DOMENICA DI SESSAGESIMA (2019)

DOMENICA DI SESSAGESIMA [2019]

Incipit 

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

S. PAOLO

“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenta nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo” (2 Cor. XI, 19-33 e XII, 1-9).

S. Paolo aveva sentito dal discepolo Tito, come la sua prima lettera a quei di Corinto aveva prodotto buoni effetti, e come quei Cristiani gli erano affezionati e fedeli. Alcuni, però, erano rimasti ostili a Paolo, a cui muovevano parecchie accuse. Dalla Macedonia, ove s’era incontrato con Tito, l’Apostolo s’affretta a scrivere ai Corinti una seconda lettera, in cui risponde ai suoi detrattori, e difende il proprio operato. Da questa lettera è tolta l’Epistola di quest’oggi, nella quale, descrivendo il proprio ministero apostolico, in opposizione al ministero dei suoi detrattori, S. Paolo scrive una insuperabile pagina biografica, che ci porge occasione di dire due parole sul grande Dottore delle genti. In lui possiamo considerare:

1. Il Giudeo,

2. L’Apostolo,

3. Il Martire.

1.

Gli oppositori di S. Paolo lo dipingono come un nemico dei figli d’Israele, ed egli risponde di non essere meno Ebreo dei suoi accusatori. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io, discendenti d’Abramo? anch’io. Paolo nasce a Tarso, nella Cilicia, da padre ebreo, e precisamente della tribù di Beniamino. Dopo la prima istruzione in patria, va a Gerusalemme dal celebre dottor della legge Gamaliele, il quale, sotto l’atrio del tempio, teneva scuola a numerosi giovani, istruendoli nella legge di Mosè. Paolo primeggia nello studio della legge e nello zelo per la sua osservanza. Zelo che arriva al punto di volere la prigionia, la morte per i seguaci del Nazareno. Quando Stefano cade sotto la furia dei sassi, egli è lì sul posto ad assistere, «approvando l’assassinio di lui» (Act. VII, 60). E quando si scatena la prima persecuzione contro i seguaci di Gesù Cristo, non rimane inerte. Leggiamo che egli « devastava la Chiesa entrando per le case, e, trascinando uomini e donne, li faceva mettere in prigione » (VIII, 3). Nel suo zelo ardente per la tradizione dei padri non si contenta della persecuzione di Gerusalemme. Vuol perseguitare i discepoli del Signore dove li trova, e riesce a ottenere dal principe dei sacerdoti lettere alle Sinagoghe di Damasco « per menar legati a Gerusalemme quanti avesse trovato di quella dottrina, uomini e donne » (Act. IX, 2). Ma qui lo attendeva quel Gesù che egli perseguitava nei suoi discepoli. Mentre egli, ancor spirante minacele e strage, s’avvicina a Damasco, sul mezzo giorno, è investito all’improvviso da una luce del cielo, e, cadendo a terra, sentì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo perché mi perseguiti? ». Egli disse: «Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: « Io sono Gesù che tu perseguiti. È dura cosa per te ricalcitrare contro il pungolo». Ed egli tremante e pieno di stupore domandò: « Signore che vuol che io faccia? » E il Signore a lui: «Alzati, ed entra in città, e lì ti sarà detto quel che dovrai fare» (Att. IX, 3-6). Saulo, divenuto cieco, è guidato dai suoi compagnialla casa di Giuda. Quivi è visitato dal discepolo Anania,miracolosamente avvertito, che gli ridona la vista conl’imposizione delle mani e lo battezza. Ora Paolo non èpiù quello di prima. La grazia ha trasformato il lupo inagnello, il persecutore in difensore, il nemico in soldatofedele. La grazia di Dio ha compiuto uno strepitoso miracoloper nostro ammaestramento. Infatti «per indurci allanostra emendazione quale impulso maggiore avrebbe potutodarci, che quello della conversione d’un persecutore perdarcelo dottore?» (S. Ambrogio, De Pœn. L. 2, 5). «Qualsiasi peccatore — esorta S. Agostino — guardi all’Apostolo Paolo a cui da Dio fu perdonata tanta malizia e tanta crudeltà e non disperi, ma si converta a Dio » (En. 1 in Ps. 70, 1).

2.

Se c’erano di quelli che potevano vantarsi di lavorare per il Vangelo, non potevano vantarsi di lavorare come Paolo, che era più di loro nelle fatiche. Paolo era stato chiamato da Dio a portare il suo nome soprattutto fra le genti. Ad Anania, che è preoccupato per l’ordine ricevuto di recarsi da Saulo in casa di Giuda, «Va pure — dice il Signore — perché costui è uno strumento da me eletto a portare il mio nome ai gentili e ai re e ai figliuoli d’Israele» (Att. IX, 15). Era una missione mondiale, che S. Paolo abbracciò con grande ardore e condusse sino alla fine. Nessun confine può arrestare i suoi passi. Lo troviamo nella Siria, nella Gabazia, nella Panfilia, nella Pisidia, nella Licaonia, nella Cilicia, nella Frigia, nella Macedonia, nella Grecia, nell’Illiria. in Italia, a Roma, da dove si propone di andare in Spagna sino ai confini del mondo romano. Viaggiava, ora da solo, ora con compagni. Sempre era un viaggio faticoso. Se viaggiava per terra c’erano varchi pericolosi da superare, o pianure mai sicure da attraversare. Se viaggiava per mare doveva servirsi di navi o barche non sempre ben solide, sballottate spesso qua e là dalla furia delle onde. Eppure non dice mai: basta! Partito o scacciato da un luogo, ne evangelizza un altro. Il cattivo successo non raffredda il suo zelo, anzi lo rafforza. – Noi ammiriamo il coraggioso che. rotta la cerchia dei nemici, va a piantar la bandiera nel loro campo, e vi raduna attorno i forti che la difendano, e la facciano sventolare. Che dovremmo dire di S. Paolo, che sormonta qualunque ostacolo per portar la luce del Vangelo nei luoghi, ove le tenebre sono più fitte; che innalza l’emblema della croce, ove satana maggiormente domina mediante il culto degli dei falsi e bugiardi? «Da Gerusalemme, per le regioni intorno fino all’Illirico — scrive egli ai Romani — ho pienamente compiuto la predicazione del Vangelo di Cristo: studiandomi, così di predicare questo Vangelo là, dove Cristo non è ancor stato conosciuto» (Rom. XV, 19-20). Quando, poi, il tempo e le circostanze lo permettevano egli ritornava in quei luoghi a compiere la sua visita apostolica, a correggere ove si errava, a incoraggiare dove era subentrato il raffreddamento, a infervorare tutti nell’amore a Gesù Cristo. E quando non poteva recarsi in persona mandava i suoi discepoli; mandava le sue lettere che illuminarono e infiammarono i cori dei fedeli d’allora, e che hanno continuato e continueranno a illuminare e a infiammare i cuori dei fedeli di tutti i secoli. Lo zelo di S. Paolo non si limita alla sollecitudine di tutte le Chiese: si occupa anche dei singoli Cristiani. Ogni giorno è un concorso, una ressa di neofiti, che fa pressione attorno all’Apostolo, e non gli lascia un momento di respiro. Chi ha un dubbio da dilucidare, chi ha un caso da esporre, chi ha una pena da manifestare, chi ha un pericolo che gli sovrasta, ricorre all’Apostolo. Ed egli si fa tutto a tutti. Per tutti ha una risposta, a tutti porta un sollievo, con tutti condivide una lagrima. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole! — dichiara egli stesso — Chi è scandalizzato, senza ch’io non arda? – Dove attingeva S. Paolo l’energia per una attività così sorprendente nell’adempimento del suo apostolato? Il velivolo che s’innalza, sorpassa le vette dei monti, sorvola gli oceani che dividono i continenti, ha una forza che lo spinge, il motore. L’amor di Dio è la gran forza che, a traverso i monti e a traverso i mari, spinge Paolo a portar la conoscenza di Gesù Cristo là, dove non è conosciuto. «L’amor di Cristo ci spinge» (2 Cor. V, 14), dice egli stesso. – Se la grandezza dell’amore si conosce dalla grandezza dei patimenti, bisogna dire che l’amor di Dio ardeva senza misura nel petto di San Paolo, perché senza misura furono i patimenti, che accompagnarono e coronarono il suo apostolato.

3.

S. Paolo non solo poteva dire d’essere di più dei suoi oppositori nelle fatiche: poteva anche aggiungere: di più nelle prigionie; molto di più nelle battiture mi trovai spesso in pericoli di morte. Il Signore aveva detto ad Anania, parlando di Paolo : «Io poi gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome» (Att, IX, 16). E i patimenti accompagnarono costantemente l’apostolato di lui. Ed egli, anziché procurare di schivarli, se ne compiaceva. «Io mi compiaccio — scrive — nelle debolezze, negli obbrobri, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie per il Cristo» (2 Cor. XII, 10). «Egli — come dice il Crisostomo — immolava se stesso ogni giorno» (De Laud. S. Pauli Ap. Hom. 1). La sua vita fu certamente un martirio continuo, se si considerano le penitenze e le mortificazioni volontarie, che sosteneva per essere più somigliante al suo Signore nella passione; se si considerano tutte le prove che Dio gli ha mandato, sia rispetto all’anima, sia rispetto al corpo; se si considerano tutte le insidie e le persecuzioni con cui lo combattevano ebrei e gentili Nel suo apostolato ha da lottare con le onde, con le fiere, contro gli agguati degli assassini. Egli non aspetterà a versare il suo sangue nel giorno bramato, che lo congiungerà con Cristo in cielo. I suoi piedi hanno certamente lasciato impronte di sangue, dorante i suoi viaggi, per le vie lunghe e sassose. Sul suo corpo più d’una volta si sono insanguinati i flagelli e le verghe. E quando il suo sangue sta per esser sparso «come libazione», e si approssima la dipartita, può scrivere dal carcere romano al fedele Timoteo, con tutta confidenza: «Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto al termine della corsa; ho serbato la fede» (2 Tim. IV, 6-7). – Solamente lo scioglimento dell’anima dal corpo potrà troncare la sua vita di martirio, dopo che avrà compiuto con la più grande fedeltà la missione affidatagli. Il 29 Giugno dell’anno 67 dal carcere vien condotto fuor di Roma sulla via ostiense, nel luogo chiamato Acque Salvie, oggi Tre Fontane, e là è decapitato nello stesso giorno che Pietro è crocifisso. Così, ha termine la vita di quest’uomo che «incarcerato sette volte, inseguito, lapidato, fu banditore della fede in oriente e in occidente» (Ep. 1 Clementis ad Cor. 5, 6). S. Gerolamo suggerisce a Eustachio di leggere il brano della seconda lettera ai Corinti, che forma l’epistola di quest’oggi, quando gli sembra grave la tribolazione che deve sopportare (Ep. 22, 40 ad Eust.). Questo brano ricordiamolo spesso anche noi. È un richiamo di tutta la vita di S. Paolo. La vita di quest’uomo, simile al quale né sorse, né sorgerà il secondo nella conquista delle anime, è di grande insegnamento a tutti. Essa insegna ad amar Dio di amore vivissimo: insegna che l’amore non sente peso né fatica. Le tribolazioni, le angustie, le persecuzioni, la fame, i pericoli, la spada, non valgono a spegnerlo e separar l’uomo dal suo Dio. La vita di S. Paolo ci insegna a non respingere l’aiuto del Signore. Quando Dio c’invita, con le sue ispirazioni, ad abbandonare la via nella quale ci siamo messi; a progredire più generosamente nel suo servizio, non induriamo il cuore, ma rispondiamo pronti come S. Paolo: «Signore, che vuoi tu che io faccia? ».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam.Sana contritiónes ejus, quia mota est.Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII:4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

OMELIA II

[A. Carmagnola; Spiegazione dei Vangeli Domenicali – S. E. I. Edit. TORINO, 1921]

SPIEGAZIONE XIIIP

« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza » (Luc. VIII, 4-15).

È certo che una delle armi più poderose che il Cielo abbia dato agli uomini è la parola. Ed invero è la parola che sveglia alla guerra e compone la pace; è la parola che scuote i pigri e disarma i violenti; è la parola che ammansa i furiosi, placa gli adirati, consola gli afflitti, difende e salva gli innocenti. È la parola che sopra tutto fa scomparire dalle menti le tenebre dell’ignoranza e vi diffonde in quella vece la luce della scienza. Ora se tanto può e tanto profitta la parola dell’uomo, che cosa non sarà mai della parola di Dio? Udite come il celebre e grave Tertulliano ne fa risaltare la potenza e l’efficacia. Salomone, egli dice, regnò, ma solamente sulla Giudea da Dan fino a Bersabea: Dario imperò su Babilonia e sul paese dei Parti, ma non altrove; Faraone dominò l’Egitto. Nabucodònosor vide la sua dominazione confinata dalla Giudea e dall’Etiopia: Alessandro Magno non comandò mai all’Asia intera, e ben sovente or l’una or l’altra delle contrade soggiogate scuotevano il suo giogo. Il medesimo è a dire dei Bretoni, de’ Germani, de’ Mauritani. I Romani medesimi s’arrestarono in certi confini. Ma per la potenza della parola di Dio, il nome e il regno di Gesù Cristo si stendono in tutte le regioni del pianeta; tutti i popoli credono in Lui, tutte le nazioni lo servono; Egli regna in ogni luogo, è adorato dappertutto; Egli accoglie ugualmente tutti gli uomini, Egli è re, giudice, maestro e Dio dell’universo. Ed in vero la parola di Dio, dotata di una virtù celeste e soprannaturale, è chiamata nelle sacre Scritture spada a due tagli, che penetra sino alla divisione dei cuori, lucerna ardente che dissipa tutte le tenebre, rugiada che ammollisce, seme che feconda, alito che ravviva, via, verità e vita. Con tutto ciò, o miei cari, questa divina parola, che ha sempre operato ed opera tuttora i più grandi prodigi nella conversione delle anime, alle volte non produce tra taluni de’ suoi uditori alcun salutare effetto. Qual è la ragione di ciò? Nessun’altra che quella delle cattive disposizioni di chi l’ascolta. Ce lo insegna lo stesso divin Maestro con una bella parabola nel Vangelo di questa mattina.

1. Il seminatore, disse Gesù ad una immensa turba che lo ascoltava, il seminatore andò a seminare la sua semenza: e nel seminarla parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Et reliquia…

Voi vedete adunque come Gesù Cristo, avendo Egli stesso spiegata la sua parabola, dopo di aver detto che la semenza gettata dal seminatore è la parola di Dio, soggiunge le tre principali cause, che non le lasciano produrre i suoi frutti. E la prima di esse è la durezza del cuore, raffigurata nella terra vicina alla strada, che è terra battuta, pesta, indurita dai viandanti. Un cuore indurato nel male, ancorché ascolti la parola di Dio, non ne ricava profitto, perché riceve una tal parola superficialmente, senza abbracciarla e compenetrarsene, sicché il demonio senza difficoltà di sorta rende vano per costui quanto di buono ha udito. E che sia così, ce lo insinua il santo re Davide, il quale dopo di aver detto che « la legge del Signore, è legge che converte i cuori: lex Domini immaculata convertens animas; » soggiunge subito: « Sapìentiam præstans parvulis » (Psalm. XVIII, 7); che questa medesima legge cioè dà la sapienza a coloro che per la docilità del loro cuore sono come fanciulli. Senza dubbio può benissimo Iddio, qualora lo voglia, ferire un cuore quanto mai caparbio e rivoltoso, ed impossessarsene siffattamente da muoverlo, anzi trascinarlo, ad abbracciare la verità, ad amarla ed a costantemente seguirla, perché Egli è onnipotente ed alla sua onnipotenza neppur il cuore più ostinato può far fronte. Così appunto avvenne di Saulo. Galoppando verso di Damasco, pieno di furore contro i Cristiani, all’improvviso, come colpito da un fulmine, cade a terra ed ode la voce di Dio, che prima lo rimprovera e poscia lo ammaestra. E a quel miracolo dell’onnipotenza divina, Saulo interamente si muta e da quel punto comincia ad essere S. Paolo. Ma questi, o miei cari, sono portenti, che raramente accadono, e se alcuno li pretendesse, sarebbe un miserabile presuntuoso. Epperò la regola ordinaria si è che nel cuore indurato dal male la divina parola non fa breccia alcuna. Ne abbiamo un esempio nello sciagurato Faraone. A quel tiranno, che nell’Egitto caricava il popolo del Signore d’ogni aggravio, Iddio manda Mosè e gli fa significare da parte sua che lasciasse andare alla solitudine il popolo d’Israele, affinché là gli offrisse dei sacrifici. Chi è, risponde il superbo, chi è questo Signore? Io non lo conosco punto, nè farò ciò che tu dici. Rimanda Iddio Mosè a Faraone, ad annunziargli che è volontà sua assoluta che egli licenzi il popolo; ed a convincerlo che da Dio è questo comando, fa gettare ad Aronne la vérga sul suolo, che tosto mutasi portentosamente in una serpe. Ma l’ostinato non cede ancora. Manda allora Iddio la terza volta Mosè a fargli la stessa ambasciata, e alla negativa pronto succede il castigo, e l’acqua del fiume a un tocco della verga si cangia in sangue; ciò non bastando carica Iddio la mano, e fa sorgere in tutto l’Egitto una sì grande maledizione prima di rane, quindi di insetti, poscia di mosche, che era una disperazione in tutto il regno, né la reggia medesima, né il trono, né la real persona di Faraone era punto da quei lordi e molesti animaluzzi rispettata. Questi flagelli tornati inutili, rimanda Iddio il suo messo al superbo, dicendogli che ormai lasciasse libero Israele. A dir breve, ben dieci volte e più fece parlare il Signore al tiranno, dieci volte lo minacciò, se non cedeva, di terribili castighi, e dieci volte lo percosse con flagelli l’un più dell’altro terribile, fino a fargli morire di peste per tutto il regno gli armenti d’ogni genere, fino a devastar con la grandine e con le cavallette ogni campagna, fino ad impiagare pressocché tutti gli Egiziani di ulceri straziantissime, fino a privarli della luce benefica del sole, e far che tutti gli Egiziani brancolassero entro a tenebre quasi palpabili, fino a introdurre in tutte le case la morte, percuotendone ogni primogenito, ed eccitare così il pianto per ogni angolo di quel regno, non escluso il reale palazzo, fino a strappare i lamenti dalla bocca medesima dell’ostinato e superbo Monarca. Con tutto ciò il Faraone non voleva cedere, e perché! Ce lo dice la Sacra Scrittura: « Induratimi est cor Pharaonis; il cuor di Faraone si era indurato ». (Esod. pass.). A Davide invece, macchiato innanzi a Dio di duplice abbominevole delitto, si presenta per comando dell’Altissimo il profeta Natan e gli racconta una breve parabola, per cui il re avvampando di giusto sdegno contro il supposto truffatore, esce in quelle parole: « Viva Dio, che cotesto iniquo è degno di morte. Ma proprio tu sei quel desso, ripiglia il Profeta, tu es ille vir, ed aggiunte ancor poche parole di giusto rimprovero e di minaccia di meritati castighi, Davide tosto si compunge, si umilia, e pieno di sincero pentimento, esclama: Signore, ho peccato; abbi di me pietà. – Or ecco una delle principali cause per cui la parola di Dio non riesce per tutti di salutare effetto. Vanno taluni ad ascoltarla, sia pure col peccato sull’anima, ma perché non sono ostinati nel male, e non ban fatto proposito di restare nel vizio, perciò non è mai che anche costoro non ne ricavino qualche frutto. Ma invece altri ci vanno, unicamente o perché ci sono costretti o per mera curiosità, ma col cuore deliberato a non farne caso, con volontà ostinata e caparbia, e, quasi direi, con fermo proposito di voler perfidiare nell’empietà e nei vizi, epperò come mai per costoro potrà essere profittevole la parola di Dio? Eh! la grazia del Signore non è una violenza, e quando il cuore non cooperi alcun poco, o almeno almeno non resista ai suoi movimenti, si rimane inefficace. Or dite, o miei cari, non vi sarà tra di voi alcuno, che abbia per la parola di Dio questa sì grave indisposizione? Oh! se mai vi fosse, non voglia più oltre indurare il cuore, ma fin da questo istante ascolti docilmente la divina parola: Hodie si vocem eius audieritis, nolite óbdurare corda vestra(Psalm. XCIV, 8).

2. La seconda indisposizione per la parola di Dio si è la leggerezza di spirito, raffigurata dalla poca terra posta in mezzo alle pietre, la quale fece bensì germogliare la semenza, ma poscia, per mancanza di umore non potendo darle nutrimento, la lasciò tosto seccare. Ed in vero vi hanno di coloro, i quali volentieri ascoltano la parola di Dio e l’ascoltano pur anche con tenerezza di cuore. Sopra di costoro la divina parola, nel momento in cui è predicata, produce delle salutari impressioni, e secondo gli argomenti che tratta, ora si pentono delle loro passate colpe, ora si animano a farne aspra penitenza, ora si decidono ad imitare gli esempi dei Santi e far grandi cose, ed a correre eziandio alla salute delle anime. Ma ohimè! Con tanti bei desideri e propositi, il più delle volte, appena usciti di Chiesa, non pensano quasi più a nulla di quanto hanno udito, e se pur lo ricordano, non appena si trovano in mezzo a qualche pericolo e sono in qualche modo tentati, tornano miseramente a cadere nel peccato come prima. Costoro hanno una grande leggerezza di spirito, sono mutabili, incostanti e mancano perciò dell’umore del vero amor di Dio. Ed oh quanto numerosi pur troppo sono costoro! Quanti possono sono dire come il Profeta: « L’anima mia, o Signore, è divenuta come una terra senz’acqua: anima mea, sicut terra sine acqua tibi(Psalm. CXLII, 6). Ed ecco perché il Divin Redentore diceva che « beati sono coloro, i quali non solo ascoltano la parola di Dio, ma la custodiscono nel loro cuore per praticarla: Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud(Luc. XI, 28) ». Sì, questo sommamente importa, che si conservi nel cuore la parola del Signore, che si è udita in Chiesa, e si metta in pratica. Poiché, per qual altro fine il Signore ha ordinata la predicazione? Nel mandare gli Apostoli in mezzo al mondo a predicare il suo santo Vangelo disse loro: Euntes docete omnes gentes… docentes eos servare omnia, quæcumque mandavi vobis: Andate ed istruite tutte le genti… insegnando loro di osservare tutto quello che io vi ho comandato (Matth. XXVIII, 20). Ecco il gran fine della predicazione cristiana, l’apprendimento della legge di Gesù Cristo per osservarla. A che vale adunque ascoltare la parola di Dio, anche con attenzione e riverenza, se poi non si mette il massimo impegno di ridurla alla pratica, e specialmente allora che assale la tentazione, che occorre un qualche pericolo? Cacciamo adunque, se mai vi fosse, cacciamo dal nostro spirito la leggerezza, ed invece diamo luogo alla riflessione ed alla fermezza di proposito. Quando il buon terreno conserva la semente, che gli fu affidata nei giorni dell’autunno, accade nell’interno del suolo un lavoro che sfugge agli occhi nostri. Il germe si sviluppa, le radici si allungano, poi compare alla fine il gambo. Ma per questo occorre un certo numero di giorni. Cosi, o miei cari, quando avete ricevuto la buona semenza della parola di Dio, deve in voi operarsi il lavoro della riflessione e d’una seria risoluzione. E poi un giorno si vedranno germogliare e comparire al di fuori i buoni proponimenti del vostro cuore, e questo cuore, simile al buon terreno del Vangelo, produrrà dei frutti abbondantissimi di vita eterna.

3. Da ultimo la terza principale indisposizione per la parola di Dio è la sregolata condotta, raffigurata dalle spine, le quali crescendo insieme con la semenza la soffocarono. E la sregolata condotta, secondo l’insegnamento divino, massimamente consiste nelle sollecitudini del mondo, nell’attacco alle ricchezze e nell’amore dei piaceri. Anzi tutto nelle sollecitudini del mondo. Chi sa dire i pensieri, gli affanni, le ansietà continue, in cui vivono taluni per riguardo ai loro studi, o ai loro interessi, od alla loro ambizione? Il loro animo è preoccupato dal mattino alla sera, e persino la notte durante il sonno non sognano altro se non ciò che li agita. Ora come è possibile, che costoro pur ascoltando, o casualmente, o per forza, la parola di Dio ne abbiano poi a far frutto? Ancorché nell’udirla si formassero nei loro cuori dei buoni desideri e propositi, certamente le temporali sollecitudini, a cui sono in preda, tosto soffocherebbero quel tanto di bene spuntato fuori. In secondo luogo le ricchezze. E qui S. Gregorio Magno esclama: Chi mi avrebbe creduto, se da me stesso avessi voluto per le spine intendere le ricchezze di questo mondo, poiché quelle nuocciono al corpo, e queste allettano i sensi? Eppure quanto è giusto questo paragone preso dal Salvatore. Le ricchezze non sono meno sterili delle spine; per se stesse nulla producono per l’eternità. Vi ha una sola maniera di renderle utili, ed è di perderle volontariamente consacrandole alle opere buone, come non v’ha che un solo modo di utilizzare le spine, cioè gettarle al fuoco per riscaldare le membra irrigidite dal freddo della stagione. Ma quanto pochi sono coloro, che gettino così i loro tesori alle fiamme della carità fraterna! Il più delle volte si attaccano a questi beni passeggieri, che per essi divengono vere spine. Quante fatiche per acquistarli, quante cure per conservarli, quante ferite fatte all’anima, che dimentica i veri beni, i beni eterni, quanti amari affanni preparano per l’ora estrema della separazione! E come mai in un cuore tutto pieno dell’amor dei tesori della terra vi sarebbe ancor posto per la parola di Dio? Vi ricordate di quel giovane che chiedeva di porsi alla sequela di Gesù? Il Salvatore gl’impone per condizione rigorosa di vendere il suo avere e darne il prezzo ai poveri; allora solamente potrà ritornare e contare fra i discepoli del divin Maestro. E il giovane se ne partì mesto, perciocché possedeva grandi beni e il suo cuore vi si era fortemente attaccato. La semenza dei buoni desideri e delle sante ispirazioni, fu soffocata dalle spine della ricchezza e dell’attaccamento alle cose di quaggiù. Ecco perché il Salvatore ha scagliato i divini anatemi contro le ricchezze; ecco perché con voce lamentevole egli gemette sulla difficoltà, che incontrano i ricchi nella strada del cielo. Lo stesso infine diciamo pei piaceri: anch’essi soffocano la buona semenza. E come infatti accordare l’amor del piacere con la parola di Dio? Questa non predica che rinunzia e sacrificio; essa esalta la povertà, le lagrime; proclama beati quelli che hanno a subire persecuzioni ed oltraggi; vuole che si elegga sempre l’ultimo posto; fa un rigoroso dovere del perdono delle ingiurie e dell’amor dei nemici. Ora, può egli capire ed accettare questo linguaggio chi è misero schiavo del piacere? Chi brama di vivere secondo l’impeto delle sue malvagie passioni? Chi vuole accontentare le sue perverse inclinazioni? È impossibile. Oh quanto importa adunque, se desideriamo profittare della parola di Dio, quanto importa di scacciare dall’anima nostra l’affetto alle cose miserabili di questo mondo e renderla così una terra buona che produca il centuplo per uno! Quanto importa di formarci un cuor buono e perfetto che ritenga la parola di Dio e la faccia fruttificare mediante la pazienza sia nel sopportare le avversità della vita, sia nel combattere le difficoltà che si incontrano nel fare il bene! Noi felici se useremo questo impegno: dopo di avere ben ascoltata e praticata quaggiù la parola di Dio, avremo alla fine la gran sorte di andarla ad ascoltare per sempre con la massima gioia lassù nel tempio celeste.

Offertorium

Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.