noi non vogliamo riconoscere che sia Dio? dicimus: Non est ipse; o facciamo come i cani, inetti, ignoranti, che si rivoltano incontanente rabbiosi a morsicare quel sasso che li colpì, e non fanno caso del braccio che scagliò il sasso? – Volete ch’io ve lo dica, Cristiani? ve lo dirò. Noi facciamo questo, perché non vorremmo altrimenti avere occasione di rientrare un poco in noi stessi, di ravvederci, di riconoscerci. Perché fintantoché ascriviamo quei mali ad altre cagioni, non consideriamo la gravezza del vizio per cui tolleriamo quei castighi; non riflettiamo alla severità del Signore, dal quale li tolleriamo; e veniamo quasi a poco a poco a spogliarci di un naturale timore, che Dio sia al mondo, rimiri ogni nostra azione, e che registri ogni nostra scelleratezza; che è quel timore che finalmente ogni peccatore vorrebbe sbarbicarsi dall’animo, se potesse, conforme a quollo: dixit insipiens in corde suos: Non est Deus(Ps. XIII, 1). Che però (se voi non lo sapete ) nel testo ebreo corrisponde qui a quella voce Deus il vocabolo “Elohim”, che significa Dio in quanto osservatore,» quanto giudice, in quanto castigatore: Quasi dicat insipiens in corde suo, non est ultor. Perché al peccator dà un gran fastidio il credere che ci sia Dio, non in quanto provvido, non in quanto buono, non in quanto benigno, ma in quanto revisor severo dei conti. Questo lo cuoce, questo lo crucia: e però in faccia ai suoi flagelli medesimi s’imperversa. In cambio di ascrivergli al loro autore principale, ch’è Dio, gli ascrive agli uomini; dove non può ascrivergli agli uomini, gli ascrive al caso; dove non può ascrivergli al caso, gli ascrive alle stelle; e così il misero si lusinga sempre e si adula nella propria malvagità: Flagellasti eos, nec voluerunt credere; negaverunt Dominum. et dixerunt: Non est ipse.

VI. E come mai potrebbe essere, o ascoltatori, che noi credessimo vivamente esser Dio quello che si ci castiga per i nostri peccati, e che nondimeno continuamente accrescessimo quei peccati, per li quali sì ci castiga? Ecce irrogantur divinitas plagæ, et nullus Dei metus est (convien dire lagrimando con san Cipriano); Ecce verbera desuper et flagella non desunt, et nulla trepidatio est, nulla formido (ad Demetr.). Non si vede ciò tutto giorno per esperienza? Quanto pochi sono che renda punto migliori la vista delle presenti calamità! Anzi ov’è che piuttosto non crescano per la peste le rapacità e le sfrenatezze,  per la fame l’ingiustizie e le usure, per la guerra le dissoluzioni e le disonestà? Ego dedi vobis stuporem dintium in cunctis urbibus (diceva Dio per Amos al popolo), et non estis reversi ad me, dicit Dominus. Percussi vos in aurigene, et vedistis ad me. Ascendere feci putredinem castrorum in nares vestras, et non redistis ad me, dicit Dominus Eppure, vi ho lasciato a denti asciutti in tutte le vostre città ho fatto salire il fetore dei vostri campi fino alle vostre narici: e non siete ritornati a me, dice il Signore.  (Amos IV. 6 ad 10). – Chi di voi mi sa dire, signori miei, in quale circostanza di tempo facesse Baldassar quel convito solenne, anzi così scellerato, così sacrilego, descrittoci da Daniele? Balthassar rex fecit grande convivium optimatibus suis (Il re Baldassàr imbandì un gran banchetto a mille dei suoi dignitari  – Dan. V, 1). Credete per ventura che fossea ragion di nozze, o in congiuntura con qualche insigne ricevimento di principi, di pace stabilita, di popoli sottomessi? Pensate voi, risponderà san Girolamo, (in Dan. cap. V): fu quando egli era attualmente stretto da Ciro con un terribile assedio. In tantam renerat Rex oblivionem sui, ut obsessus vacaret epulis. Allora fu che, stando il perfido assiso in mezzo ad una gran mandra di concubine, s’imbriacava ne’ vasi rubati al tempio; e che, non badando punto alle grida di tanti miseri, i quali precipitavano dalle mura, faceva brindisi a tutti i suoi dii paterni, dii di metallo, dii di marmo, dii fatti di atli di legno vile: bibebat vinum, et laudabat Deos suos, aureos et argenteos, aereos, ferreos, ligneosque et lapideos(s. Jo. Chr. homil. 28 in Gen.). Che fiera scena veder quel diluvio d’acqua che Dio versò su la terra, sol per purgarla di tante sue laidezze eccessive! Eppure a vista di quell’acque vi fu un figliuolo di Noè, che non temé di pensare a diletti impuri (Gen. IX, 22). Che funesto spettacolo veder quel diluvio di fuoco che Dio scaricò sopra Sodoma, sol per punirla di tanto sue lascivie esecrande! Eppure a vista di quel fuoco vi furono due figliuole di Lot, che non dubitarono di venire ad atti incestuosi (Ib. XIX, 32). –  Ma per non insultare alle altrui miserie, dove possiamo tanto piangere su le nostre, ditemi il vero, uditori: si è veduta tra voi riforma notabile dopo quei solenni castighi, di cui ben sapete esser toccata a voi pure la vostra parte? Ah che mi pare che possiam dire anzi al Signore con Isaia: Ecce tu iratus es, et peccavimus(Is. LXIV, 5 ). Ma come ciò? So dicesse peccavimtis, et iratus es, io lo capirei; ma dire: iratus es, et peccavimus, questo è troppo. Eppure è così. Uscite nelle piazze, ed ivi guardate se, dopo tanti castighi, sono minori o la inverecondia nel tratto, o le iniquità nelle vendite. Entrate nelle case, ed ivi informatevi se sono minori o le dissensioni tra i fratelli o le persecuzioni tra le famiglie. Inoltratevi nello camere, ed ivi attendete se sono minori o l’impurità nei ragionamenti, o le dissolutezze nei talami. Visitate le veglie, ed ivi considerate se sono minori o le maldicenze nei racconti o la petulanza nei motti. Passate alle ville, ed ivi chiaritevi se sono minori o lo ingordigie nelle crapule, o le rilassazioni nei giuochi. Trattenetevi un poco ancor nelle chiese, ed ivi osservate se sono minori o lo irriverenze nelle chiacchere, o le profanità nei vagheggiamenti. Ecce tu iratus es, et peccavimus; ditelo, ditelo, che ne avete ragione, ecce tu iratus es, et peccavimus. –  E noi crediamo poi che tali peccati ci abbiano da Dio meritati tanti flagelli? Non può essere, signori miei, non può essere; lo direm con la lingua, ma non lo crederemo col cuore. Flagellasti eos, nec voluerunt credere; negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse (Jer. V. 3 et 12). E crediamolo, signori miei, sì, crediamo, ch’egli è vero pur troppo. Confessiamo che Dio ci è giudice, ci è severo, ci è fulminante: né sia mai vero che lasciamo trascorrere ornai più tempo senza pensare a placarlo.

VII. Lo so che alcuni molto ben vi pensano. Ma chi sono? Son quegli, i quali hanno appunto la minor colpa di tante calamità, i più irreprensibili, i più immacolati, i più pii: quei che v’han colpa, misero me! non vi pensano, non vi pensano. E così sapete voi ciò che accade in questa materia? Quel che succedeva nel vascello del disubbidiente profeta Giona. Tutti i marinari e tutti i passeggieri, i quali erano gli innocenti, in veder sollevata improvvisamente quella rovinosa burrasca che si rammemora nelle divine Scritture, si empierono di spavento: si affaticavano in ammainare le vele, in votar la sentina, in alleggerire la carica; chi dava ordine, chi consiglio, chi aiuto: altri correva al timone, altri si metteva al remo, altri s’appigliava alle sartie; piangevano, gridavano, sospiravano. E frattanto? frattanto chi era il delinquente dormiva riposatamente nel fondo del combattuto naviglio, senza riscuotersi punto ai fischj de’ venti, ai muggiti dell’onde, agli urli dei tuoni, ai fracassi dei fulmini, alle grida dei marinari. Et Jonas dormiebat sopore gravi (Jon. 1. 5). Tanto che bisognò che il pilota stesso andasse a chiamarlo, ad iscuoterlo, ad isvegliarlo, fin coi rimproveri. Et accessit ad eum gubernator, et dixit ei: Quid tu sopore deprimeris? surge, invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de nobis, et non pereamus  (Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: Che cos’hai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo – Job. I. 5). – Oh quanto spesso io temo, signori miei , che torni a verificarsi questo successo ancora tra noi! Il Cielo minaccia contanti segni: si adira, s’infuria, s’inferocisce, mostra di volerci talvolta anche inabissare. E v’è chi frattanto attenda a placarlo? Vi saranno alcuni; ma sapete voi chi? Vi saranno quegli innocenti che patiscono per altrui. Questi si affaticheranno, i meschini, or con lagrime, or con limosine, or con cilizi, or con digiuni, or con discipline; e non lasceranno mezzo acconcio a sedare tanta burrasca. Ma quei che sono i colpevoli, quegli usurai, quei vendicativi, quei carnalacci? Ahimè che questi, in cambio di risentirsi attendono neghittosi a dormirsene in seno all’ozio, anzi in braccio all’iniquità. – Cristiani miei, v’è nessun Giona addormentato fra voi, per cui si possa dubitare che almeno in parte si vadano suscitando di tempo in tempo quelle strepitose procelle che ci assorbiscono? Deh se vi fosse, fatemelo di grazia sapere, perché io mi vorrei avvicinare ad esso, e riscuoterlo con le parole, di quel zelante giudizioso pilota: quid tu sopore deprimeris? Vorrei dirgli: surge, surge, invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de nobis, et non pereamus. – Ah peccatore, qualunque tu ti sia, ch’io non lo so, quid tu sopore deprimeris? che sonnolenza è codesta tua? che stupore? che stolidezza? Ogni poco ritornano a noi dal Cielo nuovi castighi, e tu dormi? Sopore deprimeris! Ancora non ricorri al tuo Dio? ancora non ti raccomandi? ancora non ti ravvedi? Surge, surge, Sorgi, peccatore mio caro, sorgi una volta, e riscuotiti da letargo sì pernicioso. Surge, ed abbandona quella pratica, giacché Dio per le disonestà c’imputridisce lo carni con terribili pestilenze. Surge, e conchiudi  ormai quella pace, giacché Dio per le nostre rabbie ci stermina le provincie con sì formidabili stragi. Surge, e restituisci ormai quelle usure, giacché Dio per la nostra avarizia diserta i poderi con sì continuate sterilità. Surge, finalmente, surge, et invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de non pereamus. È verisimile che Dio non voglia piegarsi molto a pietà, infine a che non vegga a sé supplichevoli quelli stessi che l’han provocato allo sdegno.

VIII. Benché non vorrei che, mentre predico agli altri, foss’io quello sfortunato Giona che dorme nelle tempeste, e non mi commuovo. Ah mio Signore, se voi scorgete ch’io sia colui che tengo acceso il vostro divin furore, che posso dirvi? Son  qui, gittatemi in acqua: mitte me in mare (Jon. I.12), purché frattanto salviate che vi servono fedelmente. Io tutto mi capriccio in considerare che un san Domenico stesso (quegli a cui tanto è tenuto il genere umano, per aver lui sostenuta su le sue spalle la Chiesa tutta, già quasi pericolante), quando nondimeno arrivava a qualche città, temeva poter lui esserle di rovina. Ond’è che, prima di entrare in essa e fermavasi e ginocchione supplicava il Signore con vivo affetto, che non volesse per le sue colpe scaricare di subito in quel luogo qualche insinuato flagello. E s’è così, che dovrò dunque dir io, peccator miserabilissimo? Non posso dubitar giustamente se io sia quel Giona che or or si andava cercando? Sono, non nego, venuto a questa città  con intendimento di recarle alcun bene con le mie prediche. Ma piaccia a Dio ch’io non le rechi più facilmente alcun male con le mie colpe. Signor, non lo permettete! Prima morire, prima morire. Eccomi qui ai vostri sacratissimi piedi: qui mi consacro per vittima al vostro sdegno. Se i miei difetti non sono più sopportabili sulla terra, feritemi, fulminatemi; ma non sia vero ch’altri ancora ne abbia a portar le pene. Io certamente desidero quant’ognuno di vivere per servirvi; ma no che non voglio vivere, se la mia vita ha da servir solamente a moltiplicare le umane calamità.

Seconda Parte

IX.  Poco sarebbe che la nostra incredulità ci dovesse trarre addosso i castighi della vita presente, i quali al fine tutti son transitori: il peggio è ch’ella ci trarrà addosso anche quelli della futura. Perciocché dimmi, che scusa avremo dannandoci, o popolo cristiano, che scusa avremo? Narra, ti dirò con la formula di Isaia, narra, si quid habes, ut justificeris– (Parla tu, se hai da giustificarti – Is. XLIII, 26) . Potremo forse giustificarci con dire che Dio non ci abbia denunziato a tempo pericolo sì tremendo? Anzi quanti mezzi opportuni Egli ci viene a suggerir del continuo affinché ce ne guardiamo, quanti consigli ci dà, quante ispirazioni ci manda, in quante forme ci stimola a porci in salvo! Se noi però saremo voluti a suo dispetto perire, di chi  fia la colpa? Finora voi siete stati come uditori ad attendere: non è vero? Ora vi vorrei come giudici a sentenziare. Ma contentatevi di voler prima ascoltare un successo illustre. L’imperator Valente, ingratissimo a quell’Iddio che l’aveva da esule tramutato in regnante, stabilito ch’ei fu nel trono, pigliò di modo a perseguitare i Cattolici, ed a favorire gli Ariani, che già tutta la Chiesa, sbranata e lacera come dalle zanne di un lupo, inconsolabilissimamente ne lagrimava. Intenerito però Dio finalmente da tanti gemiti, suscitò contro l’Imperio di Oriente la barbarie del Settentrione, per cui reprimere fu costretto Valente ad uscire in campo con esercito poderoso. Riseppe questo un sant’uomo, chiamato Isacio, romito abitatore dei monti, e per impulso divino abbandonando a gran passi la solitudine, scese a incontrar l’imperator, che marciava con grosso nervo di cavalieri e di fanti; ed appressatosi a lui, gridò ad alta voce: Imperatore, comanda aprirsi le chiese dei Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. L’udì Valente; ma tenendolo per un pazzo, senza rispondergli, seguitò a camminare. Isacio, non però perduto di animo, ritornò il giorno seguente ad incontrare il principe, come prima; e di nuovo alzata la voce, gli replicò: Imperatore, comanda aprirsi le chiese de’ Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. Turbossi a questa iterata denunzia l’empio Valeste; e combattuto da affezioni contrarie, da una parte gli pareva  debolezza badare a simili voci, dall’altra parte il disprezzarle pareagli temerità. Finalmente per buona ragion di Stato volle tener quel giorno istesso consiglio su tanto affare; ma i consiglieri più principali, i quali erano anch’essi Ariani, facilmente lo persuasero anzi a castigare quel Monaco, che ad udirlo, se gli fosse altra volta comparso innanzi. Ed ecco appunto il terzo dì viene Isacio più animoso che mai; e rompendo in mezzo alle truppe, che seguivano il loro viaggio, va addirittura a pigliare in mano le redini del cavallo imperiale, e fermatolo: Torno a dirti, o Imperatore (gridò), che tu lasci aprire le chiese de’ Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. Presso la strada, dov’egli allora parlò, era un’orribile fossa, tutta ingombrata di cardi e di pruni altissimi; onde sdegnato l’Imperatore ordinò che, pigliato il Monaco, vi fosse precipitato; e così persuasosi d’averlo tutto a un tempo e ucciso e sepolto, proseguì il suo cammino, non però senza qualche interiore agitazione di animo, malcontento de’ suoi furori. Ma che? non prima l’esercito fu passato, ch’ecco tre bellissimi giovani, vestiti tutti di bianco, calarono nella fossa, e ne trassero Isacio non solo vivo, ma prosperoso ed intatto. Conobbe egli all’improvviso sparire di quei tre giovani, ch’erano stati tre angelici spiriti in forma umana; onde prostratosi a terra, ne rendè subito a Dio le dovute grazie; indi con quell’ale, che ai piè gli posero il zelo e la carità, raggiunse per un sentiero più compendioso l’Imperatore, e con sembiante di fuoco: Che ti credevi (gli disse) ch’io dovessi morire tra quel veprajo? Eccomi per avvisarti di nuovo, che tu tu ravvegga, che apri le chiese dei Cattolici chiuse, se vuoi riportar la vittoria; altrimenti resterai morto: m’intendi? resterai morto. Chi il crederebbe? Neppur a questa quarta denunzia l’ostinato Valente volle ammollirsi; anzi intimò che, fatto Isasio prigione, fosse consegnato subito in mano a due senatori, Saturnino o Vittore, perché lo custodissero fintanto ch’egli, tornato da quella impresa, ne prendesse il meritato castigo. Si ripigliò Isacio allora con le parole che in somigliante occasione disse al perfido Acabbo il giusto Michea: Tu tornato a gastigar me? or va; e se tu ritornerai, tien per certo non aver Dio favellato per bocca mia. Presenterai tu la battaglia ai nemici; ma, non potendo loro resistere, cederai, fuggirai, e finalmente caduto nelle lor mani morirai arso d’incendio non aspettato. Quanto Isacio predisse, tanto seguì. Andò l’Imperator, combatté, ma presto fu rotto; e volgendo le spalle con tutto il campo sbaragliato e disperso, s’appiattò dentro una casuccia di paglia, per occultarsi alle genti che l’incalzavano; ma queste, fattene accorte, incontinente attaccaron fuoco alla paglia, e vi bruciarono l’Imperator vivo vivo: pel qual successo disciolto Isacio dai ceppi con somma gloria, ebbe dai due senatori due monasteri, che incontanente gli fabbricarono a gara. – Ora che avete, o signori, udito il successo, contentatevi un poco di sentenziare. E se l’Imperatore Valente nel giorno estremo dell’universale Giudizio pretendesse pubblicamente di muovere lite a Dio, e di sostenere ch’egli cadesse in quel fuoco non per sua colpa, ma per colpa divina, che pare a voi? Non vi pare che un solo Isacio sarìa bastante a farlo di repente ammutire? Taci, direbbe Isacio, taci, arrogante; non venni io ben quattro volte a proporti un mezzo, e questo assai facile, con cui potevi salvare la vita e l’anima? E se tu imperversasti contro di Dio, e se tu infellonisti contro di me, come ora ardisci, o ribaldo, di lamentarti? Ditemi pure, o signori miei, francamente quel che vi pare. Chi avrìa ragione? Isacio, o Valente ? Non sarìa la causa divina giustificata abbastanza con tal difesa? Ma s’è così, dove siete, ohimè, peccatori, ohimè, dove siete, ch’è data ancor la sentenza contro di voi! Voi pretenderete di poter per ventura ascrivere a Dio quella dannazione nella quale andate dirittamente ad incorrere per cotesta via che tenete; e non vedete quanti Isaci avrete, che faranno ammutolire bruttamente e confondere? Se non fossero altri che i soli predicatori, non basterebbero a turarvi bocca? Perdonatemi, che fin io stesso, io dico, io verme vilissimo, sarò costretto ad uscir in campo quel giorno a difendere anch’io la causa divina, e a depor contra voi e ad attestare ch’io, qual Isacio, ne venni sui vostri pulpiti, e vi ho denunziato più volte a nome di Dio, che se non volete cadere nel fuoco eterno, lasciaste, o libidinosi, quelle pratiche licenziose, fuggite o giovani, quelle conversazioni profane; terminate, o negozianti, quei mali acquisti; restituiste, o mormoratori, quella fama tolta; e voi concedeste, o vendicativi, una volta quella pace desiderata. Ma se voi non avrete voluto apprezzare avvisi sì salutevoli, come potrete lamentarvi di Dio? come giustificarvi? come fiatare? Non ha Egli appieno soddisfatto al suo debito sol con queste nuove denunzie ch’ io torno a farvi questa istessa mattina, mentre vi replico che malos male perdet? Perdet nella vita presente, e, quel ch’è peggio, anche perdet nella fatura. – Né mi dite che subito adempireste i consigli ch’io qui vi do, se foste certi di dovervi dannare, non gli adempiendo; ma che a me non prestate fede. Perché ancora Valente, se fosse stato certo di morir arso, non restituendo le chiese, le avrebbe restituite; ed intanto lasciò di farlo, in quanto riputò vergognosa cosa dar fede a un povero scalzo, ch’ei non sapeva chi si fosse, d’onde venisse, o come vivesse. Contuttociò non gli suffragherà questa scusa; perché  quando il consiglio è conforme alle leggi divine e a’ libri sacri, e alle dottrine evangeliche, basta questo: poco rilieva se porgalo un uomo dotto, o se un ignorante; se un santo, o se un peccatore, lo son peccatore, o signori, io sono ignorante, e sono il minimo di quanti ora aprono bocca con tanta lode sui vostri pergami; ma l’Evangelio m’assicura di questo, che se migliorerete la vostra vita corrotta, voi schiverete l’inferno; altrimenti no: m’intendete? Altrimenti no! – Che cercate altro dunque? Bisogna bensì che assai tosto si metta la mano all’opera, perché questo forse per alcuno di voi potrebbe essere l’ultimo avviso: novissima tuba: sì, sì, novissima tuba. Già i vostri Isacj sono ritornati per voi, non solamente le due volte e le quattro, ma le dieci e le dodici; sicché può essere che il fuoco sia già vicino alla vostra paglia. Presto, dunque, presto, che forse dopo questa denunzia non ne resta altra; e dacché Dio già tante volte ha tuonato, se scaglierà poscia il fulmine, vostro danno.