CONOSCERE SAN PAOLO (32)

LIBRO III.

La persona del Redentore (1)

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO I.

Il Cristo preesistente.

1. – IL CRISTO PRIMA DEI SECOLI. – 2. PAOLO E IL CRISTO. — 3. PREESISTENZA ETERNA DEL CRISTO.

1. Gli storici moderni del dogma si mostrano talora sorpresi nell’intendere san Paolo, dopo la cristologia più semplice degli altri Apostoli, attribuire al Salvatore una preesistenza celeste prima della sua nascita terrena e persino una partecipazione alla creazione del mondo ». Il loro stupore può dipendere da una conoscenza imperfetta o da un apprezzamento inesatto della teologia dei primi Apostoli, ma il fatto stesso non resta meno sconcertante per chi vuole ridurre la grandezza del Cristo alle dimensioni umane. Ed è più sconcertante ancora, se si tiene conto di queste due cose: che san Paolo è stato il primo a fissare negli scritti la credenza cristiana, e che la sua cristologia non fu mai oggetto di una controversia. Questo fatto è innegabile ed è riconosciuto lealmente dai critici meno propensi a difendere le posizioni tradizionali: è questo appunto che rende tanto importante l’insegnamento di san Paolo intorno alla persona del Cristo. – La maniera con cui il fariseo convertito parla di Gesù di Nazaret, di quel novatore religioso morto poc’anzi sopra un patibolo, del quale ancora ieri egli si faceva un vanto e un dovere di distruggere l’opera e di scancellarne il nome, è un fenomeno strano che sembra contradire tutte le leggi della psicologia e tutte le analogie della storia. Paolo, carattere fiero, così cosciente della sua dignità, così sdegnoso degli idoli della carne e del sangue, è in estasi e in adorazione davanti al suo Maestro. Egli vuol essere il suo servo, il suo schiavo, anzi lo schiavo dei suoi fratelli, per amore di lui (Rom. I, 1). Egli non tollera che il Cristo sia messo alla pari con nessun essere creato: più alto che i cieli, più Tasto che l’universo, più potente che la morte, unico vincitore del peccato, unico mediatore della grazia, unico Redentore del genere umano, il Cristo ecclissa tutto col suo splendore, riempie tutto con la sua pienezza, è anteriore ai secoli (Col. I, 18-20; Ephes. I, 21-23). Perciò ogni ginocchio si deve piegare, davanti a Lui, in cielo, in terra e nell’inferno, perché i più perfetti spiriti celesti riconoscono in Lui il loro Capo, il loro Creatore, il loro Dio (Fil. II, 9-11; Col. I, 16-17; Rom. IX, 5Tit. II, 13). Questo è il quadro che l’Apostolo, al domani della passione, fa di Gesù ai testimoni della sua vita e della sua morte, ai suoi persecutori e ai suoi carnefici. – Che proporzioni gigantesche prende improvvisamente nella mente di Saulo l’immagine del Crocifisso! La trascendenza di questa immagine è tale, che non può più crescere: all’infinito non si può più aggiungere nulla. Tutti i nostri sforzi per seguirne lo sviluppo graduale sono vani: dal primo istante della sua conversione, per lui il Cristo è l’incomparabile, l’unico: nulla è superiore a Lui, nulla è uguale a Lui. E tutto questo non è a scapito della natura umana: Gesù Cristo non è un personaggio immaginario, ma è un essere reale, sempre vivo nella memoria dei suoi discepoli che ripetono le sue parole e si modellano sopra le sue azioni. Quando Saulo divenne Cristiano, erano trascorsi sei anni, o al massimo sette, dalla passione; quando inaugurò la sua predicazione pubblica, era trascorsa appena una decina d’anni; egli scrisse le sue prime lettere ventidue anni appena dopo quella data memoranda. Gesù Cristo, più vecchio di lui di qualche anno appena, era per lui, in tutta la forza del termine, un contemporaneo che avrebbe potuto incontrare nelle viuzze di Gerusalemme o sotto i portici del Tempio; era anche un suo compatriota, se è vero, come sostiene san Gerolamo, che la famiglia di Saulo era di origine galilea. E come mai egli è diventato il suo Dio? Né il tempo trascorso, né l’ambiente della Palestina, né le circostanze della morte di Gesù non favorivano un’apoteosi; e la serietà del monoteismo ebraico non si prestava affatto a quelle ridicole deificazioni che mettevano un Claudio o un Tiberio nel numero degli immortali, dedicando a loro templi, sacerdoti e sacrifici, uguagliandoli alle divinità dell’Olimpo che non erano in realtà né migliori né peggiori. Quando l’adulazione dei Romani degenerati, emula dell’adulazione orientale, decretò gli onori divini agl’Imperatori, i quali li accettarono prima con qualche ritegno e poi senza nessun pudore, gli Ebrei furono irreducibilmente refrattari a quell’empio culto. – L’adorazione di un uomo, fosse pure re o imperatore, era per loro l’abbominazione della desolazione; e bisognò pure cedere alla loro invincibile ripugnanza e dispensarli ufficialmente da un atto che ai loro occhi era più orribile che la morte. I Cristiani non si mostrarono meno intransigenti e molte volte sigillarono col loro sangue il rifiuto di dare ad un uomo i titoli e gli onori riservati a Dio. I pagani non capivano un bel nulla dei loro scrupoli, ma non riuscivano a trionfarne. Per i Cristiani più ancora che per gli Ebrei, il culto di Cesare fu sempre l’adorazione della Bestia, e il tempio degli Augusti il trono di satana. Quando san Paolo protesta che per noi vi è « un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo », questa professione di fede risuona come il grido sdegnoso della coscienza cristiana contro la suprema aberrazione del politeismo morente. In quel tempo tutti i titoli divini, « Dio, Figlio di Dio, Dio da Dio, Signore o Signore Dio, Salvatore o Dio Salvatore », erano stati profanati dall’adulazione dei popoli e dall’incoscienza del paganesimo; ma Paolo, applicando questi titoli al Cristo preesistente, conserva a loro il valore che hanno nella Bibbia dove indicano Jehovah.

2 . La preesistenza del Figlio di Dio risulta evidentemente da quanto dovremo dire intorno alla sua natura divina, alle sue relazioni eterne in seno a Dio, al suo compito attivo nella creazione del mondo; ma essa si dimostra anche direttamente con tre serie di testimonianze. Ad un certo punto della durata del tempo, il Cristo « venne in questo mondo (I Tom. I, 15); apparve nella carne (I Tim. III, 16); si fece povero mentre era ricco, per arricchire noi con l)a sua povertà (II Cor. VIII, 9) ». Ora è chiaro che lo scambio delle ricchezze del cielo con la povertà della terra, suppone necessariamente un modo di esistenza anteriore all’incarnazione. I testi poi come questi: « Dio, avendo mandato il suo proprio Figlio nella somiglianza della carne del peccato e per il peccato, condannò il peccato nella carne (Rom. VIII, 3) », oppure anche: « Dio mandò suo Figlio, nato da una donna, messo sotto la Legge, per procurare a noi la filiazione adottiva (Gal. IV. 4) », non hanno nulla di comune con la frase biblica « Dio mandò a loro un giudice o un salvatore »; poiché se la missione del Figlio coincide con la sua origine terrestre, la sua esistenza deve assolutamente precedere, perché è la somiglianza della carne del peccato, ossia la natura umana, il termine della sua missione. – Il Cristo è il « primogenito di ogni creatura (Col. I, 15) ». È assolutamente impossibile che questa espressione voglia dire « primogenito tra le creature »; essa dunque significa « nato prima di ogni creatura »: e questo implica anzitutto che il Cristo non si deve mettere nella categoria degli esseri creati, e in secondo luogo, che possiede un modo di esistenza superiore e anteriore ad ogni essere creato. Affinché non rimanga nessun equivoco, Paolo si commenta da se stesso dicendo che il Cristo « è prima di tutte le cose »; e ne dà questa ragione, che « tutto fu creato per mezzo di Lui e per Lui (Col. I, 16) ». Siccome prima di operare bisogna essere, la conseguenza è evidente. Il Cristo non solamente esisteva, ma « sussisteva sotto forma di Dio (Fil. II, 6) ». La forma di Dio non si può né acquistare né perdere; essa non può essere soppiantata dalla forma di schiavo che aggiunse a se stessa nel tempo: dove si trova, si trova da tutta l’eternità. Perciò « Gesù Cristo era ieri, è oggi e sarà nei secoli (Ebr. XIII, 8) dei secoli. Come l’autore dell’Epistola agli Ebrei, san Paolo suole distinguere, nella vita del Cristo, tre stati o tre fasi: la preesistenza eterna del Figlio presso il Padre e quella che si potrebbe chiamare la sua preistoria, l’apparizione storica sopra la terra nella pienezza dei tempi, l’esaltazione gloriosa del Cristo risuscitato. È evidente che questi tre stati i quali si succedono senza cambiamento di soggetto, appartengono realmente alla stessa persona. L’ipotesi recente che attribuisce la preesistenza all’anima del Cristo, non ha bisogno di essere confutata: la preesistenza delle anime fu sempre antipatica al pensiero ebraico; non se ne trova nessuna traccia nel Nuovo Testamento; e perché mai san Paolo, in opposizione a tutti gli altri, farebbe al Cristo l’onore di una preesistenza la quale, in questo sistema, sarebbe comune a tutti gli uomini? Alcuni vogliono che l’Apostolo si sia ispirato da Filone, e che il suo Cristo non sia altro, in sostanza, che l’uomo tipo del filosofo alessandrino (Hingelfeld): ma dal momento che Paolo ignora il Platone ellenista, e in ogni caso non prende nulla da lui, dal momento che la sua teologia realista è agli antipodi dell’idealismo teosofico di Filone, questa nuova opinione manca totalmente di base e non regge alla critica. Altri critici ammettono che san Paolo abbia veramente insegnato la preesistenza reale del Cristo, e che è impossibile negarla senza partito preso e senza prevenzioni dommatiche; ma del suo Cristo preesistente si fanno la più strana idea. Il Cristo sarebbe preesistito non come Dio, ma come uomo: uomo vero che già possedeva un corpo luminoso, etereo, immateriale; uomo tipo, immagine divina ed esemplare divino, sul modello del quale saranno formati tutti gli altri; uomo celeste, venuto dal cielo e destinato a ritornare in cielo dopo una fase di esistenza terrestre; uomo spirituale, animato dallo spirito di Dio e che è spirito egli medesimo (Holtzman). Si assicura che san Paolo prende la sua teoria del Cristo preesistente dai sogni del giudaismo palestinese intorno all’esistenza del Messia; ma questa concezione rabbinica è troppo tardiva e poi non si può intendere se non di una preesistenza ideale. Ora i principali seguaci del sistema che stiamo esponendo, sono obbligati a riconoscere che il Cristo preesistente di san Paolo è davvero una realtà. Come mai non sarebbe un essere reale colui che crea e conserva il mondo, che è mandato da Dio, che cambia gli splendori del cielo con le umiliazioni della terra? Ma se Gesù Cristo era uomo prima di nascere, bisogna certamente metterlo nella categoria delle creature, poiché Dio solo è increato; e allora come può san Paolo affermare che ogni essere creato, senza alcuna eccezione, in cielo e in terra, è stato creato per mezzo di Lui e per Lui! Se Gesù Cristo era uomo prima di nascere, come si spiega che diventi uomo col nascere! E se Gesù nel risuscitare ritorna al suo stato di prima, a quello cioè che aveva prima di incarnarsi che cosa significa l a risurrezione! Ecco quanto gli autori di questa strana invenzione non hanno mai provato di spiegarci, ed è appunto quello che imprime al loro sistema, per quanto vogliano avvolgerlo nelle tenebre, il carattere dell’assurdo.

II. – GESÙ CRISTO SIGNORE.

1. NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO. — 2. SIGNORE, NOME PROPRIO DI DIO. — 3. PREGHIERE E DOSSOLOGIE IN ONORE DEL SIGNORE GESÙ.

1. Il compendio più breve della cristologia sta in questa formula: « Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio (I Cor. I, 9)». Benché tutti gli elementi ne siano anteriori e risalgano alla predicazione apostolica, essa si trova così stereotipata soltanto in san Paolo il quale le dà un valore e una pienezza di significato della più alta importanza per la storia della teologia. – Nei Sinottici, la questione sta nel conoscere se Gesù è o non è il Cristo, cioè il Messia, il discendente e l’antitipo di Davide, l’attesa e la speranza d’Israele. Erode s’informa del luogo in cui deve nascere, Giovanni Battista lo mostra a dito, i demoniaci lo proclamano, Pietro lo confessa, Gesù stesso si rivendica altamente questo titolo che riassume la sua missione, i settari giudei glielo danno ironicamente (Matt. II, 4). Ma mentre i Sinottici ci fanno assistere, per così dire, a questo lavoro di riconoscimento graduale e conservano sempre il sentimento assai preciso del vincolo che unisce la qualità di Messia al compimento delle promesse, per san Paolo l’identificazione di Gesù col Cristo è un fatto acquisito e indiscutibile. Il Cristo ha visibilmente sconfitti tutti gli attacchi giudaici il cui ricordo è quasi scancellato: è il nome proprio del Salvatore e può, come nome proprio, fare a meno dell’articolo. Il Cristo muore per farci trionfare della morte, risuscita per incorporarci alla sua vita, regna glorioso per associarci alla sua gloria. La sua opera è sopramondana, e la scena in cui si consuma, è sopraterrena. Dall’unione dei cristiani col Cristo risulta un essere nuovo, il Cristo mistico, nel quale non vi è più distinzione tra Ebreo e Gentile, tra Greco e barbaro, tra schiavo e libero, perché tutti sono uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 28) ». Quando si pensa che Paolo riflette certamente il pensiero cristiano del suo tempo, e che le sue Epistole precedettero la redazione dei Vangeli, non si può fare a meno di ammirare lo sforzo di ricostruzione storica al quale si dovettero sottoporre gli evangelisti per non proiettare sopra la vita e le parole di Gesù le idee e i sentimenti del loro ambiente.

2. È cosa nota che questa parola « Signore » è, nei Settanta, la traduzione abituale del nome ineffabile, del tetragramma sacro. Esso si poteva dare al Messia, perché era Re teocratico rappresentante di Jehovah, e anche perché era designato dalla profezia del Salmista: « E Signore ha detto al mio Signore (Ps. CIX, 1) ». Tuttavia gli evangelisti lo applicano a Gesù assai di rado. In san Marco e in san Matteo, il Signore è ordinariamente Dio stesso, come nell’Antico Testamento, e il titolo di « Signore » per lo più è soltanto una formola di cortesia, l’equivalente di « Maestro » o di « Rabbi ». All’avvicinarsi della passione, essi si allontanano alquanto dal loro riserbo (Marc. XI, 3). San Luca e san Giovanni incominciano più presto (Giov. IV, 1); tuttavia l’uno e l’altro sono assai in ritardo, in confronto con san Paolo, e tale ritardo, a nostro parere, si può spiegare con uno scrupolo di verità storica. Per san Paolo, fatta astrazione dalle citazioni dell’Antico Testamento, Gesù Cristo è regolarmente chiamato « il Signore ». È probabile che il linguaggio dell’Apostolo non presenti neppure un’eccezione (Cremer); in ogni caso, « Signore » è diventato il nome proprio del Cristo e può come tale, sopprimere l’articolo (Rom. XIV, 6I Cor. VII, 22). Ma vi è di più: nell’appropriarsi il nome di Jehovah, il Cristo ne riceve anche tutti gli attributi: Paolo si dice servitore del Cristo, come i profeti solevano chiamarsi servitori di Jehovah; nelle frasi che esprimono azioni divine, come la creazione, il conferimento della grazia, la santificazione, il giudizio, la retribuzione finale, il nome di Dio e del Signore si scambiano a caso, come porta il discorso, alla maniera con cui si scambiano i sinonimi; finalmente quello che la Scrittura racconta di Jehovah, Paolo lo intende, senza nessuna esitazione, come detto del suo Maestro (Am. III, 7; Ger. VII, 35; Dan. IX, 6, etc.). Jehovah era la « Pietra d’Israele » o semplicemente « la Pietra »; gli autori dell’Antico Testamento ci hanno abituati a questo linguaggio. Paolo lo conosce meglio di ogni altro, ma questo non gl’impedisce di affermare che la « Pietra era il Cristo » preesistente: Petra autem erat Christus (I Cor. X, 4). E poco dopo soggiunge: « Non tentiamo il Signore (o il Cristo), come alcuni lo tentarono e morirono del morso dei serpenti (I Cor. X, 9) ». O si legga «il Signore», o si legga «il Cristo», la variante ha poca importanza, perché i due termini, per san Paolo, sono sinonimi. – Gioele aveva detto, parlando di Jehovah: « Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo (Gioe. III, 5) ». Ma il Signore è il Cristo, e l’Apostolo può commentare il testo così: « Non vi è differenza tra il Giudeo e il Greco, poiché tutti hanno il medesimo Signore, liberale verso coloro che lo invocano; poiché (sta scritto): Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo (Rom. X, 13) ». La salvezza una volta annessa all’invocazione di Jehovah, è ora annessa all’invocazione del Cristo e, per provarlo, Paolo si fa forte della parola del profeta: logicamente ne segue che ai suoi occhi il Cristo è uno solo con Jehovah. Altrimenti non si può spiegare il discorso che egli rivolge agli anziani di Efeso: « Vigilate sopra voi stessi e sopra tutto il gregge di cui lo Spirito Santo vi ha costituiti custodi, per governare la Chiesa di Dio che Egli si acquistò col proprio sangue (Act. XX, 28) ». Questa espressione cominciò assai per tempo a scandalizzare certi teologi pusillanimi che le fecero subire diverse correzioni, una delle quali, che consiste nel sostituire il nome di « Signore » al nome di « Dio », finì con invadere la maggior parte dei manoscritti greci. I critici moderni per parte loro ricorrono alle più stravaganti ipotesi per non lasciar dire a Paolo, che « Dio si acquistò la Chiesa col suo proprio sangue ». Ma l’Apostolo non ha nessun bisogno della loro assistenza: il suo linguaggio, in questo passo, non è più straordinario che in cento altri passi; egli si limita, secondo il suo solito, a identificare Gesù Cristo con Dio, e gli applica un attributo che gli conviene soltanto secondo la natura umana. Ma la comunicazione degli idiomi, di cui egli fa l’uso più esteso lo autorizza a farlo. Bisognerà ancora stupire del valore che san Paolo dà alla formula: « il Cristo è Signore? ». Egli ne fa il pernio dell’ortodossia e il criterio dei carismi: « Nessuno che parli sotto (l’impulso del) lo Spirito di Dio dice: Gesù (sia) anatema! e nessuno può dire: Gesù (è) Signore, se non nello Spirito Santo (I Cor. XVI, 3) ». Egli la considera come il compendio più conciso del suo Vangelo: « Noi non predichiamo noi medesimi, ma il Cristo Gesù Signore (II Cor, IV, 5) ». Più ancora, egli la presenta come una professione di fede cristiana che racchiude in sostanza le condizioni della salvezza: « Se confessi con la tua bocca che Gesù è Signore e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato da morte, tu sarai salvo; poiché, dice la Scrittura, chiunque crederà in Lui non sarà confuso (Rom. X, 9) ». Isaia aveva infatti detto questo di Dio, e non del Cristo, ma per Paolo è la stessa cosa, non dobbiamo stancarci di ripeterlo, poiché il suo Cristo è Signore e Dio.

3. Se è così, dobbiamo aspettarci di vedere l’Apostolo mettere il Cristo sopra tutto ciò che non è Dio, in una sfera inaccessibile agli esseri creati, rivolgergli inni e preghiere come allo stesso Dio e applicare a lui le dossologie che la Scrittura riserva a Dio: e le nostre previsioni non sono punto deluse. L’Epistola ai Galati comincia con queste parole: « Paolo apostolo, non per autorità degli uomini né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre (Gal. I, 1) ». Paolo nega assolutamente agli uomini ogni causalità, o remota o prossima del suo apostolato; egli non è il delegato né il mandatario degli uomini. – Quando dunque egli si dice apostolo esclusivamente per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre, considera evidentemente il Cristo come un essere superiore all’uomo, o meglio come una persona la quale è più che uomo. Senza dubbio tra Dio e l’uomo vi sono gradi infiniti; ma se si riflette che Paolo non farebbe derivare la grazia — e una grazia come quella dell’apostolato — da un essere inferiore a Dio, e che comprende Gesù Cristo e Dio sotto una stessa particella causale, senza che si possa dire che egli stabilisce tra i due una subordinazione di autorità o di grado, poiché Gesù Cristo è anzi qui nominato per il primo, non si potrà opporre nulla agli interpreti i quali vedono in queste parole una prova della divinità del Figlio. – Per invalidare il loro ragionamento, bisogna essere sicuri in precedenza che Gesù Cristo non sia Dio, e che Paolo non lo abbia creduto tale; ma un simile pregiudizio rende impossibile qualunque sana esegesi. – La coscienza cristiana non separa il Cristo da Dio. Fin dalle origini, il Cristo è pregato, invocato, cantato e glorificato come Dio. Santo Stefano morente dice: « Signore Gesù, accogli lo spirito mio… Signore, non imputare a loro questo peccato (Act. VII, 59) ». L’ardente supplica che Gesù in croce rivolgeva a suo Padre, la rivolgono allo stesso Gesù i primi martiri: perché oramai « chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo (Rom. X, 13) »; e il Signore non è altri che il Cristo. I fedeli sono « coloro che invocano il nome del Signore »; questo è il loro titolo distintivo e caratteristico. Paolo scrive « alla chiesa che è in Corinto, ai (fedeli) santificati nel Cristo Gesù, santi per vocazione, come a quelli che invocano il nome di Nostro Signore Gesù Cristo, in qualunque luogo (I Cor. I, 2) ». Dopo la teoria, viene la pratica: l’Apostolo sentendo « nella sua carne uno stimolo, un angelo di satana », che lo schiaffeggia e che pare dover paralizzare il suo ministero, prega tre volte il Signore per esserne liberato; e il Signore gli dice: « Ti basta la mia grazia (II Cr. XII, 8-9) ». Egli prega, non Dio Padre, ma il Signore, perché sa benissimo che pregare il Signore è pregare lo stesso Dio; e il Signore, autore e distributore della grazia, gli promette il suo aiuto onnipotente. Nell’anno 112 della nostra èra, certi antichi Cristiani raccontavano a Plinio, che prima della loro apostasia solevano radunarsi per cantare inni al Cristo come a un Dio: Christo quasi Deo (Epist. ad Traian., 96). Non era affatto una novità: uno dei testimoni citati da Eusebio, afferma che l’usanza di comporre salmi e odi in cui il Verbo era celebrato come Dio, risale alle origini (Hist. Eccl.); e questa asserzione può essere verificata con l’espressa testimonianza di san Paolo: « Trattenetevi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e celebrando nel vostro cuore il Signore (Ephes. V, 19) » Gesù Cristo. Nel passo parallelo, « il Signore » è sostituito con « Dio (Col. III, 16) », e questo prova che i fedeli innalzavano le stesse lodi a Dio e al Cristo. Brevi frammenti di queste composizioni primitive, più notevoli per lo spirito religioso che per l’ispirazione poetica, sono assai probabilmente arrivati fino a noi. Tale sarebbe questa descrizione ritmica del « mistero della pietà »:

Egli si manifestò nella carne,

fu giustificato nello spirito,

apparve agli Angeli;

sarà predicato tra le nazioni,

fu creduto nel mondo,

fu rapito in gloria.

(I Tim. III, 16).

La dossologia è una specie di inno compendiato. Gli Ebrei la facevano seguire al solo nome di Dio, e anche l’Apostolo generalmente osserva tale pratica: « A Dio solo onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. ». Ma già san Paolo, san Giovanni, san Pietro, e anche l’Epistola agli Ebrei, quasi che si fossero data la parola d’ordine, vanno insensibilmente sostituendo il nome del Figlio a quello dei Padre: « Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà (facendomi entrare) nel suo regno celeste. A Lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen (II Tim. IV, 18) ». Infatti, siccome da Lui s i aspetta la grazia, è giusto che a Lui se ne dia l’onore e il ringraziamento: « Rendo grazie al Cristo Gesù Nostro Signore il quale mi ha fortificato, di avermi giudicato fedele con lo stabilirmi nel ministero ».Però l’attribuzione delle dossologie al Cristo è eccezionale. Allorché il pensiero dell’Apostolo si fissa esclusivamente nella Persona di Gesù Cristo, egli può benissimo pregarlo, invocarlo, ringraziarlo, esaltarlo, come se fosse l‘unico autore dei beni soprannaturali; ma quando lo nomina unitamente a suo Padre, egli stabilisce tra loro due un ordine che non inverte mai. Allora egli ringrazia, implora e glorifica Dio per mezzo di Gesù Cristo o in Gesù Cristo; ed è più che naturale: « Il capo di ogni uomo è il Cristo, (come) il capo della donna è l’uomo; (ma) il capo del Cristo è Dio (I Cor. XI, 3) ». Qui vi è una gerarchia ben definita: Dio, il Cristo, l’uomo, la donna. Se si legge attentamente il contesto, si noterà anzitutto che si tratta del Cristo come capo della Chiesa, nell’economia della redenzione; in secondo luogo, che si tratta dei rapporti dell’uomo e della donna sotto l’aspetto cristiano e sotto l’aspetto sociale. Infatti la questione di cui si tratta, concerne il contegno delle donne nella Chiesa, contegno determinato dalla situazione delle donne nella Chiesa. Sotto l’aspetto individuale, la donna cristiana è immediatamente unita al Cristo redentore, precisamente come l’uomo, ma non è così sotto l’aspetto sociale. Qui vi è una gerarchia da osservare in teoria e da mantenere nella pratica. Come capo della Chiesa, il Cristo dipende immediatamente da Dio del quale è l’inviato e il mandatario; l’uomo dipende immediatamente dal Cristo e lo rappresenta nelle funzioni sacre della gerarchia ecclesiastica; la donna poi — o maritata o no — dipende immediatamente dall’uomo il quale solo ha parte nel governo della Chiesa. E questa subordinazione si deve tradurre esteriormente in atto, nelle assemblee religiose, col velo, simbolo di dipendenza, col quale la donna si coprirà la testa, come pure con l’interdizione che le è fatta, di profetizzare, di insegnare e di parlare in pubblico, davanti ai fedeli e ai loro pastori. – Dio è dunque il capo del Cristo mediatore, e appunto in tale rapporto Dio e il Cristo sono ordinariamente considerati quando sono nominati insieme nelle dossologie e nelle preghiere solenni. Paolo attende la grazia, la misericordia e gli altri beni spirituali simultaneamente dal Figlio e dal Padre e può indifferentemente domandarli al Padre o al Figlio; ma sembra che egli stesso abbia stabilita la regola abituale delle nostre preghiere, quando scriveva ai Colossesi: « Tutto quello che dite o fate, fatelo nel nome del Signore Gesù, ringraziando per mezzo di lui Dio Padre (Col. III, 17) »… Poiché « tutte le promesse di Dio sono diventate in lui », è ben giusto che noi rivolgiamo « per mezzo di lui l’Amen » delle nostre benedizioni (II Cor. I, 20). – Forse la cura di non intaccare menomamente, neppure in apparenza, il monoteismo ebraico, non è estranea a questa usanza introdotta dagli Apostoli e adottata in seguito dalla Chiesa, usanza che del resto, come si è veduto, non impedisce di pregare separatamente il Figlio, quando occorre, e di rivolgergli qualche volta le dossologie riservate a Dio solo.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: DIUTURNI TEMPORIS DI S. S. LEONE XIII

« … il Rosario costituisce la più eccellente forma di preghiera, e il mezzo più efficace per conseguire la vita eterna … »Ancora una volta il Santo Padre Leone XIII, oramai al termine della sua lunga vita, raccomanda questa pratica devota, quasi un testamento, presago della sua vicina dipartita dal tempo, per approdare al porto della Eternità beata, ove spera di giungere con l’aiuto decisivo della Vergine, Madre di Dio « … fermamente speriamo di poter chiudere la Nostra vita terrena nell’amore di questa tenerissima Madre: amore che ci siamo sempre studiati, con tutte le Nostre forze, di coltivare e di estendere sempre più » … parole di una tenerezza commovente sì, ma forti e chiare, proprie di un uomo, e che uomo!, … che in mezzo ai turbinosi flutti e ai marosi dell’epoca ha saputo guidare la Barca di Pietro verso il golfo sicuro della Fede salvifica Cattolica, conservandone e ribadendone il Deposito divinamente affidatogli. E forse tra i tanti, il merito maggiore di questo Sommo Pontefice, come si evince dalle sue numerose lettere Encicliche mariane, è proprio quello di avere indicato ai Cristiani fedeli, come agli increduli saccenti, l’unico mezzo sicuro per approdare alla eterna felicità: il Santo Rosario!  « … Noi, mossi dal desiderio di porre nella così accresciuta devozione verso la Vergine, come in una rocca inespugnabile, la salvezza dell’umanità, non abbiamo mai cessato di promuovere tra i fedeli la pia pratica del Rosario Mariano … ». “Rocca inespugnabile” per la salvezza dell’umanità, mezzo sicuro per schiacciare la testa dell’infame serpente infernale, oggi in piena azione dappertutto,  il Rosario si rivela anche ancor più come la residua speranza per un mondo che ha toccato tutti gli abissi della amoralità, della blasfemia, dell’odio verso Dio ed il suo Cristo, un’umanità che si avvia inevitabilmente alla resa dei conti con il suo Creatore e Redentore, che in tutti i modi ancora osa sfidare. Facciamo allora nostre queste espressioni contenute nella lettera, come estremo richiamo d’amore di un Santo Padre che ad ogni costo vuole recuperare un’infinità di anime destinate all’eterna perdizione, per non rendere oltretutto inutile ed infruttuoso il Sacrificio sulla Croce del Messia Redentore, e vano il Sangue Preziosissimo sparso nella Passione. Il mezzo è certo, cerchiamo di farne un buon uso, costante e perseverante fino ai nostri ultimi giorni, onde sperare, come il Papa, di addormentarci anche noi sereni nelle braccia della più tenera delle Madri, la “tenerissima” Mamma di Gesù Cristo, nostro Dio e nostro Salvatore.

S. S. Leone XIII
Diuturni temporis

Lettera Enciclica

Il rosario mariano
5 settembre 1898

Quando riflettiamo sul lungo spazio di tempo che, per volontà di Dio, abbiamo trascorso nel Sommo Pontificato, non possiamo non riconoscere di avere sperimentato nel modo più tangibile la singolare assistenza della Provvidenza divina. Noi invero pensiamo che ciò debba principalmente attribuirsi alle preghiere unanimi, e per questo efficacissime, che ora tutta la Chiesa senza posa eleva a Dio per Noi, come una volta per Pietro. Perciò prima di tutto ringraziamo dal più profondo del cuore il Signore, dispensatore di tutti i beni. E finché avremo vita, il Nostro animo conserverà un fedele ricordo di ogni singolo beneficio da Lui ricevuto. Ma subito dopo, il Nostro pensiero soavemente si volge alla materna protezione dell’augusta Regina del cielo; e questo pio ricordo vivrà indelebile nel Nostro cuore, per muoverci a magnificare i benefici di Maria e a nutrire verso di Lei la più sentita gratitudine. Da Lei infatti, come da un canale ricolmo, discende l’onda delle grazie celesti: “Nelle sue mani si trovano i tesori delle divine misericordie”: È volontà di Dio che Ella sia il principio di tutti i beni”. E Noi  già da tempo, “. A questo scopo, già il 1° settembre 1883, pubblicammo una lettera enciclica, e, come tutti ben sapete, abbiamo in séguito promulgato su questo argomento varie altre decisioni. E poiché i disegni della divina Misericordia ci concedono di vedere, anche quest’anno, l’avvicinarsi del mese di ottobre, già ripetutamente da Noi dedicato e consacrato alla celeste Regina del Rosario, non vogliamo mancare di rinnovarvi la Nostra esortazione. Affinché pertanto siano in breve compendiati tutti gli sforzi, da Noi finora fatti, per l’incremento di questa singolare forma di preghiera, intendiamo coronare la Nostra opera con un ultimo documento, che vuoi dimostrare, con evidenza ancora maggiore, il Nostro zelo e la Nostra premura per questa lodevolissima manifestazione di pietà mariana, e spronare, insieme, l’ardore dei fedeli a conservare piamente nella sua integrità la bella pratica del Santo Rosario. – Spinti pertanto dal costante desiderio di manifestare al popolo Cristiano la potenza e la grandezza del Rosario Mariano, Noi abbiamo ricordato innanzi tutto l’origine, piuttosto celeste che umana, di questa preghiera. E a questo scopo abbiamo messo in evidenza che questa meravigliosa Corona è un intreccio di Salutazioni Angeliche, intercalate dall’Orazione del Signore, unite dalla meditazione. Così composto, il Rosario costituisce la più eccellente forma di preghiera, e il mezzo più efficace per conseguire la vita eterna. Poiché, oltre alla eccellenza delle sue preghiere, esso ci offre una salda difesa della nostra fede e un sublime modello di virtù nei misteri proposti alla nostra contemplazione. Noi abbiamo inoltre dimostrato che il Rosario è una pratica facile e adatta all’indole del popolo, al quale presenta altresì, nel ricordo della Famiglia di Nazaret, l’ideale più perfetto della vita domestica. Per tali motivi i fedeli ne hanno sempre sperimentato la salutare potenza. – Dopo aver inculcato, specialmente con queste ragioni e coi Nostri ripetuti appelli, la pratica del santo rosario, Noi, seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, ci siamo inoltre dati premura di accrescere l’importanza e la solennità del suo culto. Dei Nostri predecessori, Sisto V di felice memoria approvò l’antica consuetudine di recitare il rosario; Gregorio XII istituì la festa del Rosario; Clemente VIII la introdusse nel Martirologio; Clemente XI la estese a tutta la chiesa; e Benedetto XIII la inserì poi nel Breviario Romano. Così Noi, a perenne testimonianza del Nostro apprezzamento per questa forma di pietà, oltre aver decretato che detta festa e il suo ufficio siano celebrati in tutta la Chiesa, con rito doppio di seconda classe, abbiamo voluto anche che l’intero mese di ottobre sia consacrato a questa devozione. Infine abbiamo prescritto che nelle Litanie lauretane si aggiunga l’invocazione: “Regina del Santissimo Rosario”, come augurio di vittoria nella presente lotta. – Dopo ciò, non restava che far conoscere ai fedeli l’immenso valore e i grandissimi vantaggi annessi al Rosario Mariano, per i numerosi privilegi e diritti di cui è stato arricchito, e soprattutto per il tesoro di indulgenze di cui gode. E certo non è difficile capire quanto questi vantaggi debbano stare a cuore a coloro che pensano seriamente alla loro eterna salvezza. Qui infatti si tratta di ottenere, totalmente o parzialmente, la remissione della pena temporale, da scontare in questa o nell’altra vita, anche dopo che è stata cancellata la colpa. Tesoro questo, senza dubbio, preziosissimo, perché costituito dai meriti di Cristo, ai quali si sono aggiunti quelli della Madre di Dio e dei santi. A tale tesoro il nostro predecessore Clemente VI a ragione riferiva quelle parole della Sapienza: “Inesauribile tesoro è essa per gli uomini: quei che ne fanno uso si procacciano presso Dio amicizia” (Sap VII,14). Già i Papi, in forza del loro supremo potere ricevuto da Dio, hanno largamente aperto le sorgenti di tali grazie agli iscritti alle confraternite del Santo Rosario, e a coloro che recitano il rosario con devozione. – Anche Noi, pertanto, persuasi che queste grazie e queste indulgenze, come altrettante fulgide gemme ben disposte, aumentano lo splendore della corona di Maria, abbiamo deciso, dopo matura riflessione, di promulgare una “Costituzione” sui diritti, privilegi, indulgenze, riservati alle Confraternite del rosario. Sia considerata questa “Costituzione” una pubblica testimonianza del Nostro amore verso l’augusta Madre di Dio, e, nello stesso tempo, uno stimolo e un premio alla pietà dei fedeli, affinché nell’ora estrema della loro vita possano essere confortati dal suo aiuto, e soavemente addormentarsi sul suo seno.

È questa la grazia che domandiamo a Dio, per l’intercessione della Regina del Santissimo Rosario. E intanto, come pegno e auspicio dei celesti favori, impartiamo con grande affetto a voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al popolo affidato alla cura di ciascuno di voi l’Apostolica Benedizione.

Roma, presso S. Pietro, 5 settembre 1898, anno XXI del Nostro pontificato

ET IPSA CONTERET

 

DOMENICA II DI AVVENTO (2018)

DOMENICA II di AVVENTO

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 Introitus
Is XXX:30.
Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]
Ps LXXIX:2
Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.
[Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.]

Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

 Oratio
Orémus.
Excita, Dómine, corda nostra ad præparándas Unigéniti tui vias: ut, per ejus advéntum, purificátis tibi méntibus servíre mereámur:
[Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché, mediante la sua venuta, possiamo servirti con anime purificate:]

Lectio
Lectio Epístolæ beáti Pauli Apostoli ad Romános.
Rom XV:4-13.
Fatres: Quæcúmque scripta sunt, ad nostram doctrínam scripta sunt: ut per patiéntiam et consolatiónem Scripturárum spem habeámus. Deus autem patiéntiæ et solácii det vobis idípsum sápere in altérutrum secúndum Jesum Christum: ut unánimes, uno ore honorificétis Deum et Patrem Dómini nostri Jesu Christi. Propter quod suscípite ínvicem, sicut et Christus suscépit vos in honórem Dei. Dico enim Christum Jesum minístrum fuísse circumcisiónis propter veritátem Dei, ad confirmándas promissiónes patrum: gentes autem super misericórdia honoráre Deum, sicut scriptum est: Proptérea confitébor tibi in géntibus, Dómine, et nómini tuo cantábo. Et íterum dicit: Lætámini, gentes, cum plebe ejus. Et iterum: Laudáte, omnes gentes, Dóminum: et magnificáte eum, omnes pópuli. Et rursus Isaías ait: Erit radix Jesse, et qui exsúrget régere gentes, in eum gentes sperábunt. Deus autem spei répleat vos omni gáudio et pace in credéndo: ut abundétis in spe et virtúte Spíritus Sancti.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie – Vol. I, Omelia III – Torino 1899]

“Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la  speranza. Il Dio poi della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. Affinché di pari consentimento, con un sol labbro, diate gloria a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo. Il perché accoglietevi gli uni gli altri come Gesù Cristo ha accolto voi a gloria di Dio. E veramente io affermo, Gesù Cristo essere stato ministro della circoncisione per la veracità di Dio, per mantenere le promesse fatte ai patriarchi: i gentili poi glorificare Iddio per la misericordia, siccome sta scritto: Per questo io ti celebrerò fra le nazioni e inneggerò al tuo nome. E altrove: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E ancora: “Quante siete nazioni, lodate il Signore, e voi, o popoli tutti, celebratelo. E Isaia dice ancora: Vi sarà il rampollo di Jesse e colui che sorgerà a reggere le nazioni, e le nazioni spereranno in lui. Intanto il Dio della speranza vi ricolmi di ogni allegrezza e pace nel credere, affinché abbondiate nella speranza per la forza dello Spirito santo. ,, (Ai Rom, XV, 4-13). –

Queste parole l’Apostolo Paolo scriveva ai fedeli a Chiesa di Roma verso la fine della sua lettera, e queste parole la Chiesa oggi ci fa leggere nella santa Messa, e su queste parole io richiamerò per pochi minuti la vostra attenzione, che vi prego di accordarmi intera. – “Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la speranza. „ Per comprendere il significato di questa sentenza fa d’uopo rilevare il nesso con le parole che la precedono. Nel versetto antecedente l’Apostolo parla di Gesù Cristo, che non secondò le sue inclinazioni naturali per salvare gli uomini, ma tutto sostenne; onde tutte le offese fatte a Dio ricaddero sopra di Lui, che n’era mallevadore, e a conferma cita un luogo del Salmo LXVIII: “I vituperi dei tuoi vituperatori caddero sopra di me: „ parole queste messe in bocca a Gesù Cristo stesso. Messo innanzi ai fedeli questo oracolo delle Scritture, adempiutosi in Cristo, l’Apostolo prosegue, affermando in genere, che tutto ciò che i Libri divini insegnano, lo insegnano a nostro vantaggio spirituale. Che cosa sono i Libri santi? Sono il Codice divino, al quale dobbiamo conformare tutta la nostra vita: sono la lettera, scrive S. Atanasio, che Dio manda agli uomini; lettera che contiene la sua santa volontà, legge sovrana per noi tutti. “La Scrittura tutta, dice san Paolo in un altro luogo, è divinamente inspirata, ed è utile ad insegnare, ad arguire, a correggere, ad ammaestrare nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto ed adorno d’ogni opera buona „ (II Timot. III, 16 e 17). Senza il conoscimento di ciò che dobbiamo credere e fare è impossibile salvarci. E questo conoscimento donde deriva? Da Dio solo, fonte d’ogni verità. E per quali modi, per quali vie Dio ci comunica il conoscimento di queste verità? Per mezzo della parola; e questa può essere annunziata a noi a voce per mezzo degli Apostoli e della Chiesa e può giungere a noi scritta, per mezzo dei Libri divinamente ispirati. La prima via è la più facile e spedita e basta per tutti indistintamente gli uomini: la seconda via è meno facile e meno spedita, né a tutti possibile: ma è pur sempre buona e santa. Qual cosa più buona e santa dell’apprendere le verità della fede su quei libri, che Dio volle si scrivessero a nostra istruzione e conforto? Quelle verità, che un dì risuonarono sulle labbra di Cristo e degli Apostoli, sono lì scritte sui Libri santi: tra noi e gli ascoltatori di Cristo e degli Apostoli non vi è differenza alcuna; quelli ricevevano la verità per gli orecchi, noi per gli occhi, ma è sempre la stessa verità. – Un tempo, o carissimi, la Scrittura santa si leggeva e si meditava anche dai semplici fedeli; era un libro in mano di tutti che sapevano leggere: oggi dov’è il laico, anche istruito, che legga e mediti alcuna volta questo Libro divino? Si leggeranno libri d’ogni  maniera; ma il libro per eccellenza, il libro in cui tutto è verità e che ci ammaestra nelle cose del cielo, che ci insegna la via della virtù, pur troppo è dimenticato. Se non lo si legge, né si medita, se ne ascolti almeno la spiegazione, che la Chiesa comanda sia fatta al popolo ogni domenica! E che cosa ci insegnano i Libri santi e nominatamente le parole del Profeta sopra riportate dall’Apostolo? Esse ci insegnano (scolpitevelo bene nell’animo), ci insegnano la pazienza nei mali e il conforto nelle tribolazioni. Chi di noi, o dilettissimi, non ha da soffrire nell’esercizio della virtù, e nel durarvi saldamente? Bisogna patire, bisogna portare ogni giorno la nostra croce, e sovente assai pesante. Ebbene! Nei Libri sacri, nell’esempio dei santi e sopratutto nell’esempio di Gesù Cristo troveremo lume, forza e conforto e perfino consolazione in mezzo alle amarezze della vita, ponendoci innanzi agli occhi la mercede che ci è promessa e che teniamo sicura per la speranza: Spem habeamus. Un’anima che si inginocchia dinanzi a Gesù Cristo crocifisso e, scorrendo il Vangelo, ne medita la vita piena di dolori, di umiliazioni senza nome e pensa ch’Egli è Dio, il Santo per eccellenza: un’anima, che creda oltre la tomba cominciare un’altra vita interminabile, in cui si riparano le ingiustizie della presente e i dolori passeggeri di questa sono ripagati con gioie ineffabili ed eterne: come volete che quest’anima non si conforti e non si rallegri? Ah! essa deve esclamare con l’Apostolo: “Sovrabbondo di gioia in mezzo alle mie tribolazioni e la morte stessa per me è un guadagno. „ – Pregustando nella speranza le gioie promesse a chi soffre per Gesù Cristo, S. Paolo, in uno di quegli impeti di carità sì frequenti nelle sue lettere, esclama: “Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. „ Le parole “il Dio della pazienza e della consolazione „ sono un modo di dire ebraico, che significa, Dio Autore e Largitore della pazienza e della consolazione: Dio, che è pazientissimo, o la stessa pazienza e consolazione, vi conceda ciò che è frutto prezioso della pazienza e causa di consolazione purissima, cioè la pace, la concordia fra voi, secondo Gesù Cristo, cioè quale è da Lui voluta. Carissimi! l’Apostolo desiderava ai suoi cari figliuoli, come il massimo dei beni, la concordia e la pace tra loro. L’abbiamo noi nella nostra parrocchia, nelle nostre famiglie questa pace benedetta, questo sentimento stesso tra noi, come si esprime l’Apostolo? Oimè! Quanti mali umori! quanti rancori! quante maldicenze, che seminano la discordia e mettono sossopra le famiglie! Se la carità fraterna non regna nei nostri cuori, come potremo, di pari sentimento e d’un sol labbro glorificare Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, secondo che comanda l’Apostolo? Può egli un padre amoroso gradire l’ossequio e le testimonianze di riverenza e di affetto dei figli, quando sa che essi si guardano di mal occhio tra loro e forse anche si odiano? Oh! no certamente; così Iddio, il Padre nostro, non può gradire i nostri omaggi e le nostre preghiere, se i nostri cuori non sono avvivati dall’alito divino della carità fraterna. Dobbiamo aver tutti un solo cuore e un’anima sola, come i Cristiani della primitiva Chiesa, e allora la preghiera e la lode uscirà dalle nostre labbra come un soave profumo, che rallegra il cuore di Dio. Gesù Cristo è il sovrano ed eterno modello, sul quale dobbiamo tener fissi gli occhi, e l’Apostolo in modo specialissimo ad ogni pagina, quasi ad ogni linea delle inarrivabili sue lettere, ce lo rammenta. Se il vincolo della carità di Gesù Cristo congiunge tutti i cuori e ne caccia le contese ed i sospetti, quale ne sarà la naturale conseguenza? “Allora voi – dice S. Paolo – vi accoglierete gli uni gli altri, come anche Gesù Cristo accolse voi a gloria di Dio. „ E come Gesù Cristo accolse voi? sembra domandare l’Apostolo. Fra voi non pochi sono figli di Abramo e portano il segno dell’alleanza e della promessa divina, fatta ai patriarchi, e molti sono gentili, nati e cresciuti in mezzo alle tenebre del paganesimo; ma Gesù Cristo, continua l’Apostolo, non ha fatto differenza alcuna, e ha chiamati egualmente alla fede voi, Ebrei, e voi, gentili, e tutti egualmente vi ha stretti al suo seno paterno. Se Gesù Cristo pertanto vi ha accolti tutti nella sua Chiesa, vi ama tutti come figli e tutti vi ricolma dei suoi doni, come non dovete voi pure accogliervi gli uni gli altri quasi fratelli? L’argomento non poteva essere più chiaro ed efficace. E qui vedete differenza che corre tra le società umane e la società divina, che è la Chiesa. Fate che in una società umana entrino ricchi e poveri, sapienti ed ignoranti; fate che vi siano Francesi ed Inglesi, Tedeschi ed Italiani e andate dicendo: essi sono tutti uomini e lo riconoscono: ma qual differenza di accoglienze tra loro! Quali diffidenze! quali sospetti! Si dicono fratelli, ma troppo spesso si trattano come stranieri, anzi come nemici. Non così nella grande famiglia di Gesù Cristo, che è la Chiesa! Sono tutti figli dello stesso Padre celeste, tutti fratelli e se si usa qualche differenza, questa è per i poverelli, per gli ignoranti, perché Gesù Cristo disse: “Son venuto per annunziare il Vangelo ai poveri e per consolare gli afflitti. „ Nella Chiesa di Gesù Cristo non vi è né greco, né scita, né barbaro: son tutti egualmente redenti da Lui e tutti fratelli. S. Paolo per provare la chiamata dei gentili alla fede non altrimenti degli Ebrei cita quattro oracoli profetici, che a principio avete udito e che non occorre ripetere. Piuttosto è da notare una differenza, che l’Apostolo mette in rilievo tra la chiamata degli Ebrei e quella dei gentili, ed è questa, che Gesù Cristo chiama gli Ebrei per la veracità, doveché chiama i gentili per la misericordia. Che differenza è questa, o dilettissimi? Forse che anche la chiamata degli Ebrei non è opera di misericordia come quella dei gentili? Sì, e chi ne potrebbe dubitare? Come dunque S. Paolo attribuisce la prima alla veracità di Dio e la seconda alla sua misericordia? La risposta è facilissima. La conversione degli Ebrei, come quella  dei gentili, è tutta e sola opera della bontà e misericordia di Dio, come insegna la fede. Che merito o diritto potevamo noi avere a tanta grazia, noi che abbiamo ricevuto tutto da Lui; noi che non avevamo di nostro che il peccato; noi che siamo miserabili creature? Indegni d’essere suoi servi, come potevamo aspirare all’altissimo onore di diventare suoi figli per adozione? Iddio, unicamente per sua bontà, ripetutamente per i profeti e pei patriarchi promise ai figli d’Israele la salute per mezzo di Gesù Cristo, mentre che ai gentili non fece direttamente promessa alcuna: ai gentili non diede la legge di Mosè, non i profeti, non i patriarchi: a loro diede la sola ragione e con essa la legge naturale. Coll’offrire la fede agli Ebrei Dio mantenne le sue promesse fatte loro nei Libri santi, ed ecco perché S. Paolo l’attribuisce alla veracità di Dio: con l’offrire la fede ai gentili Dio non mostrò di mantenere promesse di sorta, perché ai gentili non ne aveva fatte, e perciò S. Paolo ripete la loro conversione dalla sola misericordia. In una parola: Dio accolse gli Ebrei per la sua misericordia e per mantenere le promesse loro fatte, e accolse i gentili per la sola sua misericordia, perché con essi non aveva promesse da osservare. Noi, o dilettissimi, siamo figli di questi gentili, che Dio accolse insieme coi figli d’Israele; noi siamo gli eredi della loro fede e in noi si continua la divina misericordia. Permettete che ve lo domandi: La vostra fede è viva ed operosa come quella dei Romani, ai quali scriveva l’Apostolo e che era rinomata in tutto il mondo? In mezzo ai tanti pericoli che ne circondano, alle tante insidie che ci son tese, la conserviamo noi pura ed intatta, come il più prezioso beneficio della misericordia divina? La onoriamo noi questa fede con le opere, che la mostrano viva ed efficace? Ascoltiamo la risposta che a ciascuno darà la coscienza. – Siamo all’ultimo versetto della epistola citata: “Intanto il Dio della speranza vi riempia d’ogni allegrezza e pace nel credere, con l’arricchirvi di speranza nella potenza dello Spirito santo. „ È un caro e santo augurio,, che con la tenerezza di padre l’Apostolo indirizza ai suoi figliuoli in spirito. Il Dio della speranza, che è quanto dire, Dio autore, fonte e termine della speranza, allontani da voi qualunque contesa e discordia, vi riempia di quella pace, che è figlia della fede e vi avvalori nella forza dello Spirito santo; e in termini più chiari ancora: Dio vi conceda di star saldi nella fede, che avete ricevuta e nella speranza, che deriva dalla fede, e frutti di questa fede e di questa speranza saranno l’allegrezza e la pace, e tutti questi beni conservi ed accresca in noi la grazia e la forza dello Spirito santo. S. Paolo in questa sentenza ci presenta l’allegrezza e la pace, che augura ai fedeli, come frutti della fede e della speranza, e bene a ragione. – La fede, o cari, ci dice chiaramente la nostra origine, ci segna la strada che dobbiamo tenere, ci addita il fine, a cui dobbiamo tendere; essa ci insegna con sicurezza donde veniamo e dove andiamo. La speranza, che si fonda nella fede, ci insegna i mezzi, con lo aiuto dei quali possiamo e dobbiamo raggiungere il fine, pel quale siamo creati. Ponete che un uomo ignori chi l’abbia creato e messo su questa terra: che ignori al tutto ciò che sarà di lui di là della tomba, in quella regione, dove tutti entrano e d’onde nessuno torna mai: ponete per conseguenza che quest’uomo non abbia, né possa mai avere un solo filo di speranza per la vita avvenire: ditemi, quest’uomo non sarebbe egli come un essere perduto sulla terra? Immaginate che voi, ad un tratto, bendati gli occhi, foste trasportati li da una forza prepotente lungi molte migliaia di miglia e deposti in mezzo ad un deserto: aprite gli occhi, vi rivolgete da ogni lato, non vedete traccia di via, non un colle, non un albero, non il sole, velato da fitte nubi, non una stella: non vedete che arida sabbia, e deserto in tutta la maestà opprimente del suo silenzio. Potreste voi dire, donde siete venuto! dove vi convenga volgere il passo per uscire da quel deserto, in cui vi sentite morire? Impossibile. Ecco l’immagine d’un uomo senza fede e senza speranza. Egli si trova balzato qui sulla terra, come in mezzo ad uno sconfinato deserto. Chi mi ha dato la vita? domanda affannosamente a se stesso. Chi mi ha collocato quaggiù? Dove mi debbo incamminare? Che debbo fare? Là è la tomba: presto vi sarò calato: oltre la tomba, che c’è? Finirò tutto nel cimitero? Vi sarà un’altra vita, e quale? Domande inevitabili e paurose, alle quali nessuno risponde: il grido del misero si perde nel deserto: non v’è un’eco lontana, che risponda: tutto è silenzio e morte. Ecco l’uomo senza fede e senza speranza: è ciò che si può immaginare di più desolato, di più sconsolato: è il nulla, il nulla nella sua forma più spaventevole. — Ma brilli in alto un raggio di luce, un raggio della fede e della speranza, e l’orrido deserto si copre di erbe verdeggianti; di vaghi fiori: da lungi si scorge la patria, sospirata e si vede la via sicura che ad essa conduce. Ah! la pace, la gioia della fede e della speranza cristiana. Vedete questi poveri operai, che sudano nella loro officina : quei poveri contadini, che indurano sotto la sferza del sole di luglio e sotto i geli del gennaio: vedete quelle povere madri, quelle vedove, che a stento possono sfamare e coprire di abiti sdrusciti i loro figli: essi soffrono, e Dio solo conosce appieno i loro dolori: ma essi sanno che Dio li ha creati; che Gesù Cristo li ha redenti, che ha patito come loro e più di loro: sanno che l’occhio di Dio veglia sempre sopra di loro, che conta le loro lacrime, che li sostiene con la sua grazia, che alla morte comincia una seconda vita interminabile, e che allora sarà fatta a tutti piena giustizia: essi sanno in fine che Gesù Cristo disse: Beati i poveri: beati quelli che piangono: beati quelli che soffrono per la giustizia: beati quelli che sono perseguitati perché grande è la loro mercede: questo pensiero del premio eterno, che li attende è quello che li conforta, che muta in gioia il dolore e sulla terra dell’esilio fa gustare le dolcezze della patria. — “Che il buon Dio pertanto, chiuderò ancora con san Paolo, vi riempia di ogni allegrezza e pace nella fede e vi arricchisca di speranza nella potenza dello Spirito Santo!. ,,

Graduale
Ps XLIX:2-3; 5
Ex Sion species decóris ejus: Deus maniféste véniet,
V. Congregáta illi sanctos ejus, qui ordinavérunt testaméntum ejus super sacrifícia.
[Da Sion, ideale bellezza: appare Iddio raggiante.
V. Radunategli i suoi santi, che sanciscono il suo patto col sacrificio. Alleluia, alleluia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
Ps CXXI:1
V. Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. Allelúja.
[V. Mi sono rallegrato in ciò che mi è stato detto: andremo nella casa del Signore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt. XI:2-10

In illo tempore: Cum audísset Joánnes in vínculis ópera Christi, mittens duos de discípulis suis, ait illi: Tu es, qui ventúrus es, an alium exspectámus ? Et respóndens Jesus, ait illis: Eúntes renuntiáte Joánni, quæ audístis et vidístis. Cæci vident, claudi ámbulant, leprósi mundántur, surdi áudiunt, mórtui resúrgunt, páuperes evangelizántur: et beátus est, qui non fúerit scandalizátus in me. Illis autem abeúntibus, coepit Jesus dícere ad turbas de Joánne: Quid exístis in desértum vidére ? arúndinem vento agitátam ? Sed quid exístis videre ? hóminem móllibus vestitum ? Ecce, qui móllibus vestiúntur, in dómibus regum sunt. Sed quid exístis vidére ? Prophétam ? Etiam dico vobis, et plus quam Prophétam. Hic est enim, de quo scriptum est: Ecce, ego mitto Angelum meum ante fáciem tuam, qui præparábit viam tuam ante te. 

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, ut supra, vol.I om. IV, Torino, 1899 – imprim.]

” Giovanni, nel carcere avendo udite le opere di Cristo, mandò due dei suoi discepoli per dirgli: Sei tu Quegli che ha da venire, oppure ne aspetteremo un altro? — E Gesù rispose loro: Andate e riferite a Giovanni le cose che avete udite e vedute: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono e ai poveri è annunziato il Vangelo, e beato colui che non patirà scandalo in me. Ora, com’essi se ne andavano, Gesù prese a dire di Giovanni alle turbe: Che mai andaste a vedere nel deserto? Forse una canna agitata dal vento ? Ma che andaste a vedere? Forse un uomo vestito di morbidezze? Eh! quegli che indossano morbide vesti abitano nelle case dei re. Ma che andaste a vedere? Un profeta? Sì, vi dico: anche più che un profeta. Perché questi è colui del quale è scritto: Ecco, io mando il mio Angelo davanti alla tua faccia, il quale preparerà il tuo cammino dinanzi a te „ (Matteo XI, 2-10).

Fin qui, o carissimi, il Vangelo di questa Domenica seconda d’Avvento, quale si legge in S. Matteo al capo undecimo. Il senso di queste parole di nostro Signore è sì piano che non v’è bisogno alcuno di spiegazione; ma se ciascuno di voi senza fatica può comprendere il senso delle parole evangeliche che vi ho recitate, forse non sì facilmente ciascuno saprebbe applicarle da se stesso ai propri bisogni. Noi vediamo i medici, allorché cadono infermi, quantunque valentissimi, chiamare a curarli altri medici e talvolta a loro per valore e perizia inferiori. Il somigliante accade a noi nella cura spirituale: abbiamo bisogno che altri ci suggerisca i rimedi e amorosamente ce li porga. Oggi l’opera mia si restringerà a cavare dalle parole di Cristo alcuni documenti utilissimi a nostra comune edificazione. Il Vangelo, che avete udito, ha due partì distinte: nella prima si narra l’ambasciata che Giovanni Battista mandò a Gesù Cristo: nella seconda abbiamo la risposta di Gesù Cristo e l’elogio che Egli fa del suo precursore. Prima di venire alla spiegazione, non vi sia grave udire alcuni chiarimenti. Ufficio del precursore era quello di preparare il popolo giudaico alla venuta di Cristo, e Giovanni l’aveva adempiuto a meraviglia con la vita austera menata nel deserto e con la predicazione della penitenza sulle rive del Giordano. La parola ardente del Battista aveva scosso gagliardamente popolo e sacerdoti, e intorno a lui erasi formato un gruppo di discepoli. Più d’una volta Giovanni, vedendo Gesù Cristo, l’aveva additato alle turbe e proclamato l’Agnello di Dio e protestato di essere indegno di sciogliere i legacci dei suoi calzari. Aveva affermato aver veduto lo Spirito Santo discendere sopra di lui, e che lui solo tutti dovevano seguire. Giovanni aveva avuto la gioia e la gloria di dare a Gesù Cristo i primi e principali apostoli, Pietro ed Andrea, Giovanni e Giacomo. Il Precursore, compiuta la sua missione, si eclissava. Erode agli altri suoi delitti aggiunse quello di imprigionar Giovanni, perché con santa libertà gli rimproverava le sue tresche con la moglie del fratello suo. A Giovanni in carcere giunse la fama dei miracoli e della predicazione di Gesù. E da sapere che il Precursore aveva ancora un certo numero di discepoli che lo visitavano in carcere, e probabilmente furono essi stessi che gli parlarono delle grandi opere di Cristo. Questi discepoli non avevano imitato i loro compagni, né obbedito il maestro, che li confortava a seguire Gesù Cristo. Forse erano quei medesimi, che nutrivano una cotale invidia verso Gesù Cristo e si lagnavano che egli ancora battezzasse e oscurasse così la gloria del proprio maestro. Voi vedete come questi buoni discepoli erano soverchiamente legati a Giovanni. Era l’amore male inteso verso del maestro, che li faceva disobbedienti a lui stesso e li rendeva ingiusti verso di Gesù Cristo. Certamente poi all’amore disordinato del maestro si aggiungeva l’amor proprio (causa principale della loro ostinazione), che sentivasi ferito nell’apparente abbassamento del maestro stesso. Siffatti siamo noi che tal volta amiamo disordinatamente lo stesso bene e col manto dello zelo per l’onore altrui copriamo il nostro rancore e malanimo verso del prossimo. Non è raro vedere taluni anche ai nostri giorni che usano alla Chiesa ed osservano le pratiche religiose o dalle stesse se ne allontanano unicamente per ragione dei ministri. Costoro sono simili ai discepoli di Giovanni, e nelle cose di Dio guardano gli uomini più che Dio stesso. Non ignoro, o fratelli miei, che alcuni moderni dotti, che si occupano di studi sacri e biblici, al fatto evangelico, che avete udito ora danno una diversa interpretazione. Essi dicono che Giovanni Battista, chiuso nel carcere di Macheronte, ebbe un’ora di debolezza e dubitò veramente se quel Gesù, ch’egli aveva salutato Agnello di Dio e Salvatore del mondo, era veramente l’aspettato Messia, il Figlio di Dio fatto uomo. Dissero anche che Giovanni Battista, mandando a Gesù quella ambasciata, volle quasi sollecitare Gesù a mostrarsi il Messia e con la sua autorità venire in soccorso del prigioniero abbandonato. Manifestamente le due spiegazioni ripugnano al carattere del Precursore. E una ingiuria il sospettare che Giovanni, dopo le solenni confessioni fatte a Cristo, balenasse nella fede ed avesse bisogno d’una parola di conforto e sollecitasse indirettamente la propria liberazione. Giovanni non era una canna, come dirà tosto il Salvatore, che piegasse ad ogni vento: non era uomo che impallidisse in faccia al patibolo. La sua fede incrollabile, le illustrazioni supreme avute, l’indomito coraggio che aveva spiegato in faccia alla sinagoga e ad Erode, ci obbligano a respingere queste interpretazioni indegne del maggiore tra i nati di donna. Giovanni adunque voleva che i suoi cari discepoli si persuadessero, Gesù essere veramente il Messia. Che fece egli per illuminarli? Giovanni diceva seco stesso: Se questi miei discepoli, troppo teneri del mio nome, vedranno Gesù Cristo e le opere sue e udranno le sue parole, si persuaderanno certamente, Lui essere il Messia, e abbandoneranno me per seguitar Lui. — Perciò, avutili a sé, disse loro: “Andate da Gesù, e a mio nome ditegli: Sei tu Quegli che aspettiamo, o dobbiamo aspettarne un altro? „ – Ammirate, o dilettissimi, l’amore affocato della verità e zelo per la causa di Gesù Cristo in questo uomo meraviglioso! Egli adopera tutta la sua autorità, usa d’una santa industria per staccare da sé i discepoli e mandarli a Gesù Cristo, e continua l’ufficio di Precursore e di apostolo perfino in carcere, quando la scure del carnefice lampeggiava sul suo capo! I discepoli obbedirono prontamente, se ne andarono a Gesù, ripetendo a Lui le parole, che Giovanni aveva loro posto in bocca: ” Sei tu Quegli che ha da venire, cioè il Messia e “Salvatore del mondo, o ne aspetteremo un altro?„ La domanda era netta e precisa, e netta e precisa è pure la risposta di Gesù Cristo: risposta data, non con le parole, ma con le opere,, e queste eloquentissime. “Andate e riferite a Giovanni le cose che avete vedute ed udite: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi son mondati, i sordi odono, i morti risorgono ed ai poveri è annunziato il Vangelo. „ Gesù Cristo poteva ben rispondere ai messi di Giovanni: “Sì, dite al maestro ch’Io sono veramente Quegli, che Israele aspetta, il Messia, come Giovanni stesso mi proclamò in faccia al popolo. „ In quella vece Gesù Cristo volle che i messi medesimi comprendessero la verità e facessero a sé ed al maestro la risposta quale risultava dai fatti, che avvenivano sotto i loro occhi. Proprio in quella che i messi di Giovanni si presentavano a Gesù, Egli era circondato da una folla di infermi d’ogni maniera, che imploravano ed ottenevano la guarigione: erano ciechi, storpi, lebbrosi, sordi e perfino alcuni morti risuscitati. S. Luca narra il fatto stesso e rischiara il racconto di S. Matteo. Quelle guarigioni sì svariate, sì numerose, sì istantanee, operate con un solo cenno, con una sola parola, dinanzi ad una moltitudine che tutto vedeva, dissipavano ogni dubbio sulla divina missione di Gesù Cristo e costringevano i più diffidenti e più restii a prestar fede alla sua dottrina ed a credere senza esitanza, Lui  essere veramente l’aspettato Salvatore del mondo. Il Vangelo non dice che cosa facessero o dicessero i messi di Giovanni; ma io penso che, retti e sinceri come dovevano essere, senza più si arrendessero all’evidenza dei fatti e riportassero al maestro ciò che avevano udito e veduto e lo ricolmassero di gioia, dichiarandosi pronti a seguire Gesù Cristo. Permettete, o cari, una applicazione, che viene spontanea dal fatto narratovi. Ciechi, storpi, lebbrosi, sordi correvano a Gesù per essere guariti; fino i morti si portavano a lui, perché li richiamasse a vita novella, e l’amabile Gesù tutti accoglieva e tutti rimandava esauditi e consolati. Quanti stanno in mezzo a noi ciechi e storpi della mente, coperti della lebbra schifosa del peccato, sordi alla voce della coscienza; morti miseramente nell’anima! Vedete questa turba di infelici tanto più degni di compassione in quanto ché assai volte non conoscono la loro misera condizione! È sventura grande non vedere la luce del sole ed essere sepolti in fitte ed eterne tenebre: ma è sventura troppo più grande non vedere la luce della verità e brancolare nella notte dell’errore. Muove pietà uno storpio, che non può reggersi in piedi, né dare un passo: ma ben più deplorevole è la sorte di tanti poveri fratelli, che giacciono là immobili nel lezzo delle loro passioni. Fa ribrezzo vedere un lebbroso, disfatto da questo insanabile morbo e al quale cadono a brani a brani le carni e che beve a lenti sorsi la morte più atroce: ma che dire del peccatore, fatto abominevole agli occhi degli Angeli e di Dio! Vedete quel sordo sventurato, sempre triste, cupo, sospettoso: tra lui e la società è rotto ogni commercio; nessuna armonia rallegra mai il suo orecchio e la parola non può destare la sua intelligenza impotente a conoscere il dovere, se stesso, il suo Dio. Egli è una pallida immagine di quei Cristiani che non ascoltano mai la parola di Dio, che turano le orecchie del cuore ai rimorsi della coscienza. Un cadavere ci fa orrore: quegli occhi semiaperti e cristallini, che non vedono; quegli orecchi che non odono; quella lingua muta, quelle mani e quei piedi irrigiditi; quel corpo immobile, freddo, abbandonato, fa paura; ma l’anima in peccato, se la vedessimo, è senza confronto più orribile d’un cadavere. Essa è morta alla grazia, a Dio, per se stessa impotente a qualunque atto, che sia buono; se in questo stato si separasse dal corpo, sarebbe eternata nella morte. Che fare, o poveri ciechi e storpi, lebbrosi e sordi e morti? Quel Gesù che risanava i corpi e risuscitava i cadaveri, vive sempre nella sua Chiesa: Egli è pronto e desideroso di rinnovare nelle anime i miracoli, che operava nei corpi. Se Gesù non rimandò mai da sé un solo infermo del corpo senza consolarlo e risanarlo, talvolta anche senza esserne pregato, che non farà con gli infermi dell’anima? Non è questa incomparabilmente più del corpo? Non è principalmente per la salvezza dell’anima ch’Egli è venuto sulla terra? Deh! dunque venite a Lui, e gli occhi della mente saranno aperti, e raddrizzati i piedi nelle vie della virtù, e mondate le vostre coscienze e risanate le vostre orecchie spirituali e risuscitate le vostre anime, perché Egli è la luce, la verità e la vita. Non posso non richiamare la vostra attenzione su quella sentenza sì cara del Figliuol di Dio, dataci quale argomento sicuro della sua venuta. “Ai poveri è annunziato il Vangelo. „ Non so dirvi come queste parole commuovano il mio cuore. Il mondo, o cari (non dimenticatelo mai), ebbe sempre in disprezzo i poveri, che sono anche quasi sempre per necessità delle cose i meno istruiti. I sapienti, i filosofi di tutti i tempi e di tutti i paesi non solo non si degnavano di istruire il povero popolo, ma a bello studio lo tenevano nella ignoranza, né gli permettevano che varcasse le soglie delle loro scuole ed accademie. La scienza doveva essere di pochi, patrimonio dei ricchi. Crudeltà che non ha nome! Gesù Cristo pel primo volle che la sua scienza divina fosse di tutti, ma particolarmente del povero popolo, perché maggiore è il suo bisogno. È Gesù che portò sulla terra questa santa eguaglianza di tutti quanto al possesso della verità: è Gesù che disse agli apostoli: — Andate, ammaestrate tutte le genti: la verità l’avete ricevuta da me gratuitamente e gratuitamente datela a tutti. Il mio Vangelo deve essere annunziato ai poveri! — Quale dottrina consolante! Quale beneficio! “E beato colui, che non patirà scandalo in me. „ La più terribile prova, alla quale venisse posta la fede degli Apostoli e di quelli che vivevano al tempo di Gesù Cristo, era certamente il vedere Lui stesso. Un uomo povero, che non aveva dove posare la sua testa, che viveva di limosine, che aveva sempre lavorato come un operaio, che pativa la fame e la sete, calunniato, perseguitato, messo in croce come un malfattore, e dover credere, che quell’uomo era Dio, Signore del cielo e della terra! Ah! confessiamolo, o cari, la vista di Gesù Cristo era veramente una pietra di scandalo, cioè una fortissima tentazione per dire : — No, quest’uomo, benché santo e operatore di miracoli strepitosi, quest’uomo non può essere Dio; sarà un gran profeta, un uomo di Dio, ma Dio! È troppo: ripugna alla ragione che la maestà di Dio siasi cotanto abbassata! — Così purtroppo allora ragionavano moltissimi e non credevano a Gesù Cristo. Ecco perché Egli disse: — Beato chi non patirà scandalo in me. — Noi veniamo diciannove secoli dopo quelli: noi conosciamo non solo i miracoli operati allora da Gesù Cristo, ma tutti quelli non meno grandi, che poi furono operati nel suo nome: noi stupefatti contempliamo l’immensa gloria, onde Gesù Cristo si circonda attraverso ai tempi e che lo solleva a tanta altezza, che non ha l’eguale. No, noi non possiamo patire scandalo, vedendo le umiliazioni di Gesù Cristo, perché queste ci mostrano la sua carità smisurata e sono di gran lunga vinte dalle sue glorie. “Ora, come i messi di Giovanni se ne andavano, Gesù prese a dire di Giovanni alle turbe: Che mai andaste a vedere nel deserto? Forse una canna agitata dal vento? „ Senza dubbio la venuta e le interrogazioni di Giovanni dovevano essere l’argomento delle conversazioni della moltitudine e il nome di. Giovanni in quel momento doveva essere sulle labbra di tutti, e Gesù Cristo colse il destro di parlare di lui, di tesserne le lodi, di rendergli pubblica testimonianza, come Giovanni l’aveva resa a Lui, e mostrare la perfetta armonia che regnava tra loro. Nessun uomo mai ebbe la gloria di ricevere dalla bocca di Cristo i magnifici elogi che ricevette Giovanni. La folla, a cui Gesù Cristo rivolgeva la parola, in gran parte almeno, doveva essere stata nel deserto a veder Giovanni, allorché predicava, e perciò, indirizzandosi ad essa, diceva: — Voi andaste a vedere Giovanni: bene sta; e che vedeste voi? Forse un uomo che si muta ad ogni spirare di vento? — Evidentemente questa domanda equivale ad una risposta negativa; come se dicesse: Certo voi non vedeste un uomo che piega ad ogni soffio d’aria. Voi trovaste in lui l’uomo saldo ad ogni prova più dura, che non cede a minacce, né si piega a promesse, sempre eguale a se stesso, che non muta linguaggio, che ha sempre e dovunque, d’innanzi al popolo, come in faccia ai re, una sola legge inviolabile, l’amore della verità —. Dilettissimi! quanti di noi potrebbero meritare l’elogio di Giovanni? Siamo sinceri; troppe volte siamo come canne agitate dal vento, cadiamo al timore del biasimo, all’amore della lode, ci diamo vinti al rispetto umano, sacrifichiamo la coscienza, il dovere e la verità. Prosegue l’elogio di Gesù Cristo. “Ma che andaste a vedere? Porse un uomo vestito di morbidezze? Eh! quelli che indossano morbide vesti, abitano le case dei re. „ L o vedeste Giovanni Battista là nel deserto. Come vestiva? Forse ricche e molli vesti? Sedeva forse a lauta mensa e si nutriva di cibi delicati? Era egli uomo, che amava i comodi, il lieto vivere, che accarezzava il corpo? Ditelo voi che lo vedeste. “Egli indossava una veste di pel di cammello, stringeva ai fianchi una cintura di cuoio e si nutriva di locuste e di miele selvatico „ (Marco, I, 6, 7). Giovanni era l’uomo della penitenza, della austerità. Quelli che menano vita comoda, che amano i piaceri, che blandiscono la carne, non vivono nel deserto, come Giovanni, ma nelle case dei grandi e dei re. – In queste parole Gesù Cristo ci dà una grande lezione: ci insegna che una vita molle quanto al vitto ed al vestito non è la vita del seguace di Giovanni e sua: ci insegna che dobbiamo rinnegare noi stessi, mortificare i sensi, in una parola, condurre una vita penitente se vogliamo essere suoi discepoli. La virtù, o cari, non cresce che all’ombra della croce: l’austerità della vita ne è il fondamento, diceva Tertulliano, e la mollezza la rovescia. Virtus duritìe extruitur. mollitie destruìtur (Ad Marc.). Credere di praticare la virtù e giungere a salvamento per altre vie che per quella della penitenza, è una strana illusione. – “Ma che siete andati a vedere nel deserto? Un profeta? Sì, vi dico: anche più che un profeta. ,, Gesù Cristo fa di Giovanni un triplice elogio: prima gli dà lode d’uomo fermo, incrollabile; poi d’uomo mortificato, e finalmente lo chiama profeta, anzi più che profeta. La parola profeta nei Libri santi si usa talvolta in senso largo per indicare un uomo, che annunzia la verità a nome di Dio: tal altra e più spesso si adopera nel senso più rigoroso di uomo che predica il futuro. Qui Gesù Cristo chiama profeta Giovanni nell’uno e nell’altro senso, se non erro. Giovanni è profeta, perché maestro del popolo e annunziatore d’una dottrina morale, che in sostanza è quella del Vangelo: è profeta, perché al popolo ricorda le promesse fatte ad Israele e annunzia vicini a compirsi i vaticini degli antichi profeti e riconferma l’imminente venuta del Messia: è più che profeta, perché a lui è dato di mostrare a dito quel Salvatore del mondo, che gli altri profeti annunziarono da lungi. – Il nostro Vangelo si chiude con un oracolo del profeta Malachia, che Gesù Cristo dichiara compiuto in Giovanni Battista. È Giovanni “… quegli, del quale è scritto: Ecco il mio Angelo davanti alla tua faccia, il quale preparerà la tua via innanzi a te. „ Son due le venute di Cristo sulla terra, come è chiaro dalle Scritture: la prima come Redentore del mondo, l’altra come Giudice supremo: la prima è già avvenuta, l’altra avverrà alla fine dei secoli; precursore della prima fu Giovanni, della seconda sarà Elia. Lo spirito, la virtù e diciamo il ministero di questi due sommi personaggi è simile, anzi pressoché eguale. Ecco perché talvolta quasi si confondono tra loro nei Libri divini e Gesù Cristo stesso dice, che Elia è già venuto ed è Giovanni (Matt. XI, 14). Ma dal contesto è chiaro che Gesù Cristo chiama Giovanni Elia, non perché Giovanni sia veramente Elia, ma sì perché era ripieno dello spirito di Elia e preparava la via a Lui nella sua prima venuta. Carissimi! vendiamo di porci ben addentro nell’animo le parole di Gesù Cristo, che abbiamo udito, e gli esempi di virtù del suo Precursore, e studiamoci di imitarli.

CREDO …

Offertorium
Orémus
Ps LXXXIV:7-8
Deus, tu convérsus vivificábis nos, et plebs tua lætábitur in te: osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam, et salutáre tuum da nobis.
[O Dio, rivongendoti a noi ci darai la vita, e il tuo popolo si rallegrerà in Te: mostraci, o Signore, la tua misericordia, e concedici la tua salvezza.]

Secreta
Placáre, quǽsumus, Dómine, humilitátis nostræ précibus et hóstiis: et, ubi nulla suppétunt suffrágia meritórum, tuis nobis succúrre præsídiis. [O Signore, Te ne preghiamo, sii placato dalle preghiere e dalle offerte della nostra umiltà: e dove non soccorre merito alcuno, soccorra la tua grazia.]

Communio
Bar V: 5; IV:36
Jerúsalem, surge et sta in excélso, ei vide jucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.
[Sorgi, o Gerusalemme, e sta in alto: osserva la felicità che ti viene dal tuo Dio.]

Postcommunio
Orémus.
Repléti cibo spirituális alimóniæ, súpplices te, Dómine, deprecámur: ut, hujus participatióne mystérii, dóceas nos terréna despícere et amáre cœléstia.
[Saziàti dal cibo che ci nutre spiritualmente, súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché, mediante la partecipazione a questo mistero, ci insegni a disprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti.]

 

FESTA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE (2018)

DISCORSO XIV.
[p. V. Stocchi: “Discorsi sacri”, Befani ed. ROMA, 1884]
I. SOPRA LA CONCEZIONE IMMACOLATA DI MARIA
Venite, audite, et narrabo, omnes qui timetis Deum, quanta fecit animæ meæ.
Ps. LXV, 16.

Se è istinto naturale e legittimo del cuore dell’uomo, che risaluti con nuova esultanza l’anniversario ricomparir di quei giorni, che un desiderato avvenimento gli fece belli e memorabili, abbiamo o signori manifesta e chiarissima la ragione, perché fra le tante solennità onde la santa Chiesa onora Maria, nessuna rifulge al popolo cristiano così piena di giocondità e di letizia quanto questa dolcissima della Immacolata Concezione di Lei. Ricevemmo le altre dalla pietà e dalle mani dei padri nostri già perfette e mature, onde nulla fu aggiunto ad esse per noi, né crebbero fra le nostre mani, né si abbellirono: ma di questa i maggiori altro non potettero tramandarci che i desideri, l’anticipazione e i principi, che, veggenti noi e cooperanti, raggiunsero il compimento, e toccarono il segno. Cosa nostra è dunque in peculiar modo la odierna solennità, nostra perché la affrettammo coi nostri voti, nostra perché la sollecitammo colle nostre suppliche, nostra perché contemplammo cogli occhi nostri e salutammo coi nostri applausi il novello diadema intrecciato alla fronte di Maria, nostra in una parola, perché questa seconda metà del secolo decimonono fu quella pienezza dei tempi nella quale il gran privilegio emerse dalle ombre terrene che lo offuscavano e guadagnò la pienezza del suo splendore. Ma tanta soavità di memorie, che a tutti noi fa caro questo giorno sopra l’usato, a me rende più dell’ usato penoso e difficile il debito di favellare, non perché sopra ogni tema non mi sia dolce il favellar di Maria, ma perché avendo già fatto restremo della lor possa non meno il Magisterio apostolico nel definire e la scienza nel propugnare, che la sacra eloquenza nel celebrare la originale santità di Maria, ad orecchie come sono le vostre usate da più anni al nobilissimo assunto e piene delle voci di tanti uomini dottissimi e facondissimi, sento di non potere nella mia povertà arrecar nulla, che possa essere ascoltato non dico con diletto, ma con pazienza. Ma che fare, poiché né è in potestà mia il sottrarmi oggi a questo ufficio del favellare, né la vostra pietà né il cuor mio sosterrebbero, che favellando, d’altro favellassi fuorché di Maria Immacolata? Di Maria Immacolata pertanto favellerò, poiché conviene così, e darò opera di pascolare il cuor vostro spiegandovi a parte a parte dinanzi agli occhi qual sia e quanto quel gran tesoro di grazie che nel primo istante dell’Immacolata sua Concezione abbellì la Vergine. Prima che l’oracolo del Vaticano accertasse il gran privilegio, i sacri oratori si studiavano in propugnarlo: dopo la memorabile definizione a noi non rimane altro fuorché illustrarlo.
1. Se la divina maternità è la radice e la sorgente di tutti i doni onde venne privilegiata Maria, e ad essa mirò il sommo Artefice quando architettò questo capo di opera delle sue mani; l’immunità e la franchigia dalla macchia di origine è la base e il fondamento sopra il quale punta ed erge tutta la mole. Fondamento ineffabile di questa celeste Gerusalemme, gettato dalla mano medesima del Signore, che vi profuse ogni più eletta ragione di pietre preziose e di gemme, le quali ai dì nostri per la voce del Vicario di Gesù Cristo rivelandosi, forbendosi e scintillando, mostrano col loro fulgore quanto fosse contro ogni ragione il pur sospettare ad un’opera di tanta eccellenza sottoposto per fondamento il fango e la putredine del peccato. No, Fundamenta muri civitatis omni lapide pretioso ornata, (Apoc. XXI, 19.) possiamo ora dir noi appropriando a Maria quello che l’Estatico di Patmos cantò della Gerusalemme che scendeva dal Cielo, e considerare che bella vista dovesti dare di te medesima agli occhi del Signore o Maria adorna di queste gemme fin dall’istante primissimo che fosti concetta. Erano quaranta secoli che Iddio tenendo d’occhio le umane generazioni e spiandone e governandone il corso, altro non vedeva fuorché peccatori e peccati. Come della terra uscita allora allora dal nulla, è scritto che era grama, era vuota, e la notte orrenda che copriva la faccia dell’abisso la ravvolgeva, così per l’uomo l’esser concetto era un medesimo coll’esser compreso e assorbito dal nulla tenebroso ed orribile della colpa. Rimirando pertanto il Signore l’opera sua non la ravvisava per quella che Egli la fece, e come chi in luogo di amata donzella, che ha destinato di assumere al consorzio delle nozze e del talamo trovasse un cadavere inerte, squallido, putrefatto, fuggirebbe inorridito da quella vista volgendosi egli in oggetto di abbominazione, ciò che gli fu fiaccola di desiderio ed incentivo di amore, così Dio guardando l’umana natura caduta dalla nobiltà nativa e giacente nell’abbiezione della colpa, lacera, tronca, dissoluta come cosa fulminata e maledetta, la respingeva da sé. Quando a un tratto, stanco per così dire della vista e dello spettacolo di tanta miseria, “… spunti finalmente, gridò, spunti fra tanta notte un raggio di luce. Fiat lux”. E la luce fu fatta, non luce piena no, né come di meriggio, che questa recata avrebbe tra poco il sol di giustizia, ma luce rosea e gentile, e quale di aurora che si affacci al balcone di oriente allorché inaugurando il mattino sembra chiedere ai mortali che vagheggino lei foriera bellissima, mentre addita l’astro sovrano e gli infiora la via. E tu fosti questa aurora o Maria, Tu che presente all’intelletto divino fin da quando architettava i cieli, tirava un vallo all’intorno e costringeva a certa legge gli abissi, e librava i fonti delle acque, pargoleggiasti al cospetto di quella maestà col vezzo di garzonetta innocente. Fosti Tu che dai più sublimi splendori del Paradiso scendesti al dolce connubio delle membra in compagnia delle quali dovevi, pellegrina celeste, fornire il viaggio di questa valle. Fosti Tu, e all’ingresso del corpo, valico formidabile dove quanti furono avanti e saranno dopo di Te figliuoli di Adamo incorsero e incorreranno la catena e il giogo di satana, Tu trovasti la grazia che ti aperse le porte, trovasti il Padre, il Figliuolo e lo Spirito che presiedettero al benedetto connubio, che santificarono l’abitacolo e l’abitatrice, che Ti cinsero alle tempie la corona della vittoria ed abitaron con Te.
2. Dico la corona della vittoria, imperocché, per esprimere secondo la bassa e terrena facoltà delle nostre fantasie con immagini sensibili cose che eccedono la tenuta del senso, non vide appena satanasso quest’anima pellegrina calar dal Cielo alla terra, che le tese tosto quei lacci onde mai nessuno campò, e a baldanza di tanti secoli di esperimento infallibile, fidente e sicuro apprestava già la catena ed arrotava l’artiglio: ma che ? A modo di colomba, che con le ali ferme ed aperte si tragitta oltre la opposta riviera delle acque, travolò Maria, tutti i lacci trascorse, tutti gli agguati, e mentre il fellone stordiva di questa preda che per la prima volta gli fuggiva di pugno. Ella con tal impeto del virgineo piede gli calcò la testa che lo conquise, onde ricordò la minaccia che nell’Eden gli avvelenò la gioia della vittoria, sospettò suscitata nella novella concetta la fatale nemica, e gli parve udire il primo crollo e il primo scroscio del suo trono che rovinava. Immagini grossolane son queste che non hanno col vero più proporzione di quel che abbia l’ombra con la luce, il corpo con lo spirito, la terra col Cielo, ma che pur sono le prescelte nelle Scritture, ad adombrare la gran vittoria della Vergine sopra il serpente nemico. Vergine veramente privilegiata e felice, che per la prima volta offerse agli occhi del Signore lo spettacolo di una figlia di Adamo franca ed immune da quella maledizione che l’infelice padre lasciò doloroso retaggio ai suoi figli, onde Iddio abbracciò in Essa una primizia incontaminata di quella umana natura che avrebbe tutta quanta riabbracciata di poi nel benedetto portato di questa fanciulla, le stampò in fronte un soavissimo bacio di pace, la dichiarò Figliuola sua primogenita, ed erede del Regno, del quale l’avrebbe, procedendo e moltiplicando in privilegi e in favori, incoronata Regina. E questa compiacenza del Signore intende di adombrare la Chiesa, quando nelle solennità di Maria, ci ripete gli accenti amorosi dello Sposo delle sacre canzoni; il quale standosene a contemplare la sua diletta tra nascosto e palese dietro alla parete domestica, e dalla finestra sguardandola e di fra le sbarre dei socchiusi cancelli; o quanto sei bella, le dice, quanto sei bella. vinci di leggiadria Gerosolima: come quelli delle colombe sono i tuoi occhi, i tuoi capelli assembrano i folti velli dei greggi che pasturano sui monti di Galaad, i tuoi denti sono a vedere un drappelletto di agnelli, che ascendono candidi e rugiadosi dall’argentino lavacro della fontana, ti sollevi come la palma fra i minori arboscelli, la maestà della tua fronte pareggia il fronzuto dorso del Carmelo, la luna non è più vaga, il sole non è più luminoso di Te.
3. Già vi accorgete o signori, che nulla si conviene aspettare di comunale né di usitato dopo questi principi, e chi può dire a che altezza condurrà il Signore quest’opera che ha cominciato con lo infrangimento della legge più universale della decaduta natura? È gran cosa l’essere preservato dall’incorrere l’obbrobrio della colpa e la miseria della schiavitù del demonio, e questo solo basterebbe perché Tu a noi di tratto infinito soprastessi o Maria, noi dovremmo pur sempre avvallare la fronte davanti a Te, e confessare che fummo schiavi e mostrare il solco dei ceppi e i lividi di della catena: Tu potresti procedere come Regina nel mezzo a noi, e vantare che redenta con una redenzion che preserva, mai non chinasti il capo al cospetto del nemico di Dio. Ma ahimè, in noi anche redenti, lavati e fatti membra di Gesù Cristo rimane un’orribile traccia e un monumento obbrobrioso del peccato che fece la sua dimora dentro di noi, traccia e monumento che suggella questo nostro corpo, e rende testimonianza che è carne di quella massa che in Adamo prevaricò. Dico la concupiscenza ribelle, il fomite della carne, la legge delle membra, quella che faceva piangere l’Apostolo Paolo, che la chiamò peccato, non perché peccato sia veramente, ma perché proviene dal peccato e inclina al peccato, e se avvenga che concepisca, genera morte. Questa è quella nemica che tiene noi con noi medesimi in continua battaglia, questa opera che nel cuor nostro raro sia calma e sereno, sempre o quasi sempre tempesta, mentre la carne insorge contro lo spirito, l’appetito contro la ragione, e ora con le tenebre che esala ad oscurar l’intelletto, ora con le lusinghe che adopera per travolgere la volontà, ora con le querele che mena, e coi fremiti e coi ruggiti che mette, ripugnanti quasi e tergiversanti ci trascina o minaccia di trascinarci al suo desiderio. Ahimè uomo infelice, gridava l’Apostolo, bersagliato e percosso da questa guerra, chi mi libererà da questo corpo di morte? Fortunata Maria! Quella mano medesima, che la scampò agli artigli di Satana, quella medesima estinse nel medesimo istante nella sua carne, e sterpò questo fomite obbrobrioso; e si vide in Lei disusato miracolo, la carne di Adamo senza le turbolenze e i tumulti della carne di Adamo. Privilegio grande fu questo che da Gesù in fuori, altri non ebbe mai che Maria, l’ebbe Gesù per natura, Maria per grazia: impossibile che nel distruttor del peccato abitasse questo maligno consigliere e sollecitator di peccato; impossibile che lo specchio della luce eterna, sostenesse che nella Vergine suo futuro abitacolo, nella sua carne futura andasse in volta anche per un istante un abitatore cosi laido. Che terra dunque è questa, domanda Riccardo da S. Vittore, dai confini della quale tutte sono sterminate le guerre? È quella terra, risponde, che è serbata a germogliare la santità. In cæteris sanctis, seguita a dire, magnificum est quod a vitiis non possunt expugnari. Agli altri Santi è gloria magnifica il non lasciarsi espugnare dai vizi. In Virgine mirificum videtur quod a vitiis non potest vel in modico impugnari. Alla Vergine questa gloria sarebbe poco, se al primo non si aggiungesse l’altro miracolo, che esser non possa neppure per un istante impugnata. Nessuno dunque domandi dove sia il Paradiso terrestre dovuto a tanta innocenza e santità di creatura. Paradiso fu a sé medesima l’anima purissima di Maria, e chi può dire la pace beata e la serenità di quel Paradiso? Non erano in Lei passioni che si ribellassero, in Lei non erano appetiti che si accendessero; in Lei non erano sensi che tumultuassero; l’ignoranza non offuscava l’intelletto colle sue tenebre, la malizia non inceppava la volontà con le sue nequizie; la ragione illuminata sempre dal sommo vero, il cuore sempre occupato dal sommo bene, tutto era delizia in questa abitazione futura del Principe della pace.
4. O bella dunque nella sua concezione, e tanto bella da innamorare gli occhi della terra e del Cielo l’anima di Maria, immune di ogni peccato, immune di tutto ciò che incita e sprona al peccato; ma crediamo noi che l’Altissimo si sia tenuto in questi termini, per dir così negativi, e non abbia altri tesori profuso per abbellir questa Vergine assortita a così eccelsi destini? Mandato da Dio si presentò un giorno al re Acaz il profeta Isaia, “ … e Re, gli disse, pete Ubi signum a Domino Deo tuo, sìve in pròfundum inferni sive in excelsum supra. (Is. VII, 11) Domanda un segno al Signore Dio tuo e dimandalo dove vuoi. Se lo domandi nell’alto dei cieli lo avrai nei cieli, e lo avrai nell’inferno se lo domandi nel profondo medesimo dell’inferno. No, rispose Acaz, non domanderò questo segno, né sarà mai che io tenti il Signore. Non vuoi tu questo segno? Or bene, il Signore quasi a tuo dispetto te lo darà, ed ecco una Vergine concepirà e partorirà un figliuolo che sarà Dio. e permanendo vergine diverrà Madre. “Dabit Dominus ipse vobis signum: ecce Virgo concipiet et pariet filium.” (Is. VII, 14.) Un portento deve esser dunque Maria ordinata a concepire e partorire un divino portato, e tal portento che preluda e si proporzioni alla divina Maternità. Quindi ogni grazia per prodigiosa che sia non deve parerci in questa Vergine né eccessiva né strabocchevole, siccome in Colei che apparecchiandosi a una dignità che tiene dell’infinito, sembra che la onnipotenza divina debba, per così dire, esaurir se medesima per ingrandirla. – Fate grandi, diceva Salomone, gli apparecchi per la gran mole del tempio, fateli sontuosi, nessuna profusione di tesori vi sembri troppa. Non enim hominibus præparatur inabitatio sed Deo. (I. Par. XXIX,) Non si appresta la stanza per l’abitazione degli uomini, si appresta la casa per la dimora di Dio. Oh! con quanta più di ragione potettero dirsi queste parole quando l’Altissimo santificava Maria. Verrà tempo che Costei che si raccoglie ora e nasconde pargoletta nell’augusto claustro del seno materno, sarà sublimata alla parentela e al consorzio delle divine Persone tanto strettamente quanto è possibile che creatura si innalzi a Dio senza dismettere la sua condizione di creatura. Il Padre le darà per figliuolo il suo Figliuolo unigenito, e in diversa natura ma nella stessa persona la farà tanto vera Madre del Verbo quanto Egli ne è vero Padre. Il Figlio generato ab eterno dal Padre negli splendori dei Santi, sarà da Maria generato in terra con generazione temporale e da Lei portato nove mesi nel seno, da Lei partorito, allattato e nutricato da Lei, la chiamerà tanto veracemente Madre, quanto chiama veracemente Padre il suo Padre celeste. Lo Spirito Santo amore personale e increato del Padre e del Figlio sopraintenderà quest’opera che eccede ogni comprensione umana ed angelica, e sopravvenendo a fecondare il sen della Vergine la farà sua sposa. Ecco dunque, o signori, che le divine Persone santificando Maria, concorrono alla propria gloria, dovendo Ella con Esse intrecciarsi, intromettersi e intrinsecarsi per modo, da essere cosa tutta singolare, tutta divina, creatura sì certo ma tal creatura che formi un ordine, un ceto, un grado da se con nomi e privilegi incomunicabili, come quelli di Dio. Chi può dubitare pertanto che oltre la grazia necessaria a farla immune dalla colpa di origine e cara al Signore, oltre a sterminare ogni fomite da quella carne che doveva diventar carne del Figlio di Dio; un cumulo, un soperchio, uno strabocco, un tesoro non aggiungessero di grazie e di doni, che la santità di Maria facessero fino dal primo istante una santità tanto singolare da quella di tutti gli Angeli e di tutti i Santi, quanto sovrasta a quella di tutti gli Angeli e di tutti i Santi la dignità e l’ufficio di Madre di Dio? O sì, sì, rispondono un gran numero di Dottori e di Santi, si. Il Signore dilesse le porte e la prima soglia di questa eletta Sionne più che tutti i tabernacoli di Giacobbe. Mettete quindi tutti insieme gli Angeli e i Santi; la grazia che li arricchisce raccolta in un cumulo, non pareggia quella che fece bella Maria nel primo istante che fu concetta. Stupite forse? Ma che stupire, dice il pontefice S. Gregorio. È Maria un monte piantato sulle cime dei monti, e dove la santità dei Santi finisce, ivi comincia quella della Vergine. Mons Domini in vertice montium: montìs nomine intelligimus beatam Virginem designari. – Negli altri Santi, segue S. Girolamo, l’infusione della grazia si fece per parti: in Maria no, in Maria tutta in un tempo se ne traboccò la pienezza, come un regio fiume nel mare con tutta la mole delle onde. Cæteris per partes, in Maria simul se tota infudit, plenitudo gratiæ. Non se ne dubiti, conclude S. Bernardino:
Mariæ, plenitudo perfectionis Sanctorum omnium non defuit. La pienezza della perfezione di tutti i Santi, non mancò quando fu fatta bella Maria. Ma udiamo, se vi piace, favellare Maria medesima con le parole che le pone sul labbro in questo giorno la Chiesa e questa sovraeminenza di grazia sulla grazia di tutti i Santi fin dalla sua concezione vedremo adombrata con tanta leggiadria di immagini, che ci empirà di diletto. Io procedetti, dice Ella, dalla bocca dell’Altissimo primogenita di ogni creatura. Io dischiusi in Cielo una fontana indeficiente di luce, e quasi aereo vapore tutta adombrai la terra. Posi mia stanza su nell’empireo e il mio trono piantai sovra una colonna di nubi. Feci soletta il giro dei Cieli, penetrai in seno agli abissi, passeggiai sui flutti del mare. Strinsi su tutta la terra lo scettro, e colsi in ogni popolo i primi onori. I cuori dei sublimi e degli umili soggiogai in mia possanza, e il Signore che riposò nel mio tabernacolo, abita, mi disse, con Giacobbe, sia tuo retaggio Israele, e gettai negli eletti le tue radici. E io le gettai in mezzo a un popolo glorioso, nella eredità del mio Dio, nella pienezza dei Santi. Sublimai me medesima come cedro del Libano, come cipresso di Sion: spinsi al cielo la fronte come palma di Cades, spiegai l’onore delle foglie come rosa di Gerico, lussureggiai vivace come platano lunghesso la corrente dell’acque, al modo di terebinto distesi i rami, mandai fragranza di balsamo, di cinnamomo, di mirra, e di profumo soavissimo vaporai la dimora in cui mi pose il Signore. Che vuoi dirci con questo o Maria se non che Tu sei la colomba, la perfetta dello Spirito Santo, e che se le leggiadre garzonette di Sion non hanno numero, Tu di bellezza e di grazia tutte le vinci.
5. Maria franca ed immune dalla macchia di origine; Maria libera dal fomite del peccato; Maria fatta ricca di tanta grazia, che quella eccede di tutti insieme gli Angeli e i Santi, e tutto ciò in un istante, nell’istante primissimo che fu concetta. Chi non si accorge che questa eccellenza di principio presagisce un esito, che deve eccedere ogni misura? Sì. Quando pure di Te o Maria altro non ci fosse noto che questo soperchio di prodigi accumulati sul primo istante dell’esser tuo, presentiremmo e argomenteremmo gran cose, e per poco non sospetteremmo la divina maternità. Che meraviglia pertanto se io aggiunga, che Maria nella sua concezione fu confermata in grazia per modo, che la sua volontà stabilita nel bene, fosse capace di ogni eccellenza di merito, fosse incapace di ogni mutazione colpevole? Ripugnava tanto il peccato alla futura dignità di Maria, che ogni colpa anche minima l’avrebbe, al dir dell’Angelico, fatta sproporzionata alla divina maternità. Quindi il Signore non solo non volle neppure per un istante il peccato in Maria, ma neppur ci volle la possibilità del peccato, e tal siepe le fece intorno di doni e di grazie, che stordirono gli Angeli del Paradiso, vedendo in una pellegrina di questa terra, ciò che non credevano possibile, altro che nei comprensori del Cielo. Così fu un orto Maria nel quale ogni più eletto fiore germogliava di virtù pellegrina, ma quest’orto era chiuso né vi poteva avere accesso per disertarlo il peccato. Così fu un fonte Maria, e sgorgava con vena indeficiente un tesoro di opere sante, ma questo fonte era suggellato, né contaminazione di polvere o di immondezza terrena ne poteva intorbidare gli argenti. Così era una porta Maria, ma questa porta serbata all’ingresso del Santo dei Santi, era chiusa per sempre ad ogni piede profano. O spettacolo bellissimo la nostra Madre che piena tutta di grazia non la poteva perdere; né mai neppure una macchia, neppure un neo di quelli medesimi che son portato naturale della nostra miseria, giunse ad offendere l’intemerato candore di quell’anima. O quanto si sublima agli occhi nostri, quanto cresce passo passo questa eletta creatura concetta appena: e bene sta, dice Sofronio. Talibus decébat Virginem oppignorari muneribus,
quæ dedit cœlis gloriam, terris Deum. Con questo arredo di doni, con questa pompa di grazie si convenivano infiorare i primi istanti di questa Vergine; arra e pegno delle nozze future del Santo Spirito e della maternità del Verbo del Padre.
6. Ma se è così, un’altra grazia, corona e compimento di tutte, desidera a questa dolce concetta il nostro cuore: ed è che per Lei per la quale tante leggi si rompono, si rompa anche quella che condanna chi dimora nel sen materno, alla stupidezza e alla inerzia. Sia questa la sorte nostra in quel claustro che bene sta. Imperocché se si aprissero gli occhi del nostro intelletto, non vedremmo altro fuorché la sordida veste del peccato che ci ravvolge. Ma Maria piena di tanta grazia, circondata di tanta magnificenza, apra o apra gli occhi della mente, e si accenda di santi affetti, e sciolga un inno di lode a chi la fé santa. Rallegriamoci, dice Bernardo, che così fu. Era nel claustro tenebroso del seno materno Maria, ma né quelle tenebre infoscavano la luce dell’intelletto, né quelle angustie inceppavano la libertà dell’arbitrio. Potette, seguita il Cartusiano, al suono della voce di Maria esultare nel seno materno il Battista, e perché non dovremo credere prevenuta dal lume della ragione la prediletta di Dio? Ebbero gli Angeli, ebbero Adamo ed Eva insieme con l’essere l’uso spedito e libero dell’intelletto, chi vorrà negare a quest’Eva novella che lavò l’onta e riparò il fallo dell’antica, un dono che privilegiò quella prima? O soave pensiero! Maria che aprendo gli occhi nell’istante medesimo che fu concetta si trova santa, e comincia a trafficare il tesoro che la fa ricca, né un istante le passa di quel tempo medesimo che corre ozioso per noi, nel quale con ineffabil moltiplico non operi per farsi piena di grazia. Prodigi sono questi ma non son tali che superino Maria medesima. Fecit mihi magna qui potens est. (Luc. I , 49) ci dice Ella di sua bocca, licenziandoci a pensare ogni gran cosa, perché la misura si serba cogli altri Santi, ma con Maria, non erat impossibile apud Deum omne verbum, (Luc. I. 37.) non ci è altra misura che l’Onnipotenza divina. Figliuola di Adamo, ma senza colpa, vestita di carne ma senza fomite, nel primo istante dell’essere è Sovrana fra i Santi, impeccabile ma con merito, concetta appena e dotata già di ragione. Vi sgomenta la pugna di tanti contraddittori ? Aggiungete adunque: Incorrotta ma senza sterilità, feconda ma senza lesione, gravida ma senza peso, partoriente ma senza doglie, Madre ma sempre Vergine, moribonda ma senza angosce, defunta ma senza putrefazione, beata ma insieme col corpo, e che è dir tutto in uno, Creatura e pur Madre, Figliuola e Sposa di Dio. O Maria, miracolo di tutti i miracoli noi non abbiamo mente per comprenderti e ne gioiamo, perché la nostra ignoranza medesima rende testimonianza alla tua grandezza, che Dio solo conosce quanta è, Soli Deo cognoscenda reservatur.
7. Maria dunque figliuola di Adamo né più né meno di noi, è stata dalla grazia del Signore nobilitata ed innalzata così, che a malo stento si riconosce in Lei questa nostra natura, in noi fiacca, vulnerata, inferma, peccaminosa, in essa sana ed intatta. Ma che perciò? Crederem noi che come nel mondo coloro che di basso stato ed abbietto si sollevarono ad alta fortuna, sogliono riguardare con occhio disdegnoso chi un giorno andava del pari con essi, quasi la vista di lui getti loro in faccia la nativa viltà; così Maria privilegiata dalle vergogne e dal danno della stirpe di Adamo, non degni sì basso da raccomunarsi con noi miseri eredi della miseria e della colpa del comun padre? No certamente: e come di Gesù è detto dall’apostolo Paolo, che non è tal Pontefice che non possa compatire alle nostre miserie circondato come fu anch’egli su questa terra d’infermità; così Maria privilegiata mentre visse mortale da ogni peccato, privilegiata da quegli effetti del peccato che importano corruzione e vergogna, subì quelli che hanno ragione di mera pena, e santissima e innocentissima sempre fu pur soggetta come Gesù ai dolori e alla morte. E ora assisa nel Paradiso in soglio eccelso di gloria, vestita di sole e coronata di stelle, la fa da Madre per noi, e mentre Gesù offre all’Eterno Padre le piaghe ed il sangue per la nostra salute, Maria perora la causa nostra al cospetto di Gesù, mostrandogli, al dir di Bernardo, il grembo che lo portò e le mammelle che lo allattarono. Ed oh! se noi amassimo Maria come Ella ci ama, se la amassimo signori miei noi beati! Che manca mai ad un’anima che ama Maria? Tutti i tesori della divina Onnipotenza sono aperti per lei, essendo che Maria ne ha le chiavi, e tanto non è ritrosa di aprirli e profonderli, che nulla tanto desidera quanto di arricchire altrui delle ricchezze, le soprabbondano. Permettetemi dunque che levi la voce qui su quest’ultimo e domandi. Quanto è grande l’amore che noi portiamo a Maria? Giovane che hai tanti nemici rabbiosi che ti combattono, tante passioni imperversate che fremono, tanti desideri irrequieti che bollono, che hai latto della devozione che fece tanto soave e pacifico l’esordio della tua gioventù? Dove è andato o fanciulla quel sì tenero affetto verso Maria che tante volte ti ha cavato per consolazione dagli occhi le lacrime, e infiorò di gioia ineffabile gli anni beati della tua innocenza? Ahimè! Cominciò l’amore delle vanità, e menomò quella fiamma. Colla vanità si congiunse quella passione e la spense. Infelici avete scacciato dal cuore Maria, ma con Maria è sparita l’innocenza e la pace, e menate i giorni nel rimorso e nel rodimento. Padri e madri di famiglia, che è stato nelle vostre case della divozione a Maria? Perché più non si recita alla sera il Rosario della Vergine Vergine? Perché si sono intermesse quelle novene? Perché quelle devozioni che da tanti anni empivano di benedizioni la casa sono andate in disuso? Infelici, avete cacciato Maria. Ma uscita Maria ci è entrata la discordia, ci è entrata la disgrazia. Dio non voglia che ci sia entrata l’empietà e il disonore. Che è stato insomma, lo domando a chiunque ha incorso questa gran perdita, che è stato della divozione a Maria? Infelice chi più non ama Maria! A chi si volgerà nei pericoli? Chi invocherà nelle tribolazioni? Con chi sfogherà il suo cuore nei dolori? Chi lo sosterrà nelle miserie della vita? Chi lo aiuterà nelle agonie della morte? O Madre Maria non sia te ne scongiuriamo, non sia mai che alcuno di noi incorra una perdita così funesta come quella dell’amor tuo! Oggi è giorno memorando per noi. È il giorno anniversario di quello in cui noi medesimi esultammo per giubilo alla corona novella che ti cinse la fronte, e ti rinnovammo il dono dei nostri cuori. In questo giorno pertanto detestiamo le negligenze passate, in questo giorno te ne chiediamo perdono, in questo giorno a te ci consacriamo e promettiamo di amarti. Tu ricevi la nostra offerta, ascolta la nostra preghiera, e afforza e premunisci il cuor nostro contro l’amore del secolo acciocché regni in esso con te il tuo divino figliuolo Cristo Gesù che è Dio benedetto sopra tutte
le cose nei secoli dei secoli.

LO SCUDO DELLA FEDE (XL)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XL.

I POTERI DELLA CHIESA.

Le leggi Della Chiesa. — Perché ci proibisce di mangiar carne il Venerdì? — Perché condanna la libertà eli stampa e proibisce certe letture? — Almeno per chi è forte e sagace, e di certi autori moderni non vi dovrebb’essere proibizione di sorta. — Perché la scomunica? — E la fumosa Inquisizione _ E Galileo torturato e imprigionato? E la strage di S, Bartolomeo?

— Da quanto mi ha detto ho riconosciuto che vi ha nella Chiesa un’autorità costituita da Gesù Cristo, autorità che è divina e vera nei Vescovi e nel Papa, ma che nel Papa, Capo supremo di tutta la Chiesa, si concentra e risiede in tutta la pienezza. Ora vorrei sapere che cosa deve e può fare questa autorità.

Te lo dirò in brevi parole:

1° Può e deve ammaestrarci intorno alle verità della fede.

2° Può far delle leggi regolanti il culto divino, la preghiera, le feste, i riti sacri, l’amministrazione ed il ricevimento dei Sacramenti, gli atti penitenziari della vita cristiana, i voti e il genere di vita dei religiosi eccetera.

3° Può esaminare, giudicare e condannare tutte quelle dottrine e tutti quegli atti, che non sono conformi al suo insegnamento e che si oppongono al suo governo.

4° Può infine per mezzo di pene salutari e conformi all’indole e natura sua punire coloro, che si rendono colpevoli in qualsiasi modo contro di lei, contro la sua fede e la sua legge.

— Ormai da quanto ho inteso dirmi, mi sono più che persuaso che la Chiesa ha il potere e il dovere di ammaestrarci intorno alle verità della fede e che noi dobbiamo credere a tutti i suoi insegnamenti per essere veri Cristiani. Ma non capisco ancora come la Chiesa possa anche fare delle leggi, e stabilire certi precetti.

Questo potere della Chiesa è pur esso chiaramente indicato e stabilito nel Vangelo da queste parole: « Tutto ciò che legherete sulla terra, sarà pure legato in cielo » ; parole, con le quali Gesù Cristo dice in sostanza che saranno approvati in cielo quei comandamenti, che la Chiesa farà qui in terra.

— Ma non basta forse la legge di Dio?

E tu credi che la Chiesa facendo dei precetti aggiunga propriamente qualche cosa alla legge divina? La Chiesa con i suoi precetti in sostanza non fa altro che svolgere ed applicare ai singoli casi la legge del Signore. Veniamo a qualche esempio. Iddio nella sua legge ci ordina di santificare i giorni festivi, e la Chiesa, comandandoci di assistere in essi alla Santa Messa, ci svolge il precetto del Signore e ci ammaestra intorno al modo, con cui dobbiamo santificare detti giorni. Iddio ci ordina di credere fermamente in Lui, e di rispettare la dignità della nostra natura col non abbandonarci a brutti peccati, e la Chiesa proibendoci la lettura di libri empi ed osceni, ci aiuta a mantenere ferma la nostra fede e rimuove un grave pericolo per la purità dei nostri costumi. Iddio vuole che noi ad ottenere il perdono dei nostri peccati ci confessiamo al sacerdote suo rappresentante, e la Chiesa ordinandoci di far ciò almeno una volta all’anno ci sprona ad eseguire il volere di Dio. Insomma la Chiesa con le sue leggi va attuando nel modo più opportuno la legge divina, come nella civile società la magistratura va attuando il codice civile.

— Ciò va benissimo. Tuttavia di certi precetti della Chiesa non mi so proprio bene dar ragione. Perché ad esempio la Chiesa ci obbliga ad astenerci dalla carne il venerdì e in altri determinati giorni dell’anno? Che cosa deve importare a Dio se io mangio di grasso oppure di magro?

Tu parlando così, dici dei veri spropositi. La Chiesa ci obbliga al magro al venerdì ed in altri giorni, come pure ad una certa età ci obbliga al digiuno, per farci eseguire il precetto di Gesù Cristo, col quale ci ha ordinato di fare penitenza dei nostri peccati. E siccome poi Gesù Cristo, vero uomo ma pur vero Dio, ha dato Egli il potere alla Chiesa di far delle leggi, perciò a Lui importa moltissimo che noi la ubbidiamo in tutto quello che essa ci comanda.

— Ma dunque Dio ci dannerà per un po’ di carne?

Dio ci dannerà pei nostri peccati, che commettiamo eziandio violando i precetti delle Chiesa. Del resto non ha Iddio condannati Adamo ed Eva per aver mangiato un pomo vietato?

— Ma ho sempre inteso dire, che non è ciò che entra in bocca, che macchia l’uomo.

E già che è così. Ma se l’anima non è macchiata dalla carne che mangi, resta macchiata dalla disobbedienza che commetti verso la Chiesa direttamente, e indirettamente verso Dio che comanda di obbedire alla Chiesa.

— Ma quando si tratta di ammalati, di deboli, di gente piena di occupazioni…

E allora la Chiesa non intende di obbligarli. Basta che chi si trova in tal condizione

se la intenda col suo confessore o col suo parroco: la Chiesa non vuole altro se non che le si professi la sommissione dovuta.

— Ma ciò che non mi va proprio si è quel condannare la libertà di stampa e mettere certi libri all’Indice, proibendone la lettura.

Per contendere alla Chiesa l’autorità di interdire certa stampa e di proibire i libri nocivi alla fede ed ai costumi, converrebbe negare la giurisdizione, che tiene su tutta la società. Si nega forse ad un vignaiuolo il diritto di strappar via dalla vigna, che coltiva, le male erbe e gli sterpi? Si nega ad un pastore il potere di allontanare il gregge dai pascoli e dai fonti nocivi? E alla civile società si contende forse l’autorità di sequestrare quegli scritti che fossero diretti a turbare l’ordine civile? Anche la Chiesa adunque deve avere questa autorità per la sua conservazione e per il bene de’ suoi figli.

— Ma intanto col combattere la libertà di stampa la Chiesa impedisce agl’ingegni di erudirsi.

Dimmi: è forse impedire al fiume la libertà del suo corso alzargli d’ambe le parti gli argini perché non straripi? o non è un aiutarlo a conservarsi con tutte le sue acque, a correre pieno e maestoso, a seguire insomma con più sicura libertà il suo corso naturale? Così fa la Chiesa col reprimere quanto più le è possibile la sfrenata libertà di stampa; contiene entro giusti limiti l’ingegno, perché si eserciti più vigoroso in opere degne di esso e non diventi un flagello della società e della Religione.

— Ma perché mentre lo spirito umano è in progresso e tutto il mondo profitta della civiltà moderna, rinunziare a tanta copia di lumi, che si diffondono pei libri e pei giornali!

Perché non è progresso né civiltà ciò che tende a distruggere l’ordine morale e religioso, ciò che mira a guastare la mente e a corrompere il cuore, ma turpe regresso.

— Eppure certi libri sono scritti in così bello stile, che sarebbe gran danno per la propria coltura il non leggerli.

Potrei risponderti che certi libri sono scritti in uno stile sì orribile, che è un gran danno per la propria coltura il leggerli, Ma supponiamo che sia come tu dici. Dunque per imparare il coraggio avrai d’ora innanzi a metterti a scuola da una banda d’assassini, perché sono la gente più audace che vi sia? Eh! Caro mio! per quanto si tratti di bello stile, non bisogna perciò mettere a pericolo la propria fede e la propria virtù ravvoltolando la mente nel pantano di certi libri, di certi romanzi, e di certi giornali.

— Ma quando uno si sente già forte e sagace abbastanza da distinguere il bene e il male e da respingere questo e appigliarsi a quello, che male c’è a far la lettura di quei libri e di quei giornali?

Quando pure si fosse gli uomini più sagaci e più forti del mondo, sempre si dovrebbe tremare, avendo detto lo Spirito Santo: « Chi ama il pericolo perirà in esso; e non è possibile maneggiare la pece senza restarne contaminato ». Per le cattive letture non sono forse caduti uomini insigni per dottrina e santità? Tant’è: si ha un bel dire: So distinguere… sono forte abbastanza… la realtà è questa, che a poco a poco la lettura di tali libri o giornali ti trasfonde per siffatta guisa nell’anima i loro pensieri, le loro parole, i loro apprezzamenti, i loro giudizi, le loro massime, che anche senza avvedertene si vanno oscurando in te i lumi della fede, l’errore destramente mascherato e gradatamente insinuato prende in te le sembianze della verità, e non va a lungo che tu pensi, parli, apprezzi, giudichi come il libro o il giornale che leggi; e se si tratta di libro immorale l’immaginazione si riempie di impuri fantasmi, il cuore si turba e si accende di impure fiamme, la volontà si guasta e si corrompe, e il senso trionfa sulla ragione. Quindi nessun pretesto può coonestare le cattive letture, epperò a costo di qualsiasi sacrificio, se vogliamo essere Cristiani, Cattolici veri, dobbiamo per sempre rinunziarvi ed astenercene, obbedendo alla Chiesa, che giustamente si vale della sua autorità a proibircele.

— Ma per lo meno certi autori moderni, che hanno acquistato gran fama letteraria, ancorché bacati nella fede e nel costume, non si hanno a leggere per riguardo alla loro bella forma? ed anche un po’ per vedere come la pensano?

Io, per me, ti dico che no. Che vuoi? A questo riguardo sarò un po’ retrogrado, ma io qui ti parlo da sacerdote, cioè da rappresentante di Gesù Cristo, e la sua legge non muta mai. Vedi: conosco degli amici miei, che erano prima di sentimenti al tutto cristiani, e che poi essendosi dati a leggere cotesti autori moderni, che tu sai, incominciando a gustarne l’arte, in breve divennero più o meno liberi pensatori. L’esperienza quotidiana lo dimostra, ed io oso sfidare chiunque a mostrarmi il contrario, che quando pure questi autori col fascino della loro arte paganeggiante non pervertano l’animo totalmente, lo piegano tuttavia a quello spirito di conciliazione fatale, che in breve rende facili e avvezzi a quella tolleranza dell’errore, a quel pratico accomodamento a tutte le idee, che con vero rincrescimento dei buoni, già si vede penetrato in certo giornalismo cattolico, che in ciò eccedendo i limiti di giusta e lodevole modernità, sia pure senza cattivo intento, fa tuttavia i punti d’oro ad ogni nuova opera vuoi letteraria, vuoi teatrale di quegli autori, magari senza aggiungere una parola sola di biasimo o di avvertenza sugli errori e sull’immoralità che ivi si asconde; ciò che riesce ad un tradimento del vero, ad una profanazione del bene e ad un fatale sfibramento del carattere cristiano. Epperò se oggidì molti, tra coloro istessi che la pretendono a Cattolici, sono pervenuti nella letteratura, nell’arte, nel teatro, anzi nella stessa filosofia, teologia e Religione a transazione col senso anticristiano, gli è appunto perché intesero portare a cielo quegli autori moderni e se ne diedero con passione alla lettura. D. Bosco, quel gran maestro ed amico della gioventù, non voleva neppure che certi autori e certe loro opere si avessero a nominare. Ma già… ei portava ancora il codino! Poveretto!

— Ho inteso perfettamente il suo latino; e sarà mio fermo proposito di regolarmi a questo riguardo secondo gl’insegnamenti che m’ha dato. Ma ora mi snodi un po’ un’altra difficoltà. Perché la Chiesa talvolta fa uso della scomunica e di altre pene contro certi Cristiani?

Perché la Chiesa ha i l diritto di provvedere con l’esercizio del potere coercitivo, datole da Gesù Cristo alla conservazione dell’ordine divino, che la fa essere la vera ed unica società religiosa istituita da Gesù Cristo. E siccome chiunque commetta una grave offesa all’unità della sua fede o alla santità de’ suoi costumi, diventa un pericolo per la comunanza cristiana, perciò essa sapientemente e prudentemente lo distingue dalla medesima per mezzo della scomunica, che è un privare l’individuo della comunione ossia partecipazione dei beni, che nella Chiesa vi sono.

— Ma per tal guisa la Chiesa non si mostra crudele?

Come? crudele la Chiesa per l’esercizio di un diritto il più ovvio del mondo, quello

cioè di separare un membro che rechi danno agli altri? Ma allora si deve pur dire crudele il padre, che manda fuori di casa il  figlio ribelle; crudele lo Stato, che sbandisce dal suo seno un cittadino turbolento; crudele quella società che cassa dal novero dei suoi membri un socio indegno. D’altronde credi tu che la Chiesa prima di infliggere questa ed altre simili pene, non proceda sempre con la massima longanimità? Sii certo che prima di ricorrere a questi estremi essa tenta mai sempre tutte le vie per ricondurre prima al dovere chi se n’è allontanato.

— Non mi potrà però negare che la Chiesa siasi mostrata crudele assai con la sua famosa Inquisizione!

Me lo immaginava che saresti venuto fuori anche tu con l’Inquisizione! Ma a questo riguardo io intendo di sbrigarmela teco brevemente e nettamente. Ed anzitutto, dimmi tu, che cosa era l’Inquisizione?

— Ma… io ho inteso dire che era quanto più di inumano vi possa essere… che per essa si infliggevano agli eretici i più orribili tormenti che nel tempo stesso si stava a godere dai vescovi, dai preti e dai frati lo spettacolo delle vittime che si contorcevano

Basta, basta. Vedo che anche tu non fai che ripetere le solite calunnie e intanto non

mi sai dire propriamente che cos’era l’Inquisizione. Dunque te lo dirò io. Essa era un tribunale istituito in molti paesi cristiani col concorso dell’autorità ecclesiastica e civile, composto di uomini i più ragguardevoli per la loro scienza e virtù, avente per ufficio di scoprire, giudicare e reprimere gli atti tendenti a rovesciare la Fede Cattolica. Ora questa istituzione non era dessa saggia, utile, anzi necessaria alla Chiesa, in quei tempi, in cui l’eresia andava facendo tanta strage tra i suoi figli?

« Questo tribunale, dice il Cantù (Vedi Storia universale, tomo XI, capo VI) , ammoniva per due volte prima di aprire qualunque processo, e non comandava che l’arresto degli eretici ostinati e recidivi; accoglieva il pentimento e si limitava a castighi morali; la qual cosa gli permetteva di salvare una moltitudine di persone, che i tribunali ordinari avrebbero condannate ». Dov’è adunque quella crudeltà, che tu appioppi alla Chiesa per ragion dell’Inquisizione? Del resto io non ti nego che i re, che domandavano alla Chiesa l’istituzione dell’Inquisizione nei loro Stati, ne abbiano abusato. Ma di questi abusi si dovrà rendere responsabile la Chiesa? quella Chiesa che per parte sua non lasciò di deplorarli e biasimarli? Quante volte i Papi intervennero colla loro autorità sia per assolvere dalle loro condanne gli eretici, sia per riprendere severamente gli inquisitori della loro durezza, sia per scomunicarli quando non obbedivano ai loro ordini di essere più miti!Dunque la Chiesa per parte sua nell’istituire l’Inquisizione non ha fatto altro che valersi della pienezza de’ suoi poteri e stabilire un tribunale di legittima sorveglianza, di alta protezione, di equità e di indulgenza. Sgraziatamente certi sovrani per ragioni politiche, come ad esempio in Ispagna, inventarono ed applicarono contro gli eretici delle pene gravissime. Ma di questi eccessivi rigori la Chiesa non ha colpa alcuna.

— Certamente, se le cose stanno così, e non ne dubito punto, la Chiesa non ha nessuna colpa. Ma… e Galileo torturato e imprigionato per aver scoperto che la terra gira intorno al sole? e la famosa strage di S. Bartolomeo?

Calunnie vecchie anche queste. Anzitutto è falsissimo che Galileo sia stato torturato, come comprovano molti scrittori, non già preti, ma laici, e vari documenti inediti scoperti alcuni anni orsono a Firenze. Che poi sia stato imprigionato non si può neppur dire, perché  fu condannato, sì, alla detenzione per qualche tempo, ma dopo pochi giorni di rilegazione nella villa del Pincio lo si lasciò libero di scegliere il luogo dove scontarla, ed egli scelse la casa del suo miglior amico, l’arcivescovo Piccolomini di Siena, e di là si ritrasse poi nella sua villa di Arcetri. Che sia stata condannata la sua dottrina non lo nego, ma non in quanto sostenesse il moto della terra intorno al sole, che questo già prima e più chiaramente di Galileo l’aveva sostenuto Copernico, ma in quanto che Galileo a sostenere la sua tesi, benché giusta, non si peritò di interpretare a modo suo e non esattamente la Bibbia, che gli scienziati di quei tempi ritenevano erroneamente contraria, in varii suoi testi, alle opinioni di Galileo, e pretendere fondato sulla Bibbia il suo sistema. Epperò se la Congregazione Romana si ingannò, oltreché non si può dire che abbia errato la Chiesa, perché la Congregazione del S. Ufficio non è la Chiesa, alla fin fine fu indotta in errore dai sapienti di quel Tempo. Ecco tutto. E di ciò si può fare, come si fa, un gran capo d’accusa contro la Chiesa? [Oggi è dimostrato chiaramente che il sistema copernicano è assolutamente falso e si regge solo su speculazioni cervellotiche senza uno straccio di prove. Le uniche prove anzi, oltre a formule matematiche strampalate ed incomprensibili ai più – formule regolarmente aggiornate da affabulatori vari e sempre nuovi – su foto truccate degli enti spaziali, come per il farlocco “sbarco sulla luna” – sbarco nello studio cinematografico, pieno di errori ed incongruenze, oggi replicato da sbarchi su Marte (in realtà in studi televisivi ultramoderni!) ed in futuro su presunti pianeti sempre rigorosamente e perfettamente sferici, senza poli schiacciati e senza asse obliquo. Le tesi di Galileo, oggi ridicole e che chiunque, con un semplice cannocchiale, può agevolmente confutare e smascherare, risentivano del culto di Mitra, il dio sole, cioè lucifero spacciatosi portatore di luce al centro dell’universo, culto oggi in gran auge presso le conventicole massoniche che ancora, presso il grande pubblico … di ignoranti, sostengono la tesi eliocentrica con il denaro del pubblico erario americano –NASA ladrona!? – Ci dispiace essere in disaccordo con il Carmagnola, ma il Santo Uffizio era un organo ecclesiastico primario nella difesa della verità Cattolica, e quindi parte integrante della stessa Chiesa,  – per questo è stato prontamente eliminato dalla setta del Novus Ordo Vaticano II – per cui non poteva sostenere l’errore; e qui fa piacere sottolineare che il Prefetto del Santo Uffizio ed i suoi collaboratori gesuiti, non si sbagliarono affatto nel valutare le idiozie del Galileo, già condannate giustamente in Copernico – entrambi, come Newton, Keplero, Bacone e compagni, si occupavano di astrologia, esoterismo, alchimia … altro che scienziati. Fu il Papa dell’epoca Urbano VIII che protesse e salvò il suo “amico” Galilei da una sacrosanta condanna. Purtroppo questo dimostra solo che l’eresia copernicana – eresia religiosa e scientifica insieme – si era fatta strada tra il clero infettandolo di incredulità e revisionismo verso la parola di Dio contenuta nella Scrittura Sacra, e di essere quindi in disaccordo con i canoni del concilio di Trento, oltre che con l’Infallibilità della dottrina cristiana, … come volevano appunto gli gnostici kabalisti dell’epoca e della massoneria odierna – ndr. -]

— No, certo.

Riguardo poi alla famosa strage di San Bartolomeo, avvenuta la notte del 25 agosto 1572 a Parigi, e di poi in molte altre città della Francia, per cui furono a tradimento e barbaramente trucidati un gran numero di Ugonotti ossia Calvinisti, è un fatto chiaro che fu soprattutto un colpo di stato politico macchinato dall’astuta Caterina de’ Medici, madre del re Carlo IX, e dai principali Signori della Corte di Francia, che per tal guisa, sotto il pretesto della Religione, si vollero sbarazzare di coloro, che da oltre venti anni ponevano sossopra la nazione con tumulti, rivolte, attentati contro la stessa persona del re, persecuzioni contro i Cattolici e stragi spaventose commesse dovunque potevano. Ma è certissimo che gli ecclesiastici in ciò non entrarono per nulla, e se vi entrarono fu per salvare quanti più Ugonotti fu loro possibile.

— Ma il Papa Gregorio XIII all’udire la notizia dell’eccidio non fece cantare il Te Deum?

Al Papa si fece intendere che il re con la sua famiglia era scampato da una grande congiura; epperò se egli a tale notizia rese pubbliche grazie a Dio, non lo fece per la strage degli Ugonotti ma per lo scampo del re e della Francia. Così stanno le cose. E coloro i quali si dilettano di alterare la storia per disonorare la Chiesa, dovrebbero per lo meno riconoscere che la crudeltà, le barbarie e le stragi, che si commisero per anni ed anni, a sangue freddo, contro i Cattolici in Inghilterra, in Irlanda, in Iscozia, in Olanda e in Danimarca sono cose sì orrende, che la strage di S. Bartolomeo a petto di esse diventa cosa di ben poco rilievo.

— Sono ben lieto di aver appresa la verità anche intorno a questi punti e di sapere che

la Chiesa non ha mai in alcun modo esorbitato nella sua autorità.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (11): modello di pazienza

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (11)

[A. Carmignola: il Sacro Cuore di Gesù; S.E.I. Ed. Torino, 1930-imprim. ]

DISCORSO XI

Il Sacro Cuore di Gesù modello di pazienza

Otto secoli prima che il divino Maestro, Gesù, venisse sulla terra, il profeta Isaia aveva vaticinato, che alla scuola di Lui gli uomini avrebbero profittato non solo colle orecchie, ma ancora con gli occhi, vale a dire non solo con l’apprendere per mezzo dell’udito i suoi santi insegnamenti, ma eziandio col considerare cogli occhi della fede, della pietà e dell’amore gli ammirabili suoi esempi. Et erunt oculi tui videntes præceptorem tuum. (Is. xxx, 20) Perciò appunto l’Apostolo san Paolo ci esorta non solo a ricordarci delle lezioni di Gesù Cristo, ma a tenere ancora fissi del continuo gli sguardi della nostra mente sopra delle sue opere, assicurandoci che per tal guisa noi ricaveremo frutti meravigliosi nella scienza della fede, e consumeremo l’opera importantissima della nostra salute: Aspicientes in auctorem fidei, et consnmmatorem Jesum. (Hebr. XII, 2). E quanto giusta sia questa esortazione noi da alcuni giorni l’andiamo toccando con mano, perché studiando le speciali virtù del Cuore Santissimo di Gesù Cristo veniamo a conoscere, che non solamente ce le ha insegnate con la dottrina, ma più ancora le ha col fatto praticate. Che se ciò è verissimo di tutte quante le virtù, a me sembra che lo sia in modo particolare della pazienza. E di fatti, che cosa fu mai tutta la vita mortale del Sacratissimo Cuore di Gesù, dal primo all’ultimo istante, se non un continuo patire, non solo vincendo ogni tristezza, ma ancora con amore e con gioia, non ostante che nei patimenti non avesse chi lo consolasse? E questa è appunto la pazienza eroica del Cuor suo, che Gesù molti secoli innanzi presentò alla considerazione degli uomini, quando disse per mezzo del santo re Davide: Il mio Cuore si aspettò obbrobri e miserie, e aspettai chi entrasse a parte di mia tristezza e non vi fu, e chi mi porgesse consolazione, e noi trovai: Improperium expectavit cor meum et miseriam, et sustinui qui simul contristar etur, et non fuit, et qui consolaretur, et non inverti. (Ps. LXVIII, 21) E questa è pure la pazienza che la Chiesa ci invita ad adorare in modo particolare nel dì della festa del Sacro Cuore di Gesù, dicendoci: Christum prò nobis passum, venite, adoremus: Venite, adoriamo Cristo, che è stato paziente per noi. È giusto adunque, che fra le virtù speciali del Cuore Sacratissimo di Gesù, io vi animi ad imitare ancor questa mettendovi in luce l’ammirabile esempio di pazienza datoci dal Sacro Cuore.

I. — Troppo giustamente, o miei cari, la terra sulla quale noi passiamo facendo il nostro viaggio per l’eternità, è chiamata valle di lagrime. Da tutti e da per tutto si piange, perché da tutti e da per tutto si soffre. Or è una lunga e grave malattia, or è la morte di un padre, di una madre, di un figlio, di uno sposo; or è un rovescio di fortuna, or è un’infame calunnia, or è la destituzione da un impiego, or è la mancanza del lavoro, or è la privazione di ciò che è più necessario alla vita, or son varie di queste cose insieme, che si rovesciano sopra del nostro capo e ci traggono dal labbro i dolorosi accenti del travagliato Idumeo: Che vita! che vita è mai la nostra! Breve e ripiena di molte miserie. Homo…. brevi vivens tempore repletur multis miseriis. (Job. XVI, 1). Tant’è; questa è la legge, che gravita sull’umanità peccatrice. Se l’umanità non avesse peccato, come sarebbe andata esente dalla morte, così sarebbe sfuggita agli assalti del dolore. Ma poiché l’umanità ha peccato in Adamo e continua pur troppo a peccare nei suoi discendenti, perciò essa è condannata alla morte, e a tutti i dolori fisici e morali, che la precedono e la producono. Sì, o miei cari: Homo nascitur ad laborem et avis ad volatum; (Job. v, 7) come agli uccelli è naturale il volo, così all’umanità peccatrice è naturale il patire. – Tuttavia secondo l’insegnamento cristiano i patimenti non sono soltanto una punizione della colpa originale e delle colpe nostre personali, ma sono ancora per divina bontà un gran mezzo di espiazione e di santificazione. Ma a tal fine è assolutamente necessaria la pazienza nei medesimi, quella virtù che modera la tristezza e l’affanno, che si genera nei nostri cuori dai travagli presenti. Sì, dice S. Paolo, la pazienza è necessaria, affinché, conformandoci al divino volere in mezzo alle avversità, giungiamo all’acquisto dei beni soprannaturali promessici da Dio in questa e nell’altra vita: Patientia vobis necessaria est, ut voluntatem Dei facientes, reportetis repromissionem. (Hebr. x, 36) E la ragione di questa necessità, insegna S. Tommaso, si è che non vi ha cosa, che tanto impedisca l’uso della ragione e tanto ritragga la volontà dal bene quanto la tristezza. Quanti per cagione della tristezza son divenuti siccome stolti o pazzi! E quanti ancora per la tristezza hanno perduto affatto il senno e si son data spontaneamente la morte! E non è per la tristezza, cagionata dai mali della vita, che molti infelici danno di mano ad una rivoltella e se la sparano al cuore, oppure vanno a lanciarsi sotto le ruote di un treno che corre, od a precipitarsi da una altura in fondo alle acque, o si tolgono altrimenti la vita? È necessario adunque, che in tempo delle tribolazioni, da cui non è possibile ad alcuno l’andare esente, vi sia una virtù, che sgombri dal cuore questa tristezza cotanto dannosa, mantenga in vigore la ragione e sostenga la volontà nell’esercizio del bene: e questa virtù è la santa pazienza. E qual cosa vi ha mai, che torni tanto utile quanto il sopportare con pazienza le tribolazioni? A che servono, a che riescono le tribolazioni pazientemente tollerate? Esse, servono anzitutto ad espiare, vale a dire a soddisfare la divina giustizia dei tanti peccati, che abbiamo commesso. Ponete mente: Dio è giusto e come la sua giustizia vuole premiata anche la più piccola delle nostre buone opere, così esige la punizione anche del nostro più leggiero peccato. Riandando pertanto la vostra vita e trovandovi ad esempio un peccato, benché sia un solo, voi dovete dire a voi medesimi : Ecco che ho dato a Dio una ragione per castigarmi; trovandovene due, quattro, dieci, voi dovete dire: Ecco due, quattro, dieci ragioni in mano a Dio per punirmi. E quando rivolgendovi addietro non vedeste che una tela continua di peccati, non dovreste riconoscere, che Egli ha tutte le ragioni per far gravare su di voi tutto il peso della sua mano punitrice? Ma se Egli ha tante ragioni di punirci, non è giusto, non è bene che Egli lo faccia? Ah, che direste di un padre, che ornai le desse tutte vinte al suo figlio, che non lo punisse più quando manca? Voi direste che un tal padre più non ama il suo figlio; e direste bene. Dunque guai a quei poveri peccatori, che Iddio più non castiga in questa vita ! Il loro più grave castigo è quello di non essere più castigati. Il vederli nuotare nelle comodità, nelle ricchezze, nei piaceri senza ombra di tribolazione è cosa che spaventa. Una felicità siffatta deve farci tremare. Se pertanto noi siamo peccatori, e Dio pietoso ci manda le tribolazioni, sopportandole con pazienza, ripariamo facilmente alle passate colpe. Ma non solo le tribolazioni servono ad espiare i peccati nostri, ma molte volte anche i peccati degli altri. Pensate a quel che Dio aveva detto ad Abramo: che se in Sodoma e Gomorra vi fossero stati anche solo dieci giusti, Egli avrebbe perdonato a tutte le migliaia di colpevoli, ed allora comprenderete qualche cosa dell’onnipotenza espiatrice del patire. Quel giovane ha scosso il giogo soave di Cristo, si è allontanato da Dio per correre senza freno le vie del più schifoso piacere. Il puzzo de’ suoi peccati sale al trono di Dio, e Dio ha già armato la sua destra per colpirlo. Ma quel giovane ha una madre, una madre che prega, che si strugge in lagrime per il suo pervertimento, e Dio si placa, e Dio lo risparmia, Dio lo aspetta. Quell’uomo è da dieci, venti, trent’anni, che più non dischiude il suo labbro alla preghiera, che più non prende la Pasqua, che più non rende a Dio alcun omaggio di sorta. E Dio n’è stomacato. Dio vorrebbe farla finita con lui, toglierlo di vita e precipitarlo nel baratro infernale. Ma quell’uomo ha una moglie, che piange il dì e la notte, delle figlie, che pregano, che partecipano alle lagrime della sconsolata loro madre, e questi dolori commuovono il Cuore di Dio e lo inducono a misericordia con quell’uomo traviato. E se i popoli non ostante tanti peccati che si commettono, vivono ancora, se essi non crollano sotto il peso delle loro iniquità, se Dio non manda d’un tratto i suoi fulmini dal Cielo ad incenerire le nuove Sodoma e Gomorra, egli è perché in mezzo a tanti peccatori vi sono ancora delle anime giuste, che sospirano, che gemono, che soffrono, che in uno coi patimenti di Gesù Cristo, offrono a Dio i patimenti loro in espiazione degli altrui peccati. – In secondo luogo le tribolazioni servono mirabilmente a distaccare il nostro cuore dal mondo e ad unirlo a Dio. La nostra vita sopra la terra è tutta piena di fantastiche illusioni, le quali tanto più si moltiplicano ed hanno forza per sedurci quanto più siamo allegri e viviamo nella prosperità. Oh quante vane sicurezze e quanta presunzione nell’uomo, dal momento che non sente più nulla che lo molesti o lo affligga! quante cose dimentica! quante altre ne immagina! Qual compiacenza prende del suo stato! Ah se egli sgraziatamente rimane così, senza alcuna sofferenza né fisica, né morale, anche solo per qualche anno, la terra avrà per lui tali incanti da fargli impallidire e persino eclissare quelli del Paradiso. Quest’uomo insomma diventerà del tutto cieco, non vedendo più né il suo fine, né la strada che lo conduce. Ma vengono le tribolazioni, ed allora che succede? Ecco i fantasmi svaniscono, ricompaiono le realtà, e ripigliano sul suo cuore l’imperio loro dovuto. Sì, come le ricchezze, i piaceri, gli onori, le prosperità mondane inebriano lo spirito, snervano il cuore, corrompono l’uomo e lo perdono, così per contrario l’umiliazione, la miseria, il dolore, l’avversità lo distaccano dal mondo e da se medesimo, lo guariscono e lo salvano. – In fine le tribolazioni sopportate con pazienza ci giovano efficacemente a santificarci. Ed in vero, come dicono i santi libri non si getta forse l’oro nella fornace affine di purificarlo? Non si batte il ferro a colpi ripetuti e non lo si passa sotto l’azione del bulino per pulirlo e farlo lucido? Non si martella il sasso per cavarne una bella statua? Non si squarciano le viscere della terra per renderla feconda? Non si tagliano spietatamente i rami della pianta per moltiplicarne i frutti? Non si batte con nodosi bastoni il grano per purgarlo dalle ariste e dalle paglie? Ecco altrettante graziose immagini per indicarci il concorso delle tribolazioni nella gran d’opera della santificazione nostra. E chi non sa per propria esperienza quanto più siasi inclinati al bene nelle ore dell’angoscia, che in quelle dell’allegrezza? Le tribolazioni anche in un’anima giusta mantengono l’umiltà, le fanno toccare con mano la propria debolezza, il grande bisogno che ha dell’aiuto del cielo, ad ottenerlo la inducono a rifuggire ognora più dalla terra, a ripararsi nel Cuore del Crocefisso, e colla semplicità di un fanciullo a sfogarsi con Lui, a chiedergli il suo aiuto, la sua assistenza: e chi può dire l’abbondanza di grazie, che ne riceve! Da questi sacri ritiri l’anima, sostenuta da una forza, di cui ella medesima non sa spiegare il valore, si alza risoluta, coraggiosa, intrepida a correre la via della giustizia e della santità. Sì, disse l’Apostolo, la virtù nel patire si perfeziona: virtus in infirmitate perficitur; (II Cor. XII, 8) la pazienza rende perfetta l’opera intorno a cui si travaglia, ha soggiunto S. Giacomo; patientiam opus perfectUm habet; (I, 4) e Gesù Cristo stesso assicurò nella pazienza la salute dell’anima: In patientia restra possidebitis animas vestras. (Luc. XXI, 19)

II. — Essendo adunque la pazienza nelle tribolazioni di tanta necessità per la nostra salute, il Cuore Sacratissimo di Gesù volle darcene il più ammirabile esempio. E ciò egli fece in tutto il corso della sua vita, dal primo all’ultimo istante, perciocché la concezione, la nascita, la puerizia, la fanciullezza, !a virilità, l’agonia e la morte furono sempre accompagnate da amarezze, da avversità, da contraddizioni, da travagli e da dolori. Tota vita Jesu crux fuit et martyrium, ha detto l’autore dell’Imitazione; tutta la vita di Gesù fu una crocifissione ed un martirio continuo; ma tutto in tutta la vita egli sopportò con la più eroica pazienza, anzi, tutto egli accettò liberamente, di sua propria volontà, potendone andare esente. No, Gesù Cristo non subì i patimenti, come noi figliuoli del peccato dobbiamo subirli; egli li assunse, perché così gli piacque per nostro amore e per nostro esempio. Entrando nel mondo Iddio Padre gli propose di salvare gli uomini patendo per essi o non patendo, godendo anzi ogni sorta di beni; e Gesù abbracciò il modo più eccellente e più sublime: Proposito sibi gaudio sustinuit crucem confusione contempta. (Hebr. XII, 2) Ed avendo scelto questo disegno, chi dirà come lo riducesse in atto? Parlando di ciò Mosè ed Elia sopra il Tabor, dice il Vangelo, che lo chiamarono un « eccesso. » Sì, dice S. Bonaventura, con ragione quanto patì Gesù Cristo per noi fu chiamato eccesso, perché fu veramente un eccesso di dolore da non potersi mai credere, se non fosse già avvenuto. Questo dolore fu veduto dai profeti così grande, che non sapendo a che cosa di più grande paragonarlo, lo paragonarono all’immensità del mare: Magna est velut mare contritio tua, (Thr. II, 13) e non dubitarono di mettere in bocca a Gesù Cristo queste fortissime espressioni: I torrenti delle afflizioni entrarono fino al fondo dell’anima mia: Intraverunt aquce usque ad animam meam; ( LXVIII) l’anima mia è ripiena di mali: Expleta est malis anima mea; (Ps. LXXXVII) o voi tutti, che passate lungo la via, fermatevi e vedete se vi è dolore simile al mio: 0 vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus. (Thr.. I, 12). – Ed in vero, quanto più si è sensibili e delicati, tanto più le afflizioni premono il cuore e lo fanno soffrire. Che soffre mai la pietra sotto i colpi dello scultore, essendo essa priva di sensazione? Che cosa soffre la vite sotto i l ferro del viticultore, che la pota? Allora sembra che versi qualche lagrima, ma in realtà non sente dolore alcuno. L’animale invece già soffre e si lamenta, quando vien ferito, perché esso sente, benché non abbia coscienza del dolore. Ma assai più dell’animale sente l’uomo, dotato di ragione e formato con un organismo tanto sensibile e delicato; e tra gli uomini sente maggiormente chi è dotato di maggior sensibilità e delicatezza. Or chi può dire quale fosse la sensibilità e la delicatezza del Cuore di Gesù Cristo? Chi può dire, per conseguenza, quanto gravitassero sopra del Cuor suo tutte le avversità, le contraddizioni, le privazioni, i travagli, i dolori, che dovette soffrire? A ciò si aggiunga, che sebbene egli avrebbe potuto da per se stesso raddolcire tutti i suoi patimenti, e porgersi una adeguata consolazione, tuttavia non volle punto farlo, ed in quella vece, rimossa prodigiosamente ogni consolazione e respinto ogni raddolcimento, lasciò che le afflizioni il tormentassero, ciascuna secondo il genere suo, il più che era possibile. Né si creda, che ciascuna di tali afflizioni tormentasse il Cuore di Gesù in quel tempo soltanto, che veniva realmente a piombargli sopra; no, ciascuna di quante ne dovette soffrire, lo travagliò sempre in ogni istante, perché sempre ed in ogni istante col suo sguardo profetico l’ebbe a sé dinnanzi. Sempre vide la sua povertà, il suo esilio, le sue privazioni, le sue fatiche, i suoi sudori; sempre vide la durezza dei suoi Apostoli, l’incostanza e l’ingratitudine delle turbe, la rabbia dei suoi nemici, le loro male arti contro di Lui; sempre vide il tradimento di Giuda, l’abbandono dei suoi Apostoli, la sua cattura, gl’insulti ai tribunali, la condanna di croce; sempre vide la flagellazione, la coronazione di spine, la crocifissione, l’agonia e la morte. E nel vedere sempre questi immensi mali, sempre li soffriva tutti insieme nella misura stessa, con cui ciascuno a suo tempo si fece sentire. Oh! ben a ragione Gesù Cristo fu chiamato l’uomo dei dolori per eccellenza, e che conosce a fondo l’afflizione, virum dolorum et scientem infirmitatem; (Is. LIII) ben a ragione ha detto un Santo, che i patimenti di Gesù Cristo sono sì grandi, che l’insieme di tutti i patimenti sofferti dagli uomini in loro confronto non è che un nulla. Eppure, come immense furono le infermità e le pene sofferte dal Cuore di Gesù Cristo, così immensa fu la pazienza, con cui andò loro incontro, le accettò, le prese e le sopportò. Quella espressione di tanta rassegnazione al divino volere, fattane uscir fuori nell’agonia del Getsemani: « Padre, non la mia. ma la tua volontà sia fatta, » è l’espressione, che continuamente,, in ogni istante della sua pazientissima vita, usciva dal suo Cuore Sacratissimo per salire al cielo quale nuvola di incenso al trono del suo divin Padre, perciocché, come dice S. Cipriano, tutta la vita di Gesù Cristo fu un continuo esercizio d’invitta pazienza, né vi fu atto in lui, che non fosse accompagnato da tale virtù.Di quale stimolo adunque deve esserci un tanto esempio! Ed in vero quale tribolazione può mai accadere a noi, che non abbia patito maggiore Gesù Cristo? Siamo noi per avventura afflitti da acerbi dolori e da penose infermità? Ma quanto più acerbi furono i dolori del Cuore di Gesù! quanto più penose le infermità sue! Siamo noi travagliati dalla povertà? Ma quanto più ne fu travagliato Gesù! Siamo stati abbandonati dagli amici, traditi dai confidenti? Ma quanto più fu abbandonato e tradito Gesù! Siamo stati defraudati della mercede di nostre fatiche? Siamo stati derubati dei nostri averi? Ma a Gesù furono tolte anche le vestimenta e fu fatto morire nudo in croce! Siamo stati ingiuriati, calunniati, disonorati? Ma a Gesù non è toccato mille volte peggio? Ci tocca convivere con persone dì carattere insopportabile, di maniere dure e ributtanti? Ma Gesù ha sofferto ogni sorta di rozzezze nel convivere per tre anni con gli Apostoli! Vanno fallite le nostre speranze intorno a chi fu oggetto delle nostre cure più affettuose? Ma anche per Gesù andò a male la brama di far del bene all’ingrata Gerusalemme! Ci accade di perdere una persona, che formava la consolazione e la dolcezza della nostra vita? Ma Gesù ha fatto il sacrificio di se stesso per noi! Qual cosa adunque potrà accaderci tanto penosa, che ad esempio del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo non possiamo soffrire anche noi con pazienza? E se Egli tanto ha sofferto per noi, Egli che è il Creatore, il principe, il padrone, noi che siamo le creature, i sudditi, i servi, non vorremo soffrire nulla per Lui? Di Abimelec si racconta, che dopo aver distrutta la città di Sichem, risolvette di espugnarne la fortezza col fuoco. E perché a ciò era necessario ammassare a pie’ delle mura grande quantità di tronchi e di rami, condotto il suo esercito presso una vasta e folta selva, cominciò egli con la scure a tagliar un grosso ramo ed a portarlo verso la fortezza, dicendo ai soldati: Fate ancor voi quello che vedete me a fare. E ad un esempio sì nobile i soldati tutti presero, gareggiando, a tagliar rami ed a seguire il capitano. Or ecco quel che fece il Sacratissimo Cuore di Gesù con noi. Egli sapeva, che in questa valle di lagrime avremmo tutti dovuto patire. E sebbene con autorità sovrana Egli avrebbe potuto, senza soffrir nulla egli, presentarsi a noi e dirci: « Patite; » tuttavia, perché noi nell’impazienza nostra gli avremmo forse risposto: Fa un bel dire a noi che patiamo, a Voi che nulla avete patito; che fece Egli? Prese Egli sulle spalle la croce più pesante e più dolorosa, si assoggettò a tutte le infermità della nostra natura, e chiudendo per tal guisa la bocca ad ogni nostro lamento, ci disse ad un tempo stesso: « E non vorrete far voi quello che ho fatto io? » Ah! dopo di ciò non ci resta più altro, che seguitare il sublime esempio del Cuore di Gesù Cristo e camminare sulle sue vestigia. Sì, esclama il principe degli Apostoli, Cristo ha patito per dare alla nostra pazienza il più grande esempio: Egli ha camminato per una strada di spine, perché ancor noi gli teniamo dietro e premiamo le sue pedate: Christus passus est prò nobis, vobis relinquens exemplum, ut sequamini vestigia ejus. ( I Pietr. n , 21). « Gesù Cristo, soggiunge S., Agostino, è stato come un medico pietoso, che sebben sano, appressa il primo le labbra ad un’amara medicina perché, sul suo esempio, non abbia difficoltà di trangugiarla l’infermo. Non diciamo adunque: Non ho voglia, non ho cuore, non ho forza di bere il calice dei patimenti, che Dio mi manda; poiché il nostro Salvatore è stato il primo a beverlo sino alla feccia: « Ne dicas non possum, non fero, non bibo; prior bibit medicus Jesus, ut bibere non dubitar et œgrotus » (Serm. 88 de Temp.) – Fissiamo adunque lo sguardo sopra il Cuore di Gesù Cristo e nel vederlo tanto paziente fra tanti dolori, fra tanti obbrobri, fra tanta povertà, fra tante ingiustizie e fra tanti torti, non lasciamo di dire ancor noi in mezzo alle pene nostre: Signore, sia fatta, non la mia, ma la vostra santa volontà! Lo sguardo alla pazienza di Gesù Cristo ha tenuto nella più invitta pazienza Maria ai pie’ della Croce, gli Apostoli tra le più aspre persecuzioni, i martiri tra i più orribili strazi, gli anacoreti tra le più acerbe mortificazioni, i confessori fra le più gravi avversità. Diceva S. Maria Maddalena de’ Pazzi: « Ogni gran pena riesce gustosa, quando si mira Gesù in Croce ». Giusto Lipsio trovandosi una volta molto afflitto dai dolori, uno degli astanti cercava di animarlo a soffrirli con prontezza, mettendogli innanzi l’esempio degli stoici; ma egli allora guardando il Crocifisso: « questa, disse, è la vera pazienza ». Volendo dire che l’esempio di un Dio, che tanto ha patito per nostro amore, questo basta per animarci a patire ogni pena per amor suo. – S. Eleazaro interrogato dalla vergine sua sposa, S. Afra, come egli soffrisse tante ingiurie da gente villana senza punto risentirsi, rispose: « Sposa mia, non pensare, che io sia insensibile a queste ingiurie; ben io le sento, ma mi rivolgo a Gesù Crocifisso e non lascio di mirarlo fino a che l’animo mio non si tranquilli. » Così lo sguardo alla pazienza del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo ingenererà ancora la pazienza del cuor nostro. In sull’esempio di questo Cuore, che ci importerà di agonizzare per l’anima nostra? di lottare contro l’impazienza nostra sino all’effusione del sangue? Che anzi, le tribolazioni non saranno ricevute da noi con gioia, e ricercate eziandio con amore, qualora ci mancassero?

III. — Ma oltre l’esempio del divin Cuore di Gesù, tre altri motivi devono spronarci all’esercizio della pazienza. Il primo si è il consolantissimo pensiero, che, essendo travagliati con le tribolazioni in questa vita, è segno che Dio ci vuol risparmiare le tribolazioni eterne: Et hœc mihi sit consolatio, diceva Giobbe, ut affligens me dolore non parcat: (VI, 10). Questa sia la mia consolazione, che il Signore mi affligga quaggiù e non mi perdoni, acciocché mi perdoni nell’altra vita. Ed in vero chi col peccato si è meritato l’inferno, come può lamentarsi, se Iddio gli manda qualche croce? Anche qualora nell’inferno non si avesse a soffrire che un piccolo dolore, pur tuttavia trattandosi di un dolore eterno, ben volentieri dovremmo essere disposti a patire quaggiù qualsiasi dolore grave che non è che temporale e che quanto prima ha da finire. Ma i dolori dell’inferno non sono tutti, oltrecché eterni, gravissimi? E supponiamo pure, che vi sia tra noi chi non abbia meritato l’inferno, per avere fortunatamente conservato l’innocenza battesimale, non avrà egli almeno meritato il purgatorio? E i patimenti del purgatorio non sono pur essi quanto mai terribili? Diceva S . Agostino, che dessi sono più tormentosi di qualsiasi dolore possa patirsi in questa vita. Tutti adunque contentiamoci di essere tribolati in questa vita per essere risparmiati nell’altra. Tanto più che in questa vita accettando le tribolazioni con pazienza, patiremo con merito, mentre invece nell’altra vita avremmo a patire di più e senza merito alcuno. Il secondo motivo che deve pure animarci alla pazienza è un altro pensiero più consolante ancora di quello che abbiamo testé ricordato, quello, cioè, che seguendo volentieri Gesù nei patimenti, lo seguiremo altresì nella gloria. Egli stesso ha detto di sé, che così gli convenne patire per entrare nella gloria, che gli appartiene: Oportuit Christum pati et ita intrare in gloriam suam. (Luc. XXIV, 26) E dal presente la sua gloria riceve dai patimenti della sua vita tanto splendore, che non può immaginarsi il più grande. Per questo, per la sua pazienza nel soffrire e nell’assoggettarsi ad ogni travaglio, fino a quello della morte, Iddio lo ha esaltato e gli ha dato un nome, che è al di sopra di ogni nome, al pronunziarsi del quale si piegano riverenti le creature del cielo, delle terra e degli abissi; per questo lo vediamo coronato di onore e di gloria: Videmus Jesum propter passionem mortis gloria et honore coronatum. (Hebr. II, 9) Ora di questa gloria saremo fatti partecipi ancor noi, se, come faceva S. Paolo, ai meriti della pazienza infinita del Cuore di Gesù, aggiungeremo i meriti della pazienza nostra. Ed al pensiero della gloria infinita che ci aspetta, come non sostenere volentieri e con coraggio qualsiasi pena? Il contadino negli stenti e nei sudori della seminagione si anima al pensiero del copioso raccolto; il soldato nei pericoli e nelle sofferenze del campo si anima nel pensiero della medaglia d’onore che gli sta preparata; il vero Cristiano, il vero devoto del Cuore di Gesù Cristo, imitatore delle sue virtù, si animerà a portare la croce dei patimenti, a bere il calice delle avversità, ripetendo con l’Apostolo: Il patire di questo mondo è nulla al confronto dell’eterno godere, che ci sta apparecchiato: Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam, quæ revelabitur in nobis. (Rom. VIII, 18) – Le momentanee e leggere tribolazioni vanno operando in noi un cumulo eterno di gloria: Momentaneum et leve tribulationis nostræ, æternum gloriæ pondus operatur in nobis. (II Cor. IV,17). Ed è questo pensiero, che faceva dire a S. Agapito martire, giovinetto di quindici anni, quando il tiranno gli fece circondare la testa di carboni ardenti: « È cosa troppo dappoco, che mi sia bruciato questo capo, che ha da essere coronato in cielo. » È questo pensiero, che faceva ripetere a S. Francesco di Assisi: « Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto. » È questo pensiero ancora, che fece giubilare quel romito, che giacendo in mezzo ad una selva, tutto coperto di piaghe e con le carni che gli cadevano a pezzi, pure allegramente cantava, ed interrogato da un guerriero, di là passato a caso, come mai avesse voglia di cantare in quello stato, rispondeva: « Con ragione io canto, perché tra me e il Cielo non si frappone che questo muro di fango del mio corpo, che cadendo a brani mi fa vedere più vicino il tempo dell’eterno godere. » Questo insomma è il pensiero, che tanto animava i Santi alla pazienza, e questo deve pur essere il pensiero, che conforti noi nelle tribolazioni nostre. – Ma da ultimo il motivo più nobile, che deve spingersi ad abbracciare con pazienza le pene, i dispiaceri, le infermità, la povertà, i disprezzi, le desolazioni ed ogni altro patimento di questa vita, ha da essere l’amore di questo Sacratissimo Cuore di Gesù e il conseguente desiderio di dargli gusto. Dice l’Ecclesiastico, che « vi hanno degli amici, che sono tali soltanto in tempo di prosperità, ma più non lo sono in tempo di tribolazione, (VI, 8) » Ma la testimonianza più certa dell’amore è il patir volentieri per la persona amata. Caritas patiens est, omnia suffert. (I Giov. XIII, 4) E l’amore al Cuore di Gesù Cristo fa abbracciare con pazienza tutte le croci, che Egli crede di mandarci. Perciò nella vita dei Santi, che tanto amavano Gesù Cristo, troviamo ancora, che questo era il gran motivo, che l’induceva non solo a patire con pazienza, ma a ricercare in ogni modo i patimenti. S. Caterina da Genova, dopo che fu ferita dal divino amore, diceva che non sapeva che cosa fosse patire, benché dovesse sottostare a gravissime pene. S. Geltrude asseriva, che tanto godeva nel patire che nessun tempo gli pareva più penoso di quello, in cui non aveva da patire. S. Procopio martire, quando il tiranno gli apparecchiava nuovi tormenti, prendeva a dirgli: Tormentami quanto vuoi; non sai tu, che a chi ama Gesù Cristo non vi è cosa più cara, che il patire per Lui? E S. Teresa non si fidava di vivere senza patire, sicché spesso esclamava: O patire, o morire. E Santa Maria Maddalena de’ Pazzi si avanzava a ripetere: patire e non morire! Tant’è, o miei cari: non già, come osserva S. Bernardo, che ai santi mancasse la sensibilità; ma l’amore, che portavano cosi ardente a Gesù Cristo faceva loro superare e disprezzare i dolori e le tribolazioni che sentivano. Amiamo adunque, amiamo ancor noi questo Cuore Sacratissimo, e l’amore renderà anche a noi facile ogni cosa.

Concludiamo. Giacché in questa vita, o di buona o di mala voglia si ha da patire, procuriamo di patire con merito, cioè con pazienza. Lasciamo che gli uomini del mondo, vittime insensate de’ suoi pregiudizi e degli inganni del demonio, rifuggano da ogni patire e si abbandonino ad ogni godere; deploriamo che nelle tribolazioni, cui sottostanno, si lamentino, imprechino e si disperino; noi invece, aspicientes in auctorem fidei et consummatorem Jesum, con lo sguardo rivolto al Cuore pazientissimo di Gesù, autore e consumatore di nostra fede, seguiremo volentieri il programma della vita cristiana, da Lui compilato e sottoscritto dal suo Sangue: « Patire qui in terra, godere lassù in cielo, amare dappertutto. » E perché si abbia ad essere realmente, prostrandoci ora dinnanzi al Sacro Cuore di Gesù diciamogli con affetto: O nostro Maestro e Modello Santissimo! Il vostro Cuore così trafitto e così paziente ci fa ben comprendere, come i patimenti sono in nostra mano un gran mezzo per espiare le nostre colpe, per conoscere le vostre vie, per santificare le nostre anime. Ma voi vedete la debolezza nostra! Se noi per tanto non abbiamo il coraggio di chiedervi, come facevano i Santi, di accrescere le nostre pene, proponiamo almeno per vostro amore di sopportare in pace quelle, che per la nostra salute ci invierete, e di offrirle al vostro Divin Padre insieme con le vostre pene. Deh! Dateci voi la forza necessaria per adempiere un sì santo proposito, affinché portando ora volentieri con voi la croce delle terrene tribolazioni, ci sia dato un giorno di essere partecipi delle vostri celesti ed eterne consolazioni.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (XI)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO X.

(continuazione del precedente).

Numero degli angeli — Gerarchie e ordini angelici — Definizione della gerarchia — Sua ragion d’essere— Perché tre gerarchie tra gli Angeli e non più che tre — Definizione dell’ ordine — Perché tre ordini in ciascuna gerarchia e non altri che tre — Immagini della gerarchia angelica nella Chiesa e nella Società — Funzioni degli Angeli — Gli Angeli superiori illuminano gli Angeli inferiori — Linguaggio degli Angeli — Grandi divisioni degli Angeli — Angeli assistenti ed Angeli che eseguiscono — Funzioni dei serafini — Dei cherubini — ‘ Dei Troni — Riverbero di questa prima gerarchia nella Società e nella Chiesa.

Numero degli angeli. Quando gli autori ispirati, ammessi a vedere talune delle realtà del mondo superiore, vogliono indicare la moltitudine degli Angeli, essi non parlano che di milioni e di centinaia di milioni. « Io mi stava osservando, dice Daniele, fino a tanto che furono alzati dei troni e l’antico dei giorni si assise: le sue vestimenta candide come neve e i capelli della sua testa come lana lavata. Il trono di lui era di fiamme infuocate; le ruote del trono erano vivo fuoco. Rapido fiume di fuoco usciva dalla sua faccia. I suoi ministri erano migliaia di migliaia e i suoi assistenti dieci mila volte cento mila. » [Dan. VII, 10]. Testimone dello stesso spettacolo san Giovanni, continua: « E io vidi e intesi intorno al trono la voce di una moltitudine di Angeli il cui numero era di migliaia di migliaia. » [Apoc. V, 11] Più sotto avendo osservato l’universalità degli eletti del sangue d’Abramo, aggiunge: «Dopo ciò vidi una grande moltitudine che nessuno poteva contare, di tutti i popoli e di tutte le lingue. » [Ibid. VII, 9]. Ora sin dal principio del mondo, ciascun predestinato e ciascun reprobo ha per guardiano un Angelo dell’ordine inferiore; cosicché il numero degli Angeli di tutte le gerarchie è incalcolabile. San Dionigi, depositario degli insegnamenti del suo maestro Paolo rapito al terzo cielo, tiene lo stesso linguaggio: «I beati eserciti delle superne menti, superano, egli dice, per numero tutti i poveri calcoli della nostra aritmetica materiale. Non sospettate nessuna esagerazione nelle parole dei profeti. Il numero degli Angeli è incalcolabile; eccede quello di tutte le creature anche quello degli uomini che furono, che sono e che saranno. [ De Coelest. hier. c. IX e XIV] »L’Angelo della scuola ne dà la ragione; e noi traduciamo il suo pensiero. Il fine principale che Dio si è proposto nella creazione degli esseri è la perfezione dell’universo. La perfezione o la bellezza dell’universo risulta dalla più splendida manifestazione degli attributi di Dio, nei limiti segnati dalla sua sapienza. Quindi ne segue che quanto più certe creature sono belle e perfette, tanto più ne è stata abbondante la creazione. Il mondo materiale conferma questo ragionamento. Vi si rinvengono due specie di corpi: i corruttibili e gli incorruttibili. La prima si riduce al nostro pianeta, abitazione degli esseri corruttibili; ed il pianeta nostro è un nulla in confronto ai globi del firmamento. Ora siccome la grandezza è per i corpi la misura della perfezione, il numero lo è per gli spiriti. Così la ragione medesima conduce a questa conclusione, che gli esseri immateriali superano gli esseri materiali in numero incalcolabile [S. Th. I p. q. L, art. 3, corp.]. Aspettando che il cielo ci riveli la esattezza di queste magnifiche supposizioni del genio illuminato dalla fede, è per il nostro pellegrinaggio un grande argomento di sicurezza il sapere che gli Angeli buoni sono molto più numerosi dei cattivi. « La coda del Dragone, dice san Giovanni, non trascinò seco che la terza parte delle stelle. » [Ap. XII, 4] Non avvi nessuno interprete che per queste stelle non intenda parlarsi qui degli angeli ribelli. (Corn. a Lap. in XII. Apoc. et S. Th., i p. q. LIV, art. 9,, corp.]. Gerarchie e ordini degli angeli. Una moltitudine senza ordine è la confusione: tale non può essere lo stato degli Angeli. « Tutte le opere di Dio, dice l’Apostolo, sono ordinate; » o, come è scritto altrove: « Dio ha fatto tutte le cose in numero, peso e misura, » (Omnia in mensura, et numero et pondere disposuisti. Sap. XI, 21). cioè dire con ordine perfetto. (Rom. XIII, 1). L’ordine è la prima cosa che ci colpisce nel mondo materiale. L’ordine produce l’armonia, e l ‘armonia suppone la mutua subordinazione di tutte le parti dell’universo. Dal canto suo questa armonia rivela una causa intelligente che l’ha creata e che la mantiene. – Senza dubbio la stessa armonia deve esistere per quanto è possibile più perfetta nel mondo degli spiriti, archetipo del mondo dei corpi e capo d’opera della Sapienza creatrice. La subordinazione, per conseguenza la gerarchia degli esseri che la compongono, è dunque la legge del mondo invisibile, come è la legge del mondo visibile. Tali sono l’insegnamento della fede e l’affermazione invariabile della ragione. – Ora secondo l’etimologia delle parole; La Gerarchia è un sacro principato. (Hierarchia est sacer principatus. S. Th. I  p. q. CVIII, art. 1, corp.). Principato significa a un tempo il principe stesso e la moltitudine posta sotto i suoi ordini. Di qui derivano bellissime conseguenze che mandano una viva luce sull’ordine generale dell’universo e sul governo particolare della Città del bene. Dio essendo il Creatore degli Angeli e degli uomini non ha rispetto a sé che una sola gerarchia della quale Egli è il supremo Gerarca. Lo stesso è rispetto al Verbo incarnato. Re dei Re, Signore dei Signori, a cui è stata data ogni potenza in cielo e in terra, Egli è il supremo Gerarca degli Angeli e degli uomini e per conseguenza della Chiesa trionfante e della Chiesa militante. Pietro, come Vicario del Verbo incarnato è il supremo gerarca della Chiesa militante in virtù di quelle parole divine: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore. Dal canto suo poi Pietro ha stabilito altri gerarchi, i quali essi pure hanno stabilito rettori subalterni, incaricati di dirigere le diverse provincie della Città del bene. Ciononostante tutti non formano che una sola e medesima gerarchia, poiché tutti militano sotto uno stesso capo, Gesù Cristo.(Viguier, p. 184). Vedremo tra poco che la gerarchia angelica è il tipo della gerarchia ecclesiastica, tipo essa stessa della gerarchia sociale. Se consideriamo il principato nei suoi rapporti con la moltitudine, chiamasi gerarchia l’insieme degli esseri soggetti ad una sola e medesima legge. Se essi sono soggetti a leggi differenti formano delle gerarchie distinte, senza cessare di far parte della gerarchia, generale. (S. Th., I p. q. CVIII, art. 1, corp.). – Cosi vediamo in uno stesso reame e sotto uno stesso re delle città governate da differenti leggi. (Vediamo altresì da questo che la centralizzazione in un grande impero è contraria alle leggi fondamentali dell’ordine, e come conseguenza inevitabile, ella deve produrre la collisione, l’inquietudine, la ribellione, la rovina). Ora, gli esseri non sono soggetti alle stesse leggi, se non perché hanno la stessa natura e le stesse funzioni. Resulta da ciò che gli Angeli e gli uomini non avendo né la stessa natura né le stesse funzioni, formano delle gerarchie distinte; risulta altresì che tutti gli Angeli non avendo le stesse funzioni, il mondo angelico si divide in parecchie gerarchie. Che gli Angeli e gli uomini formino delle gerarchie distinte, la ragione e la prova è nella perfezione relativa degli uni e degli altri. Questa perfezione è tanto più grande, quanto gli esseri partecipano più abbondantemente delle perfezioni di Dio. Come creatura puramente spirituale, l’Angelo ne partecipa più dell’uomo. Infatti l’Angelo riceve le illuminazioni divine nell’intelligibile purità della sua natura, mentre l’uomo le riceve sotto le immagini più o meno trasparenti delle cose sensibili, come la parola ed i Sacramenti. L’Angelo è dunque una creatura più perfetta dell’uomo, e deve per conseguenza formare una diversa gerarchia. Inoltre siccome vi è gerarchia, vale a dire ordine di subordinazione nel mondo angelico, è evidente che tutti gli Angeli non ricevono ugualmente le divine illuminazioni. Vi sono dunque degli Angeli superiori agli altri. La loro superiorità ha per fondamento la cognizione più o meno perfetta, più o meno universale della verità. – « Questa conoscenza, dice san Tommaso, segna tre gradi negli Angeli; imperocché essa può essere riguardata sotto un triplice rapporto. « Primieramente, gli Angeli possono vedere la ragione delle cose in Dio, principio primo e universale. Questa maniera di conoscere è il privilegio degli Angeli che si accostano più a Dio, e che secondo la bella parola di san Dionigi, stanno dentro il suo vestibolo. Questi Angeli formano la prima gerarchia. – « In secondo luogo possono essi vederla nelle cause universali create che appellansi le leggi generali. Queste cause sono multiple, la conoscenza è meno precisa e meno chiara. Questa maniera di conoscere è la dote della seconda gerarchia. – « In terzo luogo, possono essi vederla nella sua applicazione agli esseri individuali, in tanto che essi dipendono dalle loro proprie cause, o dalle leggi particolari che le reggono. In tale modo conoscono gli Angeli della terza gerarchia.(1 p. q. CVIII, art. 1, corp.). Vi sono dunque tre gerarchie tra gli Angeli e non sono che tre: una quarta non troverebbe posto. Di fatti queste tre gerarchie hanno la loro ragione d’essere nelle tre maniere possibili di vedere la verità: in Dio, nelle cause generali, nelle cause particolari, vale a dire come parla il sublime areopagita, nella vita più o meno abbondante della quale godono gli Angeli che le compongono. ( De divin. nom., c. v.). – La rivelazione ci scopre altresì in ciascuna gerarchia tre cori o ordini differenti. Chiamasi coro ovvero ordine angelico, una certa moltitudine di Angeli, simili tra loro per i doni della natura e della grazia. (Magist, Sent. Dist. 9, Sent. n. II). Ogni gerarchia ne racchiude tre non più che tre. Più sarebbe troppo; meno, non basta. Infatti ogni gerarchia compone come un piccolo stato. Ora ciascuno stato possiede necessariamente tre classi di cittadini né più né meno. « Per quanto siano numerosi, dice san Tommaso, tutti i cittadini di uno stato si riducono a tre classi, secondo le tre cose che costituiscono ogni società bene ordinata: il principio, il mezzo e il fine. Perciò noi vediamo invariabilmente tre ordini tra gli uomini; gli uni sono al primo grado, ed è l’aristocrazia; gli altri all’ultimo, cioè il popolo gli altri tengono il mezzo, e quest’è la cittadinanza. « Così avviene fra gli Angeli. In ciascuna gerarchia vi sono ordini differenti. Simili alle gerarchie medesime questi ordini si distinguono per l’eccellenza naturale degli Angeli che gli compongono e per la differenza delle loro funzioni. Tutte queste funzioni si riferiscono necessariamente a tre cose né più né meno: il principio, il mezzo e il fine. » (1 p. q. CVIII, art. 2, corp.; id. id art. 4, c.). Vedremo ciò chiaramente con la spiegazione delle particolari funzioni di ogni ordine. – Prima di darla confermiamo che la magnifica gerarchia del cielo, o della Chiesa trionfante si prova di per se stessa, riflettendosi agli occhi nostri nella Gerarchia della Chiesa militante, quell’altra porzione della Città del bene. Basta aprire gli occhi per vedere che la Chiesa terrena si divide in tre gerarchie, ed ogni gerarchia in tre ordini. –

La prima si compone di prelati superiori, e racchiude tre ordini: il supremo Pontificato, l’Arcivescovado e l’Episcopato; al supremo pontificato appartiene il Cardinalato, imperocché i cardinali sono i coadiutori del supremo Pontefice; come l’arcivescovado appartiene al patriarcato, la cui giurisdizione si estende a parecchie diocesi ed anche a parecchie provincie. –

La seconda si compone di prelati mezzani, i quali ricevono la direzione dai prelati superiori, e che adempiono a certe funzioni, sia in virtù della loro propria autorità, ossia per delegazione. Essa racchiude altresì tre ordini: gli abati a cui è affidato il potere di benedire e qualche volta di confermare. I priori e i decani delle collegiate o delle comunità, i cui poteri sono più o meno estesi. I rettori ed i curati, incaricati della condotta delle parrocchie, ed ai quali si riferiscono nella qualità loro di ausiliari!, i vicari ed i chierici inferiori. Tutti hanno per missione di amministrare i Sacramenti.

– La terza si compone dei fedeli o del popolo; ai quali appartiene il ricevere i beni spirituali, ma non amministrarli. – Come le altre, quest’ultima gerarchia racchiude tre ordini, le vergini, i continenti ed i maritati, i cui doveri sono diversi, come la loro stessa vocazione è distinta. – Nella regolarità del loro ministero queste gerarchie e questi ordini presentano la più bella armonia che l’uomo possa contemplare quaggiù, e quest’armonia non è altro che l’immagine dell’armonia mille volte più bella che noi vedremo nel cielo. Lassù si mostreranno agli occhi nostri senza nubi e senza velo, le tre Gerarchie angeliche, con i loro nove cori, di luce e di beltà risplendenti.

Nella prima: i Serafini, i Cherubini ed i Troni.

Nella seconda: le Dominazioni, i Principati e le Potenze.

Nella terza: le Virtù, gli Arcangeli e gli Angeli.

Funzioni degli angeli. Il mondo angelico composto di tre grandi gerarchie, ed ogni gerarchia divisa in tre ordini distinti, ci apparisce come un magnifico esercito in bell’ordine. Il saper questo non basta. Per godere dello spettacolo di un immenso esercito nei suoi formidabili splendori, bisogna vederlo in movimento. Cosi, per avere un’idea dell’esercito armato dei cieli, e misurare il luogo occupato nel piano provvidenziale, con i principi della Città del bene, è d’uopo studiarli nell’esercizio delle loro funzioni. Essere purificati, illuminati, perfezionati; ovvero purifìcare, illuminare e perfezionare; tal’è il duplice fine a cui si riferiscono tutte le funzioni delle gerarchie e degli ordini angelici. (San Dion., apud s. Th., I p. q., CVIII, art. 1, corp.). Qual è il significato di queste misteriose parole? Tutti gli Angeli non conoscono del pari i segreti divini. La prima gerarchia, abbiamo detto con san Tommaso, vede la ragione delle cose in Dio medesimo; la seconda, nelle cause seconde universali: la terza, nell’applicazione di queste cause agli effetti particolari. Alla prima appartiene la considerazione del fine; alla seconda, la disposizione universale dei mezzi; alla terza,, il porla in opera. (I p. q. CVIII, art. 6, corp.) I lumi attinti nel seno stesso di Dio gli Angeli della prima gerarchia gli comunicano, per quanto occorre, agli Angeli della seconda gerarchia: questi agli Angeli della terza; e quelli della terza ne fanno parte agli uomini. Ma la reciprocità non ha luogo, atteso che gli Angeli inferiori non hanno nulla da insegnare agli Angeli superiori, né gli uomini agli Angeli. (Vigiiier, p. 79.). Questa comunicazione incessante, come necessaria al governo del mondo, durerà sino all’ultimo giudizio. Essa racchiude quel che noi abbiamo chiamata la purificazione, l’illuminazione ed il perfezionamento. Infatti la manifestazione di una verità a colui che non la conosce, purifica il suo intelletto, dissipando le tenebre dell’ignoranza; essa l’illumina facendo rifulgere la luce dove regnava l’oscurità; essa lo perfeziona dandogli una scienza certa della verità. (S. Dion., cœlest. hier., c. VII). Tali sono le operazioni degli Angeli superiori rispetto agli Angeli inferiori; i quali sono, per questo, detti purificati, illuminati e perfezionati. Neppure una di quelle misteriose operazioni della gerarchia celeste, che non si rinvenga nella gerarchia della Chiesa militante. Ora le comunicazioni angeliche si fanno mediante la parola; imperocché gli Angeli, immagini perfette del Verbo, hanno un linguaggio e si parlano tra di loro. Che gli Angeli parlino, san Paolo ce lo insegna, allorché dice: « Quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli. » (I Cor., XIII, 1) Non pertanto guardiamoci dall’immaginare che il linguaggio angelico sia simile al linguaggio umano, e che abbia bisogno di suoni articolati o di segni esteriori, veicoli del pensiero tra un Angelo e l’altro. Questo linguaggio è tutto interiore, tutto spirituale, come lo stesso Angelo. Ei consiste da parte dell’Angelo superiore nella volontà di comunicare una verità all’Angelo inferiore; e dalla parte di questi nella volontà di riceverla. Queste due operazioni non incontrando nessun ostacolo, né nella natura degli Angeli, né nelle loro disposizioni individuali, sono infallibili ed istantanee. (Viguier, p. 80). Tanto la seconda che la terza gerarchia ricevono dalla prima, l’una immediatamente, l’altra mediatamente le divine illuminazioni. Di qui, relativamente alla loro dignità ed alle loro funzioni quella grande divisione degli Angeli, in Angeli assistenti e in Angeli esecutori, o amministratori. I primi considerano in Dio stesso la ragione delle cose da fare, e le manifestano agli Angeli inferiori, incaricati di eseguirle. Tale è l’immagine sotto la quale la sacra Scrittura ci rappresenta gli Angeli della prima gerarchia. Uno di questi principi illustri della corte del grande Re, parlando a Tobia gli dice: « Io sono Raffaello, uno dei sette angeli che siamo assistenti dinanzi a Dio. » (Tob., XII, 15). Che letteralmente vuol dire: che noi stiamo in piedi dinanzi al suo trono. Bisogna dire che questa bella espressione essere assistenti al trono di Dio ha parecchi significati. Gli Angeli assistono dinanzi a Dio allorquando essi prendono i suoi ordini; allorché gli porgono le preghiere, le elemosine, le buone opere, i voti dei mortali; quando essi difendono contro i demoni la causa degli uomini al supremo tribunale; quando penetrano i loro sguardi nei raggi della faccia divina per ritrarne le ineffabili voluttà che costituiscono la loro felicità. In quest’ultimo significato tutti gli Angeli, nessuno eccettuato, sono assistenti dinanzi a Dio; poiché tutti godono e godono continuamente della beatifica visione, allorché pure essi compiono le loro missioni sul governo del mondo. Nondimeno nel senso preciso, l’espressione assistere dinanzi a Dio designa gli Angeli della prima gerarchia, che non hanno costume d’essere impiegati in ministeri esterni. (Corn. a Lap., in Tob. XII, 15). Questi Angeli assistenti al trono di Dio e superiori a tutti gli altri si chiamano i Serafini, i Cherubini, i Troni, e formano la prima gerarchia. Poiché le gerarchie del mondo inferiore non sono che un riflesso delle gerarchie del mondo superiore; un solido confronto, preso dalla corte dei re della terra, ci aiuta a comprendere il grado e le funzioni di questi grandi ufficiali della Corona eterna. Fra i cortigiani ve ne sono di quelli che debbono alla loro dignità l’entrare famigliarmente presso il principe, senza aver bisogno d’essere introdotti; altri che aggiungono a questo primo privilegio quello di conoscere i segreti del principe; altri finalmente ancor più favoriti, compagni inseparabili del principe, sembrano non fare che un solo con lui. Questi ultimi ci rappresentano i Serafini. Creature le più sublimi che Dio abbia tratte dal nulla, questi spiriti angelici debbono il loro nome alla fiamma del loro amore. (Viguier, p. 85; S. Dion., 7; Cœlest hier,). Posti in cima delle gerarchie create, essi giungono fin dove il finito può giungere all’infinito, alla Trinità divina, all’amore stesso ed al centro eterno di ogni amore. Lungi dal raffreddare il loro ardore, le solenni missioni che gli sono qualche volta affidate sembrano accrescerlo e far loro ripetere, con una più intima voluttà, il cantico sentito da Isaia: « I Serafini stavano in piedi, e chiamandosi l’un l’altro, dicevano: Santo, santo, santo è il Signore Dio degli eserciti; tutta la terra è ripiena della sua gloria. » (Is., VI, 3) Nei fortunati cortigiani che conoscono tutti i segreti del principe, noi abbiamo un’immagine dei Cherubini, il cui nome significa pienezza della scienza. (Viguier, ibid.) Questi spiriti deiformi che non abbagliano né turbano mai i raggi scintillanti della faccia di Dio, contemplano con uno sguardo le ragioni intime delle cose nella loro sorgente, a fine di comunicarle agli Angeli inferiori, dei quali debbono essi determinare le funzioni e regolare la condotta. Essi medesimi qualche volta sono spediti in missione. Cosicché vedesi un Cherubino incaricato di guardare l’ingresso del paradiso terrestre e d’interdirlo all’uomo colpevole. Perché un Cherubino e non un altro Angelo? Vegliare e vedere di lontano sono le due qualità di una sentinella. Ora, come il loro nome lo indica, i Cherubini posseggono queste due qualità ad un grado sovraeminente, anche nel mondo angelico.(Corn. a Lap., in Gen., III, 23). I Troni sono rappresentati dai grandi signori che hanno libero ingresso presso il Re. Elevatezza, beltà, solidità: ecco le tre idee che reca allo spirito il nome della sede sulla quale si pongono i monarchi nelle occasioni solenni. Nessuno poteva meglio designare il terzo ordine angelico della prima gerarchia. I Troni sono così chiamati, anche quegli Angeli, sfolgoranti di bellezza, che sono elevati al disopra di tutti i cori delle gerarchie inferiori, ai quali essi intimano gli ordini del gran Re, dividendo con i Serafini ed i Cherubini il privilegio di vedere chiaramente la verità in Dio medesimo, vale a dire nella causa delle cause. (S. Th. I p. q. CVIII, art. 5, ad. 3). Fissi in Dio per intuizione della verità, essi sono incrollabili. – Di più, come il trono materiale è aperto da un lato per ricevere il monarca che parla di questa fede maestosa; cosi i Troni angelici sono aperti per ricevere lo stesso Dio che parla per bocca loro. Ad essi appartiene il nobile ufficio di trasmettere le sue sovrane comunicazioni agli Angeli delle gerarchie inferiori, sparsi in tutte le parti della Città del bene. Infatti i Troni, essendo l’ultimo ordine della prima gerarchia o degli Angeli assistenti, toccano immediatamente alle Dominazioni, che formano il coro il più elevato degli Angeli ministranti. – Tali sono dunque in poche parole i rapporti e le distinzioni che esistono tra gli Angeli della prima gerarchia. Tutti sono assistenti al Trono. Tutti contemplano le ragioni delle cose nella causa prima. Il privilegio dei Serafini è di essere uniti a Dio nel modo il più intimo, negli ardori deliziosi di un indicibile amore! Il privilegio dei Cherubini è di vedere la verità, di una veduta superiore a tutto ciò che è al disotto di essi. Il privilegio dei Troni è di trasmettere agli Angeli inferiori, in proporzione del bisogno, le comunicazioni divine di cui essi posseggono la pienezza. S. Th., I p., q. CVIII, art. 6, corp.).  Cosi è che l’augusta Trinità, la cui immagine passa attraverso a tutte le creazioni, brilla di un incomparabile splendore nella massima perfezione. Nei Troni vediamo la Potenza; nei Cherubini, l’intelligenza; nei Serafini, l’Amore. La gerarchia ecclesiastica, come riflesso della gerarchia celeste, offre lo stesso spettacolo. Nel Diacono voi avete la Potenza che eseguisce; nel Sacerdote, l’Intelligenza che illumina; nel Pontefice, l’Amore che consuma, secondo quella parola indirizzata al capo supremo del Pontificato: « Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più degli altri? — Signore, voi sapete che io vi amo. — Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore. » L’amore è dunque il principio, il fine, la legge suprema della Città del bene; siccome l’odio, come noi vedremo, è il principio, il fine, la legge suprema della Città del male. (S. Dion., Eccles. hierarch; C. V.)

MEDITAZIONE PER L’AVVENTO 2018 [A Meditation on Advent 2018 A. D.]

A Meditation on Advent 2018 A.D.

On the Sunday, December 2nd, the new Advent Season has begun.

All of us, who belong to the Church Militant, during twenty three days, will be waiting for the New Born Savior’s Coming.

Do we remember what the purpose of Our Lord Jesus Christ’s First Coming is?

The purpose of Our Lord Jesus Christ’s First Coming is to show us that God did not abandon man after he fell into sin, and God Himself came down to “save his people from their sins”.

Do we remember what sin is, and what we lose by committing mortal sin?

Sin is a wilful violation of the divine law, and by committing mortal sin, we lose the grace of God and eternal salvation. Sin separates us from God, but God wants us to stay united with Him, not only in this world, but also in the world to come. To unite us with God, He sent Jesus Christ, the only-begotten Son of God, true God of true God, Who is “hungry” for our eternal salvation.

So, let us be “hungry”, not for mortal sin, but for eternal salvation, our own and our neighbors.

Let us be militant, not against our neighbors, but against our sins. And as God forgives us our debts, let us also forgive our debtors.

Let us be waiting for Our Savior’s Coming, by preparing ourselves for a good Confession, in order to unite ourselves with Him, in Holy Communion and in a state of grace.

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Meditazione per l’AVVENTO 2018

Domenica 2 dicembre è iniziato l’attuale tempo di Avvento.

Tutti noi che apparteniamo alla “Chiesa militante”, nei prossimi 23 giorni, aspetteremo la Venuta del Salvatore Neonato.

– Ricordiamo qual è stato lo scopo di questa prima venuta del nostro Signore Gesù Cristo?

Lo scopo della prima venuta di nostro Signore Gesù Cristo è quello di dimostrarci che Dio non ha affatto abbandonato l’uomo dopo la sua caduta nel peccato, tanto che Dio stesso è sceso per “salvare il suo popolo dai suoi peccati“.

– Ricordiamo cosa sia il peccato e cosa perdiamo commettendo un peccato mortale?

Il peccato è una grave violazione della legge divina, e pertanto commettendo un peccato mortale, perdiamo la grazia di Dio e la salvezza eterna. Il peccato ci separa da Dio, ma Dio vuole che rimaniamo uniti a Lui in questo mondo e nel mondo a venire. Per unirci a Dio, Egli ha inviato Gesù Cristo, l’Unigenito Figlio di Dio, Dio vero  da Dio vero , che “ha fame” della nostra  eterna salvezza.

Quindi, vediamo di essere “affamati” non del peccato mortale, ma della eterna salvezza nostra e del nostro prossimo.

Cerchiamo di essere militanti, non contro il nostro prossimo, ma contro i nostri peccati. E come Dio perdona i nostri debiti, perdoniamo anche noi ai nostri debitori.

Aspettiamo la Venuta del nostro Salvatore, preparandoci ad una buona Confessione, per unirci con Lui nella Santa Comunione alla Messa di Natale .

Fr. UK

(Sacerdote della Chiesa eclissata)

 

CONOSCERE SAN PAOLO (31)

III. LE PREPARAZIONI PROVVIDENZIALI.

1. LA PRIMA TAPPA DELL’UMANITÀ. – 2. L’ÈRA DELLA PROMESSA. — 3. IL REGIME DELLA LEGGE. — 4. GLI ELEMENTI DEL MONDO. — 5. LA PIENEZZA DEI TEMPI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Decretato il disegno della salvezza, bisognava differirne l’esecuzione? Poiché l’uomo non può rialzarsi da sé, a che scopo fargli sperimentare la propria impotenza? Quale gloria può rendere a Dio un ritardo fatale a tante vittime? Si risponde che avendo la missione del Cristo un effetto retroattivo, il valore della sua morte redentrice riguarda dunque anche le generazioni anteriori. Siccome vi furono dei giusti prima di Gesù Cristo e non poterono essere giusti se non per mezzo del Mediatore universale della grazia, i santi dell’antica alleanza sono dunque frutti anticipati del Calvario. Ma se l’Apostolo ci autorizza a trarre queste conclusioni non le trae egli stesso: egli si contenta di fare appello al « proposito » di Dio che si svolge « nel corso dei secoli » (Ephes. III, 11); al più invoca il bisogno provvidenziale di lasciare che i tempi giungano alla loro pienezza e il genere umano arrivi alla maggiore età. È legge di natura che si vada alla perfezione per gradi, e l’uomo non arriva all’età matura se non passando per l’infanzia e la giovinezza. Dio non ha sdegnato di piegarsi a queste armonie, perché esse fanno maggiormente risplendere la sua misericordia e la sua sapienza. Egli condurrà dunque l’uomo al suo punto terminale per quattro tappe successive: la legge di natura, il tempo delle promesse, il periodo dell’alleanza e l’èra della grazia. Così la provvidenza conduce l’umanità di progresso in progresso: questa idea eminentemente biblica, da cui si sono ispirati due dei più bei libri usciti dalla mano dell’uomo, è quella che si è convenuto di chiamare, in san Paolo, la filosofia della storia, è quella che assai più giustamente si chiamerebbe la sua teologia della provvidenza. – La creazione della prima coppia umana apre la storia religiosa dell’umanità. San Paolo non ci dice quale sarebbe stata la condizione dell’uomo sopra la terra, se l’uomo non avesse peccato: come i suoi colleghi egli non cerca di esplorare le regioni nebulose delle possibilità o delle ipotesi e raramente spinge il suo sguardo di là dall’orizzonte reale. Egli si contenta di rimandarci al racconto della Genesi quando fa dipendere dalla disobbedienza di Adamo la perdita dell’amicizia divina, la morte e l’inclinazione al male. Egli non fa nessuna allusione a una rivelazione primitiva, poiché la rivelazione per mezzo della quale i pagani percepivano gli attributi di Dio nello specchio del mondo sensibile, è una rivelazione naturale, inerente all’intelligenza (Rom. I, 20), e la conoscenza che essi ebbero della legge eterna non era che il giudizio della loro coscienza e della loro ragione (Rom. II, 14-15). – La sollecitudine di cui furono sempre oggetto i pagani anche quando furono peggiori i loro traviamenti, quella sollecitudine che aveva lo scopo immediato di incitarli a cercare Dio e lo scopo ultimo di condurveli (Act. XVII, 26-27), non si potrebbe chiamare provvidenza soprannaturale, se non si fosse prima dimostrato che non ve ne fu altra nell’ordine presente. In virtù della stessa provvidenza, Dio li tiene, come gli Ebrei, sotto il dominio del peccato: a tutti poi si propone di fare misericordia (Rom. XI, 32; Gal. III, 22). Se altrove si dice che Dio, « nei secoli passati, lasciò che tutti i Gentili camminassero nelle loro vie (Act. XIV, 16) » tortuose, che li abbandonò ai loro istinti perversi e al loro senso riprovato (Rom. I, 28), questo non si può intendere di un abbandono totale e assoluto, perché nello stesso luogo si afferma che Dio non ha cessato di rendere testimonianza a se stesso con i suoi benefizi (Act. XIV, 17), che rimane sempre il Dio dei Gentili non meno che degli Ebrei (Rom. III, 29), che medita di trarre profitto dalla loro miseria e persino dalla loro malizia, per trarli dall’abisso (Rom. III, 29). L’allegoria dell’olivo buono e dell’olivastro (Rom. XI, 24) dimostra bensì che gli Ebrei avevano ricevuto dal celeste agricoltore cure speciali, ma non permette di conchiudere che l’olivastro fosse restato privo di ogni cura; anzi l’educazione naturale della gentilità è talora messa a confronto con l’educazione soprannaturale di cui fu favorito il popolo eletto, e da ambe le parti le istituzioni morali e religiose che preludevano al Vangelo, per quanto fossero differenti, sono messe sotto il medesimo concetto di dottrine elementari e somigliate ad un alfabeto che il mondo, ancora bambino, si provava a decifrare (Gal. IV, 9; Col. II, 8). – La preparazione dei Gentili alla fede può parere soprattutto negativa; ma la diffusione del Cristianesimo nei paesi pagani sta a dimostrare che essa non fu meno efficace. Il disprezzo ispirato dall’assurda e immonda folla del panteon greco-romano, il disgusto prodotto, a lungo andare, da una corruzione sfrenata, la sazietà del vizio, che a poco a poco andava guadagnando le anime oneste, il disordine intellettuale prodotto dal fallimento delle filosofie, l’aspirazione ad un ideale religioso più elevato, il risveglio delle coscienze, il vago sospetto del Dio sconosciuto, furono altrettanti predicatori muti che prepararono la via ai banditori del Vangelo.

2. Tra lo stato di natura e il regime della Legge, s’intercala l’èra della promessa. Se ne potrebbero cercare gli inizi nel primo annunzio di un redentore dato subito dopo la caduta, oppure nella speranza data a Noè dopo il diluvio; ma si sa che l’Apostolo la fa datare da Abramo il quale la personifica. La promessa è quasi sempre definita con la Legge in funzione. Perché dunque la Legge! Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino a che venisse quel seme cui era stata fatta la promessa; (essa fu) promulgata dagli Angeli per mezzo di un mediatore. Ora il mediatore non è di uno solo, ma Dio è solo (Gal. III, 19-20). Bisogna dire che quest’ultima frase sia molto oscura, se suggerì agli esegeti centinaia di spiegazioni. Però, siccome la maggior parte dei commentatori suppongono, contro ogni evidenza, che qui il mediatore sia Gesù Cristo, e siccome quasi tutti gli altri considerano più le parole che il contesto, il numero delle interpretazioni veramente ammissibili si riduce in modo singolare. Il mediatore della Legge non è Gesù Cristo, ma Mosè, e lo scopo di san Paolo non è quello di far vedere la superiorità della Legge, ma la sua imperfezione e la sua instabilità. L’inferiorità della Legge, messa in confronto con la promessa, risulta, da questo stesso contrasto: la promessa è un testamento, la Legge è un contratto; la promessa è assoluta, la Legge è condizionata; la promessa viene da Dio senza intermediari, la Legge è promulgata dal mediatore; la promessa è confermata da Dio con giuramento, la Legge è preparata e trasmessa dagli Angeli. Per conseguenza la promessa è immutabile, la Legge è suscettibile di abrogazione; la promessa fatta senza limitazione di tempo è eterna, la Legge data sotto la riserva della promessa è temporanea; la promessa impegna la fedeltà di Dio in modo assoluto, la Legge non impegna la fedeltà di Dio se non soltanto finché dura la fedeltà del popolo. Tutto questo si riassume nella formola: « Il mediatore », per sua natura, « non è mediatore di un solo » contraente. Dove egli interviene, vi è sempre un contratto bilaterale, che, subordinato a due volontà differenti, si può rescindere; « ma », nella promessa fatta da Dio senza restrizioni e senza condizioni « Dio. è solo » in causa; nessuno potrà infirmare la sua irrevocabile decisione, ed Egli è obbligato verso se stesso a non ritirarla a danno degli interessati. Perciò la Legge, venendo dopo le promesse, non può né abolirle né modificarle; mentre la promessa di Dio porta in se stessa la sua garanzia. San Luca, san Paolo e l’autore dell’Epistola agli Ebrei sono i soli che parlino della promessa nel senso tecnico. Con questo essi intendono il complesso delle prospettive graziose aperte nell’avvenire al padre dei credenti, per lui e per la sua discendenza: il possesso di una dimora stabile, una discendenza più numerosa che le stelle del cielo ed i granelli di sabbia del deserto, finalmente e soprattutto la benedizione che si deve riversare sopra tutte le nazioni della terra. Nel senso più largo, la promessa comprende tutti i benefici messianici fino alla loro completa realizzazione in cielo. Siccome l’oggetto ne è insieme uno e multiplo, gli autori sacri parlano ora di più promesse, ora di una sola (Rom. IV, 13-20; IX, 8-9, etc. ); ma è certo che tutte le promesse hanno il loro compimento nel Cristo: « I n virtù della promessa Dio ha suscitato a Israele un Salvatore, Gesù… Poiché quanto vi è di promesse divine tutto è diventato in Lui; perciò anche noi (pronunziamo) per mezzo di lui alla gloria di Dio l’amen (II  Cor. ) » della lode e del ringraziamento. – Quali sono i veri eredi della promessa? A prima vista la risposta sembra facile. Il possesso delle promesse non è uno dei privilegi d’Israele? (Rom. IX, 4). I Gentili non erano estranei alla promessa e perciò senza speranza? (Ephes. II, 12). Il Cristo non è forse « ministro della circoncisione per (provare) le veracità di Dio, confermando le promesse fatte ai padri? (Rom. XV, 8) ». Ma d’altra parte, i Gentili divenuti Cristiani sono di pieno diritto compartecipi della promessa (Ephes. III, 6), e l’Apostolo afferma a più riprese che la promessa era loro destinata fin dall’origine (II Cor. VII, 1; Gal. IV, 28, etc.). Per risolvere l’antinomia, bisogna scoprire il principio secondo il quale si distribuiscono e si comunicano le benedizioni lasciate in eredità ad Abramo. Qui trionfa il dialettico rotto alle sottigliezze della scuola. Nella storia della promessa, Paolo rileva tre particolarità notevoli. La promessa non si estende a tutti i figli di Abramo; passa prima ad Isacco con l’esclusione d’Ismaele, poi a Giacobbe con l’esclusione di Esaù (Rom. IX, 8). Il principio di questa differenza è quello dell’elezione, della libera scelta di Dio: non è la posterità carnale quella che erediterà benedizioni, ma la posterità spirituale. In secondo luogo, la promessa fatta ad Abramo è universale, perché in lui saranno benedette tutte le nazioni (Gal. III, 8). Il principio di questa estensione è la fede: i veri figli di Abramo saranno quelli che avranno la fede del padre dei credenti. Finalmente la promessa è collettiva poiché si riferisce non a ciascuno dei discendenti del patriarca, ma alla sua razza, al suo seme (Rom. III, 9). Il principio di questo rapporto collettivo è l’unione al Cristo, sorgente unica di benedizioni: i veri eredi di Abramo non sono dunque gli Ebrei, ma i Cristiani, in quanto formano col Cristo una medesima Persona mistica, la discendenza spirituale di Abramo. Così la promessa ha tre caratteri che la rendono somigliante al Vangelo: come il Vangelo, essa è universale; come il Vangelo, si poggia sopra la fede; come il Vangelo, dipende dalla grazia. La promessa è il Vangelo in prospettiva, e il Vangelo è la promessa compiuta.

3. Se tali sono le prerogative della promessa, il regime della Legge, invece di essere un passo innanzi nella marcia dell’umanità, non segnerà dunque un passo indietro? Questa obiezione si presentò alla mente di san Paolo il quale ne dà la risposta: « Ebbene, (noi Ebrei) siamo forse da più (dei Gentili)? Non del tutto (Gal. III, 16) ». Vi sono due punti nei quali vi è eguaglianza, e nei quali gli Ebrei non si possono vantare di alcun privilegio: il dominio del peccato e il modo di giustificazione per mezzo della fede (Gal. II, 16; Rom. III, 9); questo tuttavia non esclude ogni differenza. « Che cosa ha dunque di più l’Ebreo o che cosa gli giova la circoncisione? Molto per ogni verso. Anzitutto essi hanno ricevute in deposito gli oracoli di Dio (Rom. III, 9) ». È forse poca cosa l’essere depositari della rivelazione? La rivelazione è una luce per l’intelligenza e una guida per la volontà. L’abuso che si può fare di un benefizio, non ne diminuisce punto il valore. Ma la rivelazione non è sola: essa è per gli Ebrei il principio o l’accompagnamento di altri titoli onorifici. Essi sono figli d’Israele; essi hanno l a filiazione adottiva e la gloria e le alleanze, e la legislazione (mosaica) e il culto (legittimo) e le promesse; essi sono della stirpe dei patriarchi e da essi è nato, secondo la carne, il Cristo che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli (Rom. IX,4). – Queste nove prerogative riassumono la loro preminenza: Israeliti, portano il nome di uno dei più grandi servi di Jehovah; questo nome scelto da Dio medesimo non è una semplice denominazione nazionale; è un titolo glorioso del quale gli Ebrei furono sempre fieri, che san Paolo rivendica a sé con orgoglio e non teme di applicare ai Cristiani. — Come popolo specialmente eletto da Dio, sono figli di adozione; di loro Dio poté dire per bocca dei profeti: « Israele è il mio primogenito »; questa adozione, benché sia collettiva, è pur sempre una preziosa fonte di benefizi divini. — Jehovah abita in mezzo ai suo popolo e manifesta sensibilmente la sua presenza con la gloria, con quello splendore soprannaturale che talora avvolgeva il propiziatorio dell’arca e ricordava la nube luminosa che guidava gli Israeliti attraverso il deserto. — Eredi dei patriarchi e come essi oggetto di una predilezione divina, gli Ebrei ereditano pure alleanze conchiuse tra Dio e i santi personaggi del passato, Noè, Abramo, e Mosè; queste alleanze che impegnano la fedeltà di Dio, sono per essi un pegno di protezione e di aiuto. — Soli fra tutte le nazioni della terra, essi posseggono una Legge discesa dal cielo e trasmessa per mezzo degli Angeli; se la Thora fu per essi un peso, fu anche un sommo onore: « Dio non fece altrettanto con le altre nazioni e non manifestò loro i suoi giudizi ». — Con la Legge, è rivelato il culto legittimo, il solo gradito a Dio poiché è il solo ispirato e sanzionato da Lui, il solo che al suo valore intrinseco unisca un significato figurativo che lo rialza e lo nobilita. — Gli Ebrei sono ancora in un senso speciale i detentori delle promesse fatte da Dio all’umanità; siccome queste promesse riguardano il Messia ed il Messia deve nascere da loro, essi ne hanno in certo modo il patrimonio. — È per loro anche un titolo di gloria il discendere da quei patriarchi che Dio onorò di più con la sua amicizia; la gloria del padre è pure la gloria dei figli, e la famiglia partecipa all’onore, di ciascuno dei suoi membri; san Paolo combatte il sentimento esagerato degli Ebrei a questo riguardo, ma non ne contesta il principio: « Se la radice è santa, anche i rami saranno santi ». — Finalmente il sommo onore è quello di essere, secondo la carne, i parenti del Cristo, del Messia, dell’Uomo-Dio. Ciò che soprattutto distingue gli Ebrei dagli altri popoli, è il privilegio di custodire il deposito della rivelazione e di avere ricevuto la Legge per loro guida. Quando san Paolo parla della Legge, intende sempre la Legge mosaica; egli non ne riconosce altra, benché qualche volta dia il nome di legge, per analogia, ad altre forze morali. Ora — e su questo punto l’Apostolo non mutò mai parere — la Legge è buona, la Legge è giusta, la Legge è nobile, la Legge è santa, la Legge è spirituale, la Legge è di Dio. Essa non è assolutamente perfetta, nel senso che non si possa immaginare nulla di meglio, ma è eccellente perché si riassume in quello che vi è di più eccellente, l’amore; e a lei non si possono imputare gli abusi di cui fu occasione. La sua imperfezione compare soltanto se si paragona a qualche cosa di più perfetto, o se si riflette agli inconvenienti che ne derivano. Questa considerazione si può fare sotto quattro aspetti: l’aspetto storico, l’aspetto psicologico, l’aspetto metafisico e l’aspetto teologico. Storicamente, la promessa fatta ai patriarchi è assoluta e anteriore alla Legge: dunque la Legge non può né annullarla né  restringerla; e la giustificazione, dipendendo dalla promessa, non può neppure dipendere dalla Legge. Questa non guarì affatto gli Ebrei dalle loro passioni; allo straripare del male non oppose che una diga impotente. — Non si poteva sperarne di più, poiché in fin dei conti, che cosa è una legge? È una luce e una barriera; una luce che mostra la via, una barriera che non permette di uscirne: luce inopportuna per una volontà vacillante, barriera provocatrice per una volontà perversa (Rom. VII, 7-9). La legge porta una nuova obbligazione senza portare un nuovo aiuto; essa dunque altro non può fare che manifestare, aggravare, moltiplicare il peccato (Gal. VIII, 19). — L’esperienza più comune c’insegna che l’uomo, in presenza di una legge, prova istinti di ribellione, e sente nel tempo stesso che l’appoggio offerto dalla ragione alla legge, non è un contrappeso sufficiente: egli non fa il bene che ama, e fa il male che aborrisce. Se non capisce nulla di questo fenomeno contradittorio, lo constata tuttavia facilmente. Così pure capisce che la legge non è la causa del male e che ne è solamente l’occasione; e intanto, essendo conscio dell’insufficienza della legge, cerca un aiuto fuori di essa e si rivolge verso la misericordia (Rom. VII, 5-25). — Qui interviene il principio teologico. Si potrebbe concepire un altro ordine di provvidenza, nel quale la Legge potesse giustificare; e in tale ipotesi « la giustizia sarebbe veramente per mezzo della Legge (Gal. III, 21) ». Ma nell’economia attuale, la salvezza dell’uomo dipende dalla grazia, e l’uomo nonna diritto di vantarsene (Gal. VI, 14). Ora se la Legge sola giustificasse, l’uomo potrebbe vantarsi di aver compiuto con le sole sue forze una magnifica prodezza; ma allora noi non avremmo più bisogno dei Cristo e « il Cristo sarebbe morto invano (Gal. II, 21) ». Pure dichiarando che la Legge « è incapace di giustificare », Paolo dice che « coloro che avranno osservato la Legge saranno giustificati (Gal. III, 21) ». Egli assicura che la Legge fu data « per (condurre a) la vita », e afferma che fu sopraggiunta « per aumentare le trasgressioni (Rom. VII, 12) ». Non vi è una flagrante contradizione in queste asserzioni? Niente affatto. La Legge per se stessa è incapace di giustificare, ma gli Ebrei non furono mai lasciati con la sola Legge. Nel dare la Legge agli Ebrei, che erano già i depositari delle promesse fatte ad Abramo, Dio voleva conferire loro la vita soprannaturale, non per mezzo della sola Legge che ne era incapace, ma per mezzo della grazia aggiunta alla Legge come un principio superiore e indipendente. Quando Dio vide che la sua prima intenzione era frustrata per colpa degli Ebrei, sanzionò il fatto compiuto e volle che il peccato abbondasse per mezzo della Legge, per far sovrabbondare la grazia (Rom. V, 20). Le due finalità non sono punto contrarie perché si muovono in piani diversi. Da quanto precede, si può vedere che la dottrina di san Paolo relativamente alla Legge mosaica è di una grandissima complessità. Proviamoci a segnarne le linee principali: Come espressione della volontà divina, la Legge è buona, santa e spirituale (Rom. VII, 12); ma considerata in se stessa essa è soltanto una luce che rischiara l’intelligenza senza dare forza alla volontà, è soltanto una barriera la quale provoca lo spirito di ribellione senza arrestarlo efficacemente; essa è dunque, per un essere corrotto, una causa accidentale di trasgressioni, ed in questo senso essa moltiplica il peccato e fa nascere l’ira (Rom. V, 15-20). Sotto l’aspetto storico, la Legge veniva dopo la promessa gratuita, assoluta, universale, eterna, che essa stessa non poteva né annullare né soppiantare né limitare né completare né restringere (Gal. III, 21). Essa era dunque, per sua natura, temporanea e locale, destinata ad un popolo unico e per un tempo determinato. Non bisognerebbe conchiudere che essa fosse nociva o inutile: era un benefizio di Dio e una prerogativa d’Israele, non soltanto come rivelazione, ma come intimazione del volere divino (Rom. IX, 4). Bene osservata, essa sarebbe stata una sorgente di meriti e una causa di giustificazione (Rom. II, 13). Questo appunto è ciò che Dio aveva di mira nel concederla: essa era data per condurre alla vita eterna (Rom. VII, 10). Infatti essa per se medesima non conferisce i l privilegio della fede e della grazia, non lo toglie neppure; ora essa veniva proposta ad un popolo che già possedeva la promessa, e da questa poteva derivare l’aiuto necessario all’osservanza salutare della Legge. onesto primo fine della Legge fu reso vano dall’indurimento degli Ebrei: la Legge infatti non oppose che un ostacolo impotente all’irrompere del peccato e al traboccare del male (Rom. VIII, 3). Dio tuttavia la mantenne per motivi degni della sua sapienza; Egli ne fece una custode attenta per preservare gli Ebrei dai contatti pericolosi, un’istitutrice incaricata di condurli al Cristo. E se il compito pedagogico della Legge fu soprattutto negativo, essa ebbe tuttavia l’onore di essere la depositaria del monoteismo e della verità rivelata (Gal. III, 24). Ma essa portava in sé germi molteplici di caducità. Il regime della Legge doveva morire di morte naturale, quando fosse giunta l’età matura del genere umano (Gal. II, 25), quando fosse venuto il momento fissato da Dio per l’emancipazione del mondo (Gal. IV, 4-5), quando fosse sonata l’ora segnata per l’adempimento della promessa fatta al Padre dei credenti (Gal. V, 4-5), quando fosse apparso il Cristo che è il suo fine e il suo limite, quando fosse inaugurata l’economia della grazia con la quale essa è, incompatibile.

4. Cosi l’umanità in cammino s’istruisce e progredisce come un uomo che dovrà vivere sempre. Questo essere collettivo che cerca oscuramente il suo destino e non lo trova se non nel Cristo, è per san Paolo il mondo: il mondo che fu già invaso dal peccato (Rom. V, 12), che si ammanta invano di sapienza (I Cor. V, 12), che Dio cerca di riconciliarsi nel Cristo (Rom. III, 19), che egli obbliga a dichiararsi debitore verso la giustizia divina (Rom. III, 19), che egli giudicherà un giorno in compagnia degli eletti (I. Cor. VI, 2). L’istruzione che il mondo va raccogliendo nel corso dei secoli e di cui è tanto orgoglioso, altro non è, in confronto con la scienza del Cristo, che un’educazione rudimentale, paragonabile all’alfabeto che s’insegna ai bambini, e san Paolo le dà il nome espressivo di elementi del mondo. Quattro volte, in due testi distinti, l’Apostolo adopera questa espressione che il contesto mette in luce. Egli scrive ai Galati: « Anche noi, quando eravamo bambini, eravamo asserviti agli elementi del mondo… Allora non conoscendo Dio, voi servivate quelli che per natura non sono dèi; ma ora conoscendo Dio o piuttosto essendo conosciuti da lui, perché ritornate a gli elementi deboli e poveri ai quali di nuovo volete assoggettarvi! Voi osservate i giorni e i mesi e le stagioni e gli anni » (Gal. IV, 3). Il pensiero dell’Apostolo è semplice: Una volta, ignorando Dio, voi servivate esseri che non avevano nulla di divino; ma ora conoscendo il vero Dio, perché vi asservite a cose vane, quali sono gli elementi dal mondo? Il contrasto è tra l’ignoranza passata e la presente che rende i Galati giudaizzanti affatto, inescusabili; e l’accento sta su la parola « servire » che indica una soggezione volontaria. Tre particolari ci aiuteranno a stabilire il senso degli « elementi del mondo ». Prima della loro conversione, gli Ebrei erano come minorenni (νήπιοι=nepioi) che in san Paolo vuol sempre dire uno stato di conoscenza imperfetta; ma oggi, illuminati dalla fede, essi hanno cessato di essere pupilli, non sono più sotto il pedagogo. Una volta essi erano sotto il giogo e la custodia della Legge e così erano asserviti agli elementi del mondo: essere liberati dalla Legge mosaica ed essere liberati dagli elementi del mondo, per l’Apostolo, è una sola e medesima cosa. In quanto ai Gentili, essi erano pure sotto il dominio degli elementi del mondo, e san Paolo rimprovera loro con un’insistenza non priva di pleonasmo, di voler ritornare a quella schiavitù, perché osservano i giorni, i mesi, le stagioni e gli anni. I Galati non volevano ritornare all’idolatria né ad un culto superstizioso degli angeli e dei geni: nell’Epistola non vi è nulla che suggerisca tale ipotesi; dappertutto non si tratta che di osservanze legali o di prescrizioni innestate sopra la Legge. Bisogna dunque dire che san Paolo comprende in una nozione generale il rituale mosaico ed i costumi religiosi del gentilesimo, per qualificarli tutti insieme come « rudimenti poveri e infermi ». È la religione cristiana che al confronto li rimpiccolisce e li schiaccia. – Coloro che negli elementi del mondo vorrebbero vedere degli esseri personali, fanno vedere che essi sono paragonati a tutori e ad economi, che sono chiamati poveri e infermi, che i Galati sono loro asserviti come erano una volta asserviti agli idoli. Ma queste ragioni sono assai deboli, e molto si stenterebbe a prenderle sul serio, se non fossero presentate con tanta sicurezza. Infatti anche la Legge è paragonata ai tutori e agli economi ed anzi è chiamata pedagogo, senza che per questo diventi una persona; l’Epistola agli Ebrei può benissimo fare menzione dell’infermità della Legge senza conferirle con questo la personalità, ed è noto che l’aggettivo povero (πτωχός =ptokos) si applica molte volte alle cose; Analmente se gli elementi del mondo rivestissero un carattere personale per il fatto che i Galati sono asserviti a loro, che cosa si dovrà dire del testo di san Paolo: « Essi servono il loro ventre e non il Cristo? ». – Il passo dell’Epistola ai Colossesi dice ancora più chiaramente che cosa sono gli elementi del mondo: “Vigilate affinché nessuno vi seduca con la filosofia e con un vano inganno, secondo la tradizione degli uomini, secondo gli elementi del mondo e non secondo il Cristo. Se siete morti col Cristo agli elementi del mondo, perché vi lasciate imporre leggi come se viveste nel mondo? Non prendere ( vi si dice), non assaggiare, non toccare! Tutto questo è di un uso pericoloso. (Sì, ma solamente) secondo i precetti e gl’insegnamenti degli uomini” (Col. II, 8). – Gli elementi del mondo non potrebbero essere meglio definiti, per una parte, dalla loro identità reale con la tradizione degli uomini, dall’altra parte, con la loro opposizione alla vera dottrina del Cristo. La sinonimia, tra elementi del mondo e tradizione degli uomini è molto chiara, perché il mondo è per san Paolo l’umanità lasciata a se stessa o sottratta all’influenza vivificatrice del Cristo, e perché tutto il contesto converge verso l’idea di una dottrina filosofica, tradizionale, elementare, che si deve correggere con l’insegnamento del Vangelo. E non si dica che la Legge di Mose, essendo un’istituzione divina, non può essere presentata come una tradizione umana; poiché, in questo caso, i falsi dottori di Colossi mescolavano alle osservanze mosaiche certe pratiche di un ascetismo arbitrario; e del resto le prescrizioni mosaiche non hanno più altro valore che quello di tradizioni puramente umane, dal momento in cui il Cristo morendo le ha inchiodate alla sua croce. L’antica legislazione, Legge imperfetta abrogata dal Vangelo, ombra che svanisce dinanzi alla nuova luce, ha fatto il suo tempo. – Ancorché per gli altri conservasse ancora un qualche valore, la Legge mosaica non ne avrebbe più per il Cristiano morto con Gesù Cristo a tutte le passate servitù. Infatti « per la Legge il Cristiano è morto alla Legge », egli non vive più « nel mondo (Gal. II, 19) » estraneo alle influenze del Cristo e ancora soggetto alle istituzioni rudimentali di altri tempi. Oramai quelle restrizioni caduche hanno perduto per lui la loro forza imperativa. Non sono più altro che « insegnamenti umani i quali possono avere una (falsa) rinomanza di sapienza, di pietà spontanea, di umiltà, di austerità, ma che in realtà, pure mortificando il corpo, non fanno che impinguare la carne (Col. Ii, 22-23) », il principio opposto all’azione dello Spirito Santo in noi. – Prescrizioni mosaiche, tradizioni sovrapposte dai rabbini al codice del Sinai, pratiche suggerite dal sentimento religioso normale o sviato, ecco che cosa indica san Paolo costantemente col nome di elementi del mondo, che l’apparizione del Cristo, nel quale sono tutti i tesori di scienza e di sapienza, dissipa come un’ombra.

5. Questo improvviso rovesciamento di cose, questo gran cambiamento di scena avviene nella pienezza dei tempi o nella pienezza del tempo (Ephes. I, 10). Le due espressioni non sono totalmente sinonime: la seconda indica l’istante in cui l’umanità uscita dall’infanzia e resa capace di istituzioni più robuste, più virili, entra in possesso dei suoi diritti, dei suoi privilegi e della sua eredità: la prima implica una serie di periodi storici che si succedono secondo un disegno prestabilito, come il ciclo regolare delle stagioni porta a volta a volta le gemme, i fiori e i frutti. La pienezza del tempo è il termine liberamente fissato dalla sapienza divina; la pienezza dei tempi è il coronamento delle preparazioni provvidenziali.

CONOSCERE SAN PAOLO (30)

CAPO II.

L’iniziativa del Padre .

I. DISEGNI DI MISERICORDIA.

1. VOLONTÀ DI SALVARE. — 2. DIVERSI ASPETTI DEL VOLERE DIVINO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Poiché l’uomo non può rialzarsi da sé né liberarsi con le sue forze, bisogna che Dio gli tenda la mano. Questa premura benevola, di Dio, doppiamente immeritata sia perché l’uomo non ne ha nessun diritto, sia perché ne è positivamente indegno, si chiama misericordia. Paolo estende a tutti gli uomini, finché sono nello stato di prova, la misericordiosa bontà del Padre celeste. « Anzitutto io esorto a offrire preghiere, domande, suppliche, ringraziamenti per tutti gli uomini, (in particolare) per i re e tutte le persone costituite in dignità, affinché noi meniamo una vita tranquilla e pacifica, in ogni pietà e santità. Questo è buono e grato agli occhi di Dio nostro Salvatore, i l quale vuole che tutti gli uomini siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità: poiché unico è Dio, unico pure il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo uomo, il quale si è dato come riscatto per tutti » (I Tim. I, 1-5). – Il pensiero dell’Apostolo è così chiaro, che nessun sofisma lo può oscurare; esso si riduce a questo; bisogna pregare per tutti gli uomini senza eccezione, perché Dio, che è il Dio di tutti e il cui Figlio è morto per tutti, vuole anche la salvezza di tutti. Bisogna pregare per tutti gli uomini senza eccezione: non soltanto per i Cristiani, ma anche per gli stessi pagani, particolarmente per i prìncipi, qualunque sia l’infamia della loro condotta, perché essi possono di più per il bene come per il male. Questa prescrizione è di un’attualità che colpisce, quando si pensi che l’imperatore allora regnante si chiamava Nerone e che aveva allora allora scatenato contro la Chiesa nascente la più orribile persecuzione. Un corollario immediato della prescrizione apostolica è che la preghiera giova a tutti gli uomini; infatti chi mai penserebbe a prescrivere l’impossibile e l’assurdo? Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini: e questo si deve intendere di tutti senza eccezione, poiché l’eccezione non è indicata ma è invece esclusa dall’enfasi del discorso e dalla parola « tutti » ripetuta quattro Tolte. Invano si obietta che la volontà di salvare è necessariamente limitata dall’aggiunta: « e che tutti arrivino alla conoscenza della verità »: non potendo essere vera di un’assoluta universalità questa seconda proposizione, si dice, neppure la prima si deve intendere di un’assoluta universalità. La risposta è facile: non tutti gli esseri umani hanno l’uso di ragione, eppure tutti, senza nessuna eccezione; sono capaci della salute eterna; perciò mentre l’inciso che si riferisce alla conoscenza della verità si limita da se stesso agli uomini capaci di conoscere la verità, l’altro inciso non è limitato da nulla e deve conservare, secondo le regole di una sana esegesi, tutta la sua estensione. Dio vuole la salvezza di tutti perché è il Dio di tutti, e perché Gesù Cristo, il mediatore universale, si è dato alla morte per tutti.  Siccome Dio è unico, Egli è necessariamente il principio e il fine supremo di tutti gli uomini: non è naturale che desideri di condurli tutti al conseguimento del loro fine! Questa è la considerazione che l’Apostolo ha già fatto valere nell’Epistola ai Romani (Rom. III, 29-30). Né qui vale opporre la caduta originale che, rompendo l’armonia tra Dio e l’uomo, rese questo indegno della benevolenza divina. Accanto al Dio unico vi è il mediatore universale la cui missione è appunto quella di ristabilire l’armonia tra il cielo e la terra, e che morendo per tutti, acquista a tutti lo stesso titolo alla misericordia. –  Le diverse spiegazioni immaginate da certi teologi prevenuti, per restringere la volontà di salvare, si confutano abbastanza da se stesse al solo presentarle:

a) Dio vuole che tutti coloro i quali saranno realmente salvi, siano salvi. È chiaro!

b) Dio vuole che alcuni uomini di tutti i paesi e di tutte le condizioni siano salvi. E qual è l’esegesi che permette di fare di « tutti » un sinonimo di « alcuni »?

c) « Tutti » è iperbolico e vuol dire « molti ». Ma lo stesso Apostolo col ripetere a sazietà la parola « tutti » si è incaricato di confutare questa singolare ipotesi.

d) Dio vuole solamente la salvezza degli eletti, ma vuole che noi desideriamo la salvezza di tutti gli uomini. Egli vuole dunque farci desiderare l’impossibile e farci volere quello che Egli stesso non vuole! E poi nel testo si tratta di quello che Dio vuole, non di quello che vuole che vogliamo noi.

e) Dio vuole la salvezza di tutti in questo senso, che fa qualche cosa per tutti, benché questo qualche cosa sia insufficiente per salvarli. Questo equivale a dire che vuole e non vuole, in altri termini, che non vuole sul serio, o più semplicemente che non vuole affatto.

f) Gesù Cristo, in quanto uomo, vuole la salvezza di tutti, con un volere inefficace del quale sa che è irrealizzabile l’oggetto. Ma qui non si tratta della volontà di Gesù Cristo: si parla della volontà di Dio. E poi chi sa mai perché Gesù Cristo, anche come uomo, vorrebbe quello che suo Padre non vuole?

È cosa incontestabile che l’Apostolo qui si mette nell’ipotesi del peccato originale; infatti, prescrivendo di pregare per tutti gli uomini, egli afferma che Dio presentemente vuole la salvezza di tutti, e che Gesù Cristo è morto per tutti. Nessuno certamente oserà attribuire a san Paolo questo strambo ragionamento: « Pregate per tutti gli uomini, perché Dio vuole la salvezza di alcuni, perché Gesù Cristo è morto per tutti ». Per essere conseguenti, si dovrebbero restringere ugualmente queste tre proposizioni così strettamente incatenate, e dire, per esempio: « Pregate per i soli eletti, perché Dio vuole la salvezza dei soli eletti, e Gesù Cristo è morto per i soli eletti ». Ma allora si resterebbe nella logica soltanto per vagare nell’arbitrario e per cadere nell’eresia. Non è qui il luogo opportuno per svolgere i corollari di questo insegnamento. Con un semplice sguardo, si vede che la riprovazione positiva di Calvino gli è diametralmente opposta, poiché la volontà antecedente di salvare tutti gli uomini, esclude ipso facto la volontà antecedente di dannarne alcuni, anche nell’ipotesi del peccato originale; infatti, come si è dimostrato, l’Apostolo si mette appunto in questa ipotesi. Non siamo mai riusciti a capire in qual maniera i difensori della riprovazione negativa arrivino ad eludere il nostro testo. Questa riprovazione è chiamata negativa sia perché è espressa con una negazione, sia perché è la negazione di un benefizio; ma essa consiste in un atto positivo di Dio: i partigiani stessi del sistema lo riconoscono e, se lo negassero, sarebbe facile il dimostrarlo. Ora la volontà antecedente di rifiutare la salute eterna ad alcuni uomini è assolutamente incompatibile con la volontà antecedente di salvarli tutti, perché la prima volontà distrugge la seconda di cui è la contraddizione. E non servirebbe a nulla, per cercare di mettere queste due volontà in piani differenti, il fare appello al peccato originale; infatti, secondo san Paolo, la volontà di salvare resta universale nella stessa ipotesi del peccato originale. Nessuna sottigliezza di esegesi non potrà mai sfuggire a questo argomento di logica elementare e di senso comune. La volontà di salvare non è assoluta, altrimenti si dovrebbe compiere necessariamente; essa è condizionale, ma sotto una condizione che non dipende da essa sola, altrimenti sarebbe illusoria e si potrebbe formulare così: « Io vorrei se volessi », il che equivale perfettamente al dire: « Non voglio ».

2. Quanto è irragionevole il cercare in san Paolo la terminologia scolastica attuale, altrettanto sarebbe temerario e poco scientifico il non distinguere in lui le diverse espressioni della volontà divina. Non bisogna confondere il proposito (πρόησις = protesis), il beneplacito (εὐδοκία = eudikìa), il consiglio (βουλή=boule), la volontà di Dio (βούλημα, θέλημα =boulema, telema). Il proposito di Dio (Rom. VIII, 28) è un atto eterno e assoluto della volontà conseguente che si riferisce a un benefizio particolare, come la vocazione efficace alla fede: osso è libero poiché si regola secondo il beneplacito; è grazioso, poiché non dipende dai meriti dell’uomo; è assoluto, perché ha per effetto la vocazione efficace; è eterno, poiché è anteriore ai secoli. In realtà il proposito divino è quello che meglio risponde alla predestinazione, termine del quale san Paolo non fa uso; però la predestinazione implica, per rapporto all’ordine di esecuzione, un’anteriorità che il proposito per se stesso non esprime. — Il beneplacito (Ephes. I, 5), come dice la stessa parola, indica tanto la spontaneità quanto la libertà del volere divino; per conseguenza si dice soltanto di una volontà benevola e graziosa e non si applica mai alla permissione del male né alla punizione della colpa. Il consiglio (Ephes. I, 11) illumina e dirige la volontà. San Paolo poteva dire, senza pleonasmo, che Dio « opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà », perché la volontà divina non è né cieca né arbitraria, perché obbedisce a ragioni profonde, benché sovente impenetrabili, perché si svolge armonicamente nel tempo e nello spazio, secondo un disegno concepito da tutta l’eternità. — Si possono distinguere quattro volontà di Dio: la volontà di precetto, la volontà di desiderio, la volontà di decreto e la volontà di permissione. La prima è evidentemente assoluta, perché si confonde con la legge morale; ma la necessità che ne risulta riguarda l’obbligazione dell’atto, non l’esistenza dell’atto stesso. La volontà di desiderio è una volontà seria e attiva la cui realizzazione è però condizionata dall’esercizio di una volontà estranea. La volontà di decreto è assoluta e ineluttabile; ma quando ha per oggetto gli atti liberi dell’uomo non è anteriore ad ogni previsione di questi atti, come vedremo in seguito. Finalmente la volontà di permissione è una specie di volontà negativa che lascia il loro libero esercizio, anche per il male, alle facoltà umane. – La volontà di Dio, rispettando la volontà delle creature, non sempre ottiene il suo effetto: ecco perché noi ogni giorno preghiamo che la volontà di Dio si compia sempre più sopra la terra come in cielo. Nulla accade senza qualche intervento della sua volontà: il male stesso non si produrrebbe senza una tolleranza da parte sua (ὰνοχή= anoke) (Rom. II, 4). I profeti, dicendo che Dio crea il male, intendono parlare del male fisico, castigo del male morale; ma san Paolo non esita ad affermare che Dio abbandona i pagani alle loro passioni, alle loro cupidigie, al loro senso riprovato (Rom. I, 24-28). Quando Dio volge il male in bene, col ripararlo, o col punirlo, si può dire che egli lo vuole con una volontà virtualmente doppia, la quale da una parte permette il male, e dall’altra lo fa volgere in bene.

II. IL DISEGNO DELLA REDENZIONE.

1 . GRAZIA E LIBERO ARBITRIO. — 2. ORDINE D’INTENZIONE E ORDINE DI ESECUZIONE. 3. ESTENSIONE DEL DISEGNO DIVINO.

1. Giuseppe [Flavio] attribuisce, in qualche luogo, ai farisei del suo tempo, una dottrina analoga alla professione di fede degli stoici, la quale aspetta tutto da Dio, eccetto la virtù. Secondo lui, gli esseni riferivano tutto al destino; i sadducei, nulla; i farisei, parte al destino e parte al libero arbitrio. Il destino — idea totalmente estranea alla teologia ebraica — rappresenterebbe forse qui la provvidenza o il decreto divino! In altri passi, Giuseppe modifica in questa maniera il suo giudizio intorno alla teoria farisaica: « Benché tutto dipenda dal destino, l’uomo non cessa di essere libero, perché Dio ha stabilito una specie di temperamento tra il decreto del destino e la libertà umana (Antiq. Jud. XIII, V, 9) ». Tuttavia i farisei dovevano, nella pratica, diminuire e attenuare l’iniziativa divina. Siccome per loro la giustizia non era altro che l’esecuzione di un contratto conchiuso con Dio, essi si credevano dispensati da ogni gratitudine quando l’avessero fedelmente osservata, anzi allora si consideravano come creditori di Jehovah. Non vi è nulla che ci permetta di supporre che Saulo partecipasse a questo errore prima della sua conversione, perché è in lui troppo vivo e profondo questo doppio sentimento che l’uomo non può mai vantarsi in materia di salvezza, e che tutto viene da Dio così nell’ordine soprannaturale come nell’ordine naturale (Rom. XI, 36). Ma se egli non sacrifica al libero arbitrio dell’uomo il supremo dominio di Dio, non edifica neppure il supremo dominio di Dio sopra le rovine del libero arbitrio. Le sue ripetute esortazioni non avrebbero nessun senso qualora l’uomo non fosse libero di fare il bene e di evitare il male. Ricorderemo solamente, per non dover poi ritornare sopra una questione così chiara, le tre asserzioni seguenti: L’uomo è responsabile delle sue azioni buone e cattive; egli ne deve rendere conto al giudice supremo (Rom. II, 12-13); è senza scusa quando fa il male perché sa che, facendolo, è degno di morte (Rom. I, 32), e perché Dio, non contento di dargli la nozione del bene, fa da parte sua quanto occorre per condurlo al bene (Fil. II, 12-13). — L’atto di fede del credente è un atto di obbedienza grato a Dio; l’incredulità è un atto di ribellione, di disprezzo, di ostinazione e d’indurimento volontario che attira l’ira di Dio (Rom. II, 8); ora chi dice obbedienza e disobbedienza, dice libertà. — Ma né l’infedele è perduto irremissibilmente, né il fedele è salvato, se non nella speranza (Rom. VIII, 24): questi deve sempre temere, e l’altro può sempre sperare. La salvezza del credente è assicurata soltanto da parte di Dio, ma è condizionata da parte dell’uomo, « se persevera nella fede (Rom. XI, 22; Col. I, 23) »; così pure la perdita dell’incredulo non è certa se non nel caso che egli si ostini nell’incredulità: si converta ed egli pure sarà salvo (Rom. XI, 23). È cosa degna di nota, che Paolo riunisce nella stessa frase queste due idee che paiono contradditorie a tanti teologi eterodossi, senza che mostri di vedere in esse una antinomia: « Lavorate per la vostra salvezza con timore e tremore, perché è Dio che opera in Voi il volere e il fare (Fil. II, 12-13) ». – Dobbiamo lavorare per la nostra salvezza come se tutto dipendesse da noi, e abbandonarci a Dio come se tutto dipendesse da Lui. È cosa più che legittima, che noi dobbiamo procedere in questo lavoro con timore e con tremore, poiché ne va di mezzo la nostra felicità o infelicità eterna, e perché nessuno è al sicuro contro le deficienze della propria volontà. Paolo stesso prova questo timore: egli sa che, pure non avendo coscienza di nessun male, non per queste si è sicuri di essere giustificati (I Cor. IV, 4); egli mortifica il suo corpo e lo tratta come schiavo per timore che, dopo di aver predicato agli altri, egli stesso non venga riprovato (I Cor. IX, 27). Ma ecco qui una massima che pare un paradosso: dobbiamo lavorare per la nostra salvezza, perché Dio opera in noi il volere e il fare. – Parecchi teologi protestanti dei nostri giorni vedono in questi due membri della frase un’opposizione irreducibile e deplorano altamente che san Paolo non se ne sia accorto. Alcuni lo scusano dicendo che qui si tratta di un mistero impenetrabile; ma uno di essi, più irriverente degli altri, lo rimanda dalla scuola di Gamaliele a quella di Aristotele, dove s’impara a ragionare meglio (Fritzsche). L’argomento di questi grandi pensatori è semplicista: Se Dio fa tutto, nell’opera della salvezza, l’uomo non ha nulla da fare: e se fa tutto l’uomo, non rimane più nulla per l’opera divina. Il loro errore deriva da questo, che essi concepiscono l’azione combinata di Dio e dell’uomo, alla maniera di un sinergismo. Se Dio e l’uomo fossero cause parziali e dello stesso ordine, l’obiezione terrebbe, ma non è così: Dio e l’uomo producono l’effetto tutto intero, ciascuno nel suo ordine (A. Thom. Contra Gentes, III, LXX); e pertanto l’effetto non si potrebbe produrre senza il loro concorso simultaneo. È dunque la sicurezza del concorso divino, congiunta al sentimento della propria insufficienza, che ispira all’uomo la fiducia e il timore; ma più ancora la fiducia che il timore, infatti ammessa la citazione tacita del Salmista, il consiglio di temere qui è soltanto un accessorio, e l’enfasi del discorso accentua queste parole: « Lavorate per la vostra salvezza ». Tale è il pensiero profondo, ma perfettamente coerente, di san Paolo.

2. Quello che Dio opera nel tempo, lo ha stabilito da tutta l’eternità. La storia della redenzione non si svolge dinanzi a lui come ma panorama che Egli contemplerebbe accettandolo come si presenta, ma come n gran dramma, del quale Egli dirige l’azione, combina le peripezie e prepara lo svolgimento. San Paolo ritorna frequentemente sopra questo disegno divino che egli chiama « il proposito eterno anteriore alla costituzione del mondo »; egli lo riassume magnificamente in un passo il cui tono lirico e l’andatura ritmica fanno pensare ad un cantico o ad un inno:

  1. Benedetto (sia) Dio, Padre del Nostro Signore Gesù Cristo;

.A.] il quale ci ha colmati di benedizioni spirituali, nei cieli, nel Cristo;

4. come ci ha eletti in lui, prima della fondazione del mondo, per essere santi e senza macchia dinanzi a lui, nella carità;

B.] 5. predestinandoci ad essere suoi figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo,

secondo il beneplacito della sua volontà,

6. per far risplendere la gloria della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Prediletto,

7. per il sangue del quale, abbiamo la redenzione, la remissione delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia che egli ha versato sopra di noi,

8. con ogni sapienza e intelligenza;

C] 9. notificandoci il mistero della sua volontà, secondo il benevolo disegno che egli formò in lui,  per essere effettuato nella pienezza dei tempi, di riunire ogni cosa nel Cristo, le cose del cielo e quelle della terra,

a) 11. in lui nel quale noi, i primi a sperare nel Cristo, siamo stati fatti eredi, predestinati secondo il proposito di colui che opera tutto secondo il consiglio della sua volontà,

12. per essere l’elogio (vivente) della sua gloria;

b) 13. in lui nel quale anche voi, avendo udito la parola di verità, il vangelo della nostra salvezza, e avendovi aderito, siete stati segnati col sigillo dello Spirito Santo promesso,

14. caparra della nostra eredità, per la redenzione (totale) di quelli che si è acquistati, a lode della sua gloria ( I, 3-14).

Le nozioni teologiche accumulate in questo passo richiederebbero un lungo commento. Basti per ora  il distinguere le tre idee dominanti: A Dio solo spetta la gloria e l’iniziativa della nostra salvezza: predestinazione, elezione, remissione dei peccati, dono della grazia, benedizioni celesti nel significato più esteso, tutto viene da Lui. — Tutto questo, così nell’ordine di esecuzione come nell’ordine d’intenzione, si fa in vista del Cristo, « nel Prediletto ». — Finalmente l’ordine di esecuzione si svolge lungo i secoli, conforme all’ordine d’intenzione concepito da Dio da tutta l’eternità. – Prima di scrutare il mistero del disegno divino, conviene definire i concetti di predestinazione, di elezione, e di prescienza. La parola predestinazione non è biblica, ma la parola predestinare si trova cinque volte in san Paolo, nei passi seguenti:

« Noi predichiamo la sapienza di Dio, nel mistero, quella sapienza nascosta che Dio ha predestinato prima dei secoli per nostra gloria.

Quelli che egli ha conosciuto prima ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine di suo Figlio, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli.

Ora quelli che ha predestinati, ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati ha pure glorificati. (Rom. VIII, 29, 30)

Egli ci elesse nel Cristo prima della fondazione del mondo, ad essere santi e immacolati dinanzi a lui, predestinandoci ad essere suoi figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo.

In lui abbiamo pure ricevuto la nostra parte (di eredità), essendo stati predestinati secondo il proposito di colui che opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà, affinché serviamo ad esaltare la sua gloria, noi che abbiamo da principio sperato nel Cristo » (I Cor. II, 7; Rom. VIII, 29-30; Ephes, V, 5-11. – Predestinare si trova anche in CT. IV, 28, nel senso di “decretare”). Da tutti questi passi risulta che l’atto col quale Dio predestina è sommamente comprensivo. È un atto eterno perché esiste prima dei secoli ed è simultaneo o logicamente anteriore all’elezione la quale è essa stessa anteriore alla fondazione del mondo. È un atto assoluto, ed efficace nella misura in cui è assoluto, perché è frutto del « consiglio » o del « proposito » divino. È un atto sommamente libero, perché si compie secondo il proposito di Colui che opera tutte le cose per consiglio della sua volontà; non ha dunque causa propriamente detta da parte dell’uomo benché possa avere per ragione di essere una condizione dipendente da Dio. Gli atti divini si succedono nell’ordine seguente: prescienza, predestinazione, vocazione, giustificazione, glorificazione; le due prime appartengono all’ordine d’intenzione, le ultime tre all’ordine di esecuzione. La predestinazione è dunque logicamente preceduta dalla prescienza: « quelli che ha conosciuti prima ha pure predestinati »; poiché è nella natura delle cose, che la volontà segua l’intelligenza e non la preceda. Finalmente Dio predestina l’uomo ad un benefizio o un benefizio all’uomo, ma questo benefizio non è mai direttamente la gloria eterna. Mentre la predestinazione appartiene soltanto all’ordine di intenzione, l’elezione comprende anche l’ordine di esecuzione. Essa aggiunge alla predestinazione o alla vocazione efficace un’idea di favore in rapporto a coloro che si trovano predestinati o chiamati efficacemente e un’idea di predilezione in rapporto a Dio che predestina o chiama. Una specie di pleonasmo viene qualche volta ad accentuare questa doppia idea: « Il Signore tuo Dio ti ha eletto fra tutte le nazioni ad essere suo popolo speciale ». Se tutti gli uomini fossero predestinati, non sarebbero eletti nel senso proprio usitato nella Scrittura. Per conseguenza la predestinazione non suppone necessariamente l’elezione, ma l’elezione suppone necessariamente la predestinazione: « Dio ci ha benedetti con ogni sorta di benedizioni spirituali, in cielo, nel Cristo, come ci ha eletti in lui prima della fondazione del mondo, per essere santi e immacolati dinanzi a lui, predestinandoci (oppure avendoci predestinati) ad essere suoi figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà (Ephes. I, 3) ». Come la predestinazione, l’elezione è eterna, poiché esiste nel decreto divino prima della creazione del mondo. Essa avviene « nel  Cristo », in vista dei suoi meriti, e non indipendentemente da Lui, come pretendono il Caetano per tutti i santi, e Catarino per una classe di eletti. Essa ha per suo scopo una vita « santa e irreprensibile, dinanzi a Dio »; non ha dunque come termine diretto immediato la gloria eterna. Finalmente essa è la sorgente delle benedizioni spirituali, perché l’ordine di esecuzione, è conforme all’ordine d’intenzione. Nel passo che abbiamo citato, l’elezione è connessa infatti con l’ordine d’intenzione; ma in tutti gli altri luoghi, in san Paolo, essa appartiene all’ordine di esecuzione. Allora l’elezione si confonde con la vocazione efficace, e tutti i fedeli si chiamano eletti: « Sforzatevi, dice san Pietro, di rendere sicura la vostra vocazione e la vostra elezione (II Piet. I, 10) ». — « Io soffro tutto per gli eletti, affinché si salvino », dice san Paolo (II Tim. II, 10).Se la predestinazione è logicamente posteriore alla prescienza ed è illuminata da essa, altrettanto si deve dire a fortiori dell’elezione che è logicamente posteriore o al più simultanea alla predestinazione. Dio conosce prima, poi predestina ed elegge secondo la sua sapienza; tuttavia benché la prescienza preceda e la predestinazione venga dopo, non vi è tra questi due atti una relazione di causalità. In altri termini, Dio non predestina l’uomo alla fede perché Dio prevede che l’uomo crederà: né la fede né la previsione della fede non possono essere causa della predestinazione poiché, in qualunque ipotesi, la previsione della fede suppone la previsione della grazia liberamente offerta. D’altra parte non si potrebbe, rigorosamente parlando, dire che noi crediamo perché siamo predestinati a credere, poiché la previsione della fede è logicamente anteriore alla predestinazione. La predestinazione non è altro che un aspetto particolare della provvidenza soprannaturale, come la prescienza di Dio non è che un aspetto particolare della sua onniscienza. Ora è facile capire che la previsione di un atto libero, cioè la sua visione nell’avvenire, non è contraria alla sua libertà più che non lo sia la sua visione nel presente; che l’atto cosi previsto avviene infallibilmente senza che avvenga per necessità; che la prescienza non cambia dunque nulla al corso degli avvenimenti e dimostra soltanto l’infinita perfezione di un’intelligenza determinata, per sua natura, a percepire ogni verità.

3. In generale, il disegno della redenzione ha come orizzonte il nostro pianeta ed abbraccia soltanto il genere umano; però qualche volta l’orizzonte si allarga, il disegno divino si estende all’universalità degli esseri, facendo convergere verso il Cristo il complesso della creazione: « Affinché abbia il primato in tutte le cose; perché piacque (a Dio) di far abitare in lui ogni pienezza, e di riconciliare par mezzo di Lui tutte le cose (dirigendole) verso di Lui, pacificando col sangue della sua croce, per mezzo di lui (dico), e quello cha vi è in terra e quello che vi è in cielo » (Col. I, 19-20). L’idea dominante di questo passo, come di tutta l’Epistola, è il primato del Cristo. Egli deve primeggiare in tutto, perché tutta la pienezza abita in Lui. Lasciamo all’espressione tutta la sua ampiezza, poiché san Paolo non crede opportuno di restringerla: sarà allora la pienezza dell’essere come pure la pienezza di grazie. Per avere il primato in tutto, il Cristo dev’essere senza pari nei due ordini della grazia e della natura. E il suo primato risplende nel fatto che con la sua mediazione, Dio riconcilia e pacifica tutte le cose; non le riconcilia a se stesso, ma le riconcilia tra loro per mezzo del Cristo, dirigendole verso di Lui come al loro fine e facendole convergere verso di Lui come al loro centro comune. Non si ha diritto di rifiutare alla particella componente del verbo riconciliare il suo valore proprio, quello cioè di un ritorno ad uno stato anteriore di concordia, prima che apparisse il peccato. Tutte le cose oramai ritrovano la loro unità primitiva, in quanto che tutte rientrano sotto l’egemonia del Cristo. La condizione o la risultante della riconciliazione degli esseri è la loro pacificazione. Paolo non parla di una pacificazione mutua delle cose del cielo con quelle della terra — l’espressione che adopera li oppone a questa interpretazione — ma parla di una pacificazione generale di tutti gli esseri tra loro, sia in terra, sia in cielo. Tutti gli esseri sono pacificati come sono riconciliati nel Cristo che è il loro centro di gravitazione e il loro fuoco di convergenza. Nel passo parallelo, il campo di visione resta ancora così vasto, ma l’unione di tutti gli esseri, sotto lo scettro del Verbo incarnato, è descritta con termini ancora più precisi. « Benedetto sia Dio, il Padre del Nostro Signor Gesù Cristo… che ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà (secondo il benevolo disegno che aveva formato in se stesso per effettuarlo quando fosse compiuta la pienezza dei tempi), di riunire tutte le cose nel Cristo, quelle che sono in cielo e quelle che sono su la terra » (Ephes. I, 9-10). – L’oggetto del mistero o segreto divino è espresso in greco con una parola composta che ha dato luogo a interpretazioni diverse ma non disparate. I commentatori latini, seguendo la Volgata e l’antica versione, adottano volentieri il senso suggerito dal verbo instaurare o restaurare. Così l’Ambrosiastro: « Ogni creatura, in cielo e sopra la terra, è restaurata dalla conoscenza del Cristo, nello stato in cui essa fu creata ». E sant’Agostino vede compiuta questa doppia restaurazione: nei cieli, quando il vuoto lasciato dalla caduta degli angeli, è colmato dagli eletti; sopra la terra, quando i predestinati, liberati dalla corruzione del peccato, sono rivestiti della gloria eterna (S. Agost. Enchir., VI). – Questa è un’esegesi teologicamente irreprensibile, ma filologicamente alquanto dubbia; non pare infatti che san Paolo alluda soltanto agli esseri ragionevoli, ed un ritorno allo stato primitivo, per mezzo della riparazione del peccato, non rende tutto il suo pensiero. Tertulliano, espressamente approvato da san Gerolamo, traduceva recapitulare (Contra Marcion., V, 17). Questo è proprio il significato della parola greca, e sant’Ireneo lo spiega dicendo che tutte le cose sono compendiate o contenute in riassunto nel Cristo (Hæreses III , XVI, 6). Questo si può intendere in tre maniere: nel senso ontologico, Gesù Cristo, Dio e uomo, riassume in certo modo la creazione intera, il mondo degli spiriti e il mondo dei corpi; nel senso soteriologico, il Cristo riassume tutta l’economia della redenzione, in quanto che le profezie hanno tutte il loro compimento in lui, e tutta l’opera di Dio tende verso di lui come al suo fine; sotto l’aspetto rappresentativo, il Cristo può riassumere tutti gli esseri dotati di ragione, come Adamo riassumeva in sé tutta l’umanità di cui era padre. Se queste considerazioni trovano grazia agli occhi del grammatico, non soddisfano però totalmente l’esegeta. È vero che il Cristo realizza nella sua persona le profezie e le figure dell’antica alleanza, e che la sua doppia natura contiene eccellentemente le perfezioni di tutti gli esseri; ma l’affermazione generale del nostro testo rimane sempre limitata in modo piuttosto arbitrario, e questo non combina più con l’oggetto riconosciuto dell’Epistola agli Efesini, che è di presentare il Cristo come un principio di unione universale. Perciò i migliori interpreti afferrano meglio il pensiero di san Paolo, quando dicono, per esempio, con san Gerolamo: « Dio ha dato il Cristo per capo a tutti gli esseri, agli Angeli e agli uomini. Così si forma l’unione, il vincolo perfetto, quando tutte le cose sono messe sotto un solo capo e ricevono dall’alto un vincolo indissolubile… ». Il peccato del primo uomo, lo dice san Paolo, aveva prodotto nella natura intera un disordine, una scissione, un conflitto di tendenze ostili. Gesù Cristo vi ristabilisce la concordia — o almeno v’introduce l’armonia — perché Egli è il capo naturale degli esseri ragionevoli e il centro che domina la creazione materiale. Ora si vedono gli stretti rapporti dei nostri due testi, mentre una prima lettura ce ne faceva vedere piuttosto le divergenze. Da tutte e due le parti, il disegno della redenzione, uscendo dalla nostra sfera, abbraccia la terra e il cielo; da tutte e due le parti, il Cristo è mediatore di pace e strumento di unione, e tale è come uomo, nella pienezza dei tempi; da tutte e due le parti è indicato — o almeno insinuato — il ritorno ad uno stato primitivo di armonia e di concordia; da tutte e due le parti finalmente il compito cosmico del Cristo serve di preludio alla riconciliazione dei pagani con Dio e alla riunione degli Ebrei e dei Gentili in un medesimo corpo mistico. – Anche come uomo, Gesù Cristo ha dunque una specie di compito cosmico: Egli è capo degli Angeli e domina la creazione tutta quanta. Se si pensa al disordine prodotto dal peccato in tutta l’opera di Dio ed all’armonia che la presenza del Cristo v’introduce nuovamente, questo compito cosmico appartiene in qualche modo alla soteriologia (Rom. VIII, 20-21): è una specie di ripercussione mondiale dell’incarnazione ed un improvviso ingrandimento dell’orizzonte contemplato dall’Apostolo il cui sguardo ordinariamente non si spinge oltre la salvezza degli uomini.