MERCOLEDì DELLE CENERI

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco, Ivrea 1844 – Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843, Ferraris prof. Rev. Per la G. Cancell.]

NEL MERCOLEDI’ DELLE CENERI

“Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”

Un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o miei riveriti uditori; e vi confesso, che non senza una estrema difficoltà mi ci sono addotto, troppo pesandomi di avervi a contristar sì altamente fin dalla prima mattina ch’io vegga voi, o che voi conosciate me. Solo in pensare a quello che dir vi devo, sento agghiacciarmisi per grande orror le vene. Ma che gioverebbe il tacere? il dissimular che varrebbe? ve lo dirò. Tutti, quanti qui siamo, o giovani o vecchi, o padroni o servi, o nobili o popolari; tutti dobbiamo finalmente morire: statutum est hominibus semel mori (ad Heb. IX, 27) . Ohimè! che veggo? non è tra voi chi si riscuota ad avviso sì formidabile? Nessuno cambiasi di colore? nessun si muta di volto? Anzi già mi accorgo benissimo che in cuor vostro voi cominciate alquanto a ridere di me, come di colui, che qui vengo a spacciar per nuovo un avviso sì ricantato. E chi è, mi dite, il quale oggimai non sappia che tutti abbiamo a morire? Quis est homo, qui vivet, et non videbit mortem? (Ps. LXXXVIII, 49 ) Questo sempre ascoltiamo da tanti pergami, questo sempre leggiamo su tante tombe, questo sempre ci gridano, benché muti, tanti cadaveri: lo sappiamo. Voi lo sapete? Com’è possibile? Dite: e non siete voi quelli, che jeri appunto scorrevate per la città così festeggiante, quali in sembianza di amante, qual di frenetico, e quale di parassito? Non siete voi che ballavate con tanta alacrità nei festini? Non siete voi che v’immergevate con tanta profondità nelle crapule? Non siete voi che vi abbandonavate con tanta rilassatezza à dietro ai costumi della folle Gentilità? Siete pur voi che alle commedie sedevate sì lieti. Siete pur voi che parlavate da’ palchi sì arditamente. Rispondete: e non siete voi che tutti allegri in questa notte medesima, precedente allo sacre Ceneri, ve la siete passata in giuochi, in trebbj, in bagordi, in chiacchiere, in canti, in serenate, in amori, e piaccia a Dio che non fors’anche in trastulli più sconvenevoli? E voi, mentre operate simili cose, sapete certo di avere ancora a morire? Oh cecità! oh stupidezza! oh delirio! oh perversità! Io mi pensava di aver meco recato un motivo invincibilissimo da indurvi tutti a penitenza ed a pianto con annunziarvi la morte: e però mi era, qual banditore divino, fin qui condotto per nebbie, per piogge, per venti, per pantani, per nevi, per torrenti, per ghiacci, alleggerendomi ogni travaglio con dire: non può fare che qualche anima io non guadagni, con ricordare ai peccatori la loro mortalità. Ma, povero me! troppo son rimaste deluse le mie speranze, mentre voi, non ostante sì gran motivo di ravvedervi, avete atteso piuttosto a prevaricare; non vergognandovi, quasi dissi, di far come tante pecore ingorde, indisciplinate, le quali allora si ajutano più che possono a darsi bel tempo, crapulando per ogni piaggia, carolando per ogni prato, quando antiveggono che già sovrasta procella. Che dovrò far io dunque dall’altro lato? dovrò cedere? dovrò ritirarmi? dovrò abbandonarvi in seno al peccato? Anzi così assista Dio favorevole a’ miei pensieri, come io tanto più mi confido di guadagnarvi. Ditemi dunque: mi concedete voi pure d’esser composti di fragilissima polvere; non è vero? lo conoscete? il capite? lo confessate, senza che altri stanchisi a replicarvi: Memento„ homo, memento quia pulvis es? Questo appunto è ciò ch’io voleva. Toccherà ora a me di provarvi quanto sia grande la presunzione di coloro che, ciò supposto, vivono un sol momento in colpa mortale. Benché presunzione diss’io? audacia, audacia, così doveva nominarla, se non anzi insensata temerità; che per tale appunto io prometto di dimostrarvela. Angeli, che sedete custodi a lato di questi a me sì onorevoli ascoltatori: Santi, che giacete sepolti sotto gli altari di questa a voi sì maestosa Basilica; voi da quest’ora io supplichevole invoco per ogni volta ch’io monterà in questo pergamo, affinché vogliate alle mie parole impetrare quel peso, e quella possanza, che non possono avere dalla mia lingua. E tu principalmente, o gran Vergine, che della divina parola puoi nominarti con verità Genitrice! tu che, di lei sitibonda, la concepisti per gran ventura nel seno; tu che, xli lei feconda, la partoristi per comun benefizio alla luce; tu che, di nascosta ch’ella era ed impercettibile, la rendesti nota e trattabile ancora a’ sensi; tu fa che io sappia maneggiarla ogni dì con tal riverenza, ch’io non la contamini con la profanità di formule vane, ch’io non l’adulteri con la ignominia di facezie giocose, ch’io non la perverta con la falsità di stravolte interpretazioni; ma che sì schietta io la trasfonda nel cuore dei miei uditori, qual ella uscì dai segreti delle tue viscere. Sprovveduto vengo io di ogni altro sostegno, fuor che d’una vivissima confidanza nel favor tuo. Però tu illustra la mente, tu guida la lingua, tu reggi il gesto, tu pesa tutto il mio dire di tal maniera, che riesca di lode e di gloria a Dio; sia di edificazione e di utile al prossimo; ed a me serva per acquisto di merito, non si converta in materia di dannazione.

II.  È l’uomo comunemente di sua natura più inclinato a temere nei gran pericoli, che disposto ad assicurarsi. Però voi vedete, che nella nave di Giona, profeta indocile, uno solo era quegli, che al fracasso de’ tuoni, e al furor de’ turbini dormiva tranquillamente. Gli altri tutti o gridavano, o gemevano, o consultavano, o si affaticavano, affine di liberarsi dall’imminente naufragio. Homo enim (così trovo io presupporsi da san Tommaso) magis inclinata» est ad timorem, quo mala fugit, quam ad audaciatn, qua mala invadit (Abulen. In Matt. cap. XVIII, q. 27 ex 2. 2. q. 16!, art. 29 ad 3 ). Ma questo principio è verissimo, quando si tratti de’ pericoli temporali, i quali sono meno terribili, e meno atroci; non però quando trattisi dell’eterno, che è tanto più irrimediabile e più tremendo. In questo solo (chi’1 crederebbe?) i mortali sono inclinati comunemente a fidarsi; né solamente nol temono, ma lo sprezzano; nol solamente nol fuggono, ma l’incontrano. E che vi pare, amatissimi peccatori, del vostro stato? Già voi sapete che in quell’istante medesimo nel qual voi, o col pensiero, o con la parola, o con l’opera, consumaste il vostro delitto, fu tosto contro a voi fulminata sentenza orribile di eterna condannazione. Né si deve durar gran fatica ad effettuarla. Ardon già inestinguibili quelle fiamme, che debbon essere il vostro letto per tutta l’eternità. Ignis succensus est in furore meo ( Jer. XV, 14); sì dice Dio, super ros ardebit. Già son preparati i tormenti, già stan pronti i tormentatori. Però, che manca? Manca che strappisi solamente quel filo che vi tien come pendenti sopra la bocca di un baratro sì profondo: Super putum abyssi (Apoc. IX. 2). E voi con tutto ciò non provate timore alcuno, ma potete la sera cenar con gusto, potete cicalare, potete conversare, potete andare a pigliar poi placidissimi i vostri sonni? se non è questa temerità intollerabile, rispondetemi, qual sarà? È vero che quel filo di vita che or vi sostiene potrebb’essere ancora forte e durevole; ma potrebbe anch’essere logoro e consumato. E perché dunque in una egual incertezza più volete attenervi a quella opinione che vi animi a confidare con tanto rischio, che non a quella che vi esorta a temere con tanto prò?

III. Benché troppo ho errato dicendo, in una egual incertezza. Qual cosa v’è che mai vi possa promettere di sicuro un sol momento di vita. Non i bezzuarri orientali, non le perle macinate, non gli ori potabili, non i gislebbi gemmati, che son piuttosto rimedi tutti inventati dall’ambizione, perché neppure il morire sia senza lusso. Dall’altra parte quante son quelle cose, le quali possono levarvela ogni momento! Si lusingavano comunemente gli antichi con darsi a credere, che le loro Parche non fossero più che tre. Ma non così si lusingava anche Seneca, il quale diceva, che a lui piuttosto parevano innumerabili: Eripere vitam nemo non homini potest (In Theb. act. 1). Mirate pur quante creature mai sono nell’universo, tutte, per dir così, tutte son tante Parche col ferro in mano, ch’è quanto dire, tutte applicate, tutte abili a darci morte. So non che, chi non sa che a fin di morire non ci fa nemmen di mestiere aspettarlo altronde? Dentro di noi sta quanto basta ad ucciderci. Come il ferro si genera la sua ruggine, come il legno il suo tarlo, come il panno la sua tignuola; così l’uomo si genera pur da sé la sua morte in seno, e non se ne accorge: a segno tale, che un celebre capitano del secolo precedente, detto il Caldoro (Poter. Detti memor. 1. 1), mentre arrivato, con sorte rara tra le battaglie, all’età di settantacinque anni, passeggiava lieto pel campo, e si gloriava di essere tuttavia sì disposto della persona, sì vivace, sì vegeto, qual ora di venticinque, finì in un punto e di vantarsi e di vivere; perché repentinamente percosso fu d’un accidente di furiosissima gocciola, la quale allora allora era in atto di sopraffarlo; e così, morendosi in poco d’ora, mostrò quanto ciascun uomo sia sempre mal informato di ciò che passi nell’intimo di se stesso. Ma se così è, come dunque in uno stato d’incertezza sì orribile, qual è questo, avete ardire, o ascoltatori, di vivere un sol momento in colpa mortale? Questa dunque è la cura che voi tenete della vostra anima? questa è la stima del vostro fine? questa è la sollecitudine della vostra felicità? saper di stare in mezzo a rischi sì gravi, e non vi riscuotere! Alcuni si stupiscono molto come un Elia, perseguitato da una potente Reina, potesse mettersi in una aperta campagna a dormir sì posatamente:projecitque se, et obdormivit (3 Reg. XIX, 5). Ma io non me no stupisco. Non è certissimo ch’egli finalmente era un Santo? Poteva dormire. II mio stupore è veder dormire un Saule, dormire un Oloferne, dormire un Sisara, quantunque dormano sotto de’ padiglioni. E che sia di loro, se restino quivi còlti da chi gli insidia? Eppure piacesse al Cielo, che i loro esempi non si vedessero tuttodì rinnovati tra i Cristiani. Sono innumerabili quelli che vanno a letto in peccato mortale, senza por mente a tanti orrendi pericoli, che del continuo lor possono sovrastare da una corrente impetuosa di sangue, da un soffocamento di catarro, da una soppressione di cuore, da un solo animaletto pestifero che li morda. E questi possono giungere a chiuder occhio, tuttoché per breve momento? Oh stupidezza infinita! oh stoltizia immensa! Si trovano là nell’Africa certi animali fierissimi detti orìgi, somiglianti ai tori selvatici, i quali tanto si fidano di sè stessi, che si addormentano dentro le medesime reti dei cacciatori; e benché già d’ogni intorno non altro sentasi che annitrire cavalli, che abbaiar cani, non però si scuotono punto per procurare di scappare in tempo da’ lacci. Or non è questa veramente un’audacia meravigliosa? Ma tale appunto pare amo che sia quella de’ peccatori. Che dissi, pare? È certo, è certo. Sentitelo da Isaia: dormierunt in capite omnium viarum, sicut oryx illa queatus, pleni indignatione Domini (Is. LI, 20). Poteva dirsi più eccelsamente?. Coloro i quali, già colmi d’iniquità, pieni indignatione Domini, si tengono sempre a Lato le male pratiche; coloro che non restituiscono quella roba; coloro che non rendono quella riputazione; coloro che covano quell’odio occulto nel cuore, sanno molto bene di star conseguentemente negli alti lacci infernali. Eppur che vi fanno? Si scuoton forse, si affannano, si affaticano, per poterne uscir prontamente? Pensate voi. Vi dormono spesso a guisa di tanti orìgi: dormierunt sicut oryx illaqueatus. Oh cosa orribile! Dormierunt sicut oryx illaqueatus. Ed è possibile che mai giungasi a tanto di sicurtà? Chi vi fa certi, o meschini, che a danno vostro non sia già bandita una caccia universalissima di tutte le creature? che non siano lasciati i cavalli? lasciati i cani? E voi dormite, e dormite in qualunque luogo senza sospetto, in capite omnium viarum e dormite (può dirsi più?), o dormite talvolta, come un Sansone, anche in  seno alle meretrici? dormitis in lectis eburntis, et lascivitis! ( Amos. VI, 4).

IV. E qui dovete considerare, uditori, che se nessuno di noi non può mai promettersi un sol momento di vita (tanta è la gelosia con lo qual Dio fra tutti gli altri domin ha voluto a sé riserbare quello del tempo, molto meno promettere se lo può chi vive in peccato. Il peccato ha introdotta al mondo la morte; chi non lo sa? per peccatium mors ( ad Rom. V, 12): e però il peccato ha sempre ancor ritenuta questa possanza, veramente terribilissima, di affrettarla, di accelerarla, di far che giunga assai prima del suo dovere. Sono infiniti nelle Scritture que’ luoghi, in cui questa verità ci vien confermata. Ne impie agas multum: (Eccl. VII, 18); così appunto si dice nell’Ecclesiaste: non ti voler dare in preda all’iniquità: non vivere come vivi con tanta libertà, con tanta licenza: non fare, come suol dirsi di ogni erba fascio: Ne impie agas multum. E per qual cagione? ne moriaris in tempore non tuo (Ibid); per non aver a morire innanzi al tuo tempo. Imputi, antequam dies ejus impleantur, peribit ( Job. XV, 32); così pure in Giob si ragiona. Iniqui sublati sunt ante tempus suum ( Job 22 ,16); così pure in Giobbe si replica. Qui odit correptionem, minuetur vita (Eccli. XIX,5); così pur viene affermato dall’Ecclesiastico. E Salomone nei suoi Proverbi si protestò apertamente, che gli anni dei malvagi verrebbono dimezzati: anni impiorum breviabuntur (Prov. X, 27 ): cadendo i più di loro quasi lambrusche, prima fracide, che mature; o quasi loglio, prima inaridito, che adulto. Udite ciò che accedette allo scellerato imperatore Anastasio. Dormiva egli una notte agitato dalle solite faci delle sue furie, le quali più importune nel sonno, lo molestavano or con ombre orribili, or con pensieri ferali: quando apparendogli un personaggio di aspetto terribilissimo, con la penna nella destra, con un libro nella sinistra: mira, gli disse, come io per la tua empietà quattordici anni cancello della tua vita: En oh perversitatem fìdei tua quatuordecim tibi vita: annos deleo ( Baron. in Annal. t. 6, an. 518). Si destò a queste voci il misero Principe attonito ed angoscioso, né sapeva s’egli ciò dovesse temere come visione, o deridere come sogno. Quando indi a pochi giorni cominciò il cielo, di sereno ch’egli era, a rannuvolarsi, indi a lampeggiare ed a fremere, e a fulminare. Si colmò Anastasio di profondissimo orrore; e, quasi presagisse nell’animo esser lui quello, per cui concitavasi in cielo sì gran tempesta, si diede a correre, qual novello Caino, pel suo palazzo ora fuggendo d’una in un’altra sala, or d’una in un’altra stanza; ma tutto indarno. Scoppiò all’improvviso una rovinosa saetta, che a dirittura l’andò a trovare in un gabinetto segreto, dov’egli stava qual coniglio appiattato nella sua buca, ed ivi l’uccise: dando così chiaro a vedere che non v’è lauro, non dirò regio, ma neppure imperiale, che salvar possa da’ fulmini un capo iniquo. Ma voi frattanto che dite? Non vi par vero che gli anni de’ malvagi hanno ad essere dimezzati? anni impiorum breviabuntur. Eh non vi fidate, uditori, non vi fidate; perché quantunque voi vediate la morte sopra un cavallo spossato, squallido, scarno, qual era quello, su cui comparve là ne’ deserti di Patmos; contutto ciò vi so dire, che quando ella ha seco lo sprone, lo sa far correre. Ma non sapete qual è lo sprone? il peccato: Stimulus autem mortis peccatum est, così grida Paolo, Stimulus autem morti peccatum est (1 ad Cor. XV, 56). Alcuni, ahi quanto ingannati! si danno a credere che questo sprone siano anzi le penitenze; e però non prima essi mirano un lor compagno ritirarsi, raccogliersi, darsi alquanto alla vita spirituale, che subito fanno mostra dì compatirlo. Ed oh semplicetto! gli dicono: non vedete che voi vi volete ammazzare? Che semplicetto, che semplicetto? scusatemi s’io vi sgrido: semplicissimi siete voi, i quali non avete ancora imparato a conoscere bene lo stimolo della morte. Non è il digiuno quello che fa venir la morte sì rapida. Piuttosto io trovo promesso dall’Ecclesiastico, che qui abstinens est, adjiciet vitam (Eccli. XXXVII, 34). Non sono le discipline, non sono i silenzii, non sono i salmeggiamenti, non sono i letti assai duri. Se dicessimo questo, si leverebbe tosto su dalla tomba il gran Romualdo, penitente austerissimo di cento anni, e irato ci smentirebbe; ci smentirebbe un Girolamo, ci smentirebbe un Antonio, ci smentirebbe un Arsenio, ci smentirebbe un’infinità di mortificatissimi anacoreti, vissuti più d’ogni effeminato Lucullo. Ah! che lo stimolo della morte è il peccato: conviene intenderla: Stimulus autem mortis peccatum est. Sono quelle atroci bestemmie, che si lasciano alcuni con somma audacia scappar tutt’ora di bocca, sono i furti, sono le fraudi, sono le oppressioni dei poveri angariati, sono le confessioni sacrileghe, sono le comunioni sacrileghe, sono le tante ingratitudini orrende, che da noi si usano a chi ci ha donata la vita: essendo conformissimo a tutte le buone leggi spogliar del feudo, spogliar del fìtto, chi neghi l’ossequio debito al suo Sovrano (De feudis 1. 3, c. 1).

V. Ed oh così le angustie del tempo me lo permettessero, come io vi mostrerei volentieri con l’induzione perpetua di tutti i secoli, quanto sia negli empj frequente il perir di morti, non solo anticipate, come or dicevasi, ma parimente le più improvvise, le più impensate, che possano mai trovarsi. Ma per restringerci alle divine Scritture, pigliatele quante sono, ed esaminatele, vedrete, che di quei giusti, la cui salute non può rivocarsi in dubbio, niuno s’io non erro, si sa che mancato mai sia di caso fortuito, fuorché i figliuoli del pazientissimo Giobbe, rimasti oppressi dalle impetuose rovine di quel palazzo, che si cambiò loro subito in sepoltura. Eppure a questi medesimi quando accadde una tal disgrazia? Quando sedevano ad un allegro banchetto, ch’era l’ora appunto, in cui sempre il lor savio padre aveva in essi temuto di alcuna macchia, ben intendendo che a’ giovani tra i conviti nessuna cosa è più facile, che lordarsi. Nel resto, se riguardate a quei personaggi, che furono di giustizia più segnalata, a un Abramo, a un Aronne, a un Isacco, a un Giacobbe, a un Giuseppe, a un Giosuè, a un Samuele, a un Mosè, a un Matatìa, a un Tobia, e ad altri lor simili, vedrete, ch’essi morirono agiatamente nei lor letti, lasciando salutevoli documenti, quali alle loro proli, e quali ai loro popoli. Ma se per contrario vorrete dare agli empj una sola occhiata, almen di passaggio, oh come voi li vedrete miseramente rapiti, chi dall’acque, chi dalle fiamme, chi dalle fiere, e chi da cent’altre stranie guise di morti, tanto più orribili, quanto meno aspettate! Qunmodo facti sunt in desolationem! (gridò il Salmista atterritosi in contemplarli) subito defecerunt; perierunt propter iniquitatem suam (Ps. LXXII, 19). All’improvviso morì Faraone il superbo con tutte le sue milizie, assorbito dai gorghi dell’Eritreo. All’improvviso morirono quegl’ingordi, che sospirarono i carnaggi di Egitto. All’improvviso morirono quegli audaci, che biasimarono la terra di promissione; e all’improvviso morirono altri oltre numero nelle divine Scritture, i quali tutti, se fecero un egual fine, subito defecerunt, tutti parimente vedrete, che furon rei di qualche somigliante delitto: perierunt propter iniquitatem suam. Or che vi voglio, uditori, inferir di ciò? che gli empj sieno soli a mancar di morte sì orribile, qual è questa che chiamasi subitanea? Non già, non già. Sarebbe questo un errore manifestissimo, volendo Dio che alle pene proprie degli empi soggiacciano qui talvolta gli stessi Santi, o sia per purificarli, o sia per provarli, o sia per non dare a credere che finalmente sulla terra si termini ogni mercede. Dico bensì che, se dobbiamo dar fede all’induzione evidente delle Scritture, assai più frequente è nei peccatori un tal esito repentino, che non nei giusti. Udite da Salomone parole orribili: Viro, qui corripientem dura cervice contemnit, repentinus ei superveniet interitus (Prov. XXIX,1). Nè mancanoragioni ancor naturali da confermarcelo. Perocché spesso i peccatori procacciansìuna tal morte con la voracità delle crapule,di cui si gravano il ventre; con lasfrenatezza delle disonestà, in cui diffondonogli spiriti; con la libertà delle maldicenzeper le quali si acquistano de’ nemici; conle risse de’ giuochi, con la rivalità degliamori, con le facilità degl’impegni, conle malinconie delle invidie, con gli affannidelle ambizioni, e con altri tali disordini,da cui vive assai più lontano ogni giusto,a cui ben si può dir con l’Apostolo, cheogni cosa si volga in bene: omnia cooperantur in bonum (ad Rom. VIII, 28): mentrel’istessa mortificazione gli vale più di unavolta a tener lontana la morte. Comunquesiasi, sapete voi come Dio proceda congli uomini in questo affare? come appunto sifa co’ legni del bosco. Quando si va per reciderequalche legno da porre in opera, dafabbricarne uno scrigno, da formarne unostudiolo, da farne una bella statua, si vacon cento riguardi, e mirasi che sia saldo,sia stagionato, sia soprattutto reciso al suotempo proprio, qual è quello di luna scema.Ma non così quando si va per troncar legna solamente da ardere: allor si va d’ogni tempo. Peccatori indurati che legna sono? Legna da gettar sul fuoco. Chi non sa? Excidentur, et in ignem mittentur (Luc. III, 9). Però si tagliano ad ogni ora senza rispetto. Che tante cautele? Che tante circospezioni? non est respectus morti corum (Ps. LXXII, 4); non ci si guarda.

VI. Or se tanto è ancor più probabile a tutti voi, dilettissimi peccatori, il perir di una fine sì miserabile, la quale allora che voi meno il pensate vi soppraggiunga, o nel più profondo del sonno, o nel più bello del giuoco, o nel più lieto di alcun altro vostro piacevole passatempo; deh! vi prego, tornatemi a confessare: non è un’insensata temerità vivere un sol momento in colpa mortale? Che pegno avete, che fermezza, che fedi, sicché non succeda ancor a voi, come a tanti, i quali ducunt in bonis dies suos, aggravando il peccato col disprezzarlo, et in puncto ad inferna, descendunt? (Job. XXI, 13) tanto poi li fa rovinar presto il gran poso che giù li tira Ha forse Dio con qualche privilegio speziale rivelata a voi l’ora di vostra morte? o vi ha promesso almen di mandarvela, non come ladro che muova tacito il passo per non destarvi, ma qual corriere che suoni lontano il corno, perché gli apriate? Che c’è, che c’è, che vi rende sì baldanzosi? Cur quasi de certo extollitur, io vi dirò sbigottito con san Gregorio, cujus vita sub pœna incertitudinis tenetur? I Niniviti non prima udirono che la loro città fra quaranta giorni avevasi a subissare, che incontanente plenum terroribus pœnitentiam egerunt (Conc. Tr. sess. 14, c. 4): subito si vestirono di cilicio, subito si sparser di cenere; né si curarono di aspettar sopra ciò gli editti del loro Principe, il quale, come accade, fu l’ultimo a saper nuove così funeste, o fosse perché dava poco ardire, o fosse perché dava poco adito, o fosse perché ognuno, già quasi stolido, non badava se non che alla propria salvezza. Or donde mai così gran fretta, uditori? Non sapevano costoro di certo che ancor avevano una quadragesima tutta intiera di tempo? adhuc quadraginta dies (Jon. III, 4). Perchè non dissero dunque: aspettiamo un poco? A placar Dio non si richieggono molte ore, basta un momento. Un atto di contrizione presso l’aurora del quarantesimo giorno ci salverà. Così potevano certamente dir essi; e seguitare a mangiare, se erano a tavola; e finire il giuoco, se stavano a solazzarsi. Ma fingete che avessero proceduto così: qual giudizio voi ne fareste? Non vi par che sarebbero stati audaci, presuntuosi, protervi, e indegni di quel perdono, che riceverono mercé la loro prontezza? Ma quanto peggio, uditori, è nel caso nostro? I Niniviti potevano almeno universalmente promettersi una quarantina di giorni, concessi loro per termine perentorio alla penitenza; e però, dov’era maggiore la sicurezza, sarebbe stata minore la temerità, se persistevano ancor qualche ora di più nei loro peccati. Ma voi nemmeno siete sicuri di tanto; no. Dice Cristo: nescitis, quando tempus sit (Marc. XIII, 33). L’eccidio del vostro corpo non sol potrebbe esser prossimo, ma imminente. Potrebbe avvenire in questa settimana medesima che ora corre, in questa mattina, in questo momento, perché la morte se ne va sempre armata di spada e d’arco: Gladium suum vibrabit, arcum suum tetendit (Ps. VII, 13). Con la spada colpisce i vecchi, che più non si possono riparare; colpisce i delicati; colpisce i deboli: con l’arco i giovani, che superbi confidano nella fuga. E come dunque potrete giustificare la vostra temerità, se lascerete inutilmente trascorrere tempo alcuno, per minimo ch’egli sia? Che dite? che rispondete? come scusate in così gran pericolo il vostro ardire? Il cacciatore mai non potrebbe tenere in pugno il falcone con tanta facilità e con tanta franchezza, se non gli avesse ben prima serrati gli occhi. E così ha fatto il demonio con esso voi: vi ha chiusi gli occhi, uditori, vi ha chiusi gli occhi; però ne fa ciò che vuole.

VII. Un solo scampo veggo io pertanto che a voi rimaner potrebbe; e sarebbe il dire: che veramente voi non potete sapore di avere a vivere ancora più lungamente, ma che potete nondimeno sperarlo; che non ostanti tanti pericoli, quanti n’abbiamo contati, molti anche deI peccatori e campano, e ingrassano, e invecchiano, e muojono pacificamente CoI loro sensi; e che però voi volete anzi sperare una simil sorte, che temer di contraria infelicità. Ma piano di grazia; perché, se parlaste così, mi dareste a credere d’esservi già dimenticati affatto del punto di cui trattiamo. Sapete pure che trattiamo dell’anima: non è vero? e di un’anima, la quale è vostra, anzi è voi; e di un’anima, la quale è unica; e di un’anima, la quale è immortale; e di un anima, la quale è irrecuperabile? E di quest’anima Ah! memento, memento, io vi dirò con san Giovanni Crisostomo, memento quod de anima loqueris. E vi par questa così poco apprezzabile, che si debba commettere in mano al caso? Vi potrebbe sortire felicemente, su, si conceda: ma se non sortisse, ditemi un poco, uditori, se non sortisse? Che non vogliate mettervi sempre al sicuro in altri interessi umani, io me ne contento. Vi perdono che arrischiate la roba, che avventuriate la riputazione, che cimentiate anche spesso la sanità, perché tutte questo sono a guisa di merci, che finalmente, per troppo precipitosa risoluzione gittate in acqua, si possono ripescare dopo il naufragio. Ma l’anima? Ahimè! non è questa da premere così poco; perché dove la perdita, che si faccia, non ha riparo, chi non vede essere una somma temerità il non procedere con una somma cautela?

VIII. Eppure, oh stupidità! qual è quell’interesse, nel quale la cautela non usisi assai maggiore, che nell’eterno? L’imperadore Adriano ( Eutrop. 1. 8 ), perché seppe esservi oracolo, che ai dominatori di Roma sarebbe stato esiziale passar l’Eufrate, rendé spontaneamente ai Persiani tutta l’Armenia, tutta l’Assiria, tutta la Mesopotamia, conquistate già da Trajano, sol per assicurarsi di non avere, per qualunque evento, a varcare quell’acque infauste; e alle ripe d’esse costituì i termini dell’Imperio. Ma che star qui a mendicare successi illustri? Non sapete voi di voi stessi con quanto sicure regole vi guidiate in tutti gli affarucci privati di casa vostra? Se voi cadete in letto, non dite: lasciam di chiamare il medico, perch’io forse me ne rileverò senza medicina. Se voi andate alla guerra, non dite: lasciam di far testamento, perch’io forse me ne ritornerò con salute. Quando voi prestate buona quantità di danaro ad un vostro amico, non vi fidate sì subito; ma che fate? Fate come Tobia, il qual, quantunque conoscesse Gabelo per uomo retto, timorato, fedele, non però lasciò di richiedere da lui pure scrittura autentica: argenti pondus dedit sub chirographo ( Tob. 1 , 17 ). A seminare scegliete i giorni più atti; a litigare cercate gli avvocati più pratici; a trafficare eleggete i corrispondenti più accreditali; e, in una parola, non v’è negozio, nel qual vogliate, come suol dirsi, commettervi alla ventura, mentre voi potete procedere con certezza.E perché dunque in mano al caso verrete a porre un negozio il maggior di tutti, qual è quel della eternità? e potendo ora pentirvi, direte: no perché forse ancora avrò tempo a farlo di poi? Ah, Cristiani, credetemi ch’io non posso capire come ciò avvenga; e sono costretto con san Giovanni Crisostomo ad esclamare, estatico e forsennato per lo stupore : Incertis ergo eventibus te ipsum committis? Incertis ergo eventibus te ipsum committis? (Homil. 23 in ep. 2 ad Cor.) Voi non fidereste all’incertezza del caso una vostra lite, un vostro deposito, un vostro quantunque minimo interessuccio; e poi gli confidate l’anima vostra? Stupite, o cieli, sbalordite, o celesti, all’udir che fate di tanta temerità, perch’io sono certo non potere al mondo trovarsene la maggiore. Quis audivit talia horribilia, qum fecit nimis virgo Israel? (Jer. XVIII, 13).

IX. E tuttavia chi non vede che questa temerità stessa sarebbe più comportabile, se per qualche notabile emolumento si commettesse? Fu principio ricevutissimo in tutti gli affari umani quello di Appiano, che summm dementim est ob res leves discrimen ingens subire (De bello Hispan.). Un pericolo grande mai non deve eleggersi per un guadagno leggiero, perché ciò sarebbe come appunto pescar con un amo d’oro, il qual, perduto, reca tanto discapito, che non è compensabile con la preda che ci promette. Però se un agricoltore arrischia molte moggia di grano nella sementa; e se un banchiere avventura qualche numero di danaro nei cambj; e se un litigante consuma buona parte di rendite nelle mance; ciascuno il fa, perché molto più è quello che spera, che non è quello che arrischia: né, per quanto si volgano antichi annali, si troverà mai pilota si temerario, il qual sia scorso sino all’Indie remote a lottare con gli austri, a pugnare con gli aquiloni, per riportare di colà sul suo legno, in vece di un vello d’oro, sabbione o stabbio. Ma voi, Cristiani, che fate? Per qual emolumento vivete in così gran risico di perdervi eternamente? Per qual guadagno? Pare a voi che, messo in bilancia, preponderi il bene che vivendo in peccato voi ritraete, al mal che vi verrebbe, se moriste in peccato? Se nello stato presente di peccatori voi non morite, vi riesce, il concedo, di goder quel trastullo libidinoso, di accumular quel danaro, di acquistar quelle dignità, di arrivare a quella vendetta. Ma se morite? Se morite, si tratta di andar giù subito nel profondo a scontar così breve riso con un lutto infinito di tutti i secoli. E parvi comparabile il bene, che vivendo godete, al male che morendovi incorrereste? Ah uomini ingiusti? ah uomini irragionevoli! Omendaces filii hominum in stateris (Ps.LXI, 10). Com’esser può che del continuo preponderi presso voi un bene temporale, fugace, frivolo, vano, ad un male eterno? Non si troveranno in casa a verun falsario stadere tali, che possano giammai dire bugìe sì grosse, se non si fa sì che le dicano a viva forza. Però non sono mendaces stateræ in filiis hominum, ma mendaces filli hominum in stateris, perché voi siete, che date agli intelletti vostri il tracollo, come a voi piace, con ribellarvi a qualunque lume chiarissimo di ragione. Ipsi fucrunt rebelles lumini (Job. XXIV, 13).

X. Per le viscere di Gesù, non vi vogliate più lungamente ingannare da voi medesimi: Nolite decipere animas vestras (Jer. XXXVII, 8): riscuotetevi, ravvedetevi; e, cominciando da quest’ora stessa a rientrare dentro il cuor vostro, considerate un poco qual frutto voi ritraete dal vostro stato. E, s’è maggior l’emolumento che i1 rischio’, abbiate pure per nullo quanto io vi ho detto: ma s’egli è senza paragone inferiore, pietà, vi prego, pietà dell’anime vostre. Volete dunque avere a piangere un giorno, e a dir voi pure con Geremia tutto afflitto: Venatione ceperunt me quasi avem inimici mei gratis! (Thr. III, 52). Oh che amarezza sarebbe questa! oh che cruccio! oh che crepacuore! Parla qui il Profeta divinamente in persona di un peccatore, e si confonde di essersi appunto portato come un uccello, il quale si lascia bruttamente adescar dagli uccellatori: perché? per nulla, per nulla, gratis, per un vil grano di miglio. Venatione ceperunt me quasi avem inimici mei gratis. E voi volete pur essere di costoro? Ah Cristiani! e che mai sono tutti i beni terreni, paragonati non solamente al minore, ma ancora al minimo de’ mali eterni, a cui vi esponete peccando? Un grano di miglio? No, neppur tanto. E per sì poco vi contentate di andarvene mai sempre trescando intorno a tanti vostri terribili insidiatori, con gravissimo rischio di restar presi per tutti i secoli, di perdervi, di perire? O præsumptio nequissima, unde creata es? (Eccli. XXXVII, 3). dirò dunque con l’Ecclesiastico. Io non ho sensi che bastino a detestare così strana temerità. Convien che a forza rimanga qui come stupido ad ammirarla.

SECONDA PARTE.

XI. Se in un uomo, il qual, come polvere, può facilmente disperdersi ad ogni soffio, è somma temerità, come abbiam veduto, vivere un sol momento in colpa mortale; che mi potrete questa mattina rispondere a favor vostro, voi, che in simil colpa vivete non i momenti, ma i giorni, ma le settimane, ma i mesi, ma gli anni interi, diebus innumeris? (Jer. II, 32) Operate voi con prudenza? procedete voi con saviezza? Qual probabilità vi rimane di non dannarvi? Nemo se tuto diu periculis offerre tam crebris potest, diceva Seneca (Herc. fur. act. 2, se. 2). E perchè? Quem sape transit casus, aliquando invenit. Passare una volta sul trabocchetto, e non rovinare; dare una volta nelle panie, e non invischiarsi; succhiare una volta il tossico, e non perire non è gran fatto. O sia protezione del Cielo, o sia condizione della sorte, talora accade. Ma che non perisca chi vuol saziarsi di tossico, come d’acqua; che non s’invischi chi si vuol abbandonar su le panie, come su’ fiori; che non rovini chi vuol andare a ballare su i trabocchetti, come sopra saldissimi pavimenti, dove mei troverete? Se dunque è tanto insensata temerità l’esporsi una volta sola a pericolo di dannarsi, e l’esporvisi un sol momento; che sarà il dimorarvi sì lungo tempo, che siano molto più nell’anno quei giorni, ne’ quali siete evidentemente soggetti a un simil pericolo, che non quegli altri, in cui ne siete probabilmente sicuri?

XII. È curiosità cognissima fra’ Cristiani il domandare se nella Chiesa più siano quei che morendo vadano a salvamento, o più quei che trabocchino in perdizione. A me non tocca ora entrare arbitro in sì gran lite; e quando toccasse a me, inclinerei più volentieri alla parte più favorevole, e direi maggior essere fra i Cattolici il numero degli eletti che dei dannati. Ma benché molti concorrano ancor essi in questa opinione, non so però, se pur uno ne rinverrete, o fra’ moderni Teologi o fra gli antichi, il quale vi dica, che la maggior parte dei peccatori abituali si salvi. Oh questo no. San Gregorio (L. 25 in Job., c. 2), sant’Agostino (De ver. et fal. pæn. c. 17), sant’Ambrogio (Adhort. ad pœn.), san Girolamo (Relat. ab Euseh. in Epist. ad Damas.), che sono i quattro principali Dottori di Santa Chiesa, senton tutti concordemente l’opposto, e le parole precise di san Girolamo, le quali a me son parute le più espressive, son le seguenti; Vix de centum millibus hominum , quorum mala fuit semper vita, meretur a Deo habere indulgentiam Unus. Né sia chi se ne stupisca; perché così l’uomo muore generalmente com’è vissuto. Quando si sega un albero, da qual parte viene a cadere? da quella dalla qual pende. Se pende a destra, cade a destra; se pende a sinistra, cade a sinistra. Quei malviventi pendono sempre a sinistra; e poi, segati, pretendono di cadere ancor essi a destra, com’è de’ buoni? Bisognerebbe che si levasse su quel punto a pro loro una grazia tale, che qual furiosissimo vento li rispingesse con impeto prodigioso alla parte opposta.  Ma chi è fatto mai meritevole di tal grazia? Vix de centum millibus unus; di cento mila, a gran fatica, uno solo. Come dunque, sapendo voi di trovarvi in un tale stato, da cui con molto maggior verissimilitudine può inferirsi che voi dobbiate appartenere ai dannati più che agli eletti, non commettete un’insana temerità, persistendovi ancora più lungamente? Quando anche dei peccatori simili a voi avessero i più a salvarsi, e i meno a perire, dovreste nondimeno temere senza intermissione di non essere a sorte fra questi miseri. Or che sarà, mentre i più avranno a perire, e i meno a salvarsi? Arnolfo conte di Fiandra era travagliato una volta da’ dolori acutissimi della pietra. Trattarono i suoi medici e i suoi cerusici di procedere al taglio: ma egli volle vederne prima la prova in qualche altro corpo. Furono però ricercati tutti coloro, i quali nel suo stato pativano del suo male, e ne furon trovati venti. Furono aperti dagli stessi cerusici, furon curati da’ medesimi medici, e tanto felicemente, che di venti morì non altri che un solo. Tornarono però tutti festosi al Conte rincorandolo al taglio: ma egli, quando udì che pur era fallito in uno, in cambio di animarsi, s’impallidì. E chi di voi mi assicura, rispose loro, che a me non tocchi la sorte di questo misero? E così più timido per la morte di uno, che speranzoso per la salute di diciannove, non sofferse mai di commettersi a tal cimento. Ora fingete voi che dei venti infermi tagliati, non dicianove fossero stati i guariti, ed un solo il morto, ma diciannove i morti, e un solo il guarito: che avrebbe allora risposto il prudente Principe? Come avrebbe scacciati lungi da sé quei cerusici arditi, quei medici temerarj? Avrebbe mai sopportato di esporsi al taglio, con la speranza di dover essere egli quell’uno sì fortunato? Ah! Cristiani miei cari, quella temerità, che nella cura del corpo parrebbe sì intollerabile, è quella appunto la quale voi commettete, ma nel governo dell’anima. San Girolamo afferma, che non di venti o di trenta, ma di centomila peccatori abituali appena uno è quel che si salvi: Vix de centum millibus unus. Ed è possibile che voi più siate animosi per la sorte di uno, che timorosi per l’infortunio di novantanovemila novecento novantanove? Dieci erano quei fratelli, i quali andarono a Giuseppe in Egitto per gli alimenti: eppure, quando udirono ch’uno d’essi doveva restare ivi in prigione, fu nei lor cuori universale l’affanno. Dodici quei discepoli, i quali furono convitati da Cristo in Gerusalemme innanzi al morire: eppure, quando ascoltarono ch’uno d’essi doveva convertirsegli in traditore, fu ne’ lor volti comune la pallidezza. Ed il sapere che i tanti più di quegli, che vivono come voi, dovranno dannarsi, non recavi alcun timore? Ecco dunque avverato del peccatore quello che leggesi in Giobbe: Dedit ei Deus locum pœnitentiæ, et ille abutitur eo in superbiam (Job XXIV, 23). Oh che superbia! oh che superbia! sperare di dover esser quell’uno fortunatissimo che si salvi fra tanta strage! quel sì privilegiato! quel sì protetto! quel che un dì possa da tutto il Paradiso venire mostrato a dito come un prodigio! Tamquam qui evaserit, e sono appunto parole dell’Ecclesiastico, tumquam qui evaserit in die belli (Eccli. XL, 7); da che? da un’alta rolla campale universalissima. Lasciate eh’ io corra a’ piedi di questo Cristo, e che qui mi sfoghi.

XIII. Gesù mio caro, e donde mai tanta audacia nei cuori umani? Chi gli ha resi sì stupidi? Chi gli ha fatti sì sconsigliati? Forse è così grande il diletto che hanno in offendervi, che niente ad essi rilevi ogni loro danno, purché disgustino voi? Oh s’io sapessi qual via dovessi almeno io qui praticare in questa Quaresima per umiliarli, per umanarli, per renderli tutti vostri! Volete ch’io li preghi in omni patientia? (2 ad Timoth. IV, 2) li pregherò. Volete ch’io gli ammonisca? gli ammonirò. Volete che io gli atterrisca? gli atterrirò. Volete ch’io severo ancor gli sgridi, et increpem illos dure? (ad Tit. 1,13) gli sgriderò. Son qui per voi. Comandate, ch’io farò tutto: Omnia, quæ præcipies mihi, ego loquar, omnia, omnia (Jer. 1, 17). Non chiedo acclamazioni, non chiedo applausi: chiedo di piacer solo a Voi. Chi sa che questa non abbia ad esser per me la Quaresima ultima di mia vita? Ecco però che con lo ceneri in capo voglio andare altamente per Voi gridando: penitenza, o mio popolo, penitenza. Non più si tardi a smorbar tante oscenità; non più si tardi a sradicare tanti odi; non più si tardi a piangerò amaramente ogni reo costume. Non vuoi tu farlo? A quelli ceneri adunque, a

quelle ceneri appello, che abbiamo in capo. Eccole qua, discopriamole, dimostriamole. Non lo veggio io questa mano egualmente sparse e su le chiome canute, e su i crini biondi? Adesso dunque io mi riporto, esse dicano, esse sentenzino, se vi può essere temerità pari a questa: confessarsi mortale in ogni momento, e pur fidarsi di vivere alcun momento in colpa mortale.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.