DOMENICA II DI AVVENTO (2018)

DOMENICA II di AVVENTO

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 Introitus
Is XXX:30.
Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]
Ps LXXIX:2
Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.
[Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.]

Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

 Oratio
Orémus.
Excita, Dómine, corda nostra ad præparándas Unigéniti tui vias: ut, per ejus advéntum, purificátis tibi méntibus servíre mereámur:
[Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché, mediante la sua venuta, possiamo servirti con anime purificate:]

Lectio
Lectio Epístolæ beáti Pauli Apostoli ad Romános.
Rom XV:4-13.
Fatres: Quæcúmque scripta sunt, ad nostram doctrínam scripta sunt: ut per patiéntiam et consolatiónem Scripturárum spem habeámus. Deus autem patiéntiæ et solácii det vobis idípsum sápere in altérutrum secúndum Jesum Christum: ut unánimes, uno ore honorificétis Deum et Patrem Dómini nostri Jesu Christi. Propter quod suscípite ínvicem, sicut et Christus suscépit vos in honórem Dei. Dico enim Christum Jesum minístrum fuísse circumcisiónis propter veritátem Dei, ad confirmándas promissiónes patrum: gentes autem super misericórdia honoráre Deum, sicut scriptum est: Proptérea confitébor tibi in géntibus, Dómine, et nómini tuo cantábo. Et íterum dicit: Lætámini, gentes, cum plebe ejus. Et iterum: Laudáte, omnes gentes, Dóminum: et magnificáte eum, omnes pópuli. Et rursus Isaías ait: Erit radix Jesse, et qui exsúrget régere gentes, in eum gentes sperábunt. Deus autem spei répleat vos omni gáudio et pace in credéndo: ut abundétis in spe et virtúte Spíritus Sancti.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie – Vol. I, Omelia III – Torino 1899]

“Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la  speranza. Il Dio poi della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. Affinché di pari consentimento, con un sol labbro, diate gloria a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo. Il perché accoglietevi gli uni gli altri come Gesù Cristo ha accolto voi a gloria di Dio. E veramente io affermo, Gesù Cristo essere stato ministro della circoncisione per la veracità di Dio, per mantenere le promesse fatte ai patriarchi: i gentili poi glorificare Iddio per la misericordia, siccome sta scritto: Per questo io ti celebrerò fra le nazioni e inneggerò al tuo nome. E altrove: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E ancora: “Quante siete nazioni, lodate il Signore, e voi, o popoli tutti, celebratelo. E Isaia dice ancora: Vi sarà il rampollo di Jesse e colui che sorgerà a reggere le nazioni, e le nazioni spereranno in lui. Intanto il Dio della speranza vi ricolmi di ogni allegrezza e pace nel credere, affinché abbondiate nella speranza per la forza dello Spirito santo. ,, (Ai Rom, XV, 4-13). –

Queste parole l’Apostolo Paolo scriveva ai fedeli a Chiesa di Roma verso la fine della sua lettera, e queste parole la Chiesa oggi ci fa leggere nella santa Messa, e su queste parole io richiamerò per pochi minuti la vostra attenzione, che vi prego di accordarmi intera. – “Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la speranza. „ Per comprendere il significato di questa sentenza fa d’uopo rilevare il nesso con le parole che la precedono. Nel versetto antecedente l’Apostolo parla di Gesù Cristo, che non secondò le sue inclinazioni naturali per salvare gli uomini, ma tutto sostenne; onde tutte le offese fatte a Dio ricaddero sopra di Lui, che n’era mallevadore, e a conferma cita un luogo del Salmo LXVIII: “I vituperi dei tuoi vituperatori caddero sopra di me: „ parole queste messe in bocca a Gesù Cristo stesso. Messo innanzi ai fedeli questo oracolo delle Scritture, adempiutosi in Cristo, l’Apostolo prosegue, affermando in genere, che tutto ciò che i Libri divini insegnano, lo insegnano a nostro vantaggio spirituale. Che cosa sono i Libri santi? Sono il Codice divino, al quale dobbiamo conformare tutta la nostra vita: sono la lettera, scrive S. Atanasio, che Dio manda agli uomini; lettera che contiene la sua santa volontà, legge sovrana per noi tutti. “La Scrittura tutta, dice san Paolo in un altro luogo, è divinamente inspirata, ed è utile ad insegnare, ad arguire, a correggere, ad ammaestrare nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto ed adorno d’ogni opera buona „ (II Timot. III, 16 e 17). Senza il conoscimento di ciò che dobbiamo credere e fare è impossibile salvarci. E questo conoscimento donde deriva? Da Dio solo, fonte d’ogni verità. E per quali modi, per quali vie Dio ci comunica il conoscimento di queste verità? Per mezzo della parola; e questa può essere annunziata a noi a voce per mezzo degli Apostoli e della Chiesa e può giungere a noi scritta, per mezzo dei Libri divinamente ispirati. La prima via è la più facile e spedita e basta per tutti indistintamente gli uomini: la seconda via è meno facile e meno spedita, né a tutti possibile: ma è pur sempre buona e santa. Qual cosa più buona e santa dell’apprendere le verità della fede su quei libri, che Dio volle si scrivessero a nostra istruzione e conforto? Quelle verità, che un dì risuonarono sulle labbra di Cristo e degli Apostoli, sono lì scritte sui Libri santi: tra noi e gli ascoltatori di Cristo e degli Apostoli non vi è differenza alcuna; quelli ricevevano la verità per gli orecchi, noi per gli occhi, ma è sempre la stessa verità. – Un tempo, o carissimi, la Scrittura santa si leggeva e si meditava anche dai semplici fedeli; era un libro in mano di tutti che sapevano leggere: oggi dov’è il laico, anche istruito, che legga e mediti alcuna volta questo Libro divino? Si leggeranno libri d’ogni  maniera; ma il libro per eccellenza, il libro in cui tutto è verità e che ci ammaestra nelle cose del cielo, che ci insegna la via della virtù, pur troppo è dimenticato. Se non lo si legge, né si medita, se ne ascolti almeno la spiegazione, che la Chiesa comanda sia fatta al popolo ogni domenica! E che cosa ci insegnano i Libri santi e nominatamente le parole del Profeta sopra riportate dall’Apostolo? Esse ci insegnano (scolpitevelo bene nell’animo), ci insegnano la pazienza nei mali e il conforto nelle tribolazioni. Chi di noi, o dilettissimi, non ha da soffrire nell’esercizio della virtù, e nel durarvi saldamente? Bisogna patire, bisogna portare ogni giorno la nostra croce, e sovente assai pesante. Ebbene! Nei Libri sacri, nell’esempio dei santi e sopratutto nell’esempio di Gesù Cristo troveremo lume, forza e conforto e perfino consolazione in mezzo alle amarezze della vita, ponendoci innanzi agli occhi la mercede che ci è promessa e che teniamo sicura per la speranza: Spem habeamus. Un’anima che si inginocchia dinanzi a Gesù Cristo crocifisso e, scorrendo il Vangelo, ne medita la vita piena di dolori, di umiliazioni senza nome e pensa ch’Egli è Dio, il Santo per eccellenza: un’anima, che creda oltre la tomba cominciare un’altra vita interminabile, in cui si riparano le ingiustizie della presente e i dolori passeggeri di questa sono ripagati con gioie ineffabili ed eterne: come volete che quest’anima non si conforti e non si rallegri? Ah! essa deve esclamare con l’Apostolo: “Sovrabbondo di gioia in mezzo alle mie tribolazioni e la morte stessa per me è un guadagno. „ – Pregustando nella speranza le gioie promesse a chi soffre per Gesù Cristo, S. Paolo, in uno di quegli impeti di carità sì frequenti nelle sue lettere, esclama: “Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. „ Le parole “il Dio della pazienza e della consolazione „ sono un modo di dire ebraico, che significa, Dio Autore e Largitore della pazienza e della consolazione: Dio, che è pazientissimo, o la stessa pazienza e consolazione, vi conceda ciò che è frutto prezioso della pazienza e causa di consolazione purissima, cioè la pace, la concordia fra voi, secondo Gesù Cristo, cioè quale è da Lui voluta. Carissimi! l’Apostolo desiderava ai suoi cari figliuoli, come il massimo dei beni, la concordia e la pace tra loro. L’abbiamo noi nella nostra parrocchia, nelle nostre famiglie questa pace benedetta, questo sentimento stesso tra noi, come si esprime l’Apostolo? Oimè! Quanti mali umori! quanti rancori! quante maldicenze, che seminano la discordia e mettono sossopra le famiglie! Se la carità fraterna non regna nei nostri cuori, come potremo, di pari sentimento e d’un sol labbro glorificare Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, secondo che comanda l’Apostolo? Può egli un padre amoroso gradire l’ossequio e le testimonianze di riverenza e di affetto dei figli, quando sa che essi si guardano di mal occhio tra loro e forse anche si odiano? Oh! no certamente; così Iddio, il Padre nostro, non può gradire i nostri omaggi e le nostre preghiere, se i nostri cuori non sono avvivati dall’alito divino della carità fraterna. Dobbiamo aver tutti un solo cuore e un’anima sola, come i Cristiani della primitiva Chiesa, e allora la preghiera e la lode uscirà dalle nostre labbra come un soave profumo, che rallegra il cuore di Dio. Gesù Cristo è il sovrano ed eterno modello, sul quale dobbiamo tener fissi gli occhi, e l’Apostolo in modo specialissimo ad ogni pagina, quasi ad ogni linea delle inarrivabili sue lettere, ce lo rammenta. Se il vincolo della carità di Gesù Cristo congiunge tutti i cuori e ne caccia le contese ed i sospetti, quale ne sarà la naturale conseguenza? “Allora voi – dice S. Paolo – vi accoglierete gli uni gli altri, come anche Gesù Cristo accolse voi a gloria di Dio. „ E come Gesù Cristo accolse voi? sembra domandare l’Apostolo. Fra voi non pochi sono figli di Abramo e portano il segno dell’alleanza e della promessa divina, fatta ai patriarchi, e molti sono gentili, nati e cresciuti in mezzo alle tenebre del paganesimo; ma Gesù Cristo, continua l’Apostolo, non ha fatto differenza alcuna, e ha chiamati egualmente alla fede voi, Ebrei, e voi, gentili, e tutti egualmente vi ha stretti al suo seno paterno. Se Gesù Cristo pertanto vi ha accolti tutti nella sua Chiesa, vi ama tutti come figli e tutti vi ricolma dei suoi doni, come non dovete voi pure accogliervi gli uni gli altri quasi fratelli? L’argomento non poteva essere più chiaro ed efficace. E qui vedete differenza che corre tra le società umane e la società divina, che è la Chiesa. Fate che in una società umana entrino ricchi e poveri, sapienti ed ignoranti; fate che vi siano Francesi ed Inglesi, Tedeschi ed Italiani e andate dicendo: essi sono tutti uomini e lo riconoscono: ma qual differenza di accoglienze tra loro! Quali diffidenze! quali sospetti! Si dicono fratelli, ma troppo spesso si trattano come stranieri, anzi come nemici. Non così nella grande famiglia di Gesù Cristo, che è la Chiesa! Sono tutti figli dello stesso Padre celeste, tutti fratelli e se si usa qualche differenza, questa è per i poverelli, per gli ignoranti, perché Gesù Cristo disse: “Son venuto per annunziare il Vangelo ai poveri e per consolare gli afflitti. „ Nella Chiesa di Gesù Cristo non vi è né greco, né scita, né barbaro: son tutti egualmente redenti da Lui e tutti fratelli. S. Paolo per provare la chiamata dei gentili alla fede non altrimenti degli Ebrei cita quattro oracoli profetici, che a principio avete udito e che non occorre ripetere. Piuttosto è da notare una differenza, che l’Apostolo mette in rilievo tra la chiamata degli Ebrei e quella dei gentili, ed è questa, che Gesù Cristo chiama gli Ebrei per la veracità, doveché chiama i gentili per la misericordia. Che differenza è questa, o dilettissimi? Forse che anche la chiamata degli Ebrei non è opera di misericordia come quella dei gentili? Sì, e chi ne potrebbe dubitare? Come dunque S. Paolo attribuisce la prima alla veracità di Dio e la seconda alla sua misericordia? La risposta è facilissima. La conversione degli Ebrei, come quella  dei gentili, è tutta e sola opera della bontà e misericordia di Dio, come insegna la fede. Che merito o diritto potevamo noi avere a tanta grazia, noi che abbiamo ricevuto tutto da Lui; noi che non avevamo di nostro che il peccato; noi che siamo miserabili creature? Indegni d’essere suoi servi, come potevamo aspirare all’altissimo onore di diventare suoi figli per adozione? Iddio, unicamente per sua bontà, ripetutamente per i profeti e pei patriarchi promise ai figli d’Israele la salute per mezzo di Gesù Cristo, mentre che ai gentili non fece direttamente promessa alcuna: ai gentili non diede la legge di Mosè, non i profeti, non i patriarchi: a loro diede la sola ragione e con essa la legge naturale. Coll’offrire la fede agli Ebrei Dio mantenne le sue promesse fatte loro nei Libri santi, ed ecco perché S. Paolo l’attribuisce alla veracità di Dio: con l’offrire la fede ai gentili Dio non mostrò di mantenere promesse di sorta, perché ai gentili non ne aveva fatte, e perciò S. Paolo ripete la loro conversione dalla sola misericordia. In una parola: Dio accolse gli Ebrei per la sua misericordia e per mantenere le promesse loro fatte, e accolse i gentili per la sola sua misericordia, perché con essi non aveva promesse da osservare. Noi, o dilettissimi, siamo figli di questi gentili, che Dio accolse insieme coi figli d’Israele; noi siamo gli eredi della loro fede e in noi si continua la divina misericordia. Permettete che ve lo domandi: La vostra fede è viva ed operosa come quella dei Romani, ai quali scriveva l’Apostolo e che era rinomata in tutto il mondo? In mezzo ai tanti pericoli che ne circondano, alle tante insidie che ci son tese, la conserviamo noi pura ed intatta, come il più prezioso beneficio della misericordia divina? La onoriamo noi questa fede con le opere, che la mostrano viva ed efficace? Ascoltiamo la risposta che a ciascuno darà la coscienza. – Siamo all’ultimo versetto della epistola citata: “Intanto il Dio della speranza vi riempia d’ogni allegrezza e pace nel credere, con l’arricchirvi di speranza nella potenza dello Spirito santo. „ È un caro e santo augurio,, che con la tenerezza di padre l’Apostolo indirizza ai suoi figliuoli in spirito. Il Dio della speranza, che è quanto dire, Dio autore, fonte e termine della speranza, allontani da voi qualunque contesa e discordia, vi riempia di quella pace, che è figlia della fede e vi avvalori nella forza dello Spirito santo; e in termini più chiari ancora: Dio vi conceda di star saldi nella fede, che avete ricevuta e nella speranza, che deriva dalla fede, e frutti di questa fede e di questa speranza saranno l’allegrezza e la pace, e tutti questi beni conservi ed accresca in noi la grazia e la forza dello Spirito santo. S. Paolo in questa sentenza ci presenta l’allegrezza e la pace, che augura ai fedeli, come frutti della fede e della speranza, e bene a ragione. – La fede, o cari, ci dice chiaramente la nostra origine, ci segna la strada che dobbiamo tenere, ci addita il fine, a cui dobbiamo tendere; essa ci insegna con sicurezza donde veniamo e dove andiamo. La speranza, che si fonda nella fede, ci insegna i mezzi, con lo aiuto dei quali possiamo e dobbiamo raggiungere il fine, pel quale siamo creati. Ponete che un uomo ignori chi l’abbia creato e messo su questa terra: che ignori al tutto ciò che sarà di lui di là della tomba, in quella regione, dove tutti entrano e d’onde nessuno torna mai: ponete per conseguenza che quest’uomo non abbia, né possa mai avere un solo filo di speranza per la vita avvenire: ditemi, quest’uomo non sarebbe egli come un essere perduto sulla terra? Immaginate che voi, ad un tratto, bendati gli occhi, foste trasportati li da una forza prepotente lungi molte migliaia di miglia e deposti in mezzo ad un deserto: aprite gli occhi, vi rivolgete da ogni lato, non vedete traccia di via, non un colle, non un albero, non il sole, velato da fitte nubi, non una stella: non vedete che arida sabbia, e deserto in tutta la maestà opprimente del suo silenzio. Potreste voi dire, donde siete venuto! dove vi convenga volgere il passo per uscire da quel deserto, in cui vi sentite morire? Impossibile. Ecco l’immagine d’un uomo senza fede e senza speranza. Egli si trova balzato qui sulla terra, come in mezzo ad uno sconfinato deserto. Chi mi ha dato la vita? domanda affannosamente a se stesso. Chi mi ha collocato quaggiù? Dove mi debbo incamminare? Che debbo fare? Là è la tomba: presto vi sarò calato: oltre la tomba, che c’è? Finirò tutto nel cimitero? Vi sarà un’altra vita, e quale? Domande inevitabili e paurose, alle quali nessuno risponde: il grido del misero si perde nel deserto: non v’è un’eco lontana, che risponda: tutto è silenzio e morte. Ecco l’uomo senza fede e senza speranza: è ciò che si può immaginare di più desolato, di più sconsolato: è il nulla, il nulla nella sua forma più spaventevole. — Ma brilli in alto un raggio di luce, un raggio della fede e della speranza, e l’orrido deserto si copre di erbe verdeggianti; di vaghi fiori: da lungi si scorge la patria, sospirata e si vede la via sicura che ad essa conduce. Ah! la pace, la gioia della fede e della speranza cristiana. Vedete questi poveri operai, che sudano nella loro officina : quei poveri contadini, che indurano sotto la sferza del sole di luglio e sotto i geli del gennaio: vedete quelle povere madri, quelle vedove, che a stento possono sfamare e coprire di abiti sdrusciti i loro figli: essi soffrono, e Dio solo conosce appieno i loro dolori: ma essi sanno che Dio li ha creati; che Gesù Cristo li ha redenti, che ha patito come loro e più di loro: sanno che l’occhio di Dio veglia sempre sopra di loro, che conta le loro lacrime, che li sostiene con la sua grazia, che alla morte comincia una seconda vita interminabile, e che allora sarà fatta a tutti piena giustizia: essi sanno in fine che Gesù Cristo disse: Beati i poveri: beati quelli che piangono: beati quelli che soffrono per la giustizia: beati quelli che sono perseguitati perché grande è la loro mercede: questo pensiero del premio eterno, che li attende è quello che li conforta, che muta in gioia il dolore e sulla terra dell’esilio fa gustare le dolcezze della patria. — “Che il buon Dio pertanto, chiuderò ancora con san Paolo, vi riempia di ogni allegrezza e pace nella fede e vi arricchisca di speranza nella potenza dello Spirito Santo!. ,,

Graduale
Ps XLIX:2-3; 5
Ex Sion species decóris ejus: Deus maniféste véniet,
V. Congregáta illi sanctos ejus, qui ordinavérunt testaméntum ejus super sacrifícia.
[Da Sion, ideale bellezza: appare Iddio raggiante.
V. Radunategli i suoi santi, che sanciscono il suo patto col sacrificio. Alleluia, alleluia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
Ps CXXI:1
V. Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. Allelúja.
[V. Mi sono rallegrato in ciò che mi è stato detto: andremo nella casa del Signore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt. XI:2-10

In illo tempore: Cum audísset Joánnes in vínculis ópera Christi, mittens duos de discípulis suis, ait illi: Tu es, qui ventúrus es, an alium exspectámus ? Et respóndens Jesus, ait illis: Eúntes renuntiáte Joánni, quæ audístis et vidístis. Cæci vident, claudi ámbulant, leprósi mundántur, surdi áudiunt, mórtui resúrgunt, páuperes evangelizántur: et beátus est, qui non fúerit scandalizátus in me. Illis autem abeúntibus, coepit Jesus dícere ad turbas de Joánne: Quid exístis in desértum vidére ? arúndinem vento agitátam ? Sed quid exístis videre ? hóminem móllibus vestitum ? Ecce, qui móllibus vestiúntur, in dómibus regum sunt. Sed quid exístis vidére ? Prophétam ? Etiam dico vobis, et plus quam Prophétam. Hic est enim, de quo scriptum est: Ecce, ego mitto Angelum meum ante fáciem tuam, qui præparábit viam tuam ante te. 

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, ut supra, vol.I om. IV, Torino, 1899 – imprim.]

” Giovanni, nel carcere avendo udite le opere di Cristo, mandò due dei suoi discepoli per dirgli: Sei tu Quegli che ha da venire, oppure ne aspetteremo un altro? — E Gesù rispose loro: Andate e riferite a Giovanni le cose che avete udite e vedute: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono e ai poveri è annunziato il Vangelo, e beato colui che non patirà scandalo in me. Ora, com’essi se ne andavano, Gesù prese a dire di Giovanni alle turbe: Che mai andaste a vedere nel deserto? Forse una canna agitata dal vento ? Ma che andaste a vedere? Forse un uomo vestito di morbidezze? Eh! quegli che indossano morbide vesti abitano nelle case dei re. Ma che andaste a vedere? Un profeta? Sì, vi dico: anche più che un profeta. Perché questi è colui del quale è scritto: Ecco, io mando il mio Angelo davanti alla tua faccia, il quale preparerà il tuo cammino dinanzi a te „ (Matteo XI, 2-10).

Fin qui, o carissimi, il Vangelo di questa Domenica seconda d’Avvento, quale si legge in S. Matteo al capo undecimo. Il senso di queste parole di nostro Signore è sì piano che non v’è bisogno alcuno di spiegazione; ma se ciascuno di voi senza fatica può comprendere il senso delle parole evangeliche che vi ho recitate, forse non sì facilmente ciascuno saprebbe applicarle da se stesso ai propri bisogni. Noi vediamo i medici, allorché cadono infermi, quantunque valentissimi, chiamare a curarli altri medici e talvolta a loro per valore e perizia inferiori. Il somigliante accade a noi nella cura spirituale: abbiamo bisogno che altri ci suggerisca i rimedi e amorosamente ce li porga. Oggi l’opera mia si restringerà a cavare dalle parole di Cristo alcuni documenti utilissimi a nostra comune edificazione. Il Vangelo, che avete udito, ha due partì distinte: nella prima si narra l’ambasciata che Giovanni Battista mandò a Gesù Cristo: nella seconda abbiamo la risposta di Gesù Cristo e l’elogio che Egli fa del suo precursore. Prima di venire alla spiegazione, non vi sia grave udire alcuni chiarimenti. Ufficio del precursore era quello di preparare il popolo giudaico alla venuta di Cristo, e Giovanni l’aveva adempiuto a meraviglia con la vita austera menata nel deserto e con la predicazione della penitenza sulle rive del Giordano. La parola ardente del Battista aveva scosso gagliardamente popolo e sacerdoti, e intorno a lui erasi formato un gruppo di discepoli. Più d’una volta Giovanni, vedendo Gesù Cristo, l’aveva additato alle turbe e proclamato l’Agnello di Dio e protestato di essere indegno di sciogliere i legacci dei suoi calzari. Aveva affermato aver veduto lo Spirito Santo discendere sopra di lui, e che lui solo tutti dovevano seguire. Giovanni aveva avuto la gioia e la gloria di dare a Gesù Cristo i primi e principali apostoli, Pietro ed Andrea, Giovanni e Giacomo. Il Precursore, compiuta la sua missione, si eclissava. Erode agli altri suoi delitti aggiunse quello di imprigionar Giovanni, perché con santa libertà gli rimproverava le sue tresche con la moglie del fratello suo. A Giovanni in carcere giunse la fama dei miracoli e della predicazione di Gesù. E da sapere che il Precursore aveva ancora un certo numero di discepoli che lo visitavano in carcere, e probabilmente furono essi stessi che gli parlarono delle grandi opere di Cristo. Questi discepoli non avevano imitato i loro compagni, né obbedito il maestro, che li confortava a seguire Gesù Cristo. Forse erano quei medesimi, che nutrivano una cotale invidia verso Gesù Cristo e si lagnavano che egli ancora battezzasse e oscurasse così la gloria del proprio maestro. Voi vedete come questi buoni discepoli erano soverchiamente legati a Giovanni. Era l’amore male inteso verso del maestro, che li faceva disobbedienti a lui stesso e li rendeva ingiusti verso di Gesù Cristo. Certamente poi all’amore disordinato del maestro si aggiungeva l’amor proprio (causa principale della loro ostinazione), che sentivasi ferito nell’apparente abbassamento del maestro stesso. Siffatti siamo noi che tal volta amiamo disordinatamente lo stesso bene e col manto dello zelo per l’onore altrui copriamo il nostro rancore e malanimo verso del prossimo. Non è raro vedere taluni anche ai nostri giorni che usano alla Chiesa ed osservano le pratiche religiose o dalle stesse se ne allontanano unicamente per ragione dei ministri. Costoro sono simili ai discepoli di Giovanni, e nelle cose di Dio guardano gli uomini più che Dio stesso. Non ignoro, o fratelli miei, che alcuni moderni dotti, che si occupano di studi sacri e biblici, al fatto evangelico, che avete udito ora danno una diversa interpretazione. Essi dicono che Giovanni Battista, chiuso nel carcere di Macheronte, ebbe un’ora di debolezza e dubitò veramente se quel Gesù, ch’egli aveva salutato Agnello di Dio e Salvatore del mondo, era veramente l’aspettato Messia, il Figlio di Dio fatto uomo. Dissero anche che Giovanni Battista, mandando a Gesù quella ambasciata, volle quasi sollecitare Gesù a mostrarsi il Messia e con la sua autorità venire in soccorso del prigioniero abbandonato. Manifestamente le due spiegazioni ripugnano al carattere del Precursore. E una ingiuria il sospettare che Giovanni, dopo le solenni confessioni fatte a Cristo, balenasse nella fede ed avesse bisogno d’una parola di conforto e sollecitasse indirettamente la propria liberazione. Giovanni non era una canna, come dirà tosto il Salvatore, che piegasse ad ogni vento: non era uomo che impallidisse in faccia al patibolo. La sua fede incrollabile, le illustrazioni supreme avute, l’indomito coraggio che aveva spiegato in faccia alla sinagoga e ad Erode, ci obbligano a respingere queste interpretazioni indegne del maggiore tra i nati di donna. Giovanni adunque voleva che i suoi cari discepoli si persuadessero, Gesù essere veramente il Messia. Che fece egli per illuminarli? Giovanni diceva seco stesso: Se questi miei discepoli, troppo teneri del mio nome, vedranno Gesù Cristo e le opere sue e udranno le sue parole, si persuaderanno certamente, Lui essere il Messia, e abbandoneranno me per seguitar Lui. — Perciò, avutili a sé, disse loro: “Andate da Gesù, e a mio nome ditegli: Sei tu Quegli che aspettiamo, o dobbiamo aspettarne un altro? „ – Ammirate, o dilettissimi, l’amore affocato della verità e zelo per la causa di Gesù Cristo in questo uomo meraviglioso! Egli adopera tutta la sua autorità, usa d’una santa industria per staccare da sé i discepoli e mandarli a Gesù Cristo, e continua l’ufficio di Precursore e di apostolo perfino in carcere, quando la scure del carnefice lampeggiava sul suo capo! I discepoli obbedirono prontamente, se ne andarono a Gesù, ripetendo a Lui le parole, che Giovanni aveva loro posto in bocca: ” Sei tu Quegli che ha da venire, cioè il Messia e “Salvatore del mondo, o ne aspetteremo un altro?„ La domanda era netta e precisa, e netta e precisa è pure la risposta di Gesù Cristo: risposta data, non con le parole, ma con le opere,, e queste eloquentissime. “Andate e riferite a Giovanni le cose che avete vedute ed udite: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi son mondati, i sordi odono, i morti risorgono ed ai poveri è annunziato il Vangelo. „ Gesù Cristo poteva ben rispondere ai messi di Giovanni: “Sì, dite al maestro ch’Io sono veramente Quegli, che Israele aspetta, il Messia, come Giovanni stesso mi proclamò in faccia al popolo. „ In quella vece Gesù Cristo volle che i messi medesimi comprendessero la verità e facessero a sé ed al maestro la risposta quale risultava dai fatti, che avvenivano sotto i loro occhi. Proprio in quella che i messi di Giovanni si presentavano a Gesù, Egli era circondato da una folla di infermi d’ogni maniera, che imploravano ed ottenevano la guarigione: erano ciechi, storpi, lebbrosi, sordi e perfino alcuni morti risuscitati. S. Luca narra il fatto stesso e rischiara il racconto di S. Matteo. Quelle guarigioni sì svariate, sì numerose, sì istantanee, operate con un solo cenno, con una sola parola, dinanzi ad una moltitudine che tutto vedeva, dissipavano ogni dubbio sulla divina missione di Gesù Cristo e costringevano i più diffidenti e più restii a prestar fede alla sua dottrina ed a credere senza esitanza, Lui  essere veramente l’aspettato Salvatore del mondo. Il Vangelo non dice che cosa facessero o dicessero i messi di Giovanni; ma io penso che, retti e sinceri come dovevano essere, senza più si arrendessero all’evidenza dei fatti e riportassero al maestro ciò che avevano udito e veduto e lo ricolmassero di gioia, dichiarandosi pronti a seguire Gesù Cristo. Permettete, o cari, una applicazione, che viene spontanea dal fatto narratovi. Ciechi, storpi, lebbrosi, sordi correvano a Gesù per essere guariti; fino i morti si portavano a lui, perché li richiamasse a vita novella, e l’amabile Gesù tutti accoglieva e tutti rimandava esauditi e consolati. Quanti stanno in mezzo a noi ciechi e storpi della mente, coperti della lebbra schifosa del peccato, sordi alla voce della coscienza; morti miseramente nell’anima! Vedete questa turba di infelici tanto più degni di compassione in quanto ché assai volte non conoscono la loro misera condizione! È sventura grande non vedere la luce del sole ed essere sepolti in fitte ed eterne tenebre: ma è sventura troppo più grande non vedere la luce della verità e brancolare nella notte dell’errore. Muove pietà uno storpio, che non può reggersi in piedi, né dare un passo: ma ben più deplorevole è la sorte di tanti poveri fratelli, che giacciono là immobili nel lezzo delle loro passioni. Fa ribrezzo vedere un lebbroso, disfatto da questo insanabile morbo e al quale cadono a brani a brani le carni e che beve a lenti sorsi la morte più atroce: ma che dire del peccatore, fatto abominevole agli occhi degli Angeli e di Dio! Vedete quel sordo sventurato, sempre triste, cupo, sospettoso: tra lui e la società è rotto ogni commercio; nessuna armonia rallegra mai il suo orecchio e la parola non può destare la sua intelligenza impotente a conoscere il dovere, se stesso, il suo Dio. Egli è una pallida immagine di quei Cristiani che non ascoltano mai la parola di Dio, che turano le orecchie del cuore ai rimorsi della coscienza. Un cadavere ci fa orrore: quegli occhi semiaperti e cristallini, che non vedono; quegli orecchi che non odono; quella lingua muta, quelle mani e quei piedi irrigiditi; quel corpo immobile, freddo, abbandonato, fa paura; ma l’anima in peccato, se la vedessimo, è senza confronto più orribile d’un cadavere. Essa è morta alla grazia, a Dio, per se stessa impotente a qualunque atto, che sia buono; se in questo stato si separasse dal corpo, sarebbe eternata nella morte. Che fare, o poveri ciechi e storpi, lebbrosi e sordi e morti? Quel Gesù che risanava i corpi e risuscitava i cadaveri, vive sempre nella sua Chiesa: Egli è pronto e desideroso di rinnovare nelle anime i miracoli, che operava nei corpi. Se Gesù non rimandò mai da sé un solo infermo del corpo senza consolarlo e risanarlo, talvolta anche senza esserne pregato, che non farà con gli infermi dell’anima? Non è questa incomparabilmente più del corpo? Non è principalmente per la salvezza dell’anima ch’Egli è venuto sulla terra? Deh! dunque venite a Lui, e gli occhi della mente saranno aperti, e raddrizzati i piedi nelle vie della virtù, e mondate le vostre coscienze e risanate le vostre orecchie spirituali e risuscitate le vostre anime, perché Egli è la luce, la verità e la vita. Non posso non richiamare la vostra attenzione su quella sentenza sì cara del Figliuol di Dio, dataci quale argomento sicuro della sua venuta. “Ai poveri è annunziato il Vangelo. „ Non so dirvi come queste parole commuovano il mio cuore. Il mondo, o cari (non dimenticatelo mai), ebbe sempre in disprezzo i poveri, che sono anche quasi sempre per necessità delle cose i meno istruiti. I sapienti, i filosofi di tutti i tempi e di tutti i paesi non solo non si degnavano di istruire il povero popolo, ma a bello studio lo tenevano nella ignoranza, né gli permettevano che varcasse le soglie delle loro scuole ed accademie. La scienza doveva essere di pochi, patrimonio dei ricchi. Crudeltà che non ha nome! Gesù Cristo pel primo volle che la sua scienza divina fosse di tutti, ma particolarmente del povero popolo, perché maggiore è il suo bisogno. È Gesù che portò sulla terra questa santa eguaglianza di tutti quanto al possesso della verità: è Gesù che disse agli apostoli: — Andate, ammaestrate tutte le genti: la verità l’avete ricevuta da me gratuitamente e gratuitamente datela a tutti. Il mio Vangelo deve essere annunziato ai poveri! — Quale dottrina consolante! Quale beneficio! “E beato colui, che non patirà scandalo in me. „ La più terribile prova, alla quale venisse posta la fede degli Apostoli e di quelli che vivevano al tempo di Gesù Cristo, era certamente il vedere Lui stesso. Un uomo povero, che non aveva dove posare la sua testa, che viveva di limosine, che aveva sempre lavorato come un operaio, che pativa la fame e la sete, calunniato, perseguitato, messo in croce come un malfattore, e dover credere, che quell’uomo era Dio, Signore del cielo e della terra! Ah! confessiamolo, o cari, la vista di Gesù Cristo era veramente una pietra di scandalo, cioè una fortissima tentazione per dire : — No, quest’uomo, benché santo e operatore di miracoli strepitosi, quest’uomo non può essere Dio; sarà un gran profeta, un uomo di Dio, ma Dio! È troppo: ripugna alla ragione che la maestà di Dio siasi cotanto abbassata! — Così purtroppo allora ragionavano moltissimi e non credevano a Gesù Cristo. Ecco perché Egli disse: — Beato chi non patirà scandalo in me. — Noi veniamo diciannove secoli dopo quelli: noi conosciamo non solo i miracoli operati allora da Gesù Cristo, ma tutti quelli non meno grandi, che poi furono operati nel suo nome: noi stupefatti contempliamo l’immensa gloria, onde Gesù Cristo si circonda attraverso ai tempi e che lo solleva a tanta altezza, che non ha l’eguale. No, noi non possiamo patire scandalo, vedendo le umiliazioni di Gesù Cristo, perché queste ci mostrano la sua carità smisurata e sono di gran lunga vinte dalle sue glorie. “Ora, come i messi di Giovanni se ne andavano, Gesù prese a dire di Giovanni alle turbe: Che mai andaste a vedere nel deserto? Forse una canna agitata dal vento? „ Senza dubbio la venuta e le interrogazioni di Giovanni dovevano essere l’argomento delle conversazioni della moltitudine e il nome di. Giovanni in quel momento doveva essere sulle labbra di tutti, e Gesù Cristo colse il destro di parlare di lui, di tesserne le lodi, di rendergli pubblica testimonianza, come Giovanni l’aveva resa a Lui, e mostrare la perfetta armonia che regnava tra loro. Nessun uomo mai ebbe la gloria di ricevere dalla bocca di Cristo i magnifici elogi che ricevette Giovanni. La folla, a cui Gesù Cristo rivolgeva la parola, in gran parte almeno, doveva essere stata nel deserto a veder Giovanni, allorché predicava, e perciò, indirizzandosi ad essa, diceva: — Voi andaste a vedere Giovanni: bene sta; e che vedeste voi? Forse un uomo che si muta ad ogni spirare di vento? — Evidentemente questa domanda equivale ad una risposta negativa; come se dicesse: Certo voi non vedeste un uomo che piega ad ogni soffio d’aria. Voi trovaste in lui l’uomo saldo ad ogni prova più dura, che non cede a minacce, né si piega a promesse, sempre eguale a se stesso, che non muta linguaggio, che ha sempre e dovunque, d’innanzi al popolo, come in faccia ai re, una sola legge inviolabile, l’amore della verità —. Dilettissimi! quanti di noi potrebbero meritare l’elogio di Giovanni? Siamo sinceri; troppe volte siamo come canne agitate dal vento, cadiamo al timore del biasimo, all’amore della lode, ci diamo vinti al rispetto umano, sacrifichiamo la coscienza, il dovere e la verità. Prosegue l’elogio di Gesù Cristo. “Ma che andaste a vedere? Porse un uomo vestito di morbidezze? Eh! quelli che indossano morbide vesti, abitano le case dei re. „ L o vedeste Giovanni Battista là nel deserto. Come vestiva? Forse ricche e molli vesti? Sedeva forse a lauta mensa e si nutriva di cibi delicati? Era egli uomo, che amava i comodi, il lieto vivere, che accarezzava il corpo? Ditelo voi che lo vedeste. “Egli indossava una veste di pel di cammello, stringeva ai fianchi una cintura di cuoio e si nutriva di locuste e di miele selvatico „ (Marco, I, 6, 7). Giovanni era l’uomo della penitenza, della austerità. Quelli che menano vita comoda, che amano i piaceri, che blandiscono la carne, non vivono nel deserto, come Giovanni, ma nelle case dei grandi e dei re. – In queste parole Gesù Cristo ci dà una grande lezione: ci insegna che una vita molle quanto al vitto ed al vestito non è la vita del seguace di Giovanni e sua: ci insegna che dobbiamo rinnegare noi stessi, mortificare i sensi, in una parola, condurre una vita penitente se vogliamo essere suoi discepoli. La virtù, o cari, non cresce che all’ombra della croce: l’austerità della vita ne è il fondamento, diceva Tertulliano, e la mollezza la rovescia. Virtus duritìe extruitur. mollitie destruìtur (Ad Marc.). Credere di praticare la virtù e giungere a salvamento per altre vie che per quella della penitenza, è una strana illusione. – “Ma che siete andati a vedere nel deserto? Un profeta? Sì, vi dico: anche più che un profeta. ,, Gesù Cristo fa di Giovanni un triplice elogio: prima gli dà lode d’uomo fermo, incrollabile; poi d’uomo mortificato, e finalmente lo chiama profeta, anzi più che profeta. La parola profeta nei Libri santi si usa talvolta in senso largo per indicare un uomo, che annunzia la verità a nome di Dio: tal altra e più spesso si adopera nel senso più rigoroso di uomo che predica il futuro. Qui Gesù Cristo chiama profeta Giovanni nell’uno e nell’altro senso, se non erro. Giovanni è profeta, perché maestro del popolo e annunziatore d’una dottrina morale, che in sostanza è quella del Vangelo: è profeta, perché al popolo ricorda le promesse fatte ad Israele e annunzia vicini a compirsi i vaticini degli antichi profeti e riconferma l’imminente venuta del Messia: è più che profeta, perché a lui è dato di mostrare a dito quel Salvatore del mondo, che gli altri profeti annunziarono da lungi. – Il nostro Vangelo si chiude con un oracolo del profeta Malachia, che Gesù Cristo dichiara compiuto in Giovanni Battista. È Giovanni “… quegli, del quale è scritto: Ecco il mio Angelo davanti alla tua faccia, il quale preparerà la tua via innanzi a te. „ Son due le venute di Cristo sulla terra, come è chiaro dalle Scritture: la prima come Redentore del mondo, l’altra come Giudice supremo: la prima è già avvenuta, l’altra avverrà alla fine dei secoli; precursore della prima fu Giovanni, della seconda sarà Elia. Lo spirito, la virtù e diciamo il ministero di questi due sommi personaggi è simile, anzi pressoché eguale. Ecco perché talvolta quasi si confondono tra loro nei Libri divini e Gesù Cristo stesso dice, che Elia è già venuto ed è Giovanni (Matt. XI, 14). Ma dal contesto è chiaro che Gesù Cristo chiama Giovanni Elia, non perché Giovanni sia veramente Elia, ma sì perché era ripieno dello spirito di Elia e preparava la via a Lui nella sua prima venuta. Carissimi! vendiamo di porci ben addentro nell’animo le parole di Gesù Cristo, che abbiamo udito, e gli esempi di virtù del suo Precursore, e studiamoci di imitarli.

CREDO …

Offertorium
Orémus
Ps LXXXIV:7-8
Deus, tu convérsus vivificábis nos, et plebs tua lætábitur in te: osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam, et salutáre tuum da nobis.
[O Dio, rivongendoti a noi ci darai la vita, e il tuo popolo si rallegrerà in Te: mostraci, o Signore, la tua misericordia, e concedici la tua salvezza.]

Secreta
Placáre, quǽsumus, Dómine, humilitátis nostræ précibus et hóstiis: et, ubi nulla suppétunt suffrágia meritórum, tuis nobis succúrre præsídiis. [O Signore, Te ne preghiamo, sii placato dalle preghiere e dalle offerte della nostra umiltà: e dove non soccorre merito alcuno, soccorra la tua grazia.]

Communio
Bar V: 5; IV:36
Jerúsalem, surge et sta in excélso, ei vide jucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.
[Sorgi, o Gerusalemme, e sta in alto: osserva la felicità che ti viene dal tuo Dio.]

Postcommunio
Orémus.
Repléti cibo spirituális alimóniæ, súpplices te, Dómine, deprecámur: ut, hujus participatióne mystérii, dóceas nos terréna despícere et amáre cœléstia.
[Saziàti dal cibo che ci nutre spiritualmente, súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché, mediante la partecipazione a questo mistero, ci insegni a disprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti.]

 

FESTA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE (2018)

DISCORSO XIV.
[p. V. Stocchi: “Discorsi sacri”, Befani ed. ROMA, 1884]
I. SOPRA LA CONCEZIONE IMMACOLATA DI MARIA
Venite, audite, et narrabo, omnes qui timetis Deum, quanta fecit animæ meæ.
Ps. LXV, 16.

Se è istinto naturale e legittimo del cuore dell’uomo, che risaluti con nuova esultanza l’anniversario ricomparir di quei giorni, che un desiderato avvenimento gli fece belli e memorabili, abbiamo o signori manifesta e chiarissima la ragione, perché fra le tante solennità onde la santa Chiesa onora Maria, nessuna rifulge al popolo cristiano così piena di giocondità e di letizia quanto questa dolcissima della Immacolata Concezione di Lei. Ricevemmo le altre dalla pietà e dalle mani dei padri nostri già perfette e mature, onde nulla fu aggiunto ad esse per noi, né crebbero fra le nostre mani, né si abbellirono: ma di questa i maggiori altro non potettero tramandarci che i desideri, l’anticipazione e i principi, che, veggenti noi e cooperanti, raggiunsero il compimento, e toccarono il segno. Cosa nostra è dunque in peculiar modo la odierna solennità, nostra perché la affrettammo coi nostri voti, nostra perché la sollecitammo colle nostre suppliche, nostra perché contemplammo cogli occhi nostri e salutammo coi nostri applausi il novello diadema intrecciato alla fronte di Maria, nostra in una parola, perché questa seconda metà del secolo decimonono fu quella pienezza dei tempi nella quale il gran privilegio emerse dalle ombre terrene che lo offuscavano e guadagnò la pienezza del suo splendore. Ma tanta soavità di memorie, che a tutti noi fa caro questo giorno sopra l’usato, a me rende più dell’ usato penoso e difficile il debito di favellare, non perché sopra ogni tema non mi sia dolce il favellar di Maria, ma perché avendo già fatto restremo della lor possa non meno il Magisterio apostolico nel definire e la scienza nel propugnare, che la sacra eloquenza nel celebrare la originale santità di Maria, ad orecchie come sono le vostre usate da più anni al nobilissimo assunto e piene delle voci di tanti uomini dottissimi e facondissimi, sento di non potere nella mia povertà arrecar nulla, che possa essere ascoltato non dico con diletto, ma con pazienza. Ma che fare, poiché né è in potestà mia il sottrarmi oggi a questo ufficio del favellare, né la vostra pietà né il cuor mio sosterrebbero, che favellando, d’altro favellassi fuorché di Maria Immacolata? Di Maria Immacolata pertanto favellerò, poiché conviene così, e darò opera di pascolare il cuor vostro spiegandovi a parte a parte dinanzi agli occhi qual sia e quanto quel gran tesoro di grazie che nel primo istante dell’Immacolata sua Concezione abbellì la Vergine. Prima che l’oracolo del Vaticano accertasse il gran privilegio, i sacri oratori si studiavano in propugnarlo: dopo la memorabile definizione a noi non rimane altro fuorché illustrarlo.
1. Se la divina maternità è la radice e la sorgente di tutti i doni onde venne privilegiata Maria, e ad essa mirò il sommo Artefice quando architettò questo capo di opera delle sue mani; l’immunità e la franchigia dalla macchia di origine è la base e il fondamento sopra il quale punta ed erge tutta la mole. Fondamento ineffabile di questa celeste Gerusalemme, gettato dalla mano medesima del Signore, che vi profuse ogni più eletta ragione di pietre preziose e di gemme, le quali ai dì nostri per la voce del Vicario di Gesù Cristo rivelandosi, forbendosi e scintillando, mostrano col loro fulgore quanto fosse contro ogni ragione il pur sospettare ad un’opera di tanta eccellenza sottoposto per fondamento il fango e la putredine del peccato. No, Fundamenta muri civitatis omni lapide pretioso ornata, (Apoc. XXI, 19.) possiamo ora dir noi appropriando a Maria quello che l’Estatico di Patmos cantò della Gerusalemme che scendeva dal Cielo, e considerare che bella vista dovesti dare di te medesima agli occhi del Signore o Maria adorna di queste gemme fin dall’istante primissimo che fosti concetta. Erano quaranta secoli che Iddio tenendo d’occhio le umane generazioni e spiandone e governandone il corso, altro non vedeva fuorché peccatori e peccati. Come della terra uscita allora allora dal nulla, è scritto che era grama, era vuota, e la notte orrenda che copriva la faccia dell’abisso la ravvolgeva, così per l’uomo l’esser concetto era un medesimo coll’esser compreso e assorbito dal nulla tenebroso ed orribile della colpa. Rimirando pertanto il Signore l’opera sua non la ravvisava per quella che Egli la fece, e come chi in luogo di amata donzella, che ha destinato di assumere al consorzio delle nozze e del talamo trovasse un cadavere inerte, squallido, putrefatto, fuggirebbe inorridito da quella vista volgendosi egli in oggetto di abbominazione, ciò che gli fu fiaccola di desiderio ed incentivo di amore, così Dio guardando l’umana natura caduta dalla nobiltà nativa e giacente nell’abbiezione della colpa, lacera, tronca, dissoluta come cosa fulminata e maledetta, la respingeva da sé. Quando a un tratto, stanco per così dire della vista e dello spettacolo di tanta miseria, “… spunti finalmente, gridò, spunti fra tanta notte un raggio di luce. Fiat lux”. E la luce fu fatta, non luce piena no, né come di meriggio, che questa recata avrebbe tra poco il sol di giustizia, ma luce rosea e gentile, e quale di aurora che si affacci al balcone di oriente allorché inaugurando il mattino sembra chiedere ai mortali che vagheggino lei foriera bellissima, mentre addita l’astro sovrano e gli infiora la via. E tu fosti questa aurora o Maria, Tu che presente all’intelletto divino fin da quando architettava i cieli, tirava un vallo all’intorno e costringeva a certa legge gli abissi, e librava i fonti delle acque, pargoleggiasti al cospetto di quella maestà col vezzo di garzonetta innocente. Fosti Tu che dai più sublimi splendori del Paradiso scendesti al dolce connubio delle membra in compagnia delle quali dovevi, pellegrina celeste, fornire il viaggio di questa valle. Fosti Tu, e all’ingresso del corpo, valico formidabile dove quanti furono avanti e saranno dopo di Te figliuoli di Adamo incorsero e incorreranno la catena e il giogo di satana, Tu trovasti la grazia che ti aperse le porte, trovasti il Padre, il Figliuolo e lo Spirito che presiedettero al benedetto connubio, che santificarono l’abitacolo e l’abitatrice, che Ti cinsero alle tempie la corona della vittoria ed abitaron con Te.
2. Dico la corona della vittoria, imperocché, per esprimere secondo la bassa e terrena facoltà delle nostre fantasie con immagini sensibili cose che eccedono la tenuta del senso, non vide appena satanasso quest’anima pellegrina calar dal Cielo alla terra, che le tese tosto quei lacci onde mai nessuno campò, e a baldanza di tanti secoli di esperimento infallibile, fidente e sicuro apprestava già la catena ed arrotava l’artiglio: ma che ? A modo di colomba, che con le ali ferme ed aperte si tragitta oltre la opposta riviera delle acque, travolò Maria, tutti i lacci trascorse, tutti gli agguati, e mentre il fellone stordiva di questa preda che per la prima volta gli fuggiva di pugno. Ella con tal impeto del virgineo piede gli calcò la testa che lo conquise, onde ricordò la minaccia che nell’Eden gli avvelenò la gioia della vittoria, sospettò suscitata nella novella concetta la fatale nemica, e gli parve udire il primo crollo e il primo scroscio del suo trono che rovinava. Immagini grossolane son queste che non hanno col vero più proporzione di quel che abbia l’ombra con la luce, il corpo con lo spirito, la terra col Cielo, ma che pur sono le prescelte nelle Scritture, ad adombrare la gran vittoria della Vergine sopra il serpente nemico. Vergine veramente privilegiata e felice, che per la prima volta offerse agli occhi del Signore lo spettacolo di una figlia di Adamo franca ed immune da quella maledizione che l’infelice padre lasciò doloroso retaggio ai suoi figli, onde Iddio abbracciò in Essa una primizia incontaminata di quella umana natura che avrebbe tutta quanta riabbracciata di poi nel benedetto portato di questa fanciulla, le stampò in fronte un soavissimo bacio di pace, la dichiarò Figliuola sua primogenita, ed erede del Regno, del quale l’avrebbe, procedendo e moltiplicando in privilegi e in favori, incoronata Regina. E questa compiacenza del Signore intende di adombrare la Chiesa, quando nelle solennità di Maria, ci ripete gli accenti amorosi dello Sposo delle sacre canzoni; il quale standosene a contemplare la sua diletta tra nascosto e palese dietro alla parete domestica, e dalla finestra sguardandola e di fra le sbarre dei socchiusi cancelli; o quanto sei bella, le dice, quanto sei bella. vinci di leggiadria Gerosolima: come quelli delle colombe sono i tuoi occhi, i tuoi capelli assembrano i folti velli dei greggi che pasturano sui monti di Galaad, i tuoi denti sono a vedere un drappelletto di agnelli, che ascendono candidi e rugiadosi dall’argentino lavacro della fontana, ti sollevi come la palma fra i minori arboscelli, la maestà della tua fronte pareggia il fronzuto dorso del Carmelo, la luna non è più vaga, il sole non è più luminoso di Te.
3. Già vi accorgete o signori, che nulla si conviene aspettare di comunale né di usitato dopo questi principi, e chi può dire a che altezza condurrà il Signore quest’opera che ha cominciato con lo infrangimento della legge più universale della decaduta natura? È gran cosa l’essere preservato dall’incorrere l’obbrobrio della colpa e la miseria della schiavitù del demonio, e questo solo basterebbe perché Tu a noi di tratto infinito soprastessi o Maria, noi dovremmo pur sempre avvallare la fronte davanti a Te, e confessare che fummo schiavi e mostrare il solco dei ceppi e i lividi di della catena: Tu potresti procedere come Regina nel mezzo a noi, e vantare che redenta con una redenzion che preserva, mai non chinasti il capo al cospetto del nemico di Dio. Ma ahimè, in noi anche redenti, lavati e fatti membra di Gesù Cristo rimane un’orribile traccia e un monumento obbrobrioso del peccato che fece la sua dimora dentro di noi, traccia e monumento che suggella questo nostro corpo, e rende testimonianza che è carne di quella massa che in Adamo prevaricò. Dico la concupiscenza ribelle, il fomite della carne, la legge delle membra, quella che faceva piangere l’Apostolo Paolo, che la chiamò peccato, non perché peccato sia veramente, ma perché proviene dal peccato e inclina al peccato, e se avvenga che concepisca, genera morte. Questa è quella nemica che tiene noi con noi medesimi in continua battaglia, questa opera che nel cuor nostro raro sia calma e sereno, sempre o quasi sempre tempesta, mentre la carne insorge contro lo spirito, l’appetito contro la ragione, e ora con le tenebre che esala ad oscurar l’intelletto, ora con le lusinghe che adopera per travolgere la volontà, ora con le querele che mena, e coi fremiti e coi ruggiti che mette, ripugnanti quasi e tergiversanti ci trascina o minaccia di trascinarci al suo desiderio. Ahimè uomo infelice, gridava l’Apostolo, bersagliato e percosso da questa guerra, chi mi libererà da questo corpo di morte? Fortunata Maria! Quella mano medesima, che la scampò agli artigli di Satana, quella medesima estinse nel medesimo istante nella sua carne, e sterpò questo fomite obbrobrioso; e si vide in Lei disusato miracolo, la carne di Adamo senza le turbolenze e i tumulti della carne di Adamo. Privilegio grande fu questo che da Gesù in fuori, altri non ebbe mai che Maria, l’ebbe Gesù per natura, Maria per grazia: impossibile che nel distruttor del peccato abitasse questo maligno consigliere e sollecitator di peccato; impossibile che lo specchio della luce eterna, sostenesse che nella Vergine suo futuro abitacolo, nella sua carne futura andasse in volta anche per un istante un abitatore cosi laido. Che terra dunque è questa, domanda Riccardo da S. Vittore, dai confini della quale tutte sono sterminate le guerre? È quella terra, risponde, che è serbata a germogliare la santità. In cæteris sanctis, seguita a dire, magnificum est quod a vitiis non possunt expugnari. Agli altri Santi è gloria magnifica il non lasciarsi espugnare dai vizi. In Virgine mirificum videtur quod a vitiis non potest vel in modico impugnari. Alla Vergine questa gloria sarebbe poco, se al primo non si aggiungesse l’altro miracolo, che esser non possa neppure per un istante impugnata. Nessuno dunque domandi dove sia il Paradiso terrestre dovuto a tanta innocenza e santità di creatura. Paradiso fu a sé medesima l’anima purissima di Maria, e chi può dire la pace beata e la serenità di quel Paradiso? Non erano in Lei passioni che si ribellassero, in Lei non erano appetiti che si accendessero; in Lei non erano sensi che tumultuassero; l’ignoranza non offuscava l’intelletto colle sue tenebre, la malizia non inceppava la volontà con le sue nequizie; la ragione illuminata sempre dal sommo vero, il cuore sempre occupato dal sommo bene, tutto era delizia in questa abitazione futura del Principe della pace.
4. O bella dunque nella sua concezione, e tanto bella da innamorare gli occhi della terra e del Cielo l’anima di Maria, immune di ogni peccato, immune di tutto ciò che incita e sprona al peccato; ma crediamo noi che l’Altissimo si sia tenuto in questi termini, per dir così negativi, e non abbia altri tesori profuso per abbellir questa Vergine assortita a così eccelsi destini? Mandato da Dio si presentò un giorno al re Acaz il profeta Isaia, “ … e Re, gli disse, pete Ubi signum a Domino Deo tuo, sìve in pròfundum inferni sive in excelsum supra. (Is. VII, 11) Domanda un segno al Signore Dio tuo e dimandalo dove vuoi. Se lo domandi nell’alto dei cieli lo avrai nei cieli, e lo avrai nell’inferno se lo domandi nel profondo medesimo dell’inferno. No, rispose Acaz, non domanderò questo segno, né sarà mai che io tenti il Signore. Non vuoi tu questo segno? Or bene, il Signore quasi a tuo dispetto te lo darà, ed ecco una Vergine concepirà e partorirà un figliuolo che sarà Dio. e permanendo vergine diverrà Madre. “Dabit Dominus ipse vobis signum: ecce Virgo concipiet et pariet filium.” (Is. VII, 14.) Un portento deve esser dunque Maria ordinata a concepire e partorire un divino portato, e tal portento che preluda e si proporzioni alla divina Maternità. Quindi ogni grazia per prodigiosa che sia non deve parerci in questa Vergine né eccessiva né strabocchevole, siccome in Colei che apparecchiandosi a una dignità che tiene dell’infinito, sembra che la onnipotenza divina debba, per così dire, esaurir se medesima per ingrandirla. – Fate grandi, diceva Salomone, gli apparecchi per la gran mole del tempio, fateli sontuosi, nessuna profusione di tesori vi sembri troppa. Non enim hominibus præparatur inabitatio sed Deo. (I. Par. XXIX,) Non si appresta la stanza per l’abitazione degli uomini, si appresta la casa per la dimora di Dio. Oh! con quanta più di ragione potettero dirsi queste parole quando l’Altissimo santificava Maria. Verrà tempo che Costei che si raccoglie ora e nasconde pargoletta nell’augusto claustro del seno materno, sarà sublimata alla parentela e al consorzio delle divine Persone tanto strettamente quanto è possibile che creatura si innalzi a Dio senza dismettere la sua condizione di creatura. Il Padre le darà per figliuolo il suo Figliuolo unigenito, e in diversa natura ma nella stessa persona la farà tanto vera Madre del Verbo quanto Egli ne è vero Padre. Il Figlio generato ab eterno dal Padre negli splendori dei Santi, sarà da Maria generato in terra con generazione temporale e da Lei portato nove mesi nel seno, da Lei partorito, allattato e nutricato da Lei, la chiamerà tanto veracemente Madre, quanto chiama veracemente Padre il suo Padre celeste. Lo Spirito Santo amore personale e increato del Padre e del Figlio sopraintenderà quest’opera che eccede ogni comprensione umana ed angelica, e sopravvenendo a fecondare il sen della Vergine la farà sua sposa. Ecco dunque, o signori, che le divine Persone santificando Maria, concorrono alla propria gloria, dovendo Ella con Esse intrecciarsi, intromettersi e intrinsecarsi per modo, da essere cosa tutta singolare, tutta divina, creatura sì certo ma tal creatura che formi un ordine, un ceto, un grado da se con nomi e privilegi incomunicabili, come quelli di Dio. Chi può dubitare pertanto che oltre la grazia necessaria a farla immune dalla colpa di origine e cara al Signore, oltre a sterminare ogni fomite da quella carne che doveva diventar carne del Figlio di Dio; un cumulo, un soperchio, uno strabocco, un tesoro non aggiungessero di grazie e di doni, che la santità di Maria facessero fino dal primo istante una santità tanto singolare da quella di tutti gli Angeli e di tutti i Santi, quanto sovrasta a quella di tutti gli Angeli e di tutti i Santi la dignità e l’ufficio di Madre di Dio? O sì, sì, rispondono un gran numero di Dottori e di Santi, si. Il Signore dilesse le porte e la prima soglia di questa eletta Sionne più che tutti i tabernacoli di Giacobbe. Mettete quindi tutti insieme gli Angeli e i Santi; la grazia che li arricchisce raccolta in un cumulo, non pareggia quella che fece bella Maria nel primo istante che fu concetta. Stupite forse? Ma che stupire, dice il pontefice S. Gregorio. È Maria un monte piantato sulle cime dei monti, e dove la santità dei Santi finisce, ivi comincia quella della Vergine. Mons Domini in vertice montium: montìs nomine intelligimus beatam Virginem designari. – Negli altri Santi, segue S. Girolamo, l’infusione della grazia si fece per parti: in Maria no, in Maria tutta in un tempo se ne traboccò la pienezza, come un regio fiume nel mare con tutta la mole delle onde. Cæteris per partes, in Maria simul se tota infudit, plenitudo gratiæ. Non se ne dubiti, conclude S. Bernardino:
Mariæ, plenitudo perfectionis Sanctorum omnium non defuit. La pienezza della perfezione di tutti i Santi, non mancò quando fu fatta bella Maria. Ma udiamo, se vi piace, favellare Maria medesima con le parole che le pone sul labbro in questo giorno la Chiesa e questa sovraeminenza di grazia sulla grazia di tutti i Santi fin dalla sua concezione vedremo adombrata con tanta leggiadria di immagini, che ci empirà di diletto. Io procedetti, dice Ella, dalla bocca dell’Altissimo primogenita di ogni creatura. Io dischiusi in Cielo una fontana indeficiente di luce, e quasi aereo vapore tutta adombrai la terra. Posi mia stanza su nell’empireo e il mio trono piantai sovra una colonna di nubi. Feci soletta il giro dei Cieli, penetrai in seno agli abissi, passeggiai sui flutti del mare. Strinsi su tutta la terra lo scettro, e colsi in ogni popolo i primi onori. I cuori dei sublimi e degli umili soggiogai in mia possanza, e il Signore che riposò nel mio tabernacolo, abita, mi disse, con Giacobbe, sia tuo retaggio Israele, e gettai negli eletti le tue radici. E io le gettai in mezzo a un popolo glorioso, nella eredità del mio Dio, nella pienezza dei Santi. Sublimai me medesima come cedro del Libano, come cipresso di Sion: spinsi al cielo la fronte come palma di Cades, spiegai l’onore delle foglie come rosa di Gerico, lussureggiai vivace come platano lunghesso la corrente dell’acque, al modo di terebinto distesi i rami, mandai fragranza di balsamo, di cinnamomo, di mirra, e di profumo soavissimo vaporai la dimora in cui mi pose il Signore. Che vuoi dirci con questo o Maria se non che Tu sei la colomba, la perfetta dello Spirito Santo, e che se le leggiadre garzonette di Sion non hanno numero, Tu di bellezza e di grazia tutte le vinci.
5. Maria franca ed immune dalla macchia di origine; Maria libera dal fomite del peccato; Maria fatta ricca di tanta grazia, che quella eccede di tutti insieme gli Angeli e i Santi, e tutto ciò in un istante, nell’istante primissimo che fu concetta. Chi non si accorge che questa eccellenza di principio presagisce un esito, che deve eccedere ogni misura? Sì. Quando pure di Te o Maria altro non ci fosse noto che questo soperchio di prodigi accumulati sul primo istante dell’esser tuo, presentiremmo e argomenteremmo gran cose, e per poco non sospetteremmo la divina maternità. Che meraviglia pertanto se io aggiunga, che Maria nella sua concezione fu confermata in grazia per modo, che la sua volontà stabilita nel bene, fosse capace di ogni eccellenza di merito, fosse incapace di ogni mutazione colpevole? Ripugnava tanto il peccato alla futura dignità di Maria, che ogni colpa anche minima l’avrebbe, al dir dell’Angelico, fatta sproporzionata alla divina maternità. Quindi il Signore non solo non volle neppure per un istante il peccato in Maria, ma neppur ci volle la possibilità del peccato, e tal siepe le fece intorno di doni e di grazie, che stordirono gli Angeli del Paradiso, vedendo in una pellegrina di questa terra, ciò che non credevano possibile, altro che nei comprensori del Cielo. Così fu un orto Maria nel quale ogni più eletto fiore germogliava di virtù pellegrina, ma quest’orto era chiuso né vi poteva avere accesso per disertarlo il peccato. Così fu un fonte Maria, e sgorgava con vena indeficiente un tesoro di opere sante, ma questo fonte era suggellato, né contaminazione di polvere o di immondezza terrena ne poteva intorbidare gli argenti. Così era una porta Maria, ma questa porta serbata all’ingresso del Santo dei Santi, era chiusa per sempre ad ogni piede profano. O spettacolo bellissimo la nostra Madre che piena tutta di grazia non la poteva perdere; né mai neppure una macchia, neppure un neo di quelli medesimi che son portato naturale della nostra miseria, giunse ad offendere l’intemerato candore di quell’anima. O quanto si sublima agli occhi nostri, quanto cresce passo passo questa eletta creatura concetta appena: e bene sta, dice Sofronio. Talibus decébat Virginem oppignorari muneribus,
quæ dedit cœlis gloriam, terris Deum. Con questo arredo di doni, con questa pompa di grazie si convenivano infiorare i primi istanti di questa Vergine; arra e pegno delle nozze future del Santo Spirito e della maternità del Verbo del Padre.
6. Ma se è così, un’altra grazia, corona e compimento di tutte, desidera a questa dolce concetta il nostro cuore: ed è che per Lei per la quale tante leggi si rompono, si rompa anche quella che condanna chi dimora nel sen materno, alla stupidezza e alla inerzia. Sia questa la sorte nostra in quel claustro che bene sta. Imperocché se si aprissero gli occhi del nostro intelletto, non vedremmo altro fuorché la sordida veste del peccato che ci ravvolge. Ma Maria piena di tanta grazia, circondata di tanta magnificenza, apra o apra gli occhi della mente, e si accenda di santi affetti, e sciolga un inno di lode a chi la fé santa. Rallegriamoci, dice Bernardo, che così fu. Era nel claustro tenebroso del seno materno Maria, ma né quelle tenebre infoscavano la luce dell’intelletto, né quelle angustie inceppavano la libertà dell’arbitrio. Potette, seguita il Cartusiano, al suono della voce di Maria esultare nel seno materno il Battista, e perché non dovremo credere prevenuta dal lume della ragione la prediletta di Dio? Ebbero gli Angeli, ebbero Adamo ed Eva insieme con l’essere l’uso spedito e libero dell’intelletto, chi vorrà negare a quest’Eva novella che lavò l’onta e riparò il fallo dell’antica, un dono che privilegiò quella prima? O soave pensiero! Maria che aprendo gli occhi nell’istante medesimo che fu concetta si trova santa, e comincia a trafficare il tesoro che la fa ricca, né un istante le passa di quel tempo medesimo che corre ozioso per noi, nel quale con ineffabil moltiplico non operi per farsi piena di grazia. Prodigi sono questi ma non son tali che superino Maria medesima. Fecit mihi magna qui potens est. (Luc. I , 49) ci dice Ella di sua bocca, licenziandoci a pensare ogni gran cosa, perché la misura si serba cogli altri Santi, ma con Maria, non erat impossibile apud Deum omne verbum, (Luc. I. 37.) non ci è altra misura che l’Onnipotenza divina. Figliuola di Adamo, ma senza colpa, vestita di carne ma senza fomite, nel primo istante dell’essere è Sovrana fra i Santi, impeccabile ma con merito, concetta appena e dotata già di ragione. Vi sgomenta la pugna di tanti contraddittori ? Aggiungete adunque: Incorrotta ma senza sterilità, feconda ma senza lesione, gravida ma senza peso, partoriente ma senza doglie, Madre ma sempre Vergine, moribonda ma senza angosce, defunta ma senza putrefazione, beata ma insieme col corpo, e che è dir tutto in uno, Creatura e pur Madre, Figliuola e Sposa di Dio. O Maria, miracolo di tutti i miracoli noi non abbiamo mente per comprenderti e ne gioiamo, perché la nostra ignoranza medesima rende testimonianza alla tua grandezza, che Dio solo conosce quanta è, Soli Deo cognoscenda reservatur.
7. Maria dunque figliuola di Adamo né più né meno di noi, è stata dalla grazia del Signore nobilitata ed innalzata così, che a malo stento si riconosce in Lei questa nostra natura, in noi fiacca, vulnerata, inferma, peccaminosa, in essa sana ed intatta. Ma che perciò? Crederem noi che come nel mondo coloro che di basso stato ed abbietto si sollevarono ad alta fortuna, sogliono riguardare con occhio disdegnoso chi un giorno andava del pari con essi, quasi la vista di lui getti loro in faccia la nativa viltà; così Maria privilegiata dalle vergogne e dal danno della stirpe di Adamo, non degni sì basso da raccomunarsi con noi miseri eredi della miseria e della colpa del comun padre? No certamente: e come di Gesù è detto dall’apostolo Paolo, che non è tal Pontefice che non possa compatire alle nostre miserie circondato come fu anch’egli su questa terra d’infermità; così Maria privilegiata mentre visse mortale da ogni peccato, privilegiata da quegli effetti del peccato che importano corruzione e vergogna, subì quelli che hanno ragione di mera pena, e santissima e innocentissima sempre fu pur soggetta come Gesù ai dolori e alla morte. E ora assisa nel Paradiso in soglio eccelso di gloria, vestita di sole e coronata di stelle, la fa da Madre per noi, e mentre Gesù offre all’Eterno Padre le piaghe ed il sangue per la nostra salute, Maria perora la causa nostra al cospetto di Gesù, mostrandogli, al dir di Bernardo, il grembo che lo portò e le mammelle che lo allattarono. Ed oh! se noi amassimo Maria come Ella ci ama, se la amassimo signori miei noi beati! Che manca mai ad un’anima che ama Maria? Tutti i tesori della divina Onnipotenza sono aperti per lei, essendo che Maria ne ha le chiavi, e tanto non è ritrosa di aprirli e profonderli, che nulla tanto desidera quanto di arricchire altrui delle ricchezze, le soprabbondano. Permettetemi dunque che levi la voce qui su quest’ultimo e domandi. Quanto è grande l’amore che noi portiamo a Maria? Giovane che hai tanti nemici rabbiosi che ti combattono, tante passioni imperversate che fremono, tanti desideri irrequieti che bollono, che hai latto della devozione che fece tanto soave e pacifico l’esordio della tua gioventù? Dove è andato o fanciulla quel sì tenero affetto verso Maria che tante volte ti ha cavato per consolazione dagli occhi le lacrime, e infiorò di gioia ineffabile gli anni beati della tua innocenza? Ahimè! Cominciò l’amore delle vanità, e menomò quella fiamma. Colla vanità si congiunse quella passione e la spense. Infelici avete scacciato dal cuore Maria, ma con Maria è sparita l’innocenza e la pace, e menate i giorni nel rimorso e nel rodimento. Padri e madri di famiglia, che è stato nelle vostre case della divozione a Maria? Perché più non si recita alla sera il Rosario della Vergine Vergine? Perché si sono intermesse quelle novene? Perché quelle devozioni che da tanti anni empivano di benedizioni la casa sono andate in disuso? Infelici, avete cacciato Maria. Ma uscita Maria ci è entrata la discordia, ci è entrata la disgrazia. Dio non voglia che ci sia entrata l’empietà e il disonore. Che è stato insomma, lo domando a chiunque ha incorso questa gran perdita, che è stato della divozione a Maria? Infelice chi più non ama Maria! A chi si volgerà nei pericoli? Chi invocherà nelle tribolazioni? Con chi sfogherà il suo cuore nei dolori? Chi lo sosterrà nelle miserie della vita? Chi lo aiuterà nelle agonie della morte? O Madre Maria non sia te ne scongiuriamo, non sia mai che alcuno di noi incorra una perdita così funesta come quella dell’amor tuo! Oggi è giorno memorando per noi. È il giorno anniversario di quello in cui noi medesimi esultammo per giubilo alla corona novella che ti cinse la fronte, e ti rinnovammo il dono dei nostri cuori. In questo giorno pertanto detestiamo le negligenze passate, in questo giorno te ne chiediamo perdono, in questo giorno a te ci consacriamo e promettiamo di amarti. Tu ricevi la nostra offerta, ascolta la nostra preghiera, e afforza e premunisci il cuor nostro contro l’amore del secolo acciocché regni in esso con te il tuo divino figliuolo Cristo Gesù che è Dio benedetto sopra tutte
le cose nei secoli dei secoli.