GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di Esercizi spirituali (7)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (7)

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

7. L’Inferno

Meditazione sull’inferno. Anche questa è fondamentale: « Initium sapientiæ timor Domini ». Non illudiamoci mai di non aver bisogno del timor di Dio, per carità! Che questa storta idea non abbia mai a entrare nella nostra testa. C’è una forma di irenismo che non è stata contemplata nella enciclica Humani generis di Pio XII, ed è un irenismo che riguarda l’inferno. È un irenismo per cui qualcuno ha osato dire che l’inferno non è eterno, mentre è di fede che è eterno. – Qualcuno, più recentemente, ha osato dire che c’è per spauracchio, ma che Iddio non ci manda nessuno. Questa non è formalmente un’eresia, ma è una stupidaggine, e comunque è una falsità. Stiamo bene attenti! « Initium sapientiæ timor Domini ». Noi siamo cavallini così bizzarri, tutti, che abbiamo bisogno qualche volta della frusta. E se eliminiamo il timor di Dio da tutte le faccende spirituali e di impostazione della vita nostra riguardo a Dio, noi commettiamo un falso. Tutte le volte che si dà la S. Cresima, il Vescovo continua a chiedere allo Spirito Santo per il cresimando: Spiritum timoris. « Adimple eum Spiritu timoris tui ». Riempilo; non dice : toccalo, sfioralo, ungilo un po’. No, no; riempilo del tuo timore! – Se credessimo di poter fare a meno di volgere lo sguardo a queste verità fondamentali che sono come i confini dell’umana esperienza, anche se soltanto possibili e, Dio ci guardi, non siano mai reali per noi; se si fa a meno di guardare a questi confini, noi veniamo a trovarci nella nostra vita spirituale in una posizione profondamente falsa. Dunque bisogna parlare anche dell’inferno. Naturalmente ne parliamo dal punto di vista proprio di questi Esercizi Spirituali, e cioè: nostra conversatio in cœlis est; ci sforziamo di metterci a guardare le cose di lassù. Però dobbiamo cominciare da un punto. Di lassù che cosa si vede? Ricordatevi bene che i beati non piangono perché c’è l’inferno. La cosa è terribile per noi, perché questo significa che nessuno in cielo piange se uno è andato all’inferno. Se una madre va in cielo e il figlio va all’inferno, la mamma non piangerà ma loderà in eterno Dio perché ha mandato suo figlio all’inferno. È così. Vi ricordate che cosa ho detto, che bisogna rovesciare il punto di vista per capire? Si tratta di uno di quei disegni che lo si vede soltanto da rovescio e che è giusto da rovescio. Di lassù si loda Iddio per la sua giustizia come lo si loda per la sua maestà. Come si loda per la sua eterna sapienza, così si loda in eterno Iddio per la sua giustizia. È terribile pensarlo. Per fortuna che è terribile solo di qua; passati di là, non è più terribile niente. Ma per noi che siamo ancora qui a guardare negli occhi tanti nostri amici e dover dire: questi qui sono sulla strada dell’inferno, è probabile che ci vadano! Se io mi salvo, come spero e voglio, costi quello che costi, anche a farmi strappare un arto dopo l’altro senza anestesia per tutta la vita, questi non saranno mai più con me! Questa è la prima considerazione da farsi. Ditemi voi se non mette ali ai piedi degli Apostoli! Si comprende perché talvolta è dato incontrare delle anime che si offrono vittime perché altri si salvino. Io ricordo di averne incontrate. E quando sono stato ben sicuro della serietà, non ho mai osato dire di no. Purché altri si salvino! Questa dunque è la prima considerazione sull’inferno visto di lassù. E di lassù si vede la giustizia e, nella giustizia, le perfezioni di Dio, perché nell’inferno si vede il corrispettivo della libertà umana. La libertà umana in una creatura non sarebbe possibile senza di quello, dico in una forma ontologicamente e giuridicamente completa. Una delle ragioni per cui Iddio ha creato l’inferno è perché fosse pienamente completo l’atto libero delle creature razionali da lui create. La giustizia, la perfetta giustizia. Perché l’inferno non è altro che la conseguenza di premesse chiare. Che cos’è il peccato? Il peccato è la trasgressione della legge di Dio. Formalmente ogni peccato che cosa contiene? Qualunque esso sia, contiene questa dichiarazione fatta a Dio: tra Dio e non Dio, scelgo non Dio. Perché il ripudio della legge del Signore significa ripudiare il Signore: Fra te e quello che non è te, io scelgo quello che non è te. Ora se questa è la posizione dell’uomo liberamente scelta e liberamente non più scossa, nel momento in cui cessa per lui la mutevolezza e la capacità di porre atti meritori coi quali cambiare la sua sorte, la quale pertanto naturalmente si consolida eterna, Dio rispetta l’atto libero dell’uomo. L’inferno non è altro che il rispetto che Iddio ha per la libertà umana. C’è un punto: che quando si muore si passa dallo straordinario all’ordinario. Ve l’ho già detto che si rovescia tutto: non è qui l’ordinario, è là; qui è lo straordinario; là è il comune, là è l’ordinario. È ordinario che l’uomo, creato in una situazione, in quella permanga. La mutevolezza, quella propria del nostro cosmo, è un difetto. Là non si muta più, perché si è in uno stato perfetto, certo nel modo congruo alla nostra natura. Noi che siamo abituati a vivere nella mutevolezza, a concepire tutte le cose secondo mutazione, troviamo difficoltà a metterci così, con la testa in giù e le gambe in su; cioè troviamo difficoltà a concepire che quello è l’ordinario, quello è il comune. D’altra parte gli uomini hanno tutta la vita per sapere che quello è l’ordinario e questo è lo straordinario, e per prepararvisi. Di lassù si vede questo: la giustizia di Dio. Giustizia che, per eterne ragioni, si vede come sia la prima documentazione della misericordia. Perché, ve l’ho detto, tutto questo è un atto di rispetto da parte di Dio verso la sua creatura. Hai scelto un’altra cosa: ti rispetto. Difatti che cos’è l’inferno, la cosiddetta pena del danno che è l’essenza dell’inferno? È questo: non essere con Dio, cioè quello che l’uomo ha scelto, nient’altro. Essere senza Dio, l’eterna ragione del vero, dell’essere, del bello, di qualunque realtà. Se noi pensassimo che cosa vuol dire non essere con Dio! Di qua, dato lo stato crepuscolare, data la ragione con la quale noi conosciamo, poiché siamo coartati, siamo in una cantina, non vediamo bene cosa voglia dire non essere con Dio. Ma quando tutte queste cose cadranno, quando noi saremo nell’infinita solitudine, soli, davanti alla divina Realtà, vista non con occhi carnei ma con penetrazione acutissima dell’intelligenza, allora vedremo che l’unica realtà è quella: e che ogni realtà vi partecipa in quanto riceve da quella. E se quella ci viene a mancare? Allora vedremo che ogni cosa è buona in quanto partecipa della divina bontà; e pertanto il criterio per cui ogni cosa è buona è la partecipazione della divina bontà. Allora vedremo che la ragione suprema d’ogni verità e della sua luce e del suo gaudio e della sua vitalità e di quello che da essa segue è la partecipazione della divina ed eterna Verità. E se questo supremo criterio, che è Dio stesso, ci viene a mancare, che cosa rimane? Poi c’è anche la pena del senso, che è il corrispettivo di penalità dato da creature dolorifiche, corrispettivo all’uso mal fatto di qualche creatura di questo mondo. Perché chi ha usato male sulla terra dei beni suoi, in qualunque rapporto, a qualunque livello, è giusto che abbia contro di sé la rivolta di qualche cosa di creato e di dolorifero, questo elemento creato e dolorifero che noi chiamiamo fuoco, tanto perché è creato, è materiale, è dolorifico; che chiamiamo fuoco tanto per prendere un’immagine, un termine della realtà più spaventevole che abbiamo nella nostra umana esperienza. – La teologia, nel trattato De Deo uno, tocca il suo vertice massimo, per la prova alla quale sottopone l’umana intelligenza quando tratta la questione della prescienza di Dio a proposito dei dannati. Ma è una questione solubile, perfettamente; quanto a togliere la apparente contraddizione, che spesso viene prospettata, essa non è neppuretrattata nella maggior parte dei testi di teologia. Raramente si trova questa questione trattata. È solubile, ma è difficilissima. E la ragione è questa: che noi siamo a rovescio. Ma di lassù si vede diritto, si vede chiaro. Anche a rovescio però, messi a rovescio come siamo, con un po’ di sforzo ci si arriva a vedere e si vede molto più di quel che non si creda. Si vede tanto da tacitare le insorgenze logiche del nostro intelletto. Ma mi basta aver detto questo: di lassù si vede la giustizia, l’eterna giustizia; la si canta, e si vede che l’eterna giustizia è tutta in funzione della misericordia. Certo, ve ne ho dato soltanto qualche accenno; il trattato dell’inferno non viene capito affatto se manca in filosofia il trattato De Deo uno fatto mirabilmente. – Qualcuno ha scritto un libro in cui ha detto una grande sciocchezza a proposito dell’inferno. Ma l’inferno c’è ed è eterno. Gesù Cristo si è impegnato nel Vangelo: « Ite, maledicti, in ignem æternum ». Guardate che c’è chi va all’inferno. Non crediate che Iddio faccia come i contadini, quando piantano qualche ramo vestito di stracci nei campi per far paura alle galline o agli uccelli. Non crediate che l’inferno non sia altro che una formido in cocumerario, uno spaventapasseri messo lì, nel solaio dei cocomeri. No, all’inferno ci si va. Perché non sarebbe ammissibile che Cristo l’avesse annunziato con tanta solennità e l’avesse annunziato come qualche cosa che verrà detta all’ultimo giudizio, se non ci fosse. Leggete il cap. XXV di San Matteo: Gesù ha già detto che dirà questo: ite, maledicti, in ignem æternum; dunque se dirà questo, vuol dire che della gente vi andrà. Beh, sentite, mettetevi un po’ al posto di Dio: ora, senza dire una bestemmia, non ce li mandereste voi? Io sarò cattivo, ma quante volte mi viene la tentazione di mandarceli, tanto si diportano male! Ma Dio è infinitamente più buono di noi, ed è per questo che ha messo tre vie per andare in paradiso: la prima è quella della pazzia, e ci passano i più; la seconda è quella dell’ignoranza, e ci passano in buon numero; la terza è quella della santità, e ci passano i meno. E le ha create apposta per poterne salvare in numero maggiore. Perché certa gente, se non si potesse dire che sono matti, come farebbero a salvarsi? Invece, per grazia di Dio, si può dire: Ma, dovevano esser matti! E quindi, forse, c’è ancora da sperare per loro. Son passati per quella strada lì. Dio è infinitamente buono e infinitamente misericordioso; ma noi non possiamo giocare a rimpiattino con la divina misericordia. Certo, se Dio facesse giudicare il genere umano da qualche uomo, povero genere umano! Dove se ne andrebbe? È meglio che lo giudichi Iddio. Ma all’inferno qualcheduno ci va. Ecco, per dire questo, mi riferisco solo al Vangelo, S. Matteo cap. XXV. Naturalmente se volessi andare a prendere, e accettassi tutte per buone le visioni di santi che hanno visto, che sono andati un po’ di là e sono tornati di qua, e hanno avuto visioni e rivelazioni, ci sarebbe da sentirsi accapponare la pelle. Se è vero quel che dice S. Teresa, sarebbe il caso di non dormire più per dieci giorni dai brividi. Se si vanno a leggere le rivelazioni di S. Gertrude, di S. Brigida di Svezia… Queste non sono verità di fede; ma l’inferno c’è, e ci si va. C’è questo anche: che mentre per andare in Paradiso bisogna crederci, per andare all’inferno non occorre affatto crederci. Anzi, se non ci si crede, ci si va meglio. Ma non basta. Di lassù si vedono alcune altre cose. Accade come andando in aeroplano. Dall’aereo si capisce l’importanza, per esempio, delle grandi valli, dei sistemi oro-idrografici. La vista dall’aeroplano è una cosa magnifica: si vede la terra come una carta geografica. Non c’è nessuna cosa che dia la visione della conformazione terrestre, di colpo, come la vista dall’aeroplano. Ebbene, di lassù si vede allora come la grande valle di questa carta topografica che si chiama inferno che sta sotto di noi, è la capacità decisoria della volontà umana. Perché chi è che deciderà di andare all’inferno? L’uomo; lo deciderà con un sì o con un no. L’enorme sovrana capacità decisoria di questa volontà! Gli atti coi quali noi diciamo sì o no si rincorrono frettolosamente e spesso leggermente. Non è detto che su tutte le cose si possano fare delle considerazioni profonde, d’accordo. Ma bisognerebbe pure avere la serietà e la robustezza spirituale di rendersi conto di che cosa valga, in certe questioni, dire di sì e dire di no. – Di lassù si vede un’altra cosa, esattamente ancora come a guardare dall’aeroplano: le proporzioni, le distanze dei paesi, la loro confluenza, la loro organicità geografica, la loro frammentarietà, la possibilità delle comunicazioni: come si vedono bene dall’alto! Come si capiscono, dall’alto, le grandi linee strategiche attraverso le quali sono sempre passati gli eserciti; come si vedono altre linee sulle quali non sono mai passati e mai passeranno gli eserciti! Come si vede la logica che talvolta non si riesce a capire nemmeno dalla storia! La stessa cosa la si vede guardando l’inferno di là, dalla nostra conversatio in caelis. Perché di là si vede come viene a organizzarsi tutta la vita in rapporto all’eterno destino. Voglio dire questo: molti Cristiani si credono che la questione della salvezza eterna sia una questione meccanica e che comunque è questione di riuscire a salvarsi un quarto d’ora prima di morire, per sistemare in quel quarto d’ora tutto, con tutte le assoluzioni, indulgenze plenarie, benedizioni papali ed episcopali, e andarsene così al Creatore indenni, dopo avere buggerato il Creatore per tutta la vita e ridendogli ancora sulla faccia quando gli si arriva davanti. Ma non è così. In teologia, nel trattato De gratia actuali c’è questa proposizione che vi prego di tenere ben presente: « La grazia della perseveranza finale è un dono particolare di Dio ». Che cosa vuol dire? Che non fa parte della grazia ordinaria. Sapete che la perseveranza finale consiste nella coincidenza dello stato di grazia santificante col momento della morte; vuol dire la salvezza eterna. E questa è non una grazia ordinaria, ma un dono speciale di Dio. E in tutti i libri di teologia ci si vede aggiunto: « La perseveranza finale è una grazia che bisogna chiedere e procurarsi per tutta la vita ». Il Concilio Tridentino nella sessione VI ha detto: « Si quis dixerit se esse certe et infallibiliter securus, absque divina revelatione, de propria æterna salute, anathema sit ». Se uno osasse dire e credere di essere infallibilmente certo della propria eterna salute, a meno che non abbia avuto una rivelazione divina, sia anatema. E questa verità che impegna, questa verità la si capisce di lassù. È una cosa molto importante: noi non possiamo lasciar correre e fare per tutta la vita quello che ci piace, perché la grazia della perseveranza finale Dio la dà, ordinariamente, tenendo conto di quello che si è fatto nella vita. Perciò hanno detto gli antichi molto giustamente: « Talis vita, finis ita ». Di lassù, a proposito dell’inferno, si vede questo: che per prepararci l’ultimo buon quarto d’ora bisogna in qualche modo pensarci più o meno tutta la vita; e se ci se ne accorge un po’ tardi, raddoppiare la velocità per redimere il tempo perduto: « ut tempus instanter operando redimentes », come prega la Chiesa genovese nel giorno del suo grande Vescovo, S. Siro, affinché, redimendo il tempo perduto con l’istanza del nuovo lavoro e della nuova azione, « ad æternam gloriam pervenire mereamur », possiamo arrivare all’eterna gloria. E finalmente cerchiamo un po’ al fondo di questo dramma, visto di lassù. Qual è stato il dramma di Adamo? Il dramma di Adamo, come è narrato al cap. III del Genesi, è tutto qui: Dio dice ad Adamo (io parafraso ma la parafrasi è esplicativa): « Adamo, tu devi accettare che Io sono Dio; lo devi accettare e devi respingere ciò che non è Dio. Siccome sei fatto anche di corpo e non solo d’anima, e poi sei ai primi passi della tua esperienza umana, ti ci vuole qualche cosa di oggettivo, di concreto, di ridotto, di piccolo, come punto di riferimento. Vedi, il punto di riferimento per te, che non hai fomite di passioni, il punto di riferimento per far vedere che accetti o eventualmente rifiuti, guarda, è questo: rispetta questo albero, questo magnifico albero chiamato della scienza del bene e del male. Questo è il segno: se tu rispetti questo, è segno che accetti; se tu non lo rispetti, o se tu non accetti, violerai questo albero ». L’albero in sé stesso contava poco. Era forse un albero più bello degli altri? Forse più attraente degli altri? Forse con frutti più gustosi degli altri? Era un albero in una cornice splendida, forse unica; ma era un albero. Eva ha preso il frutto e l’ha dato al marito: e tutt’e due ne hanno mangiato. Che cosa hanno fatto? Voi avete inteso: hanno scelto « non Dio ». Ecco, èil peccato formale della disobbedienza, che però era in funzione di una indicazione: noi scegliamo non Dio. Perché? Avevano udito dal tentatore la insufflazione maligna: « Se voi non osservate la sua legge e vi sottraete alla sua legge, diventate simili a lui ». L’errore nella testa di Adamo ha causato la sua caduta. L’errore ha causato la illusione; la illusione ha causato la falsità, la falsità è stata la ragione, la orpellatura per cui Adamo è caduto. Poi sarebbe stato sempre così. L’origine del peccato è sempre un’idea sbagliata, un’ipotesi sbagliata: in questo momento io godo di più; scelgo il godimento di questo momento e lascio da parte Iddio. Disobbedienza. È la disobbedienza che ha lastricato l’inferno. Se noi l’inferno lo guarderemo dall’alto, sapremo che alla radice di tutto quello che ha determinato la dannazione eterna delle anime è sempre stato il fatto che hanno disobbedito a Dio. La meditazione sull’inferno arriva a mettere in chiaro il carattere fondamentale della virtù dell’obbedienza. Ogni peccato si riduce sempre, pur avendo una sua definizione teologica e morale specifica, alla disobbedienza, perché è di natura sua trasgressione, quindi non obbedienza alla legge di Dio. La sostanza dell’inferno è fatta di disobbedienza. E allora, per la virtù dei contrapposti, ecco che cosa si vede di lassù: a guardare panoramicamente l’inferno, si vede che il contrapposto dell’inferno è l’obbedienza e che la virtù che assicura tutte le altre è l’obbedienza: l’obbedienza a Dio e l’obbedienza a tutte le cose che hanno diritto di darci una norma, trasmetterci una regola, una volontà, una indicazione, un consiglio in nome e per un’autorità che viene, anche indirettamente, da Dio. – Il concetto dell’inferno che, portato al midollo, si riduce a questo, è un monumento, dalla parte del timore bene inteso, alla virtù dell’obbedienza. Bisogna piegare la testa a Dio. Ma a Dio la testa non la si piega se non la si piega a tutto ciò che Dio ha costituito portatore della sua volontà. Concludiamo: all’inferno non ci vogliamo andare, vero? Bene, siccome la cosa che al fondo di tutto porta all’inferno è la disobbedienza, ricordiamoci che la cosa che al fondo di tutto ci porterà in Paradiso sarà l’obbedienza. Nostro Signore nel discorso della montagna ci ha avvertito che non si ama Iddio se non facendo ciò che vuole lui: « Non qui dicit Domine, Domine, sed qui facit voluntatem Patris qui in cœlis est ». Ci ha avvertito che l’amore di Dio, concreto, sta nell’accettare lui e tutto quello che lui porta con sé e tutto quello che impone, detta, istilla, indica alla nostra vita. Accettazione intellettuale della verità, anzitutto. E credete che l’intelligenza non debba obbedire? Vorreste lasciar fuori la più importante? Ma è quella che deve obbedire per la prima. È l’obbedienza intellettuale, la prima; l’altra viene dopo. L’obbedienza intellettuale a Dio, alla verità; la ricerca della verità. Credetemi: ciò che sa di satanico, di diabolico, di demoniaco, ciò che fa tremare in tutti i momenti sulla sorte delle anime a noi affidate è questo: che per loro la verità non vale più. Dire bianco, dire nero, sgualcire qualche cosa della verità, della rivelazione divina, dell’Evangelo; interpretare a modo proprio instaurando un’altra volta la eresia protestante del libero esame. È tutto questo peccato contro la verità che fa capire la mancanza assoluta della prima e sostanziale obbedienza a Dio, che è quella dell’intelligenza. – La disobbedienza di Adamo ci ha resi tutti miseri; l’obbedienza di Gesù Cristo, che è andato in Croce, ci ha fatti salvi. E S. Paolo ha scritto di Gesù Cristo, nella Lettera agli Ebrei: « In capite libri scriptum est de me ut facerem, Deus, voluntatem tuam ». In testa alla mia vita sta scritto : Che io faccia, Padre, la tua volontà. E un giorno, agli Apostoli che tornavano dal cercar cibo — e per conto loro si erano già messi al sicuro — e si meravigliavano che Gesù non mangiasse, perché aveva da curare un’anima, rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato ». Sicché, concluderà S. Paolo, « sicut per inobœdientiam unius hominis peccatores constituti sunt multi… », come per la disobbedienza di uno si sono perduti molti peccatori, così per la obbedienza di uno solo « per unius obœditionem iusti constituentur multi… », molti sono ridiventati giusti. La meditazione dell’inferno arriva a questo punto. Perché non basta dire: l’inferno c’è; l’inferno è questo, è quest’altro, è eterno. Vediamo dove si riduce; vediamo il filone della strada che vi conduce, e per vedere il filone della strada ricominciamo dal primo uomo che si è esposto all’ipotesi dell’inferno, Adamo, che ha disobbedito. Cristo, come si è qualificato? Un obbediente. L’obbedienza è l’accettazione di Dio. La disobbedienza finisce sempre con l’essere, se non formalmente almeno virtualmente, il rinnegamento di Dio. L’armonia è completa. I ritmi si ripetono; pare che scandiscano in una forma drammatica la nostra vita, i nostri destini, il domani, il mistero che sta al di là delle cose che noi vediamo e tocchiamo. Questi ritmi sono però costitutivi nella robustezza che nel timor di Dio pongono la prima base della saggezza e dell’amore.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.