OTTAVARIO DEI MORTI (8); Il Purgatorio e l’amore

OTTAVARIO (8)

TRATTENIMENTO XXII.

Il purgatorio e l’amore. 

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Triplice amore — Amor di Dio, amor di padre — Bando alle lagrime — Amor delle anime purganti — Sete di sofferenze per compenso del peccato—Amor dei viventi—Efficace ricordo — L’amor più potente — Esempio.

Allorquando si parla del Purgatorio, e si descrivono le pene terribili alle quali sono condannate le anime che non hanno ancora completamente pagati i debiti contratti con la divina Giustizia, egli è impossibile non sentirsi invadere l’animo da un sentimento di terrore e di spavento. Non devesi però esagerare e tanto meno parlare del Purgatorio e dei tormenti che vi si soffrono unicamente per gettare lo spavento negli animi, poiché se questo carcere di espiazione, secondo gli insegnamenti della fede, è un luogo di supplizi e di fuoco, non è men vero che vi ha pure qualche cosa che lo trasfigura ai nostri occhi, additandocelo come una sublime invenzione della carità divina. Dopo il cielo infatti, in quale altro luogo si incontra, in un grado più eminente, l’amore in tutto ciò che ha di più puro e di più generoso? E quando dico amore, io intendo, in realtà, un triplice amore: l’amore di Dio che l’ha fatto, l’amore delle anime che in esso sono racchiuse e vi soffrono e l’amore dei Cristiani che ne addolciscono e ne abbreviano le pene. Considerato sotto questo aspetto, non è egli vero che il Purgatorio perde tutto quanto ha di terrificante e di spaventoso e fa nascere invece nei nostri cuori i più dolci e consolanti pensieri? Quantunque questi pensieri, più o meno esplicitamente, siano stati già da noi espressi negli altri trattenimenti, nondimeno crediamo opportuno insistervi in modo speciale in questo trattenimento, a maggiore consolazione delle anime nostre e come conclusione di quanto da noi è stato detto in questa seconda parte.

I.

Sì, non si può negare che è la giustizia divina che ha scavato i profondi abissi del Purgatorio e vi ha acceso le fiamme espiatici, ma nono stante ciò non è contro verità il dire che questo luogo di purificazione, più che non opera della giustizia, è opera della misericordia e dell’amore. E non è difficile il capirlo. La Chiesa, interprete infallibile delle Sacre Scritture, insegna che nessuna anima potrebbe essere ammessa in Cielo, qualora avesse ancora qualche colpa da espiare, qualche debito da pagare, qualche macchia da purificare. Ora, tenuto conto della povera nostra natura piena d’imperfezione e di miseria e data la fragilità umana, come è egli mai possibile che siano numerose le anime, che, perdonate di tutte le loro colpe, sono riuscite a soddisfare la divina giustizia sino all’ultimo quadrante? Le anime che lasciano questo mondo interamente pure, senza un granello di polvere, senza una macchia che deturpi la loro bellezza? Ahimè! diciamolo pur francamente, quelle che così si presentano innanzi al tribunale di Dio non sono che gloriose e rarissime eccezioni. Le altre, quelle cioè che portano con loro nell’altra vita colpe leggiere, oppure non hanno offerto per le loro iniquità già perdonate che espiazioni insufficienti, costituiscono il più gran numero. E che addiverrà di esse? Se nulla di macchiato potrà entrare in Cielo, si dovrà, come già un dì gli Apostoli inquieti ed agitati, innalzare verso Dio questo grido: «Ma dunque, o Signore, chi mai potrà andar salvo? Quis poterit salvum fieri »? Oh! certamente, così pur troppo sembrerebbe dover essere, stando alla realtà delle cose; ma consoliamoci ! Iddio nel suo grande amore non ci ha ridotti a questa dura estremità di essere per sempre esclusi dal Cielo, se non siamo trovati pienamente degni di entrarvi nel punto di nostra morte. Egli che ha messo in sulle labbra di uno dei suoi profeti questa parola consolante: Io non voglio la morte del peccatore, Egli, dico, ha stabilito come una specie di transazione tra la sua giustizia e la sua bontà, la quale permette all’amore di avere l’ultima parola, e di riportare il trionfo finale. E questa transazione, che viene dal suo cuore, è appunto il Purgatorio. In esso vi hanno senza dubbio fiamme e bracieri ardenti, v’hanno tormenti che oltrepassano ogni immaginazione creata ed a petto dei quali tutti i tormenti di quaggiù non sono che un’ombra; ma nonostante ciò noi siamo sicuri che Dio non per altro castiga, se non perché egli ama. Ed infatti è il suo amore che gli riavvicina le anime che il peccato gli aveva allontanato; è il suo amore che le corregge delle imperfezioni della terra; è il suo amore che le rifa, le purifica, le abbellisce attraverso il fuoco. È ancora questo amore che loro toglie poco a poco tutte le macchie che le coprivano, e quando l’opera di espiazione sarà ultimata, ah! il suo amore non avrà più ritegni, chiamerà queste anime che sono diventate degne di lui ed hanno finalmente ottenuto di essere ammesse alle sublimi estasi della visione beatifica, loro spalancherà le porte del Cielo, ove le farà partecipi di tutti i beni di gloria. – Ecco che cosa è il Purgatorio! Oh! egli ha adunque ben ragione il celebre P. Faber di chiamare il Purgatorio l’ottavo Sacramento. Non sono infatti i Sacramenti prove tangibili dell’amore di Dio verso di noi? Ora vedendo Iddio che a moltissimi, per colpa loro, i Sacramenti che purificano sulla terra non bastano a conferire loro quella purità perfetta che Egli richiede, ha istituito questo ottavo Sacramento che completa meravigliosamente l’opera degli altri Sacramenti. Egli è vero che i Sacramenti che riceviamo in vita sono mezzi dolcissimi di purificazione, mentre il Purgatorio è un mezzo terribile e doloroso, ma ciò non impedisce che sia egualmente un effetto del suo amore. – Consoliamoci pertanto nel considerare queste verità, e per quanto impenetrabili siano i segreti della giustizia divina, rassicuriamoci sulla sorte dei nostri cari, pensando al Purgatorio. Quante volte forse, evocando alla nostra memoria il loro ricordo, non ci siamo domandati: « Quel padre, quella madre, quel fratello, quella sorella, quello sposo, quell’amico che la morte ci ha strappato all’improvviso, saranno andati salvi?» Ed ecco che una voce, la voce della Chiesa, si fa sentire al nostro cuore angosciato e ci dice: « Oh! si, confidate; quand’anco quell’anima che voi piangete fosse arrivata in punto di morte dopo molti traviamenti e carica di colpe, nondimeno se in quell’ora suprema si è ricordata di Gesù Cristo, e l’ha intravvisto, in un lampo, con la sua croce santa, e l’ha chiamato in suo soccorso, sì, ella è salva! L’amor di Dio ha accettato il suo pentimento, le ha fatto grazia, l’ha strappata agli abissi eterni, l’ha inviata in Purgatorio, ove non solo ella potrà nelle fiamme soddisfare tutti i suoi debiti, ma ancora imparerà, in mezzo ai suoi tormenti, ciò che non sapeva più fare quaggiù: benedire cioè ed amare la mano che la castiga ».

II.

Sì, così è, poiché il secondo amore che troviamo nel Purgatorio è l’amore delle anime che vi soffrono. Egli è di fede che ogni peccato domanda, esige una riparazione che gli si proporzionata: ora la riparazione naturale del peccato, sarebbe precisamente la soppressione del piacere che si è provato. Ma siccome non è in potere di alcuno sopprimere questo piacere, poiché già fu consumato nel suo stesso godimento, così è necessario ricorrere ad altro mezzo; e questo mezzo sarà appunto la sofferenza, la quale, essendo radicalmente opposta al piacere, diventa per questo fatto, di fronte alla legge divina violata, come un equo compenso dell’oltraggio arrecato. E non è forse ciò che c’insegna il Vangelo, ci dice anzi l’esempio stesso di Gesù Cristo? Disceso dal Cielo in terra il Figliuolo di Dio per riconciliare l’umanità colpevole col Padre suo, che altro mai ha fatto Gesù, in riparazione dei nostri falli, se non attirare su di sé tutti i dolori? Egli volle sì strettamente abbracciare la sofferenza da assumerla come compagna amata ed inseparabile di tutta la sua vita fino a volere morire tra le sue braccia, ottenendo in tal modo che fosse meglio compresa e per conseguenza meglio gustata nel mondo. Ed infatti lo fu; come ben ce lo dice lo spettacolo magnifico che ci presenta, dal dì della sua morte, lo stuolo innumerevole di anime eroiche e generose che, attraverso i secoli e presso tutti i popoli, non solo accettarono silenziosamente la sofferenza ma ancora la vollero e la ricercarono con tanto amore e con tanta passione da lamentarsi con Dio di non avere di che soffrire abbastanza a seconda dei loro desideri. « O patire o morire: patire e non morire » non fu forse questo il grido di tante anime sante? Ma se così pensarono ed agirono anime ancora prigioniera nei vincoli della carne, che cosa non bisognerà dire delle anime del Purgatorio che, sciolte da ogni legame terreno, non sospirano che al Cielo, e totalmente immerse negli splendori dell’eternità, hanno una piena intelligenza delle operazioni sublimi del dolore? Ah! certamente, non è senza provare un senso di viva compassione che ci facciamo a considerare i tormenti che soffrono; non si è senza sentirci straziare il cuore che ascoltiamo le loro grida imploranti pietà: « Miseremini mei, saltem vos amici mei!»: non dobbiamo però dimenticare che sotto i colpi della giustizia divina, per quanto violenti possano essere, le anime vibrano di ardente amore. Avendo offeso Dio durante il loro terrestre pellegrinaggio, avendo ferito il suo cuore sì tenero e misericordioso, non hanno ora altra preoccupazione che liberarsi dalle colpe che pesano su di esse e perciò da se stesse, spontaneamente e liberamente, si assoggettano e si abbandonano anzi alla giustizia vendicatrice dell’onore di Dio: invocano, reclamano i castighi che hanno meritato, domandano con gioia di bere la coppa del dolore fino all’ultima stilla. – Di più queste povere prigioniere, allo splendore soprannaturale dell’altro mondo, vedono le macchie che ancora le coprono e deturpano la loro bellezza. In tale stato come potrebbero presentarsi innanzi alla Maestà infinita di Dio ? No, egli è impossibile; che, dice S. Caterina da Genova, « si getterebbero più presto in mille inferni che trovarsi così macchiate in presenza di quella divina Maestà »; ed ecco quindi l’amore, che tutte le tiene e possiede, spingerle maggiormente ad inabissarsi nelle fiamme che hanno la virtù di purificarle. In quella guisa che l’oro si purifica nel crogiuolo e nel fuoco, così queste anime domandano di essere bruciate, consumate nell’incendio del Purgatorio, tanto si sentono appassionate di ritrovare l’innocenza e la bellezza che le renderanno degne del Cielo. Questo era il pensiero della Santa sopra citata: «Ah! diceva ella, le anime del Purgatorio soffrono le loro pene con tanta gioia che per nulla al mondo vorrebbero che loro ne fosse tolto il minimo atomo…. Il fuoco dell’amore è in esse sì vivo, sì violento che si precipiterebbero con gioia in un Purgatorio mille volte più terribile di quello che soffrono, se esse potessero in questo modo sopprimere più presto l’ostacolo che le impedisce di seguire il loro slancio verso Dio e di unirsi a lui. E se non trovassero questa ordinazione, atta a levar loro tale impedimento, si genererebbe in loro un inferno peggiore del Purgatorio, vedendo di non potersi accostare ed unire al loro fine, Iddio, il quale importa tanto che, in comparazione, il Purgatorio lo stimano quasi niente». Oh! non è egli adunque vero il dire che l’amore brucia e consuma di più queste anime sante che non tutte le fiamme del Purgatorio?

III.

Il terzo amore che troviamo nel Purgatorio è il nostro, quello cioè che testimoniamo noi alle povere anime che vi sono prigioniere. È insegnamento comune della Chiesa che noi possiamo mitigare ed abbreviare i loro tormenti; epperò siamo invitati a procurarci con le nostre preghiere e colle nostre buone opere il più gran numero di meriti che possiamo per pagare i loro debiti e così aprire loro le porte del Cielo. Quanto non li abbiamo amati i nostri cari defunti, quando godevamo ancora della loro presenza! Quante dimostrazioni d’affetto, quante dolci carezze, quante cure amorose, quanti amabili sorrisi non abbiamo avuti per essi! E quando la morte ce li strappò dal nostro seno, quanto non abbiamo sofferto, e quale strazio non provò il nostro cuore! Le nostre lagrime bagnarono le loro fredde spoglie, e i nostri gemiti, i nostri sospiri, le nostre preghiere li accompagnarono fino alla loro ultima dimora, ove in pace, in terra santa, sotto la guardia vigile della Chiesa aspettano la loro Risurrezione. Ed ancora oggidì, benché molti anni siano forse passati, e la morte sia riuscita a ridurre il loro corpo in polvere nel sepolcro, nulla ha potuto impedire che vivessero ancora nel nostro pensiero, nel nostro cuore. Orbene non basta che noi rimaniamo fedeli alla loro memoria, che conserviamo un culto per tutto ciò che di loro ci rimane, per la tomba che ricopre i loro resti mortali, per gli oggetti che loro hanno appartenuto e che non possiamo mirare o toccare senza portarli religiosamente alle labbra, come si fa per preziose reliquie; egli fa pur d’uopo che il nostro amore sorvoli le distanze che li separano da noi e se ne vada a cercarli fin nel carcere del Purgatorio, dove soffrono. Se durante il loro vivere mortale era per noi una gioia indicibile e soave, quando vedevamo che avevano bisogno di noi e del nostro aiuto, l’affrettarci a rendere loro i mille servizi che aspettavano dalla nostra amicizia, il prevenirli anzi nei loro più piccoli desideri, oh! Perché non faremo noi altrettanto e di più ancora, sapendoli nella più profonda afflizione e bisognosi del nostro soccorso; soccorso che ad alte grida e con la voce della Chiesa reclamano da noi? – In Purgatorio, in mezzo a fiamme ardenti che le divorano, le anime si trovano in preda a tormenti spaventosi: oh! sia il nostro amore che spanda su di loro la grazia refrigerante, i meriti infiniti del sangue di Gesù, che procuri loro il gran bene dell’eterno riposo. In Purgatorio, come mestamente cauta la Chiesa nell’Uffizio dei morti, esse si trovano come in una terra di miserie e di tenebre : terram miseriæ et tenebrarum, ebbene sia il nostro amore che faccia risplendere la visione del Cielo. In Purgatorio sono torturate dalla fame e dalla sete di Dio, e con accenti più dolorosi che non quelli di Assalonne, scacciato da Davide, vanno gridando: Ah! se io potessi vedere il padre mio! Ma Iddio le respinge, e non le vuole alla sua presenza fino a tanto che le fiamme espiatrici non avranno compito l’opera della loro purificazione. Ecco il loro più grande tormento: sapere che Iddio è loro così vicino, desiderarlo con tanto ardore, ed intanto non poterlo godere! Quale strazio! E mentre Dio fa là delizia dei Santi in cielo, ed in sulla terra si lascia accostare nei nostri tabernacoli, discende nei nostri cuori per consolarci, per benedirci, laggiù nel Purgatorio si nasconde, e sembra fuggire dinanzi alle suppliche che lo invocano. Ebbene sia il nostro amore che faccia loro la più grande, la più bella, la più sublime elemosina, che sola potrà pienamente soddisfarle e riempirle di gioia, l’elemosina di dare loro Iddio col dare loro il Paradiso.

* *

Resta così spiegato, come il Purgatorio, questo luogo che attira la nostra compassione, sia il convegno meraviglioso di un triplice amore, che abbellendo co’ suoi raggi luminosi questo carcere di espiazione e dissipandone in certo qual modo le tenebre, fa sì che possiamo considerarlo piuttosto come opera di carità infinita che non di giustizia. Ma se mirabile è l’amor di Dio, mirabile l’amore delle anime, oh! conveniamone: soltanto il nostro amore, quando erompe veramente dal cuore e si estrinseca in preghiere, in espiazioni, in buone opere è capace di aprire le porte degli eterni tabernacoli. Ed essendo di ciò convinti, saremo noi così crudeli da rifiutare a quelle anime doloranti, che pur tanto ci amano, questo nostro amore più giovevole a loro che non tutti i tesori del cielo e della terra? No, così non sarà; e in uno slancio d’amore diciamo loro: Noi vi amiamo, anime dilette e sante, e perché vi amiamo pregheremo, soffriremo, espieremo per voi. Noi lo sappiamo che tutti i vostri sospiri tendono unicamente al Cielo: sarà la nostra più grande gioia il pensare che dovrete al nostro amore il potervi entrare. Noi ne abbrevieremo il tempo fissato nei decreti della giustizia divina, e vi riuniremo a quel Padre che tanto vi tarda di vedere e di possedere. Sì, noi saremo col nostro amore i vostri introduttori nei gaudi eterni del Cielo; ma alla vostra volta voi ci coprirete coi meriti della vostra santa vita, affinché ancor noi un giorno possiamo raggiungervi e gustare in vostra dolce compagnia, tra le braccia e sul cuore di Dio, le gioie e felicità eterne.

ESEMPIO: La Beata Maria degli Angeli.

Esempio mirabile di devozione e di amore ardente verso le anime del Purgatorio fu la Beata Maria degli Angeli, carmelitana scalza di Torino, morta in sul principio del secolo XVIII. Sapendo quanto queste povere anime sono teneramente amate da Dio, e conoscendo d’altra parte quanto triste non sia il loro stato e quanto Grande non siano le loro sofferenze, non v’era cosa che ella tralasciasse per sollevarle e consolarle. Preghiere, digiuni, penitenze, nulla trascurava per raggiungere uno scopo sì cristiano, e non contenta d’impiegarvisi ella stessa, cercava ancora di stimolare ad un opera sì bella le sue consorelle e le persone secolari di sua conoscenza. Per essere in grado di far celebrare il più gran numero di Messe in loro suffragio, non badava a sacrificio alcuno e sovente la si vedeva stendere la mano ai ricchi, e darsi a lavori faticosi per raggranellare l’elemosina necessaria. Durante il tempo del suo priorato avvenne una notte che, cedendo ad uno slancio di fervore verso le povere anime, promise di far celebrare tutti i mesi cinque Messe in loro suffragio, fino a tanto che durasse in carica. Ma avendo al mattino comunicata questa sua promessa alle suore, queste le fecero osservare che il suo desiderio non poteva essere soddisfatto a causa dell’estrema povertà della loro comunità. Iddio però volle venire in aiuto della generosa priora in una maniera prodigiosa. Nel corso della giornata uno sconosciuto venne a trovarla; senza tanti preamboli le disse che egli era solito far celebrare un gran numero di Messe e che erasi sentito inspirato ad offrirle una elemosina, affinché ella ne facesse celebrare cinque ogni mese, lasciandole tutta la libertà di disporne l’intenzione a suo compiacimento. — Maria degli Angeli spingeva la sua carità verso le anime purganti fino al punto di offrirsi ella stessa a pagare per esse. Un anno, alla vigilia della Natività di Maria, manifestò alle sue suore il desiderio che tutti digiunassero con lei a pane ed acqua pel riposo dei poveri defunti. Tutte accettarono di gran cuore questo desiderio della madre loro; ma il confessore, per sue ragioni speciali, non permise loro di seguire questo fervore. Ora avvenne che la beata fu d’un tratto colta da un eccesso di febbre sì violento, che durante tutto il giorno ebbe a soffrire violentissimi dolori. Al giorno seguente le comparve un grande stuolo di anime che drizzando il volo verso il cielo la ringraziarono. Dio permetteva sovente che le anime del Purgatorio venissero a trovarla per domandarle suffragi, e, tra le altre, come ella stessa racconta, vi fu anche l’anima di Carlo Emanuele II, duca di Savoia.—Il 7 Settembre 1714, la Beata fu assalita da sì gravi sofferenze, che si vide ridotta ad una specie di agonia. Nel bel mezzo di questa crisi, del resto da Lei predetta, ebbe un’estasi in cui la si udì conversare con persone invisibili. Chiamato d’urgenza il P. Luigi di S. Teresa, suo direttore, venne da lui interrogata, stando sempre in estasi: « Con chi conversavate voi? le domandò.—Con una moltitudine d’anime del Purgatorio.— Tra esse ve n’ha che voi conoscete ?—Alcune si, altre non le conosco.— Ebbene, riprese il Padre, coraggio, riprendete i sensi, guarite, anche domani farete la santa Comunione, per ottenere la liberazione di queste anime ». La serva di Dio eseguì fedelmente quest’ordine; senza difficoltà poté comunicare il giorno seguente, ed in un’altra estasi che ebbe le fu dato di vedere volarsene al Cielo gran numero di quelle anime che con lei avevano conversato la sera prima.

OTTAVARIO DEI MORTI (7): Il Dogma del Purgatorio conforme alla ragione ed al cuore.

OTTAVARIO (7)

TRATTENIMENTO XVII.

Il Dogma del Purgatorio conforme alla ragione ed al cuore.

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Che ci dice la ragione? — Tre sorta di anime che escono da questo mondo — Obbiezioni dei Protestanti — Dogma consolante — Risponde ai sentimenti del cuore — Dogma vantaggioso alla Società — Esempio.

È troppo importante il dogma dell’ esistenza del Purgatorio; e noi, per dimostrarlo, abbiamo presentati argomenti che ci somministrano le Sacre Scritture, la tradizione, la credenza universale dei popoli. Certamente sono dessi i più convincenti, ma nulla impedisce che noi ricorriamo anche ad altri, i quali, benché di minor importanza, non sono meno persuasivi e capaci di rafforzare la nostra fede in tanto dogma. E non è forse vero che quanto più radicata sarà nel cuore e nella mente la nostra credenza in questo consolantissimo dogma, tanto più eziandio ci sentiremo portati a suffragare le povere anime gementi in quel carcere tenebroso, e moltiplicare quindi in loro favore le nostre opere di pietà? Dimostreremo pertanto brevemente che il dogma del Purgatorio non solo è in piena armonia coi sentimenti più legittimi del cuore umano, ma è ancora totalmente conforme ai dettami più severi della ragione, ed è un domma vantaggioso alla Società.

I.

Chi non conosce la celebre espressione di Mons. Besson che dice « che la ragione, in mancanza della fede, ha inventato il Purgatorio, il quale non è altro che una transazione tra la giustizia e la misericordia di Dio? Sì, basta la ragione sola per persuadere l’intelligenza umana che fa d’uopo essere degno e puro per comparire innanzi al più degno e puro di tutti i giudici, e che se noi non facciamo in questo mondo una penitenza completa, prima di morire, ci sarà imposta nell’altro, per ogni offesa una punizione, per ogni torto una riparazione, per ogni macchia una purificazione ». « La ragione umana, dice un altro autore, riconosce che vi avranno nell’altra vita delle pene temporanee, e che coloro che avranno vissuto malamente, non potranno, dopo morte, riparare altrimenti i loro falli che per mezzo della sofferenza ». – E queste affermazioni, fondate sulla natura istessa della giustizia divina, ci persuaderanno maggiormente per poco che noi ci facciamo a considerare che di tre sorta possono essere le anime al termine della vita. Anime interamente belle e giuste, anime interamente brutte e peccatrici, anime non ancora pienamente belle e giuste, ma non brutte, né ricoperte di peccato mortale. Ora la ragione ci dice chiaro che è cosa al tutto conforme ad un Dio giusto, che le anime interamente belle, che non hanno né la più piccola macchia, né il più piccolo debito con Dio, passando di questa vita, se ne vadano subito al paradiso. La ragione ci dice altresì essere al tutto conforme a un Dio giusto, che le anime interamente brutte e ree di peccato mortale, sorprese in questo stato dalla morte, se ne vadano subito all’eterna dannazione. Ma che sarà mai di quelle anime, che, pur passando da questa vita all’altra nella grazia di Dio, portano con sé delle colpe veniali, che noi chiamiamo leggere in confronto delle colpe mortali, ma che tuttavia offendono la purissima e santissima Maestà di Dio, colpe che furono commesse pur troppo, il più delle volte, in grande quantità, e delle quali non c’ è stato alcun pentimento e tanto meno alcuna penitenza? E di quelle anime che pure uscendo da questo mondo in grazia di Dio, non di meno nel corso della vita trascorsa commisero dei gravi peccati, dei quali, sebbene abbiano da Dio ottenuto il perdono per il pentimento che ne ebbero e per la confessione che ne fecero, tuttavia non compirono tutta quella penitenza, che a quelle colpe era dovuta per soddisfare pienamente la giustizia divina? Come pure di quelle che, passando anch’esse da questa vita, in grazia di Dio, furono tuttavia grandi peccatrici sino agli ultimi loro istanti, giacche furono anime di nemici dichiarati e di persecutori aperti della Chiesa Cattolica, anime di ladri e di assassini famosi, anime di uomini disonesti e scandalosi, anime talora di duellanti e di suicidi, e che in ultimo tocche dalla grazia di Dio, che più potente si fece sentire negli estremi loro momenti, si sono convertite e si sono pentite delle loro colpe, ma non tuttavia con quella contrizione perfetta, che cancella dall’anima ogni macchia e rimette al peccato ogni pena, non solo la eterna, ma eziandio la temporale? – Or bene tutte le anime, passate di questa vita in una di queste condizioni, quale sorte incontreranno? Entrando nell’eternità non del tutto monde, e non senza debiti ancora da soddisfarsi all’eterna Giustizia, dove andranno queste anime? In Paradiso? No certamente, perché in cielo non entra niente di macchiato. Nell’inferno no, perché sarebbe contrario alla divina giustizia, che condannando all’inferno queste anime verrebbe ad infliggere la stessa pena eterna tanto a chi ha commesso peccati mortali, come a chi ne ha commesso solo dei veniali, tanto a quelli che sono morti senza pentirsi dei loro peccati, come a coloro che sono morti pentiti e perdonati dei peccati loro. La ragione vuole adunque, che per conservare a Dio l’indispensabile perfezione della giustizia, oltre al Paradiso per le anime interamente giuste, oltre all’inferno per quelle interamente malvagie, vi sia un luogo od uno stato di mezzo per quelle che, passando di questa vita in grazia di Dio non hanno tuttavia quella perfetta purità, che si richiede per entrare in cielo; luogo o stato in cui vadano a purificarsi delle loro colpe veniali o ad espiare la pena temporale dovuta alle loro colpe e veniali e mortali; luogo o stato nel quale restino, sino a che sotto l’azione dei patimenti accettati con amore, si siano rese pienamente belle ed abbiano pienamente soddisfatta la divina giustizia. In altri termini la ragione stessa esige che vi sia il Purgatorio, il quale perciò è al tutto ragionevole e conforme ai suoi dettami. E siffatto argomento, per dimostrare l’esistenza del Purgatorio, è di tale eloquenza che S. Francesco di Sales lo chiama invincibile e di esso si serve per combattere i protestanti. «Vi hanno peccati, dice egli, che posti a confronto con altri, sono leggieri e non rendono l’uomo meritevole dell’inferno: se dunque l’uomo muore con questi peccati che ne sarà di lui? Il Paradiso non riceve nulla di contaminato, l’inferno è un castigo irrimediabile, che non è dovuto a questi peccati remissibili; ne segue dunque necessariamente che saranno rimessi in Purgatorio, da cui l’anima una volta purificata prenderà il volo pel Paradiso ». – Ma a questo punto insorgono i nemici del dogma del Purgatorio e per infermare e distruggere la forza di questa semplicissima dimostrazione dicono: « Sia pure che certe anime nel passare di questa vita abbiano ancora dei peccati da scontare e non possano per tal ragione entrare in cielo, ma forse che la misericordia di Dio non può, per i meriti infiniti della copiosa Redenzione di Gesù Cristo, cancellare essa di un tratto tutte le reliquie del peccato, che si trovano in tali anime, e perdonare senz’altro ogni pena temporale ad esse dovute? » Non neghiamo che, assolutamente parlando, Iddio potrebbe far ciò: « ma allora bisognerebbe pensare, notiamo col Carmagnola, che Egli esercita per tal guisa la misericordia sua a scapito delle altre sue perfezioni, soprattutto della sua santità, della sua sapienza e della sua giustizia. Ed in vero un Dio sommamente santo deve dimostrare col fatto quanto Egli odi la colpa, non solamente quella che è grave, ma eziandio quella, che a noi pare leggiera e che, essendo pure veniale, cioè perdonabile va tuttavia sempre a fare un affronto alla sua santità infinita. Un Dio sommamente sapiente deve dimostrare che regola con sapienza la vita morale dell’uomo, in quanto che non intende per nessun lato di lasciargli la facilità di peccare anche leggermente, ciò che certamente avverrebbe, qualora, al termine della vita dell’uomo, non punisse le colpe benché leggiere, che l’uomo non ha punito egli nella sua vita. Un Dio sommamente giusto deve dimostrare che, come pesa tutte le opere buone, anche le più piccole, anche un solo bicchier di acqua dato per amor suo, affine di premiarle tutte, così deve pesare tutte le azioni cattive, anche le più piccole, anche una parola oziosa, per punirla ».

II.

Il dogma del Purgatorio non è soltanto ragionevole, desso è ancora pieno di consolazione per i cuori amanti, desolati per la separazione di persone che erano loro care e che hanno portato il loro affetto nel sepolcro. Qual cosa di più consolante infatti pel cuore di un amico che ha perduto un altro se stesso nella persona dell’amico? Qual cosa di più consolante pel cuore di un padre o d’una madre ai quali una morte inesorabile ha rapito un figlio, che essi amavano più che non la pupilla degli occhi loro? Qual cosa di più consolante pel cuore d’un figlio che si vede orbato d’ un padre, d’una madre diletti, di cui sapeva apprezzare la tenera affezione? Qual cosa di più consolante pel cuore d’un fratello, d’una sorella che hanno avuto il dolore di perdere un fratello, una sorella che faceva la gioia della loro vita? Qual cosa di più consolante per una sposa che si è visto togliere uno sposo, oggetto del suo più tenero affetto? Qual cosa, diciamo noi, di più consolante per tutti i cuori, afflitti ed ulcerati dal dolore di potere dire a se stessi: « Sì, noi possiamo ancora beneficare coloro che piangiamo, mitigare le loro sofferenze, dato che essi ancora ne fossero soggetti, ed anche farle del tutto cessare ». Qual cosa di più consolante finalmente che poter ripetere a noi stessi: « Noi sappiamo, sì che coloro che noi piangiamo non hanno vissuto abbastanza santamente per essere ammessi nel regno dei beati, ma le nostre buone opere e le nostre preghiere possono andare a raggiungerli in quel carcere tenebroso, in cui le ritiene prigioniere la divina Giustizia fino a tanto che non abbiano soddisfatto i loro debiti, e metterli in possesso degli eterni gaudi ». « La devozione verso i morti, esclama a questo proposito il P. Felix, non è solamente la espressione d’un dogma e la manifestazione di una credenza, ma è ancora un incanto della vita, una consolazione del cuore. Di tutte le mutilazioni che il protestantesimo ha fatto subire all’integrità della dottrina e del culto cattolico, la più strana ed inconcepibile è senza dubbio quella che, sopprimendo la preghiera ed il Sacrificio per i fedeli defunti, rompe quel sacro vincolo che ci unisce anco dopo la morte a coloro che amammo durante la loro vita. E così la pretesa Riforma ha voluto mostrare con questa fredda negazione, che essa non è la religione invocata dal nostro cuore. « Cosa havvi infatti di più soave al cuore, che questo culto pietoso, che ci riattacca alla memoria ed alle sofferenze dei morti? Credere all’efficacia delle preghiere e delle buone opere in sollievo di coloro che abbiamo perduto; credere che quando si piange su di essi, quelle lagrime versate possano ancora sollevarli; credere finalmente che, anche nel mondo invisibile che essi abitano, il nostro amore può ancora visitarli coi suoi benefici: qual dolce, quale amabile credenza! Ed in questa credenza, quale consolazione per coloro, che han veduto entrare la morte sotto il loro tetto e colpire tutti gli affetti del loro cuore! Se questa credenza e questo culto non esistessero, il cuore umano, il cuore, mercé la voce dei suoi più intimi bisogni e dei suoi più nobili sentimenti, dice a tutti coloro che lo comprendono, che bisognerebbe inventarli, se non per altro, almeno per mettere la dolcezza nella morte e l’incanto sin anco nei nostri funerali. Infatti, nessuna cosa meglio trasforma e trasfigura l’amore che prega sopra una tomba o piange vicino ad un feretro, quanto questa devozione alla memoria ed alle sofferenze dei morti. Questa fusione di religione e di dolore, di preghiera e di amore, ha un non so che di squisito e di tenero insieme. Il dolore che piange, diviene l’ausiliario della pietà che prega; la pietà, alla sua volta, diviene per il dolore l’aroma più delizioso, e la fede, la speranza e la carità non si armonizzano mai meglio che qui per onorare Dio, consolando gli uomini, o per mettere nel sollievo dei morti, il conforto dei vivi ».

III.

Oh! quanto dolce e consolante non è pertanto la credenza nel Purgatorio. Quand’anco non avesse altro vantaggio che tenere uniti i viventi coi morti e conservare in sulla terra l’amore ed il ricordo per quelli che più non sono, sarebbe già degna di tutta la nostra ammirazione; ma non si limita soltanto a ciò, a ricordare cioè che i vincoli che ci legavano in vita ai nostri cari trapassati non sono totalmente rotti; c’insegna ancora che noi possiamo soccorrerli ed aiutarli colle nostre buone opere, anche dopo morte, contribuendo così a farceli di continuo ricordare. Mentre pregheremo per le anime loro, non ci sembra forse che noi continuiamo a vivere nella loro società, a vederli, a conversare con loro? È desso, questo dogma consolante, che toglie al sepolcro il suo orrore, alla morte il suo impero, alla separazione corporale la sua amarezza. «Ma provatevi, dice un moderno autore, a togliere questa soave credenza; ahimè! voi toglierete in uno stesso tempo all’uomo quella dolce sensibilità che con tanto abbandono si riversa sui morti, voi inaridirete nel cuore di coloro che vivono ogni sentimento di tenerezza e d’amore: il figlio dimenticherà il padre, la figlia la madre, lo sposo la sposa. Invece con essa voi perpetuerete i vostri ricordi, il vostro affetto; voi renderete dolce la separazione della morte, obbligherete il fratello a pensare al fratello, l’amico all’amico; restituirete la fiducia a coloro che l’hanno perduta nel momento del supremo addio, perché insegnerete loro che possono, anche dopo morte, fare del bene all’oggetto dei loro rimpianti». – Quanto pertanto non sono da compiargersi gli eretici! È vero che al pari di noi possono pensare ai loro amici morti, ma non possono né aiutarli, né esserne aiutati. L’eretico nulla ha in lui che possa sfidare la morte, e la sua amicizia forzatamente muore quando muore il suo amico. Non è certo lui che potrà ripetere quello che diceva un buon padre di famiglia, al quale una terribile disgrazia aveva strappato la moglie e sette figli: « Io non ho punto cessato, esclamava nella forza della sua fede, le mie relazioni intellettuali coi miei cari; io li consulto: il cuore, che è diventato il solo organo, vede le loro risoluzioni, sente le loro risposte! » Ma v’ha di più ancora: se il dogma del Purgatorio è così consolante relativamente ai defunti, non lo è meno relativamente ai viventi, specialmente in punto di morte. Qual sorgente invero di pure e sante consolazioni non è mai desso per le anime veramente cristiane! Lo è anzitutto per le anime sante, alle quali permette di essere tranquille sulla loro eterna salute, senza essere condannate all’orgoglioso pensiero di credersi perfettamente pure. « Come è dolce il morire, esclama S. Francesco di Sales, la testa appoggiata ai due sicuri guanciali, quali sono l’umiltà e la confidenza! » L’anima giusta, può dire a Dio: « Signore, io ho molto peccato, lo so; ma io son pronto, se fa d’uopo, a rimanere in Purgatorio fino alla fine del mondo. I miei debiti sono grandi, ma Gesù Cristo li ha soddisfatti, e copiosa è la sua Redenzione ». Non meno consolante è per quelle anime che temono di avere fatto troppo poco per espiare le loro grandi colpe. Leibniz ha fatto notare che il pensiero del Purgatorio non fu di piccola consolazione per Filippo secondo, in punto di morte. Affacciandosi in quegli estremi momenti alla sua mente certi tristi ricordi della sua vita passata, non trovò nulla di meglio per allontanare la terribile apparizione, che il pensare che v’era per lui qualche cosa di più severo che non il pentimento, e di meno crudele che non il rimorso. Il dogma del Purgatorio offre finalmente un sicuro rifugio a quelle anime che hanno passata tutta la loro vita nelle tenebre dell’orgoglio e della voluttà e per le quali la stella del pentimento non par che si alzi che nelle tenebre dell’ora finale. Byron, in faccia alla morte, esclamava: « Oh quanto non è consolante la fede cattolica nel Purgatorio ». Non è del resto questa stessa credenza del Purgatorio che guida la Chiesa nell’invitare i suoi figli a pregare per quelli tra i suoi che si trovano in preda alle angosce di morte? Qual consolazione non sarà pertanto per noi il sapere che quando ci troveremo nel terribile passaggio del giudizio di Dio all’ eternità, tutta la Chiesa si, metterà in preghiera per noi, come già un dì per S. Pietro, quando si trovava in prigione. Qual soddisfazione il potere ripromettersi che quanti fedeli v’hanno nel mondo s’occuperanno della nostra liberazione; che ci faranno partecipi, quantunque essi non ci pensino, delle loro preghiere, delle loro buone opere, dei loro sacrifizi, che in quella stessa guisa che noi rendiamo adesso ai nostri amici e parenti quel tributo che la nostra santa Religione prescrive, così ci si renderà un giorno lo stesso servizio; e che finalmente la nostra memoria non perirà, come quella dell’empio, ma, secondo la parola dello Spirito Santo, vivrà eternamente benedetta, poiché fino alla fine dei secoli saremo ricordati nei divini misteri. Ora se tutto ciò non è consolante per un cuore cristiano, v’ha forse altro che lo potrà mai essere?

* *

Naturale pertanto deve essere la conclusione, che da quanto abbiamo detto, intendiamo dedurre: che cioè il dogma del Purgatorio è veramente un dogma vantaggioso alla Società. « Molto hassi a temere, dice Bergier, che la carità, che è l’anima del Cristianesimo non diminuisca, non abbia anzi del tutto a scomparire dal mondo dei viventi, qualora disgraziatamente venisse a mancare a riguardo dei morti. L’uso di pregare per loro ci richiama alla mente un tenero ricordo dei nostri parenti e dei nostri benefattori, ci inspira un santo rispetto per le loro ultime volontà, contribuisce all’unione delle famiglie, ne riunisce i membri dispersi, li riconduce sulla tomba del padre loro, rimette sotto i loro occhi atti ed insegnamenti che interessano il loro benessere ». — « È per mezzo del culto dei morti, esclama a sua volta un illustre pubblicista, che un gran numero di anime son ritenute nel grembo della Chiesa, e quindi nell’ordine; è per mezzo di esso che il Cattolicismo mantiene nei cuori addolorati delle speranze che li consolano; onde si è che molte volte la perdita di un essere caro ha fortificato delle credenze che lo scetticismo stava per soffocare ». Non dobbiamo forse perciò chiamare nemici dichiarati della Società e degli interessi speciali e particolari dei popoli, tutti coloro che in una maniera o in un’altra attentano all’esistenza del dogma del Purgatorio , strappando così dal cuore con una crudeltà ed una barbarie inaudite quelle vere e dolcissime consolazioni, quelle vere e dolcissime speranze che tengono uniti gli animi? Tant’è: l’eresia e l’incredulità per ragione dei loro errori sono matrigne efferate, e la Chiesa Cattolica soltanto, che unica possiede la verità, è madre di tenerezza e di amore ineffabile.

ESEMPIO: Non è morta ma vive!

Fu già, non è gran tempo, un giovine che ricco di belle doti di mente e di cuore, formava la consolazione della vedova sua genitrice, ed era amato da quanti lo conoscevano. Educato nobilmente, come portava la sua condizione, erasi dato a studi profondi, le scienze, le arti belle erano l’unica occupazione della sua vita. Ma aveva avuta la sciagura di essere nato da genitori protestanti e benché il protestantesimo non finisse di soddisfarlo, l’infelice viveva lungi dalla vera Chiesa di Gesù Cristo; non già che della religione non si curasse punto o non studiasse di cercare la verità. Fin da alcuni anni addietro, l’eresia in cui era nato gli pareva poggiata su crollabili basi, e più la studiava, più s’allontanava con lo spirito. Né conoscendo bene il Cattolicismo, in fondo in fondo, tentennava su tutto, talché neppure egli sapeva a qual religione appartenesse. Venne anche per lui il di del dolore; la madre sua già avanzata in età, consumata da lunga e dolorosa malattia, venne a morire. Il povero giovane, che viveva della madre, stretto alla salma di lei, invocava la morte che in una tomba istessa seppellisse due cuori che s’adoravano. Divenne così cupo e triste che nessuno si ardiva più avvicinarlo e dirgli una parola di conforto. Pur dopo alcun tempo un amico suo d’infanzia e di fresco dall’ateismo convertito il Cattolicismo, volle ad ogni modo tentare la prova: entrò a lui, pianse con lui, e nel proprio cuore accolse l’estrema ambascia. Poi confortatolo con quelle parole che solo l’amore sa ispirare, lo indusse a muoversi alcun poco e portollo alla vicina campagna. Là, seduti all’ombrosa riva d’un torrentello, l’infelice si sfogava: « Povera la mia madre… così presto è discesa nella tomba… mi amava tanto… ahimè! non la vedrò più… mai più… » L’amico lo lasciava sfogare, poi asciugandogli le lagrime: « Spera, amico, la rivedrai!…— Che?… rivedrò ancora la madre mia?… quando?… dove?… — Da alcun tempo mi sono fatto Cattolico ed ho imparato che al di là del sepolcro c’è un’altra vita, una vita che non cesserà più. La rivedrai tua madre: ella non è morta ma è viva e vivrà. In quella vita oltramondana esistono due regni, regno di Dio l’uno, l’altro di satana, regno dei giusti quello, e questo degli empi. Vuoi che ti dica « dove? » Era pur buona la madre tua? — Se era buona?… oh anima bella di mia madre!…—Ebbene tu la rivedrai lassù in grembo a Dio. L’orfano trasse un sospiro: — in grembo a Dio!… n’era ella degna? Cattiva non l’era, ma salire d’un tratto fino lassù, in braccio al Creatore!… — Ad ogni modo spera. Tra i due regni eterni ce n’ha un terzo temporaneo, dove si raccolgono per alcun tempo le anime di quelli che non furon cosi empi da cadere sotto il dominio di satana, né cosi perfetti da volar tosto al regno dei cieli. Là si purgano di quelle macchie da cui non si fossero ben mondati nella terrena vita, e si preparano a volare nell’abbraccio di Dio. » L’infelice guardava fisso l’amico e ne ascoltava la voce, come se venisse dal Cielo; e l’amico continuava: « Quelle poverette patiscono immensamente smaniano dalla brama di unirsi a Dio; ma esse non possono più nulla per sé. Noi invece, noi possiamo con le nostre preci affrettare la liberazione. Spera, amico, e prega: con le preghiere unite alle lagrime recherai un sollievo alla madre tua, che da quel lontano paese benedirà al tuo affetto figliale e ti otterrà in compenso divini favori. Qui l’infelice non poté più; si abbandonò tra le braccia dell’amico e piangendo ripeteva: « Mi hai detto una parola che vale un tesoro… rivedrò adunque ancora mia madre, posso ancora amarla, e mia madre mi ama!… la tua religione è la Religione del cuore… voglio anch’io essere Cattolico!…; I due amici piansero e pregarono insieme.  (Alimonda).

 

OTTAVARIO DEI MORTI (6): Lo spiritismo o evocazione dei morti

OTTAVARIO (6)

TRATTENIMENTO XII.

Lo spiritismo, o evocazione dei morti.

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Nefanda profanazione — Possono apparire le anime dei morti? — Come? — Proibizione della Chiesa — Atto superstizioso — Chi appare? — Atto illecito, ereticale, scandaloso — Astuzie diaboliche — Ipotetiche conversioni — Inutili pretesti — Decisioni delle S. Congregazioni — Esempio. Appendice — Delle apparizioni e manifestazioni delle anime dei defunti.

Egli è certo un profanare indegnamente i resti mortali dei nostri cari trapassati, ed un mancare gravemente alla loro memoria ed alla loro dignità di Cristiani e di figli della Chiesa, ricorrendo, pel loro trasporto all’ultima dimora, a funerali meramente civili o, quello che è peggio, condannando i loro cadaveri agli orrori della cremazione; ma oh! quanto non mi pare profanazione maggiore, mancanza di rispetto più grave quella di evocare dopo morte le anime loro per mezzo delle abbominevoli pratiche dello Spiritismo, cotanto in voga oggidì! Non sarò io che negherò che 1’angoscia d’una buona madre, che vorrebbe ancora una volta riabbracciare un caro pargolo volato al cielo, lo struggimento di uno sposo che vorrebbe dare un ultimo addio ad una dolce compagna rapitagli nel fior della vita, la pietà d’un figlio, d’una figlia che brama la benedizione di un padre o di una madre, cui non poté assistere morenti, siano tutti affetti che ben meritano di essere ascoltati con sommo rispetto. La Chiesa stessa, che ad ogni regolato desiderio dei suoi figliuoli porge vere e nobili soddisfazioni, piange volentieri cogli afflitti pel distacco dei cari defunti, piange nella sua liturgia mortuaria, nel sacrificio dell’altare, nelle esequie, nei monumenti sepolcrali. Loro addita il Cielo, dove i trapassati e gli ora viventi si riuniranno nell’amplesso del comune Padre per amarsi eternamente; e frattanto conforta i vivi rivelando loro la comunione d’interessi, di preghiere e d’ amore che vige tra i vivi ed i morti, sia che questi siano giunti alla beatitudine, sia che restino tuttavia a rendersene degni colle pene espiatrici Ma lo spiritismo ahimè! abusando della innata brama che ci spinge a comunicare coi congiunti e con gli amici strappati dalia morte al nostro affetto, distrugge il sistema di intime e soavi relazioni stabilite da Dio, e ne propone un altro empio e corrompitore, che non può soddisfare alle giuste brame del cuore, altrimenti che con mendaci lusinghe. Che dice infatti lo spiritista a chi ricorre a lui nella sua desolata disperazione? Gli promette che gli darà novelle dell’amico, del figliuolo, della sposa, già entrati nell’altra vita, gliene farà udire la voce, rivedere le amate sembianze e forse anche riceverne tenere carezze. E di fronte a tali seducenti promesse, che rispondono appieno ai sentimenti del cuore, come potrà resistere alla forte tentazione dello spiritismo colui che già si trova in quel grande disordine morale, che suole accompagnare i grandi dolori? Nessuna meraviglia quindi che vi cada, specialmente se si tratta di un cristiano che per sua disgrazia già si trova debole e vacillante nella fede. Per impedire pertanto un tanto male e nello stesso tempo fortificare la fede dei Cristiani contro ogni tentazione di spiritismo, sarà ordinato il presente trattenimento, in cui verrà brevemente dimostrato in quale inganno vergognoso, in quale sciagura deplorabile, in qual colpa gravissima non cada quel Cristiano che cede ad una tale tentazione.

I.

E prima di venire ad una qualsiasi dimostrazione, ci pare necessario di rispondere brevemente ad una questione molto importante: « Possono le anime de’ trapassati, e più propriamente quelle che si trovano nel Purgatorio, mettersi direttamente in relazione con noi ed apparirci?» E perché no? Risponderemo noi; che cosa ci vieta il pensare che Iddio, pregato e supplicato dagli uomini, pei suoi altissimi fini e speciali disegni, pel vantaggio della Chiesa, per l’utilità delle anime non possa qualche volta permettere che questi spiriti ci compariscano? Del resto nulla v’ha nell’insegnamento della Chiesa, maestra infallibile di verità, che c’impedisca di crederlo; e la storia, la vita dei Santi specialmente, non meno che la tradizione di tutti i popoli sono là per addurci esempi non dubbi di apparizioni di persone già morte, esempi che furono a noi tramandati da scrittori degni di tutta la nostra fede, quale per esempio un S. Tommaso d’Aquino, il quale non sarà certo annoverato da alcuno fra le intelligenze troppo credute e leggiere. Basta consultare gli autori che hanno trattato di proposito queste questioni per rendersene convinti. Possiamo piuttosto dimandarci: Ammessa la verità delle apparizioni dei morti, quale è il modo di queste apparizioni? In altre parole: Come ci appariscono i defunti? nel loro proprio corpo o in una forma di corpo temporanea e quasi presa d’imprestito? Molte ed interessanti sono le risposte de’ teologi a questa domanda: gli uni infatti dicono che i defunti appariscono nella loro propria carne; lo che sarebbe una vera e propria resurrezione; altri che Iddio faccia assumere loro un corpo qualunque, preso nella sostanza dell’aria; altri invece dicono che fra il corpo e l’anima essendovi una sostanza intermedia che partecipa di ambedue e che serve di legame per tenerli uniti, sarebbe appunto questo principio vitale, detto anche per spirito, quello di cui si servirebbero i defunti per apparirci: altri, ancora, insegnano che queste apparizioni non hanno bisogno indispensabile del concorso del defunto, ma che anzi talvolta si producono all’insaputa di questo pel ministero di angeli buoni o malvagi, che agiscono a seconda della volontà divina; altri finalmente dicono che questi fenomeni non hanno alcuna realtà oggettiva, e che essi risultano da una impressione meramente soggettiva, prodotta sui sensi dalla persona che crede vedere, sentire, toccare ciò che non ha all’ esterno alcuna realtà. Quale di queste differenti opinioni, — a parte l’ultima, che, riducendo le apparizioni a semplici fenomeni soggettivi, ciò che ne fa delle vere allucinazioni, ci pare poco probabile — risponda meglio alla verità delle cose, non sono certo io che mi sento in grado di dirlo; è così ardua la questione che perfino il sapientissimo cardinale Bona ed il dottore della Chiesa S. Agostino hanno dichiarato di non saperla risolvere: quindi, lasciando la cosa alla discussione dei teologi, vengo piuttosto a rispondere alla domanda che è argomento del nostro trattenimento: È lecito l’evocazione dei morti con o senza le pratiche dello Spiritismo? Ed a questa domanda risponde a nome mio la Chiesa con un’ordinazione, che ha forza assoluta di legge obbligatoria, emanata dal S. Uffizio della Suprema Inquisizione e comunicata nel 1856 a tutti i Vescovi e per essi alla Università del popolo cristiano. Per questa ogni fedele è istruito che « Evocare le anime dei defunti e riceverne le risposte, sono atti superstiziosi, illeciti, ereticali e scandalosi contro l’onestà dei costumi ». Potrebbe la Chiesa parlare più chiaramente di così? Stando adunque alle leggi della Chiesa l’evocazione dei morti è severamente proibita sia perché  non è permesso ai fedeli di turbarli senza motivo nei loro riposi, sia perché, provocando così le apparizioni, si corre rischio di incappare facilmente nei lacci del demonio, essendo di fede che « il mondo di là non è popolato soltanto di anime sante e di spiriti della luce, ma vi sono anche spiriti tenebrosi, capaci di trascinare gli uomini nelle vie della perdizione ».

II.

Diciamo adunque che l’evocazione dei morti è dalla Chiesa anzitutto proibita perché è un atto superstizioso. E che tale sia in realtà è cosa evidente: non si riduce dessa forse alla Necromanzia, anzi non è propriamente la stessa Necromanzia, cioè divinazione per via di domanda, rivolta ai morti per intervento diabolico, essendo chiaro che i morti naturalmente non potrebbero rispondere? I morti difatti, avendo ricevuto la loro destinazione, non possono senza permesso di Dio mettersi in comunicazione con noi, siano santi del Cielo, o penanti nel Purgatorio, o riprovati nell’Inferno, e non è neppure probabile che Dio sospenda le leggi generali di sua provvidenza per soddisfare ai nostri capricci, mentre invece il demonio sta sempre pronto per approfittare di quella curiosità insensata che ci spinge a sollevare il velo, da cui sono celate le realtà dell’ avvenire. Or non è questo un inganno, e un inganno quanto mai manifesto? Nell’evocazione che si farà, non è già lo spirito diletto evocato che si presenterà, ma uno spirito bugiardo che prenderà a rappresentarlo, nella scena spiritica, falsamente. È quindi, mentre si crederà di parlare colla persona cara, coll’amico, col conoscente già morto, di sentire la sua voce, di avere sue notizie, di ricevere le sue commissioni non si avrà a fare che con un demonio. Ciò sanno ed insegnano gli stessi dottori spiritisti: Allan Kardec, che è tra loro il maestro dei maestri, in tutti i suoi libri parla degli inganni tramati dagli spiriti ad illusione degli evocatori, e dice chiaramente tra l’altro che « la questione della identità degli spiriti (evocati) è una delle più controverse… è una delle più grandi difficoltà dello spiritismo pratico ». E spende due capitoli per dimostrare che non si può sapere il netto della personalità dello spirito, che si presenta in sulla scena. « E ciò avviene, dice egli, perché  lo spirito evocato non può o non vuole presentarsi, ovvero perché un altro spirito si presenta in scambio di lui e mentisce circa il suo essere individuale ». Non si evocarono forse, dietro preghiera di presenti, da celebri spiritisti persone che quelli fingevano di aver perdute, ma che in realtà non erano esistite mai? E le fantasime si presentarono alle loro evocazioni, ed i fenomeni, che solevano seguire l’evocazione fatta da’ medi, seguirono pienamente. E finisce col conchiudere: « Noi comporremo un volume dei più curiosi coll’istorie di tutte le gherminelle, che sono venute a nostra conoscenza ». Del resto lo stesso buon senso e la ragione ci dimostrano che lo spirito che si presenta all’ ingiunzione del medium non può essere che uno spirito cattivo. « Quali sono infatti, ci domandiamo col Rolfi, gli esseri spirituali che possono essere evocati? Eglino sono o Dio, o gli Angeli, o gli spiriti de’ morti, o i diavoli. Ma non sono i tre primi; dunque non altro sono che i demoni. Ed infatti non è Dio; poiché sarebbe da ignorante o grossolano il solo supporre che Dio voglia comunicarsi in queste combriccole spiritistiche per solo spasso dei curiosi. Dio non cala sì basso, né mette a così vil prezzo la sua omniscienza e l’esercizio della sua onnipotenza, Egli non sfoggia in rivelazioni e meraviglie a beneplacito dei curiosi o degli impertinenti che se ne vorrebbero trastullare: ai quali piuttosto si pianta in faccia muto ed inesorabile, come Cristo si levava in faccia ad Erode che desiderava vedere un qualche suo miracolo. Non produce infatti un vero ribrezzo il solo pensare che sia Dio che operi nei fenomeni spiritistici ? Che l’Essere infinito e perfettissimo, in cui non può essere vanità alcuna, voglia venire a scherzare coi malfattori? « Diciamo in secondo luogo che non sono gli Angeli. No, non sono gli Angeli buoni, perché prima di tutto essi non stanno ai cenni dell’uomo nel senso che eglino in maniera sensibile vengano alla chiamata del primo venuto per soddisfare la sua curiosità e servirgli di spasso; non si è mai veduto, né detto, né creduto nulla di simile. Un’ altra ragione per dire che non sono gli Angeli buoni si è che il contegno degli spiriti evocati è ben lungi dall’avere quella dignità che conviene a detti Angeli; e le risposte che danno producono non un’impressione di pace, ma bensì di agitazione o di inquietudine. No, i buoni Spiriti non agiscono in questa maniera! Chi è colui che abbia fior di senno, e che possa ammettere che gli Angeli buoni, che ubbidiscono perfettamente e soltanto ai voleri del Dio supremo, venissero giù del Paradiso per mettersi alla disposizione di un ciarlatano qualunque? «Non sono finalmente gli Spiriti de’morti, perchè l’uomo, naturalmente parlando, non ha, né può avere veruna comunicazione con le anime de’ defunti, essendo che l’uomo comunica solo cogli altri esseri per mezzo de’ suoi sensi; ora il mondo degli Spiriti, qualunque essi siano, non è né mediatamente, né immediatamente, accessibile ai nostri sensi corporei, perciò il mondo de’ puri spiriti non è in comunicazione con noi, non può dipendere da noi, non può essere a disposizione del nostro beneplacito. In una parola : noi manchiamo di mezzi naturali per comunicare coi morti, in quella stessa guisa che i morti mancano di mezzi naturali per comunicare con noi » Dunque, concludendo col Dottor Lino Crosta: « Dio no, gli Angeli no, le anime de’ defunti no; ma sono di spiriti veri le operazioni medianiche; resta quindi che si attribuiscano con la teologia cattolica ai demonii. Non piace il nome di demonio? Usiamo l’altro: diavolo. Anche questo non va ? Satana. » È  chiaro? Non si potrebbe certamente essere più espliciti di così! Ma vogliamo di più? Ne abbiamo una prova irrefragabile nella confessione che il demonio stesso fece per bocca di una indemoniata. Interrogata costei in presenza del B. Curato d’Ars chi era che faceva muovere le tavole giranti rispose: « Son io… ; il magnetismo, il sonnambulismo… tutto ciò… Sono cose di mia pertinenza! » « Ogni persona dabbene pertanto, diciamo col P. Franco, che cerca uno sfogo al suo dolore nella apparizione del caro estinto, in seguito a queste constatazioni dovrebbe dire a se stessa: « Dunque invece di riveder lui, io vedrò uno spirito falsario: forse mi capiterà dinanzi, invece del diletto amico, lo spirito di un odioso mio nemico, forse una negra invece della sposa, un giudiolo invece del mio figlio. Questo è ciò che mi promettono i più insigni maestri di spiritismo; e però quel medio o quello spiritista, che mi promette di farmi apparire i miei cari, è un solenne impostore, il quale si fa giuoco del mio dolore, e con infame giunteria lo schernisce. – « Che se il dabben uomo volesse essere anche miglior logico, dovrebbe ragionare più severamente contro la demenza del suo dolore; dovrebbe ricordarsi, come gli spiriti che rispondono alle evocazioni sono qualcosa peggio che spiriti falsari, essi sono demoni dell’inferno. Egli è però uno orribile conforto allo strazio dei perduti congiunti, l’intrattenersi un quarto d’ora a conversare con un diavolo che mentisce la persona d’uno sposo, di una madre! che mentisce sullo stato di quella cara anima, mentisce da diavolo e con odio da diavolo per quell’anima, e per chi ne chiede scioccamente novelle. « Accade, per giunta di orrori, che alcuna volta lo spirito evocato si manifesta non solo con le parole, ma si rende visibile, tangibile, e pare caldo, e vivente. Ora insegnano i dottori cattolici che, per rappresentare tali corpi, il demonio può assumere un cadavere non ancora interamente deformato, e, come gli è agevole, gli ridà attitudine di vivente, e lo raffazzona nelle sembianze, negli abiti, e moti della persona che voglionsi rappresentare. Vi sono altri modi: ma questo è l’usuale, e ve n’ha degl’indizi e delle ragioni nella filosofia cristiana e nella storia. Ecco adunque qual cosa può ripromettersi quel dabbene marito che spera di riabbracciare la sposa scomparsa dalla scena della vita, quella tenera madre che crede di ristringere al seno quel caro fantolino, il quale morendo la lasciò orba e inconsolabile… un cadavere, la carogna dissepolta d’un morto ignoto, rabberciata e imbellettata per un momento a fine di ingannare vilmente le tenerezze d’uno sposo, d’una madre. Oh! Veramente il demonio opera in queste illusioni da quel mortale nemico che è del genere umano: mentisce, vitupera, schernisce. « Ma di chi la colpa ? Certamente di colui, che avvisato degl’inganni diabolici dalla Bibbia, dalla Santa Madre Chiesa, dalla ragione, disprezza gli avvisi della ragione, della Madre Chiesa, disprezza gli avvisi della Sapienza divina per seguire le insinuazioni di un ciarlatano e stregone. Sua colpa e suo danno! Ci ripensino coloro che da vero amore, ma disordinato, si sentono trascinare sino a cozzare empiamente coi decreti eterni di Dio, il quale ha inabissato un caos tra i vivi e i morti, e stabilito che, fuori della Comunione dei Santi, sia naturalmente impossibile ogni commercio. Lo sentivano anche gli antichi pagani, sebbene non troppo ne intendevano la vera ragione, che era sacrilegio il tentar di turbare il riposo delle tombe. Noi sappiamo questa ragione: è vietato da Dio il quale, come ha disdetto qualsiasi comunicazione tra i santi del cielo e i reprobi dell’inferno, così vuole troncato ogni commercio personale tra i vivi e i morti ».

III.

Non vi può adunque essere più alcun dubbio, dopo quanto abbiamo detto, che l’evocazione dei morti sia un atto superstizioso e quindi anche illecito, ereticale, scandaloso contro l’onestà dei costumi, e come tale l’abbia condannato la Chiesa. Ed è illecito non solamente perché proibito, ma proibito perché è illecito in sé stesso, in quanto il comunicare volontariamente col nemico di Dio e chiedergli aiuto e favore, molto più se intervenisse il patto (come spesso accade) di riconoscerlo per padrone, è atroce oltraggio alla Divinità. Per sé il ricorso al morto e al demonio non parrebbe ereticale; ma lo è in quanto suppone nel demonio l’attributo proprio di Dio solo, il prevedere cioè l’avvenire e la conoscenza dei pensieri e affetti interni degli altri. Chi di questi punti non interroga il morto, o non vi riflette, non incorre la malizia ereticale. In pratica tuttavia quasi sempre v’incorse, per via del patto, in cui per ottenere l’aiuto del diavolo esso viene riconosciuto per supremo padrone, per Iddio vero, o almeno in onor suo si rinnega Iddio, o la fede, o si accettano insegnamenti falsi in religione. Che l’atto finalmente sia scandaloso, che è quanto dire d’inciampo al bene, specialmente all’onestà del costume, già lo si può capire dal poco che abbiamo detto e dal molto che potremo dire. Basterebbe per poco esaminare gli ostacoli e gli atti degli spiriti evocati per rendersene appieno ragione. Interrogati sulla Religione Cattolica la disapprovano, infuriano contro i misteri di lei ed i Sacramenti. Non possono patire la cattedra tremenda di S. Pietro, dalla quale sono smascherati, e le si scagliano contro con una furia di veri demoni. Spropositano orribilmente sulla vita avvenire, sui novissimi, e sovra altre verità indubitatissime di nostra fede. Glorificano l’eresia, lodano gli eresiarchi, vilipendono i Santi, esaltano il vizio, scherniscono la virtù. Ecco come ne parla un moderno scrittore « Invece della dottrina rivelata della immediata retribuzione dopo la morte, che la S. Chiesa ci propone a nome di Gesù Cristo stesso, Giudice giusto dei vivi e dei morti, gli spiriti, che si manifestano agli sconsigliati seguaci della moderna superstizione, loro danno a credere, che non v’ha né cielo, né inferno e nemmeno Purgatorio nel senso cattolico. Per noi credenti, il Purgatorio è il luogo di purificazione di quelli che sono macchiati, al momento della morte, di colpe leggere, o rimangono ancora debitori, presso Dio, di qualche temporanea pena dovuta alle loro colpe. I pretesi spiriti professano invece la vietata dottrina che le anime, dopo il loro passaggio, vanno soggette a reincarnazioni e vite successive dopo quella terrena, quasi pellegrinando per un viaggio eterno, acquistando sempre nuovi gradi di perfezione, spiritualizzandosi sempre meglio, con aumento di agilità e di luce, a seconda di quanto esige la breve apparizione sulla terra o altrove. Queste vicende sono seguite da tutte le anime dei trapassati, anche l’anima più nera e più carica di delitti finirà, per la legge delle successive reincarnazioni e purificazioni, a divenire pura come cristallo e fulgente come un sole ». – E di Gesù e della sua divinità che ne è? Ad esser logici i così detti spiriti non solo non potrebbero annunziare Gesù come vero Dio, ma dovrebbero considerarlo come un mentitore. Ma con singolare inconseguenza essi lo predicano come uno spirito superiore, anzi come il più nobile e perfetto fra gli spiriti, che s’incarnò, o meglio, secondo la loro dottrina, si rincarnò nel corpo fisico di Gesù. Ad ogni modo, secondo la dottrina spiritica, egli sarebbe semplicemente un inviato di Dio per predicare la paternità di Dio e la umana fratellanza. Il vero Figlio di Dio, fonte e cagione di ogni cristiana speranza, è spogliato della corona divina che ne adorna l’augusta fronte e ridotto al grado di una pura creatura. – Che dire poi degli atti di questi spiriti? Per lo più sono laidezze, schifosità, orrori tali « da far inorridire, come dice uno scrittore recente, il Des Mousseaux, non solo le donne pudiche e timide, ma anche gli uomini per cui il pudore non sia un nome vano ». Quindi ce ne passiamo, convinti che certe abbominazioni sono da riservare allo studio dei dotti di professione. – Arrivato a questo punto del mio dire, io so bene che qualcuno mi dirà: «Ma come può essere vero tutto ciò, quando io so che gli spiriti evocati ben lungi dal tenere simili propositi e lasciarsi andare a simili nefandezze, parlano di pietà, di religione, incoraggiano ai Sacramenti, alla preghiera, s’intrattengono con piacere di Dio, di virtù, ragionano di beneficenza, di carità, di elemosine? » Non nego che in sul principio e qualche rara volta le cose si passino così. Chi non sa infatti che pel demonio tutti i mezzi sono buoni per arrivare a perdere le anime, e che pur di trarre in inganno gli incauti ed i creduli arriva al punto di trasformarsi in angelo di luce, adattandosi inoltre al modo di pensare e di agire delle persone con cui è in comunicazione? Non sarà certo lo spirito maligno che confesserà di essere riprovato e persuaderà in sulle prime e su due piedi agli ingenui ed ai sempliciotti azioni cattive; volendo farsi degli adepti, non bisogna che li spaventi; quindi è che sotto le apparenze sante maschera i suoi abbominevoli disegni: e così addormenta la diffidenza e allontana i sospetti. Ma si dia tempo al tempo: a poco a poco si leverà la maschera, e quando li vedrà abbastanza a lui attaccati e senza diffidenza allora ben altro sarà il suo modo di agire e di parlare, sicché a non lungo andare questi infelici illusi dovranno apprendere a loro spese con quale finissima perfidia la loro fede fu attratta nel dubbio e nell’errore. Del resto, anche quando si limiterà a parlare di pietà e di religione, non è difficile lo scoprire l’inganno, perché in questi casi ordinariamente il malo spirito limita le preghiere ad un certo numero, e le vincola ad alcune forme vane, ambigue e superstiziose, facendo anche minacce ed incutendo terrori, dai quali si riconosce facilmente se trattasi di spirito buono o malvagio. – Noi sappiamo, per indubitabili relazioni, di uno spirito diabolico, il quale, per rendersi accetto in una famiglia pia, raccomandava la divozione alla Madonna, ed intanto non vi era verso di fargli pronunziare il santo nome di Maria. E ciò è sì conforme alla verità che già fin da’ suoi tempi il Card. Bona esclamava: « Fra i numerevoli inganni coi quali i demoni si sforzano di sorprendere gli uomini, vi è quello eziandio di comparire sotto forma di persona morta in peccato, implorante elemosine e preghiere, digiuni, pellegrinaggi, messe ed altre opere buone, come se fosse in istato di salvazione, e questo perché coloro che sono in peccato vi si confermino, ingannati dalla vana speranza di tali illusioni. Qualunque pertanto sia il linguaggio di questi spiriti sempre è da fuggirsi con orrore ed aversi in somma abbominazione, come quello che non ha altro fine che ingannare ed ottenere perfidi scopi. Onde si è che la Chiesa trova illecita e quindi proibisce formalmente la evocazione dei morti anche nel caso che qualcuno dopo averla ottenuta, in seguito a preghiera al Capo della Milizia celeste, perché voglia concedergli di parlare con lo spirito di una determinata persona, ne abbia risposte che sono tutte in conformità della fede e dell’insegnamento della Chiesa sulla vita futura: risposte che riguardano per lo più lo stato in cui trovasi l’anima di un defunto, il bisogno che potrebbe avere dei suffragi, le lagnanze di essa sulle ingratitudini dei parenti ». Tutto ciò sta bene, continuano i miei avversari, ma come potrà ella negare che in occasione della evocazione dei morti non abbiano avuto luogo delle conversioni? «Sia pure, diciamo col P. Franco, che qualche materialista in faccia a quei fenomeni non abbia più potuto negare l’esistenza degli spiriti; ma e non si sa che quel profondo ed arrabbiato nemico dell’umana salute, che è il demonio, non ha difficoltà di perdere qualche cosa per guadagnare poi dopo molto di più? Anche nel mondo gli scaltri trovano che è prudenza gettare un ago per raccogliere un palo, pensate adunque se lo spirito reprobo non troverà gran compenso di quella qualunque perdita nell’accreditare il regno della superstizione sulla terra; nello sviare gli uomini dall’obbedienza dovuta alla Chiesa, nel fissarli immobilmente in quegli errori rendendoli ostinati. Non sanno costoro quello che pure è dottrina di tutti i Santi, fondati sull’autorità dell’Apostolo, che è vezzo tutto proprio dello spirito infernale incedere per vie tortuose, sorprendere gli uomini sotto aspetto di bene, trasfigurarsi, in una parola, in angelo di luce per ingannarli più sicuramente? » Ed a questo stesso proposito ecco ciò che dice il P. Monsabré: « Per dieci anime candide che avrà (suo malgrado) convertito, permettendolo Iddio, egli prepara la corruzione di migliaia di anime curiose, inquiete, ostinate che nessuno ammonimento caritatevole potrà arrestare sul cammino d’investigazioni temerarie e colpevoli ». « Ma io non intendo punto, soggiungono altri, entrare in comunicazione col demonio, e disdico internamente ogni patto con lui ». Il disdire ogni patto col demonio è cosa ottima ma qui non basta. Basterebbe certamente se si trattasse di un’opera di sua natura indifferente: ma dove ragioni chiare e soprattutto per un cattolico l’autorità della Chiesa indicano che l’opera di sua natura è rea, tutte le proteste non hanno valore: non è la protesta che allora si richiede, è l’obbedienza. Che cosa infatti direste voi di uno che vi percotesse coi pugni, e vi levasse di tasca l’orologio, e tuttavia protestasse che non intende né di offendervi né di rubarvi? Non è forse vero che al danno aggiungerebbe le beffe? Similmente i Vescovi, che sono i reggitori del popolo cristiano, la Chiesa, che ne è l’universale maestra, vi dicono che è male, e voi traete innanzi e dite: io lo farò, ma con la protesta in contrario; forse la vostra protesta cangia la natura dell’atto? A questo modo potete mormorare, bestemmiare, fornicare, e dar corso a tutti i pravi desideri del cuore, e poi protestando che non avete intenzione di far peccato, tenervi per innocente. Mio Dio! chi non vede che così ragionando non si commetterebbero quasi più peccati? Ne conseguita quindi da ciò che anche allorquando viene escluso ogni accordo con lo spirito maligno è proibita l’evocazione dei morti, proibizione del resto che è resa maggiormente manifesta dalle esplicite risposte che dalla Chiesa sono state date in questi nostri ultimi tempi. Il 29 Aprile 1917 infatti una decisione della S. R. ed universale Inquisizione stabiliva che « non è lecito per mezzo del cosiddetto “medium „ o senza di esso, impiegando o no l’ipnotismo, prendere parte alle sedute spiritiche anche sotto colore di intenti onesti e pii, sia interrogando le anime o gli spiriti, sia ascoltando le risposte, sia assistendo soltanto, anche con la protesta tacita ed espressa, di non prendere parte alle comunicazioni con gli spiriti maligni ». E questa decisione corrispondeva ad un’altra che già era stata data il 30 Marzo 1898, in cui veniva egualmente proibita l’evocazione dei morti, anche nel caso di esclusione di ogni accordo collo spirito maligno. E dopo queste decisioni così chiare ed esplicite vi sarà ancora qualcuno che chiudendo gli occhi alla luce della verità non vorrà riconoscere qual male orribile non sia l’evocazione dei morti per via dello spiritismo?.. Concludiamo adunque che solo alle anime rischiarate da lumi speciali sarà permesso di porsi in relazione coi defunti e di promuovere così un miracolo, mentre i peccatori come noi si esporrebbero con inconsulta curiosità ad essere ingannati dal demonio.

* *

Prima però di chiudere questa considerazione non sarà inutile indicare, dietro la scorta dell’Abate Louvet, alcune regole, ricavate dalle opere del Card. Bona e da vari autori mistici che hanno trattato simili questioni, secondo le quali sarà facile distinguere le vere apparizioni dalle false. I. Ogni apparizione desiderata o provocata è sospetta. — II. Se il defunto comparisce sotto una forma nera, deforme, mutilata, è segno che è un cattivo spirito, specialmente poi se si presenta sotto forma di animale, eccetto la colomba e  l’agnello, dei quali il demonio non assume mai la figura. — III. Se l’apparizione si presenta con viso tetro e corrucciato e si esprime con voce tremante, strozzata, confusa, tenete per certo che avete a fare col demonio.—IV. Se l’apparizione agisce disordinatamente, e rivela cose occulte, che sarebbe prudente tacere, se insegna qualche cosa contraria alla fede, se bestemmia, se ha orrore delle cose sante, dell’acqua benedetta, del crocifisso ecc., è segno che è un demonio od un reprobo. — V. Le esortazioni alla virtù, i buoni consigli, le correzioni dirette ai peccatori, non sempre son segni di spiriti buoni, perché spesso il demonio ha l’uso di persuadere un bene minore per impedirne maggiori. — VI. Le anime del Purgatorio appariscono ordinariamente per sollecitare le nostre preghiere o raccomandarci qualche restituzione, ma, fatto questo, non tornano più se non per ringraziare; e perciò se continuano a venire e minacciano od importunano abbiatele per spiriti maligni. — VII. Tutti i teologi mistici insegnano che le apparizioni vere gettano là per là un certo sgomento, che però si cambia subito in gioia ed in unzione divina, la quale spandendosi sull’anima ne aumenta l’umiltà, la carità e il desiderio di perfezione; mentre quelle diaboliche incominciano con un sentimento di gioia e di vana compiacenza, lasciando poi inquietudini, tristezze e vanagloria, e l’anima umana, dopo di esse, si trova senza azione, come una terra arida e colpita dalla folgore, o se concepisce idee sono idee di presunzione, di disobbedienza e di orgoglio. — VIII. Che da sé sola vale tutte le altre: Sceglietevi un buon direttore, esponetegli tutto senza esagerazioni e reticenze, ed attenetevi sempre alle sue decisioni.

ESEMPIO : Apparizioni vere e false.

Che le anime del Purgatorio, cosi permettendolo Iddio, possono apparirci l’abbiamo dal seguente esempio che troviamo registrato nella vita del ven. Pinzeni, amico intimo di S. Carlo Borromeo e Arciprete d’Arona. Durante la famosa peste che mieté tante vittime nella diocesi di Milano, questo Santo Arciprete, non contento delle immense fatiche sostenute per soccorrere gl’infelici assaliti dal fiero morbo, arrivò persino a scavare da se stesso le fosse per seppellirvi i cadaveri che il timore e lo sgomento generale lasciava insepolti. Cessata quella calamità, mentre una sera passava vicino al cimitero in compagnia del governatore di Arona, fu all’improvviso colpito da una straordinaria visione, imperocché osservò una lunga fila di morti che uscendo dalle loro tombe s’incamminavano verso la Chiesa. Non credendo ai propri occhi, si rivolse al suo compagno, il quale stupefatto stava anch’egli rimirando lo stesso spettacolo, ed avuta da lui assicurazioni di quanto accadeva ed accertato che fossero quelle le vittime della peste che in tal modo volevano far loro comprendere il bisogno che avevano di suffragi, dirigendosi immantinente verso la parrocchia fece suonare le campane e, convocati i parrocchiani, per tutta la notte innalzò al cielo ferventi preghiere per quelle anime, facendo la mattina di poi celebrare in loro suffragio una messa solenne. Questo fatto, del quale furono spettatori personaggi, la cui elevatezza di spirito esclude ogni pericolo d’illusione, e che colpiti contemporaneamente dallo stesso fenomeno, non arrivando ad aggiustarvi fede, se ne accertarono l’uno con l’altro, mi pare sia più che sufficiente comprovare la verità della nostra asserzione. – Quanta ragione non abbia la Chiesa di proibire l’evocazione dei morti, perché gli spiriti, che in qualche maniera si rendono sensibili, non sono per lo più che spiriti cattivi o demoni, lo si potrebbe dimostrare con una infinità di esempi: ci limitiamo a due soli. Si era nei primordi del moderno spiritismo, e l’Arcivescovo di Rennes, volendo per suo studio personale fare delle esperienze col tavolo parlante, convocò intorno a sé, nell’episcopio, i suoi vicari generali ed i suoi canonici. Fatto silenzio, venne interrogata la tavola attorno ad un giovane missionario, martirizzato poco prima in Cina, e del quale portava addosso un pezzetto di camicia imbevuta del suo sangue. La tavola, secondo i colpi convenuti, narrò minutamente tutta la storia dei patimenti del martire con tale fedeltà e verità che il Vescovo e tutti i convenuti ne furono sommamente commossi e stupiti. Per il che il Vescovo, interrompendo la seduta, disse ad alta voce: « Per sapere tutte queste cose, è necessario che tu sia il demonio. Ebbene, se realmente tu il sei, io ti scongiuro in nome di Dio onnipotente e di Gesù Cristo crocifisso, ti obbligo e ti comando di infrangerti ai miei piedi ». La tavola all’istante spicca un grandissimo salto e, cadendo obliquamente, infrange due suoi piedi innanzi all’Arcivescovo di Rennes. – L’altro esempio ci viene riferito dal P. Franco nel suo libro sullo Spiritismo. Ad un signore romano S. F. che aveva avuta la disgrazia di perdere la moglie, venne vaghezza di evocarne lo spirito e di interrogarlo su varie questioni che gli stavano a cuore e specialmente sopra un punto di politica: l’invasione di Roma. Lo spirito rispose, ma la risposta che si ottenne non piacque all’interrogante, il quale ne sorrise. Sorridere e sentirsi schiaffeggiato fu un punto stesso. E la percossa fu di così buon peso, che lo schiaffeggiato dovette rinchiudersi per tre giorni in casa, finché si dileguassero i lividi che ne ebbe sulle guance. Il sig. F. S. , si può credere, non evocò più lo spirito della sua cara metà disincarnata.

APPENDICE

Delle apparizioni e manifestazioni delle anime dei defunti.

Troppo importante è questa questione perché, secondo la Sacra Scrittura e la Tradizione, non ne diciamo qualche cosa in appendice a questo trattenimento. — È  persuasione comune presso tutti i popoli, non tanto civili quanto selvaggi, che le anime dei trapassati possono, dopo la loro morte, ritornare in sulla terra, rivestire un’apparenza corporale, una forma terrestre o aerea, fare del rumore, emettere gemiti, parlare, domandare qualche cosa. Non v’ha nulla in ciò che ripugni alla sana ragione; nulla che sorpassi l’onnipotenza divina. « Dio può certamente, dice l’illustre Bergier, allorquando un’anima è separata dal corpo, farla ricomparire, renderle il corpo che ha lasciato, o rivestirla d’ un altro, e rimetterla in istato di fare le medesime funzioni che aveva prima della morte. Questo mezzo d’istruire gli uomini e renderli docili è uno de’ più meravigliosi che Iddio possa impiegare ». La S. Scrittura non ci lascia dubbio alcuno su tale questione: vi vediamo Mosè che con Elia appare sul Tabor, alla trasfigurazione di Gesù; il profeta Geremia che accompagnato dal santo Pontefice Onia apporta una spada d’oro a Giuda Maccabeo, assicurandolo che con quell’arma inviata da Dio egli sterminerà i nemici del popolo d’Israele. Noi leggiamo ancora nel libro dei Re che il profeta Samuele apparve, dopo la sua morte, alla pitonessa d’Endor, profetizzò e predisse a Saulle le disgrazie che ben presto sarebbero piombate su di lui. « Non è punto cosa assurda, dice S. Agostino a questo proposito, il credere che Dio abbia permesso al suo profeta di comparire dinanzi al re e di inspirargli un salutare terrore ». E nei Vangeli non si legge forse che alla morte del Salvatore « i sepolcri si aprirono e molti corpi dei santi che dormivano risuscitarono e usciti da’ sepolcri entrarono nella santa città ed apparvero a molti ? » – La tradizione non ammette pure alcun dubbio sulle apparizioni dei defunti, ed i Padri della Chiesa, quali un S. Agostino, un S. Gregorio Magno, un S. Paolino, Eusebio, Origene, Teodoreto ed altri molti non esitano a riferire ed a ritenere per vere tali apparizioni. S. Agostino, per non citare che questo grande dottore, nella sua epistola al Vescovo Evodio, parla d’un giovane che, dopo la sua morte, comparve a parecchie persone; « per il quale fatto, aggiunge egli, Dio permise che il popolo fosse confermato nell’idea che si aveva della sua santità »; ed in altro luogo narra di S. Felice martire che si fece vedere agli abitanti di Nola, assediata da’ barbari. Quanto mai esplicita ed affermativa è poi la dottrina del santo Vescovo d’Ippona a tale riguardo. Consultato dal Vescovo di Upsala che gli domandava: « Che cosa bisogna pensare di certe apparizioni di persone morte da qualche tempo, che si son viste andare e venire per le loro case, come quand’erano ancora vive? e qual caso bisogna fare di certi rumori che si sentono sovente, durante la notte in certi luoghi? poiché mi ricordo di averlo udito dire da parecchie persone, e, tra le altre, da un santo prete che fu testimonio di tali fatti straordinari »; il santo Dottore risponde sapientemente non meno che prudentemente ai dubbi del suo amico in una lunga lettera che compendia la sua dottrina su questo punto. « Non bisogna, dice egli, credere troppo facilmente alle apparizioni e manifestazioni dei morti, e d’altra parte neppure rigettarle tutte come impossibili, e senza esame, poiché è certo che Dio le ha permesse in parecchie occasioni, come voi potete vedere nelle Sacre Scritture ». In un altro suo scritto tratta più distesamente la stessa questione: « Io sono ben lungi dal credere, dice, che sia una cosa ordinaria e naturale ai morti di comparire in mezzo ai vivi e di occuparsi dei loro affari; poiché, se questa facoltà fosse loro concessa, non vi sarebbe notte cui io non dovrei vedere la madre mia, ella che durante la sua vita non si separò mai da me, e mi ha seguito per terra e per mare fino nelle contrade più remote. Io non credo dunque che questa specie di avvenimenti entri nel corso ordinario delle cose; ma sono però convinto che l’onnipotenza divina può qualche volta permetterli per ragioni piene di saggezza e che noi dobbiamo rispettare Sì, i morti possono apparire ai vivi non per loro propria potenza, ma per potere divino ». – S. Tommaso d’ Aquino è della stessa opinione di S. Agostino; e tanto più facilmente ammette questa dottrina in quanto che egli stesso fu più volte favorito di tali apparizioni straordinarie che lo misero in relazione col mondo degli spiriti. Riconosce però una differenza tra le apparizioni degli eletti e quelle delle anime del Purgatorio: i primi possono apparire ai viventi quando il desiderano, mentre le seconde non lo possono che con il permesso di Dio. – Il B. Cardinale Bellarmino in una notevole dissertazione che ha per titolo: « Se le anime de’ defunti possono uscire dalle loro sedi » stabilisce come certa ed indubbia la dottrina delle apparizioni, benché in certi casi particolari uno si possa ingannare e prendere per realtà quello che è semplice effetto d’immaginazione o di ciarlataneria. Non altrimenti la pensa il sapientissimo Cardinal Bona, il quale nel suo celebre trattato del Discernimento degli spiriti conferma e sviluppa l’insegnamento di S. Agostino, ed aggiunge: « È certo che vi esistono delle vere apparizioni, per mezzo delle quali gli uomini sono istruiti e portati alla virtù; ma ve ne esistono anche delle false, con le quali Dio permette che qualche persona rimanga ingannata… » – In appoggio di tale verità, così universalmente affermata, noi potremmo ancora aggiungervi le decisioni di una quantità di Concili particolari, le leggende dei breviari, le testimonianze della pittura, della scultura e d’ un gran numero d’apparizioni riferite dalla storia, ma ne facciamo grazia ai nostri lettori, bastando per loro quanto da noi è stato detto.

OTTAVARIO DEI MORTI (5): Sterile pietà verso i morti

OTTAVARIO 5

TRATTENIMENTO X.

Sterile pietà verso i defunti.

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Peggiore degli infedeli — Gravissimi abusi — Scandalose esteriorità — Qual vantaggio?—Condotta dei primitivi Cristiani — Dolore esagerato —Non lagrime, ma preghiere — Non imprecazioni, ma suffragi — Casi lagrimevoli — Inspirarci a vera carità cristiana. Esempio.

I.

Degne di tutta la nostra considerazione sono le parole che l’Apostolo S. Paolo rivolgeva al suo discepolo S. Timoteo nella prima lettera che gli scriveva: « Se uno non provvede ai suoi e specialmente a quelli di casa, ha rinnegato la fede ed è peggiore d’un infedele». Che queste parole, a mio giudizio, non solamente si debbono intendere pei nostri simili, che ancora sono in vita, ma eziandio per quelli che già son passati da questo mondo all’eternità. La morte ha forse distrutti i vincoli che ad essi ci legavano? Per non meritare pertanto la taccia di apostati o d’infedeli, che largisce l’Apostolo, non basta che noi non ci dimentichiamo dei nostri morti, ma egli fa ancora d’uopo che noi provvediamo ai loro bisogni, li suffraghiamo cioè nel miglior modo che ci sarà possibile per affrettare loro l’ingresso nel regno della beatitudine. Ho detto nel miglior modo: perché quanti non ve ne hanno anche tra i Cristiani, che credono di adempiere i loro obblighi verso i poveri defunti e dimostrare loro efficacemente il loro affetto, mentre invece di nessun vantaggio è quello che fanno verso di loro e, Dio non voglia, che non sia qualche volta anche ingiurioso e nocivo? È doloroso il dover dire una tal cosa; ma pur fa d’uopo il dirla perché è una verità. Quantunque invero grande sembri la divozione verso i morti e tutti protestino di praticarla, troppo numerosi sono nondimeno i Cristiani che si ingannano a questo riguardo; che la loro pietà è ben lungi d’essere così proficua che il potrebbe essere. Per mettere quindi in guardia i fedeli contro i possibili abusi che potrebbero aver luogo nel loro affetto e nella loro pietà verso i defunti, credo di non fare cosa inutile il rilevarne i principali, affinché, conosciutili, possano evitarli. – Ed uno dei principali abusi è quello di coloro che credono di aver fatto tutto il loro dovere verso i poveri morti, quando hanno sfogato i loro affetti in pompose esteriorità di musiche e di fiori, in sperticati elogi, in tombe sontuose. E disgraziatamente un tale abuso troppo dilaga ai giorni nostri e ci colpisce troppo di frequente gli occhi, specialmente nelle vie delle città e fra le classi elevate, perché noi non si abbia a deplorarlo con parole eloquenti. Non è forse vero che certi Cattolici odierni profondano in apparati e monumenti funebri le somme che basterebbero forse a salvare chissà quante anime dal Purgatorio, se fossero impiegate in usi di carità? « E non vediamo noi, esclama un moderno scrittore, sfoggiare una sfacciata vanità perfino sugli altari più carichi dei segni della nobiltà del defunto, che non degli emblemi augusti del Cristianesimo? Non vediamo noi erigersi per un cadavere tali funebri monumenti più magnifici che non i santuari ed i tabernacoli ove riposa il corpo sacrosanto di Gesù Cristo? » Oh! non sanno i moderni mondani, che tutte queste cose, chiamate da S. Agostino, sollazzi dei viventi, anziché soccorsi ai defunti, questi stessi defunti o le ignorano o non le curano, se sono sterili di suffragio, le abborrano, se sono menzogne? Che cosa vale onorare i nomi e i corpi dei morti, dove essi non sono più, e non soccorrerli dove vivono in bisogno? Che gusto, per esempio, potrebbe dare ad un’anima del Purgatorio quella abbondanza di ghirlande di fiori con cui vengono carichi e il carro che reca il corpo alla sua ultima dimora e il sepolcro che dovrà ricevere le sue mortali spoglie? Qual sollievo potrebbe arrecarle il suono rumoroso dei musicali istrumenti, oppure l’essere celebrata in terra, a giudizio degli uomini, per virtù che forse non ebbe; ed intanto essere lasciata in abbandono, mentre patisce per giusto giudizio di Dio la pena dei reati che commise forse in quelle stesse azioni che la bilancia menzognera degli uomini esalta? Non è questa un’ironia, una terribile ironia, anzi una vera crudeltà?… – Qual burla più atroce potrebbe mai farsi ad un disgraziato mendico, morente per fame, che dispiegargli dinanzi gli occhi i più vaghi fiori, accarezzargli le orecchie dei più armoniosi concerti e delle più eloquenti concioni, ed intanto ostinatamente rifiutargli quel tozzo di pane che solo potrebbe sottrarlo ad una vera morte? E non è così che si agisce in migliaia di casi verso le povere anime del Purgatorio, per le quali il mondo con tutte le sue pompe, coi suoi titoli ed onori, non solo è vanità, cioè apparenza, ma ha fin perduta la figura e l’apparenza, è un bel niente? Che servono ad esse tutte queste esteriorità, se la preghiera e il Sangue di Gesù Cristo per mezzo del Sacrificio degli altari non viene a diminuire o far cessare i dolori che loro cagionano le fiamme di quel carcere tenebroso? Né punto, né poco: uno sfoggio di vanità; saranno anche manifestazioni di dolce mestizia, di grato pensiero, di tenero affetto, ma certamente nulla giovano al povero morto. – Che sfoghino i loro affetti nelle inezie gli infedeli che non hanno speranza di vita futura, gli eretici che negano il valore dei suffragi ai defunti, lo si capisce facilmente; ma che i Cattolici si contentino di esprimere i loro con musiche, con corone di fiori, con discorsi, con iscrizioni sopra marmi boriosi, e spendano talvolta grossa moneta per le pompe esteriori, e poi poco o nulla pensino al suffragio dei loro defunti, questo sì che è inconcepibile! Già fin dai tempi suoi S. Gerolamo condannava aspramente una tale pietà sterile ed inutile pei morti. Scrivendo ad un certo Cristiano, chiamato Pammachio, che aveva avuto la disgrazia di perdere una moglie diletta, così diceva: « Un altro che voi non siate, spanderebbe sulla tomba d’una sposa adorata viole e rose in quantità, l’adornerebbe con bianchi gigli, la coprirebbe dei fiori più belli, ma il nostro caro Pammachio tributa cose molto più sublimi a quelle ceneri sacre, ed innaffia quelle ossa venerande col balsamo che scorre dalle opere buone. Sono dessi i profumi che testimoniano il suo amore a quelle ceneri dilette, poiché egli sa che sta scritto: In quella guisa che l’acqua estingue il fuoco, così le buone opere cancellano il peccato ». Non altrimenti parlava S. Ambrogio, e nella sua orazione funebre in morte di Valentiniano esclamava: « Non si adorni il suo sepolcro di fiori, ma lo spirito ne sia imbalsamato coll’odore di Cristo ». Gli stessi abusi deplorava pure S. Agostino, il quale non esitava a proclamare che essi non sono altro che segni di vanità in cui i viventi cercano di più la propria soddisfazione che il sollievo dei defunti. « Le pompe magnifiche di funerali, dice questo santo Padre, le grandi assemblee, le ricche architetture dei monumenti servono maggiormente a consolazione dei viventi, che non al riposo dei morti; ma oh! qual maggior sollievo non ricevono essi dalle preghiere della Chiesa, dal Santo Sacrificio, dalle elemosine fatte a loro intenzione. Saranno questi atti di pietà che impegneranno Dio a trattarli con un rigore molto minore di quello che i loro peccati meriterebbero ». – Ciò considerando un moderno scrittore, il Moroni, diceva: « È cosa ben strana che la vanità cerchi di soddisfarsi, in ciò che vi ha di più umiliante per la natura umana. Nella cura che si prende dei morti, tutto deve tendere a ravvivare la nostra speranza, ad inspirarci serie considerazioni sulla necessità di praticare la virtù, a farci conoscere la nostra miseria e desiderare l’eternità: tutto deve per conseguenza annunziare la gravità, la modestia e la semplicità che convengono allo spirito del Cristianesimo; il fare altrimenti è un opporsi alla propria Religione ed anche al buon senso. Nei funerali dei primitivi Cristiani, che commovevano sì fattamente i pagani, e che sembravano sì rispettabili a Giuliano l’Apostata, mostravasi dolore per la perdita dei fratelli; ma questo dolore era temperato da una tenera devozione, e si esprimeva con raccolti e non chiassosi riti esteriori la fede che si aveva nel Salvatore e la speranza di partecipare della beata immortalità. Pertanto Giuliano, altamente meravigliato della modestia e decenza dei funerali dei Cristiani, e della proporzionata e zelante cura che si prendevano in seppellirli, fece sapere al principale sacerdote dei pagani, con una sua lettera, ch’egli desiderava che si osservassero tre cose, le quali, secondo lui, avevano soprattutto aiutato lo stabilimento del Cristianesimo, cui egli con enorme bestemmia indicava sotto il nome di ateismo: cioè la carità verso gli stranieri, la cura di seppellire i morti, e la gravità della condotta. La cura dunque che i Cristiani dei primi tempi prendevano dei morti, nulla aveva di quella pompa sfacciata usata fra i pagani, ma consisteva in una gravità religiosa e modesta, la quale annunziava che i Cristiani erano vivamente persuasi della risurrezione futura; che essi riguardavano la spoglia mortale dei loro fratelli, come alcunché di prezioso, e che non dubitavano che i corpi, consegnati alla terra, non risuscitassero un dì nella gloria, per divenire l’ornamento della celeste Gerusalemme ». – Or perché la condotta dei primitivi Cristiani, a riguardo dei loro morti, non sarà pure la nostra? Perché non seguiremo gli insegnamenti della Chiesa? Questa buona Madre che in tutta la vita c’insegna a disprezzare le pompe ed onoranze terrene, a macerare la carne, a farla in tutto servire agli interessi dell’anima, prende pure dopo morte gran cura dei corpi dei fedeli e della loro memoria, e quelli accompagna con riti solenni alle tombe benedette da lei e custodite con pietosissima gelosia, a questa ricorda e raccomanda sovente ai fedeli. Tutto ciò fa per la speranza che quelle membra, espiate già dai Sacramenti divini, rivivano immortali nella risurrezione beata con Cristo. Ma la sua principale mira è poi sempre al suffragio delle anime, e quindi noi vediamo che tutti i suoi riti, tutte le sue cerimonie, tutte le sue preghiere sono in modo speciale dirette a chiedere la misericordia di Dio sull’anima del trapassato. Così devono fare i congiunti cristiani: si rendano bensì al defunto quegli onori esteriori che il suo grado e le circostanze richiedono, e che la Chiesa, ripeto, punto condanna, non impedendo infatti l’abuso che se ne fa che dessi siano santi doveri e nella loro origine e nella intenzione della Chiesa che li ha istituiti: ma si procuri però, secondo il consiglio del Crisostomo, che il defunto molto più sia aiutato con le preghiere e con le elemosine. E si ricordino i viventi che una Comunione ben fatta in suffragio dell’anima sua, gli dirà molto meglio la loro riconoscenza che non tutti i più superbi mausolei; e che vi ha una specie d’iniquità od anche d’infedeltà a nulla risparmiare, quando si tratta del seppellimento del corpo, il quale non è che putridume nella sua tomba, mentre poi si trascura di soccorrere un’anima, che è la sposa di Gesù Cristo, l’erede del Cielo.

II.

E sterile affetto, vana divozione verso i loro morti io chiamo pure quella di coloro i quali, nel momento della perdita dei loro cari, ed anche in seguito, escono in grandi lamentele, alzano grida al Cielo, versano lagrime senza fine sulle loro spoglie, prolungano un lutto esagerato, moltiplicano i loro pellegrinaggi sulle loro tombe, a scapito il più delle volte dei loro doveri essenziali; e tutti compresi del loro dolore, non pensano che poco o nulla a strapparli con le loro preghiere e con le opere soddisfattorie alle fiamme che forse terribilmente le cruciano in Purgatorio. Mio Dio! e si può dire che una tale condotta sia degna di un’anima cristiana, o non sia piuttosto un gravissimo abuso, che disgraziatamente parmi essere diventato un’abitudine presso di noi ? Ma che dico abitudine? quanto meglio si dovrebbe dire per nostra confusione regola di convenienza, dovere, poiché oggidì coloro che si vantano di vivere secondo le leggi del mondo, a forza di piangere i loro morti, arrivano a tal segno di rendersi come dispensati di pregare per loro! Ed è sì vero che se nei giorni dei funerali del marito si vede per caso la vedova avvicinarsi agli altari e soddisfare i doveri essenziali della Religione, non mancheranno coloro che la accuseranno di non avere tenerezza, di non aver cuore! Forse mentre persone straniere, per un sentimento officioso, accompagneranno la salma e raccomanderanno l’anima a Dio, ella, rinchiusa in casa farà l’inconsolabile, la disperata. Zenone, Vescovo di Verona, non poté sopportare che una donna interrompesse il santo Sacrifizio con singhiozzi che egli trattò di profani; ma non è forse meno indegno di interdirsi, secondo quello che si pratica ai giorni nostri, i divini uffizi e di dispensarsi dalle preghiere solenni della Chiesa, per pagare invece ai morti un tributo di lagrime che essi punto ci domandano, e che sarà loro così poco utile? Poiché, in fin dei conti, di qual soccorso potrà mai essere ad un povero morto un dolore così eccessivo? Tutte queste testimonianze d’un affetto esagerato e senza misura saranno desse capaci di mitigare le sue pene, se mai si trova in Purgatorio? e sarà mai possibile che questo fuoco purificatore, di cui sentonsi le terribili fiammate, potrà estinguersi con le lagrime che colano dagli occhi? Ma pur troppo io so che ben poco valgono in queste occasioni gli argomenti che ci presenta la fede per dimostrare la irragionevolezza di una tale condotta. E come so anche che col dolore difficile cosa è ragionare, spero di meglio raggiungere lo scopo col citare un fatto narratoci da Tommaso Catimprato. Narra questo autore che avendo sua nonna perduto per una disgrazia improvvisa un suo figliuolo in cui aveva riposte tutte le sue speranze, ne era rimasta inconsolabile. Giorno e notte versava torrenti sì copiosi di lagrime, che correva pericolo di perdere la vista. Unicamente immersa nel suo dolore, dimenticò interamente di occuparsi dell’anima del figlio, non solo non facendo preghiere in suo suffragio, ma neppure curandosi che venisse celebrato il santo sacrificio a quella intenzione. Intanto l’anima del giovinetto gemeva tra le fiamme del Purgatorio, donde pregava Dio di fare conoscere alla madre sua il male che gli cagionava con il lasciarsi trasportare ad un dolore così esagerato. Or avvenne che un giorno, mentre la desolata donna si trovava al colmo della sua angoscia, si trovò tutto ad un tratto come rapita in estasi. Le sembrò di vedere in mezzo ad una strada una lunga processione di giovanetti che s’incamminavano allegramente alla volta d’ una magnifica città. Come ella cercava avidamente con gli occhi se per caso non vi vedesse eziandio il suo diletto, lo scoprì infatti alla coda di tutti gli altri, che si trascinava penosamente sotto il peso dei suoi abiti grondanti acqua. Commossa a tal vista, a lui rivolta gridò: Ma perché mai, unico oggetto dei miei dolori, rimani tu così indietro da quel corteo brillante che ti precede? Io ti vorrei alla testa dei tuoi compagni! » Ed il giovanetto a lei: « E non vedete, o madre, che io sono impedito nel procedere nel cammino dalle lagrime sterili che voi versate per me? Cercate una buona volta di non più abbandonarvi ad un cieco ed infecondo dolore; e se voi veramente mi amate, e volete efficacemente mettere un termine al mio soffrire, applicatemi i meriti delle vostre preghiere, delle vostre elemosine e delle messe dette in mio suffragio. Ecco come voi mi proverete il vostro amore materno! » La visione scomparve, ma aveva prodotto il suo effetto: quella madre sconsolata comprese meglio da quel momento qual era il suo dovere, e s’affrettò a compirlo con una sollecitudine veramente cristiana. Quante persone non imitano la condotta di questa madre nella perdita dei loro cari, privandoli intanto di quei suffragi che loro recherebbero tanto sollievo? Ond’è che S. Ambrogio, scrivendo a Fiorentino per consolarlo della morte di sua sorella, gli diceva: « Non bisogna piangerla, ma pregare Dio per lei: vai molto meglio raccomandare l’anima sua a Dio, e fare celebrare per essa il santo Sacrificio, che affliggerla con lagrime inutili e sterili ». « Non voglio con ciò dire che non abbiate a piangere sulla perdita dei vòstri cari, dirò ancor io col P. Laurent, gesuita, che anzi avete pur ragione di addolorarvi della loro perdita: e quindi hai ben ragione, o giovane sposa, di piangere la morte immatura del tuo giovane consorte; hai ragione, o madre desolata, di piangere la perdita di quell’unico figlio, che sperasti dovesse essere un giorno il conforto della tua vecchiaia; hai ragione, o povero orfanello, di piangere la morte della tua buona madre: ma il vostro dolore, o poveri afflitti, sia dignitoso e temprato dalla fede, dalla speranza e dalla rassegnazione cristiana. Quanto ai vostri morti, (diceva l’Apostolo scrivendo ai Cristiani di Tessalonica, e io dico a voi) non voglio che ve ne contristiate, come fanno gl’infedeli, che non sono confortati dalla speranza cristiana: ut non contristeminì sicut cæteri qui spem non habent. Per un infelice che ha perduta la fede, la morte è una vita spenta totalmente e per sempre, è una separazione totale ed eterna dalla persona che morì. Per esso quell’esistenza fu un’ombra che passò, un lume che splendette, e poi si spense per sempre. Come stupirsi quindi che costui si diporti non altrimenti che gli amici di Giobbe dei quali si legge che molto piansero e lamentarono i suoi mali, ma non si legge che pensasse alcun di loro a torlo dal letamaio, e medicarne le piaghe, tanto che il pazientissimo Giobbe finì per dir loro che erano consolatori onerosi? Noi invece sappiamo che la morte non è che uno scioglimento precario del composto umano; e che i nostri cari, con la miglior parte di sé, sopravvivono ai destini delle tombe, e però, se morirono nel bacio del Signore, noi li rivedremo e li riabbracceremo, vestiti di gloria immortale in Paradiso. Adunque sì, piangete pure: il pianto è un sollievo a un cuore oppresso dal cordoglio, è anche un bisogno. D’altronde il pianto non toglie la rassegnazione cristiana, come già è stato dimostrato ». Ma soprattutto si eviti, aggiungo io, di fare di questo dolore una passione: passione che sovente si spinge fino all’indiscrezione passione con cui una vedova desolata vuole qualche volta distinguersi e farsene un vanto per passare come esempio e modello; passione che ci si sforza di sostenere ad ogni costo e che per nulla si vuole mitigare e che perciò forse sa più di affettazione che di verità. Però se amate seriamente i vostri morti, non vi contentate di piangere: aiutateli coi vostri suffragi.

III.

Ma v’ha di peggio ancora: che cosa non dovrassi infatti dire, di coloro che, non contenti di chiudersi in un dolore muto o di piangere inconsolabilmente sulla perdita dei loro cari, escono per di più in accenti ingiuriosi ed imprecazioni contro Dio che loro ha tolto l’oggetto del loro amore, quella persona cioè che’ loro sembrava indispensabile alla loro vita, non risparmiando nel loro cieco dolore neppure i medici, sui quali gettano la colpa della morte dei loro cari, quasi non abbiano saputo conoscere il morbo, o conosciutolo non abbiano saputo curarlo? Quanto non siano costoro da compiangersi non v’ha chi noi veda: e ben loro stanno le parole che loro indirizza il sullodato gesuita: « Ah! Iddio vi perdoni! ma voi non avete ragione di così prendercela con Dio! No, Egli non vi ha fatta alcuna ingiustizia, alcun torto, perché esso è il padrone assoluto delle sue creature: quando vuole ci dà la vita, e quando vuole ce la può ritogliere; Egli ha sopra le sue creature quel diritto che avete voi di fare delle cose vostre quel che volete. Lo so: la morte qualche volta è la rovina completa, economica e morale di una famiglia, come ad esempio, in alcuni casi la morte del padre ovvero della madre. Solo sa Iddio che cosa sarà di quelle figlie ora che non hanno più la madre che le guardi! Sa Iddio che cosa sarà di quella povera vedovella e della numerosa sua prole, ora che è morto il consorte, il capo di famiglia! Sono misteri, profondi, formidabili! ma conviene adorarli, non investigarli. No, non abbiamo diritto di dire al Signore: perché avete fatto così? Noi vorremmo portar giudizio sopra tutto ciò che accade intorno a noi, e che non intendiamo: ma ciò non è secondo ragione, perché Iddio è troppo alto, e noi non possiamo arrivare con la nostra corta vista a leggere le ragioni del suo operare: noi non abbiamo mezzo di collocarci a un punto giusto di vista, che abbracci l’intero disegno della Provvidenza, onde formare un savio giudizio degli avvenimenti. Havvi bensì talora qualche morte di congiunti o di altri, la quale colpisce troppo giustamente di un estremo cordoglio, e altresì di un terribile spavento: ed è la morte impenitente di un congiunto o di un amico, che morendo respinse dal suo letto il ministro di Dio, e rifiutò i santi sacramenti, lasciando così un forte timore sopra i suoi destini eterni. Oh sì, cotesti sono casi da piangere a lagrime di sangue! Tuttavia anche in cotesti casi, la Dio mercé assai rari, non abbiamo a perderci di coraggio, mentre non possiamo mai essere certi della perdizione eterna di alcuno, ignorando se in quegli estremi, in cui il moribondo non era più in grado di manifestare i suoi sentimenti, Iddio nella infinita sua misericordia non abbia illuminata la mente di quell’infelice, e aiutatolo a morire sinceramente contrito: e però anche in cotesti luttuosi casi convien sperare contro ogni speranza e pregare pel defunto. Si, pregare: che la preghiera gioverà all’anima dei defunti e dimostrerà l’amore che noi loro portavamo infinitamente di più che non tutte le imprecazioni, i lagni, gli accenti ingiuriosi che ci può strappare dalla bocca il cordoglio. – Non ha guari che ad una nobile signora protestante residente a Roma venne a mancare il consorte. In tale luttuoso frangente la buona signora si mostrava desolatissima e ad alcune signore romane, che eransi recate per consolarla, disse che invidiava la fede cattolica, che ci dà fiducia di poter giovare ai nostri cari anche dopo morte, mentre la sua setta le negava tale conforto. Ma oh! che gioverebbe aver la sorte di essere Cattolici, ove operassimo coi nostri morti non altrimenti dei Protestanti? Al dolore dunque del nostro cuore per la perdita dei nostri cari, corrisponda l’impegno in suffragare le loro anime, mostrandoci con loro larghi in opere non solo di vanità e di mera apparenza, ma di vero sollievo, che in tal modo dimostreremo quanto grande e veritiero non era il nostro amore verso di loro ».

* *

Vogliamo adunque che vera e non falsa, epperciò salutare e fruttuosa, sia la nostra pietà verso i morti? Oh! Evitiamo gli abusi di cui abbiamo superiormente parlato, e procuriamo che dessa abbia il suo fondamento in una carità veramente cristiana e sincera. E sarà cristiana quando agirà per motivi soprannaturali e non già per vani rispetti umani e tanto meno per vanità o per un esagerato amore di ostentazione. Lungi da noi tutto quello che potrebbe anche essere manifestazione eccessiva di dolce mestizia, di grato pensiero, di tenero affetto, ma che certamente nulla gioverà al povero morto. Sarà sincera quando non si fermerà al corpo, che non è che un pugno di polvere e di cenere, ma discenderà fino all’anima, questa parte immortale del nostro essere, creata ad immagine di Dio e riscattata dal sangue preziosissimo di Dio, e la seguirà fino al luogo della sua espiazione. Ricordiamo perciò quello che fecero Marta e Maria alla morte del loro fratello Lazzaro: esse andarono a piangere ai piedi di Gesù e ne furono consolate. Così pur noi andiamo a sfogare il nostro dolore ai piedi di Gesù, presente nell’adorabile Sacramento dell’altare; Gesù ci darà forza e vigore, e alla sua divina presenza il nostro dolore naturale si trasformerà, si santificherà; da amaro diverrà dolce, da violento diverrà tranquillo, da ribelle diverrà cristiano, rassegnato, meritorio. Coraggio, non è perduto ciò che cristianamente si soffre. Ogni lagrima, che ci strappa dagli occhi la memoria di quei cari defunti, il nostro buon Angelo custode la raccoglierà per ingemmarne un giorno la nostra corona di gloria che ci è apprestata in Cielo.

ESEMPIO: La festa dei fiori.

Non si alzerà mai abbastanza la voce contro quello sfoggio sfacciato di corone e ghirlande di fiori che non solo nelle grandi città, ma disgraziatamente anche nelle campagne va ogni dì, più prendendo piede in occasione di funebri trasporti. Ei si direbbe che tutta la solennità dei funerali debba unicamente consistere nel più gran numero di tali corone e ghirlande, tanta è la premura con cui vengono moltiplicate sulla bara del defunto e sui carri che la seguono. Così credono in tale maniera di onorare i poveri trapassati e di mostrare che si ha a cuore il loro culto ed il loro ricordo. Mio Dio! è egli mai possibile che Cristiani battezzati arrivino a ragionare di tal fatta? Più che non onore e culto pei poveri defunti tale abuso di fiori, in tali funebri circostanze, dire piuttosto vuole sterile pietà, derisione e scherno; e quindi non soltanto da biasimarsi, ma eziandio da condannarsi. Così un moderno autore il quale applica a tale abuso quello che egli dice della festa dei fiori, che si è stabilito negli Stati Uniti d’America dopo la guerra di Secessione « Ogni anno, il 30 Maggio, nel momento in cui i fiori sono nel loro più grande splendore,—circostanza che ha fatto dare a questa funebre festa il nome di festa dei fiori—la società americana va a deporre corone di fiori sulla tomba dei soldati che dai due campi sono caduti sotto le bombe e le mitraglie. Ricordo prezioso senza dubbio, se muovesse i parenti e gli amici dei defunti ad interporsi con le loro preghiere, elemosine, buone opere, offerta del santo Sacrificio tra i morti e la divina giustizia. Ma ahimè! Fra i visitatori delle tombe dei soldati morti sul campo di battaglia gli uni appartengono al Protestantesimo, che nega il valore ed il merito delle buone opere fatte a prò dei defunti, religione tutta rosa e miele pei viventi, tutto ferro e senza viscere pei defunti; gli altri sono Cattolici, si, e noi vorremo sperare che essi almeno accompagnassero l’offerta delle corone con l’offerta più preziosa della preghiera. Ma chi ce lo dice? Questo dovere di carità cristiana non è desso forse più che mai trascurato anche in questa circostanza? Che serve all’anima dei soldati il collocare una corona di fiori sulla loro tomba, se la rugiada benefica della preghiera o il sangue .di Gesù Cristo, offerto nel santo Sacrificio, non vengono a diminuire o far cessare i dolori che loro cagiona il fuoco del Purgatorio? » Scottanti verità che dovrebbero essere meditate da tanti Cristiani dei nostri giorni: oh! quanto non ne guadagnerebbero i poveri morti, che sarebbero accompagnati al Cimitero non incoronati di fiori, ma ricordati con preghiere e suffragi!

 

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (10): il modello di carità.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (10)

[A. Carmignola: il Sacro Cuore di Gesù; S.E.I. Ed. Torino, 1930-imprim. ]

DISCORSO X

Il Sacro Cuore di Gesù modello di carità.

L’egoismo, l’amore disordinato dell’io, l’amore di sé fino alla noncuranza e all’odio degli altri, ecco in fondo in fondo la causa di tutte le sciagure, di tutte le miserie e di tutti i disordini, che vi sono nel mondo. Eppure ecco altresì la piaga, che travaglia maggiormente il cuor dell’uomo. Come sarebbe bello, che gli uomini riconoscendosi membri di una stessa famiglia, di cui Iddio è Padre, si amassero davvero come buoni fratelli, ed avessero comuni le gioie, divisi assieme i dolori, eguale il conforto delle vagheggiate speranze! Come sarebbe bello, che gli uomini, senza distinzione di famiglia, di casta, di patria, si stendessero tutti amichevolmente la mano per aiutarsi vicendevolmente nei loro bisogni, per soccorrersi nelle loro infermità, per confortarsi nelle loro tribolazioni! Come sarebbe bello che i dotti ammaestrassero con amore gli ignoranti, che i sani prestassero i loro servizi agli ammalati, che i ricchi dessero il superfluo ai poveri, che i lieti confortassero gli afflitti, che i giovani ed i robusti sostenessero i vecchi, che gli orfani trovassero sempre dei padri e delle madri; che tutti insomma per i loro sentimenti, per le loro parole, per le loro opere formassero un cuor solo ed un’anima sola! Come sarebbe bello! O quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum ! (Salm. CXXXII,, 1) Ma invece? Ohimè! Anche ai dì nostri tutta la filantropia, di cui si mena gran rumore e si fa gran pompa, non si riduce ad altro che ad ingannatrici parvenze, sotto le quali malamente si cela l’indifferenza, anzi la freddezza e persino l’odio. Vi hanno ai dì nostri di coloro, che rifuggono dal guardare l’altrui miseria, perché non vogliono essere turbati nella loro felicità. Vi hanno di coloro, che, peggio ancora, guardano l’altrui miseria e vi ridono sopra, perché è con l’aver ridotti gli altri alla miseria, che essi si sono fatti ricchi. Vi hanno infine di quelli, che si invidiano, si odiano, si insultano, si calunniano, si perseguitano, si tradiscono, si rovinano e si beano nella gioia della vendetta. È il trionfo, terribile trionfo dell’egoismo. E noi, o miei cari, vogliamo anche noi appartenere al numero di questi sciagurati, che in una vita senza amore si anticipano le torture, cui saranno condannati eternamente? No, senza dubbio. È perciò adunque, per raffermare ed accrescere in noi la regina delle virtù cristiane, la carità, che anche oggi ci faremo a contemplare il nostro divino modello e ad ascoltare il nostro divino maestro, Gesù Cristo. Oh se Egli per mezzo del suo Cuore Sacratissimo ci ha dato l’esempio della più eroica mansuetudine, della più profonda umiltà, e della purità più incantevole, ci ha pur dato quello della carità più ardente verso degli uomini, tanto che mostrandoci questo Cuore egli stesso ne dice: Ecco quel Cuore, che tanto ha amato gli uomini! Nello studio adunque e nella imitazione delle virtù speciali del Sacratissimo Cuore di Gesù ne lasceremmo da parte una integrale, se non rivolgessimo la nostra attenzione sulla carità per il prossimo. Consideriamo adunque: come col suo esempio e con la sua dottrina il Sacro Cuore di Gesù sia venuto a portare la carità nel mondo.

I. — Prima che Gesù Cristo venisse al mondo, la carità, o miei cari, era virtù sconosciuta. Anche presso gli Ebrei, che pure costituivano allora il popolo di Dio, ed ai quali Iddio l’aveva più volte raccomandata per mezzo della sua legge e dei profeti, erano tuttavia penetrate ed avevano fatto presa tali massime, che della carità erano l’assoluta negazione. Immaginarsi adunque dei pagani! Non è, che gli antichi non avessero degli amori. Anche avendo voluto non averne, non l’avrebbero potuto; perché non ostante il naturale egoismo che domina un uomo, è quasi impossibile, che non esca qualche poco da se medesimo per amare degli altri, o dirò meglio, appunto per appagare il suo egoismo l’uomo egoista ha bisogno di amare altri per esserne riamato. Ma allora l’amore, voi lo vedete, non è altro che una permuta di convenzione, un negozio d’interesse, un’arma di conquista all’egoismo istesso, e per conseguenza l’odio a tutto ciò, che non lo soddisfa. Si esalti pure presso i Greci e presso i Romani l’amor della famiglia, l’amor della casta, l’amor della patria! Ciò alla fin fine non era altro che inclinazione di natura, anzi prepotente egoismo passato dall’individuo nella famiglia, nella casta, nella patria. Così pure la tigre ama i suoi nati, odiando tutto il resto; così i lupi si affratellano coi lupi per compiere le loro rapine; e così ancora i leoni si aggruppano insieme per essere il terrore dei deserti. Difatti, e Greci e Romani, come chiamavano gli stranieri? Col nome di barbari. E così li chiamavano, perché cordialmente li odiavano. Ci devo essere io sapienza greca, ci devo essere io potenza romana, e non altro: ecco l’egoismo della patria. E i padroni, i ricchi patrizi come trattavano i loro servi? Siccome bestie. Come tali li avevano comperati al mercato, e come tali li usufruivano. Eccoli questi uomini, sulla cui fronte è scomparsa la traccia della dignità, con la palla di ferro al piede lavorare da mane a sera nelle campagne, in fondo alle miniere, e non altrimenti ripagati che di scarso pane e d’una gran quantità di scudisciate, e quando più non valgono alla fatica, eccoli abbandonati a morir di fame, se pure hanno avuto il tempo di arrivare a questa morte. Perché al padrone era pienamente lecito disfarsi di uno schiavo o comandargli di piantarsi un pugnale nel cuore per il solo diletto di vederselo in compagnia degli amici agonizzante dinanzi, al fine di una lauta cena, o farlo gettare vivo in fondo ad una peschiera per ingrassarne le sue murene. Ci siamo noi, dicevano i signori, e contiamo noi; ma voi, schiavi, che cosa siete? che cosa contate? Nulla. Ecco l’egoismo della casta. Tant’è: gli stessi filosofi non arrivavano a comprendere che gli schiavi essendo uomini al par degli altri, avevano anch’essi un’anima ragionevole ed erano pure essi degni di rispetto. Platone li chiamava esseri immondi; Aristotele li definiva una cosa, res; e Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, non sapeva ravvisare in essi l’umanità. Come si trattavano i bambini, che nascevano deformi, od erano riputati soverchi nella famiglia? Si gettavano di casa in pasto ai cani, od in fondo alle cloache. Quale riguardo si aveva per i vecchi? Lo stesso Catone asseriva, essere conveniente torli di mezzo, non gravare le famiglie di tanti esseri inutili. E i poveri? Oh! i poveri eran gente, il cui contatto, al dire di Seneca, evitavasi con massima cura, e che, secondo Quintiliano, dovevansi rigettare con disprezzo. E l’imperatore Massimiano Galerio ordinava senz’altro, fossero gettati in mare, perché la loro presenza non doveva recar molestia a nessuno. Siamo noi, che dobbiamo goderci la vita, diceva un capo di famiglia a nome dei pochi membri, che la componevano, e degli altri che deve importarci? Ecco l’egoismo della famiglia. No, o miei cari, l’amore per l’umanità, prima della venuta di Gesù Cristo, non esisteva. Per quanto grande fosse la potenza dei soldati romani nell’assoggettare intere nazioni, per quanto splendida la magnificenza dei Cesari nel fabbricare palagi, meraviglie delle generazioni future, per quanto efficace la eloquenza degli oratori e profonda la sapienza dei filosofi, pure la carità non c’era, né sarebbe stato possibile un discorso sulla medesima. Del resto qual meraviglia? I Gentili non avevano mai neppure intraveduto che tutti gli uomini sono fratelli tra di loro, perché figli di uno stesso Padre; gli Ebrei, fattisi così alteri della loro nazionalità, lo avevano dimenticato. Ma ecco che una nuova èra incomincia, e la carità prende a regnar da sovrana in mezzo al mondo. Udite S. Paolo, che grida trionfante: Non vi è più Giudeo, né Greco, non v’ha più servi, né liberi, non v’ha più maschio, né femmina: no, non v’è più distinzione di sorta, ma tutti, quanti siete dispersi ai quattro venti, tutti siete un solo in Gesù Cristo: unum estis in Christo Iesu! E d in vero guardate nella stessa Roma: quelle matrone, che Tacito descriveva così molli e così sensuali, quelle fanciulle così fiere e così delicate sono discese dal loro orgoglio per curvarsi insino a terra e raccogliere nel loro grembo materno quei poveri bimbi abbandonati, per correre affannose nelle agapi fraterne a servire di loro mano i poveri ed i vecchi, per aggirarsi instancabili nelle povere case a visitare e confortare gli infermi. Mirate: quei patrizi, un giorno così fastosi e prepotenti, ora, spezzate le catene dei loro schiavi, si accomunano con gli stessi dapprima nelle catacombe e poi nelle basiliche, si mettono proprio accanto a loro, ne hanno cura come di proprii figli e non richiedono da loro più altro, che un conveniente ed amorevole servizio. Mirate: quegli uomini di diverse nazioni, di diverso linguaggio, di diverso colore, tutti si stringono la mano dicendosi coi più caldi affetti dell’anima: Siamo fratelli, siamo fratelli! E ciò è poco. Perché che cosa è avvenuto in seguito? Oh se apriamo alquanto quel gran libro, che contiene la storia della carità, avremo da strabiliare, che in ogni secolo investigatrice sollecita della miseria speciale ad esso, la carità suscitò in ogni secolo delle anime eroiche, che vi posero riparo. Chi sono quei due uomini, che attraversano i mari per penetrare in terre inospitali? S. Giovanni de Mata e S. Pietro Nolasco: niente li trattiene, non disagi, non pericoli; sfidano l’infuriare del mare e le ire degli infedeli; ma essi spinti dalla carità vogliono redimere gli schiavi. E chi è quell’altro, che si aggira per gli stanzoni degli ospedali fermandosi di tanto in tanto presso i poveri infermi, che gemono fra i più cocenti dolori ed agonizzano in fin di vita, asterge loro le lagrime e loro porge i più soavi conforti? È S. Camillo de Lellis. E quest’altro, che consacra tutta la sua vita al servizio dei pazzi, esposto a divenir pazzo egli stesso, se già non fosse preso dalla pazzia della carità, quest’altro chi è? È S. Giovanni di Dio. E quest’altro ancora, che lassù tra i ghiacciai eterni delle Alpi sacrifica la sua vita, movendo in cerca del povero viaggiatore, che smarrita la via corre pericolo di restar sepolto nella neve, chi è? È S. Bernardo di Mentone. E questi altri sono S. Gaetano Tiene, che per amor del prossimo, per sollevarlo dalle sue infermità, si sacrifica egli pure negli ospedali; S. Carlo Borromeo, il Cardinale Federico, S. Luigi Gonzaga, che per amore del prossimo, per scamparlo dalla strage di rio malore, espongono e danno con generosità la loro vita. S. Vincenzo de’ Paoli, S. Francesco di Sales, il Beato Sebastiano Valfrè, che per amore del prossimo, per soccorrerlo nei più gravi bisogni, si fanno tutto a tutti: S. Gerolamo Miani, S. Giuseppe Calasanzio, S. Antonio Zaccaria, il Beato Cottolengo, il Ven. Giovanni Bosco, che per amore del prossimo, per liberarlo dai più gravi pericoli, consacrano tutta la loro attività e tutto il loro zelo; sono generosi sacerdoti e suore ardimentose, che, seguendo la vestigia di questi gran santi, perpetuano sotto tutte le forme la carità cristiana negli asili, negli ospizi, negli ospedali, nei lebbrosari, sul campo di battaglia; sì, tutti costoro, e cento, e mille, e centomila altri sono gli uomini creati dalla carità, i prodigi della quale operantisi da diciannove secoli, sono mille volte più grandi, che non siano stati i prodigi di conquista operati da un Cesare o da un Alessandro Magno. – Ma intanto io chiedo: Come mai la carità questa regina della virtù, si è fatta regina nel mondo? Come sono nati questi appassionati per l’umanità? Chi ne li ha inebriati per tal modo? Qual vino hanno essi bevuto? La prima volta che essi apparvero nel mondo, furono presi per gente ebbra: Ebrii sunt. E sì. La carità è un’ebbrezza, che turba sublimemente la ragione, che cagiona delle eroiche follie. Ma questo vino così potente non è altro che l’esempio e la dottrina di Gesù Cristo; quell’esempio, che Gesù Cristo, solamente Gesù Cristo, è venuto a darci col suo Cuore ripieno di carità infinita per gli uomini; quella dottrina, che dallo stesso suo Santissimo Cuore ha fatto sgorgare.

II. — Apriamo il Vangelo. Anzitutto, secondo il solito di ogni altra virtù, noi troveremo l’esempio, e riconosceremo che dire Cuore di Gesù e Cuore tutto pieno di amore per gli uomini, senza distinzione e senza riserva di età, di sesso, di condizione, è la stessa cosa. Gesù ama i fanciulli, e vuole che a Lui si lascino appressare, perché di essi è il regno de’ cieli. Gesù ama i poveri, e con essi si trattiene volentieri e attesta di essere venuto per evangelizzarli. Gesù ama gli infermi, ed opera a loro vantaggio i più strepitosi prodigi, sanandoli dai loro languori. Gesù ama i peccatori, e li cerca, li chiama presso di sé, li tratta con una dolcezza ineffabile, li guarisce dalle loro colpe, e non può fare a meno di rimproverare coloro, che vorrebbero condannarli. Gesù ama gli ingrati, che dimenticano i suoi benefizi, e piange sulle sciagure dell’infelice Gerusalemme, Gesù ama i traditori, e a Giuda, nell’atto stesso che con un bacio lo consegna alla sbirraglia, dà il dolce nome di amico. Gesù ama quei che lo rinnegano, e non altrimenti fa conoscere a Pietro il suo delitto, che con uno sguardo di pietà. Gesù ama i nemici, e se talora coi farisei usa delle dure espressioni, ciò non è effetto che dell’amore, che non sa tacere «piando vorrebbe imporsi ad ogni costo. Gesù ama i suoi carnefici, ed a loro, che insultano alle sue supreme agonie, risponde con questa preghiera: « Padre, perdona loro, che non sanno quel che si facciano. » Gesù ama tutta l’umanità, poiché per tutta l’umanità muore sulla croce. E dopo l’esempio la dottrina. Uditela: « Amate il vostro prossimo in modo, che facciate ad esso tutto ciò, che bramereste fosse fatto a voi. In questo si restringe tutto il sugo della legge e dei profeti. » ( MATT. VII, 12) Altrove più chiaramente: « Ama Iddio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la niente, con tutte le forze. Questo è il primo comandamento, e il maggiore di tutti. Ma il secondo è simile a questo: Ama il prossimo come te stesso. » (MATT. XXII, 37) Nel discorso della montagna, dinanzi alla moltitudine, che lo ascolta meravigliata, esclama: « Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia! » E poi soggiunse: « Perdonate agli altri i loro mancamenti, affinché il vostro Padre celeste perdoni similmente i vostri peccati. Perché se voi non perdonate, né meno il Padre celeste perdonerà a voi i vostri mancamenti: Avete udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo; e gli scribi hanno aggiunto: Odierai il nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite a que’ che vi maledicono e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano; sì che siate figli del vostro Padre, che è nei cieli, il quale fa nascere il sole sopra i buoni e sopra i cattivi, e piovere sopra i giusti e sopra gl’ingiusti. Imperocché se amate solamente coloro che vi amano, che mercede n’avrete voi? Non fanno altrettanto i pubblicani! E se salutate i vostri fratelli, che cosa fate più degli altri? Non fanno altrettanto i gentili? Voi dunque siate perfetti come il Padre vostro che è nei cieli. » Or dite, o miei cari, poteva Gesù Cristo con maggior precisione, con maggior chiarezza farci comprendere la sua legge di amore? Ah! Egli ha parlato veramente secondo l’abbondanza del suo Santissimo Cuore. – Eppure, come se ciò non fosse ancora bastato, ad aggiungere forza al suo precetto, a farcene sentire fino al grado supremo tutta l’importanza, egli volle rinnovarlo in un tempo più d’ogni altro memorabile, vale a dire, alla vigilia della sua morte. Qual padre moribondo, che, circondato dai figliuoli piangenti, espone l’ultimo e più ardente desiderio del cuore, Gesù, rivolto agli Apostoli, dice: « Vi do un comando nuovo, (un comando che finora l’umanità non intese a darsi da altri maestri) che vi amiate vicendevolmente, come Io ho amato voi. Questo è i l mio precetto. Ed è nella sua pratica, che vi riconosceranno per discepoli miei. » (Giov. XIII, 34, 35) No, non saranno i prodigi, che voi opererete, non la predicazione, che andrete facendo per l’universo, non l’eroismo, che professerete a sostegno della fede: non sarà tutto questo, ciò che specialmente vi distinguerà; bensì l’amore reciproco, perché la carità è il grande oceano donde cominciano e dove mettono capo tutte le grandezze della fede e tutte quante le virtù. E rivolto ancora al suo divin Padre gli domanda « che i suoi discepoli formino tra di loro un sol cuore, siccome Egli è nel Padre, e il Padre è in Lui. » (Giov. XVII, 21) E S. Giovanni, l’Apostolo prediletto, che ebbe la special cura di trasmetterci queste singolari espressioni di Gesù Cristo, è pure l’apostolo, che predica per eccellenza la carità. Perché non pago di fare nelle sue lettere una continua esortazione alla carità, già divenuto vecchio, e costretto a farsi portare nelle assemblee cristiane, con le tremule labbra altro non ripete: « Figliuolini, amatevi scambievolmente. » E richiesto del perché, risponde: « È il precetto del Signore. Se si osserva, basta. » Sì, la carità è il precetto del Signore, è il comando per eccellenza di Gesù Cristo. Ma verso di chi lo dovremo noi esercitare? Chi è propriamente il prossimo, a cui dovremo la nostra carità? Udite ancora Gesù Cristo: « Un pover uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e dette negli assassini, i quali non solo lo spogliarono, ma, fattegli ancora molte ferite, lo lasciarono sulla strada mezzo morto. Passa di là un sacerdote, (dell’antica legge) ma vedutolo tirò oltre. Passa un levita, ed ancor egli datogli uno sguardo andò via. Passa alfine un Samaritano, e non ostante che i Giudei odiassero cordialmente i Samaritani e li avessero in minor conto di loro prossimo che non i Gentili, si ferma, gli si accosta, e veduto il suo misero stato, pieno di compassione trae fuori dalle sue valigie dell’olio e del vino, lo versa sulle sue ferite, gliele fascia: e quindi messolo dolcemente sul suo cavallo, lo conduce all’albergo e lo raccomanda all’albergatore, perché ne voglia aver gran cura. » Ecco dunque qual è il vostro prossimo: tutti gli uomini del mondo, di qualunque nazione essi siano, qualunque si sia il loro stato, di qualsivoglia condizione, fossero ben anche i più accaniti nemici. Così pertanto Gesù c’insegna come e con chi dobbiamo praticare la carità. E dopo insegnamenti così sublimi e così semplici ad un tempo, confermati dagli esempi così grandi e così ammirabili, come mai gli uomini non avrebbero abbracciata la carità cristiana per farla regnare da regina nei loro cuori? Tuttavia, o miei cari, sebbene tutto ciò più che mai avrebbe dovuto bastare per animarci a compiere il nostro dovere, Gesù Cristo volle fare assai più: e per assicurarsi per parte sua più che gli era possibile che noi seguissimo il suo esempio e il suo precetto si valse di un segreto, che era pure sconosciuto avanti la sua venuta. Udite.

III. — Prima che Gesù Cristo scendesse quaggiù, la religione pagana, che dominava pressoché tutto il mondo, non solo non era riuscita ad inspirare l’amore verso il prossimo, ma anzi aveva consacrato l’odio. Quegli dei nazionali, che l’egoismo umano si era fabbricato, non pensavano certo a proteggere gli stranieri. Gesù Cristo invece, venuto sulla terra, congiunse insieme religione e carità, e le fece una dipendente dall’altra in guisa, che dove non vi ha religione non vi ha vera carità, e dove non v i ha carità non vi è vera religione. Uditelo: « In verità, vi dico, ogni qualvolta eserciterete la carità verso il vostro prossimo, la terrò come esercitata verso di me stesso. Ed è secondo questa estimazione che nel dì del giudizio ve ne darò la ricompensa. Ma così pure, se voi negherete la carità al vostro prossimo la terrò come negata a me; ed è in questo rapporto, che nello stesso dì del giudizio ve ne infliggerò castigo. » Così ha parlato Gesù Cristo, e per tal guisa Egli personificandosi nel prossimo nostro e formando di sé e di Lui un solo essere morale, ha fatto della carità una virtù eminentemente religiosa, anzi una virtù teologale, ragione per cui ogni cristiano deve dire a se stesso: Se amo il prossimo, amo Iddio; se tratto bene il prossimo, tratto bene Iddio; se benefico il prossimo, benefico Iddio; ma se non amo il prossimo, è Dio che non amo; se tratto male il prossimo, è Dio che tratto male; se odio il prossimo, è Dio che odio. – « Ed ora, dirò con un illustre scrittore, i prodigi della carità cristiana non mi fanno più specie. Questa carne straziata sul Calvario è la carne dell’umanità; questi piedi inchiodati sulla croce sono i piedi dell’umanità; queste mani traforate sono le mani dell’umanità. Queste piaghe di Gesù Cristo sono le piaghe dell’umanità. E per converso le piaghe, benché così vergognose, dell’umanità sono le piaghe di Gesù Cristo, le mani benché abbiette e callose dell’umanità sono le mani di Gesù Cristo, i piedi benché sudici e schifosi dell’umanità sono i piedi di Gesù Cristo, la carne benché sì travagliata dell’umanità è la carne di Gesù Cristo. »  E se voi, soggiungerò io, se voi, o suore, che il mondo ingrato e maligno ripaga talvolta di ludibrio, cionondimeno avete rinunziato al mondo, alle caste gioie della famiglia, ai piaceri della terra per sacrificare la vostra vita negli asili, negli ospedali, nei ricoveri, nelle carceri e farvi le madri degli orfani e le serve dei poveri e degli infelici, ora capisco; se voi, frati e sacerdoti, che il mondo tollera solamente perché non riuscirà mai a distruggervi, pure legandovi alla religione coi santi voti, spendete il vostro ingegno, il vostro cuore, la vostra vita a prò della gioventù, a prò degli ignoranti, a prò di chi non conosce ancora Iddio, lo comprendo; se voi, o grandi dame, o nobilissime regine, o venerabili Cristine, o S. Elisabette, arriverete sino al punto da non calare soltanto dai vostri regali appartamenti per andare in soccorso del povero e per confortare g li infermi, ma per portare nelle vostre braccia i lebbrosi al vostro palagio, e poi lavarli con le vostre mani, e poi baciarne le piaghe, e poi bere eziandio, ciò che soltanto a dirsi ributta la nostra delicatezza, quanto è uscito dalle loro ulceri; io so, io comprendo ora tutto questo: nella persona di un uomo, per quanto misero, per quanto abbietto, per quanto malvagio e spregevole, voi vedete raggiare la persona adorabile di Gesù Cristo. E così comprendo come ad una preghiera fatta in nome del Crocifisso si sappia far il sacrificio d’una vendetta, calmare gli sdegni più bollenti, perdonare al proprio nemico ed abbracciarlo con affetto: la realtà è pur sempre questa, che come si tratta il prossimo, così si tratta Gesù Cristo, così si tratta Iddio, perché Gesù Cristo ha congiunto insieme con la carità la religione e le ha fatte inseparabili l’una dall’altra. Oggidì, o miei cari, alla carità cristiana vuolsi sostituire la filantropia, un non so qual amore degli uomini dettato al cuore unicamente dalla ragione. Ma cotesta filantropia che rifugge dalla religione, che non ha per base i motivi soprannaturali messici dinanzi da Gesù Cristo ad accendere in noi la carità, riesce essa ad ottenere lo scopo che si propone, o che almeno dice di proporsi? L’esperienza medesima ci fa conoscere, che non vi riesce, che non vi riuscirà mai. Essa per commuovere il buon cuore degli uomini, si arrabatta a trovar motivi e a stenderli sopra ampi affissi con parole altisonanti. Con tutto ciò non le riesce di persuadere, e non solo nelle necessità ordinarie delle classi indigenti, ma nemmeno nelle grandi calamità pubbliche, quando i terremoti, le inondazioni, i colera, mietute a migliaia le vittime, gettano nella miseria i superstiti. Sicché questa filantropia, che sdegna valersi dello stesso nome di Dio, è costretta, per ottenere sussidi a prò degli infelici, ad appigliarsi ad arti meschine e persino abbiette. Le fa d’uopo solleticare la vanità con promesse di nomi stampati sui giornali, di croci di cavaliere, di titoli ai generosi, e di suffragi nelle elezioni politiche ed amministrative; le bisogna ricorrere a ridicole chiassate di piazza, a processione di carri con strepiti di trombe innanzi ad essi; le bisogna sfruttare gli istinti volgari ed ignobili della nostra corrotta natura con lotterie e con balli, così detti di beneficenza, con mascherate, rappresentazioni sceniche, banchetti ed altre orge carnevalesche; le bisogna tutto questo. E questo è amore per gli uomini? È dunque lì nel tripudio della danza, che la dama superba si sente commuovere le viscere per la povera vedova, che carica di bambini, senza pane pei medesimi, versa amarissimo pianto? È lì nella gioia frenetica di una mensa lautamente imbandita, che gli Epuloni aprono il cuore alla compassione pei poveri Lazzari, che alla porta stanno aspettando le briciole? È lì nel matto sghignazzare della commedia, che la giovane donzella si decide a far sacrificio della sua vanità per asciugare qualche lagrima? E quando pure con questi mezzi così disonorevoli per chi ne fa uso, la filantropia sarà riuscita a mettere insieme qualche po’ di danaro, se pure, dedotte le spese o vere o immaginarie, le resterà qualche cosa da far pervenire nelle mani dei bisognevoli, dite, potrà essa recar loro il conforto, che arreca la carità cristiana, che si chiede e si fa in nome di Dio? Oh quando la vedova, l’orfano, il poverello sanno, che quelle quattro monete, che si pongono nelle loro mani, sono il frutto delle passioni più vili, il misero avanzo di tante altre monete gettate nei godimenti sfrenati, il mercato ignominioso delle loro lagrime e della loro miseria, pel rossore che proveranno nel riceverle, non se le sentiranno bruciar nelle mani? No! Non è di pane soltanto, che vive l’uomo; egli vive ancor più di dignità, perché Dio non lo ha fatto come il bruto, e la filantropia, che nel dare il pane all’uomo, non cura la Religione, non rispetta neppure la dignità umana. Carità adunque ci vuole e non filantropia. La filantropia sarà, io non lo nego, una virtù umana, ma appunto perché solamente virtù umana è incapace a soddisfare le aspirazioni dell’uomo, che secondo la bella espressione di Tertulliano, non è uomo soltanto, ma naturalmente Cristiano. La carità invece, quella carità che Gesù Cristo venne a portare nel mondo col suo esempio e con la sua dottrina, al nome di Dio si commuove e si accende, e gli uomini, le donne, i fanciulli stessi tramuta in eroi; in eroi, che danno le loro sostanze, in eroi che danno le loro forze, in eroi che danno il loro ingegno, in eroi che danno il loro cuore, in eroi che danno il loro sangue, a salvare delle anime, a consolare degli afflitti, a soccorrere dei bisognosi, ad assistere degli infermi, a perdonare dei nemici e a far del bene a coloro istessi che li odiano e li perseguitano. Ma se a ciò riesce la carità cristiana, gli è appunto perché essa è basata sopra motivi soprannaturali, perché è vivificata dall’alito della Religione. E quanto più questo alito è forte, tanto più riesce efficace nelle opere di carità. Voi avete ospedali, chi ve li serve? Avete ospizi, chi ve li sostiene? avete orfanotrofi, chi ve li governa? avete istituti pei poveri giovani, chi ve li mantiene? avete famiglie per le fanciulle, chi ve li dirige? avete degli ergastoli, chi ve li tramuta in case di benedizione? avete degli sventurati, chi ve li soccorre? avete dei moribondi, chi ve li assiste? ve l’ho detto: sacerdoti e suore, uomini e donne animate per eccellenza dallo spirito di Religione e che si chiamano appunto religiosi e religiose Ed è una vergogna, che alle volte il popolo medesimo, che è il primo a godere i benefizi della carità religiosa, si unisca coi superbi saputi del mondo per domandare, in vedendo dei religiosi e delle religiose, che cosa fanno ancora al mondo questi poltroni?…. Che cosa fanno? Lo sa Iddio, e lo saprai tu, quando abbandonato da tutti, troverai rifugio nelle loro braccia soltanto. Ah! io parlo forte, o miei cari, perché ho tanto in mano da cacciar in gola la parola maligna. Che abbassi pure la voce e vada a capo chino, chi senza Religione, non può mostrare che rovine; io mostro dei poveri aiutati, degli orfani raccolti, degli infermi assistiti, degli infelici consolati e li mostro accanto alle anime religiose. O voi tutti, che bramate praticare la carità cristiana, praticate la Religione: pregate, frequentate la Chiesa, visitate i tabernacoli, ricevete spesso nel vostro cuore quel Cuore che è la fonte della carità; salvando la Religione, salvate la carità, e salvando la carità, salverete la Religione, perché « questa è la Religione pura ed immacolata, praticare la carità tenendosi lontani dell’ irreligione del secolo. » ( Jac . I, 27) – Ed ora dopo sì efficace eccitamento del Santissimo Cuore di Gesù alla pratica della carità verso il prossimo, come suoi devoti non risolveremo ancor noi di compiere il santo suo volere? Certamente non tutti siamo chiamati a praticarla in un grado eroico, come la praticarono un gran numero di Santi; non tutti siamo chiamati a recarci in lontani paesi a portar la luce del Vangelo a coloro, che giacciono ancor tra le tenebre e le ombre di morte; non tutti siamo chiamati a sacrificare la nostra vita negli ospedali, servendo ai poveri infermi; non tutti siamo chiamati a raccogliere in casa nostra orfani e sventurati, né ad esporci al pericolo della vita in caso di gravi epidemie o di pubblici disastri; ma tutti siamo obbligati dall’esempio e dalla dottrina del Sacro Cuor di Gesù ad esercitare la carità del prossimo nei sentimenti, nelle parole e nelle opere, ogni qualvolta ci si presenta l’occasione e secondo la nostra possibilità. Carità nei sentimenti, perciò a nome di Gesù Cristo, l’Apostolo Paolo c’insegna chiaramente, che dobbiamo prendere per il nostro prossimo viscere di misericordia: Induite vos ergo sicut electi Dei viscera misericordiæ, (Coloss. III, 12) discacciando dal nostro interno ogni giudizio, ogni sospetto, ogni dubbio temerario. Carità nelle parole, evitando le mormorazioni, le calunnie, le derisioni, gli scherni, le ingiurie verso gli altri, e sopportando invece con pazienza le ingiurie, gli scherni, le derisioni, le calunnie, le mormorazioni fatte contro di noi. Carità infine, e massimamente, nelle opere, secondochè, ci esorta l’apostolo della carità, S. Giovanni: Filioli miei, non diligamus verbo neque lingua, sed opere et veritate. « Perciocché chi avrà dei beni di questo mondo e vedrà il suo fratello in necessità e chiuderà le sue viscere alla compassione di lui, come mai è in costui la carità di Dio? » (I Jov. III, 17-18) La limosima pertanto ai bisognevoli, quando ci è possibile, ne è imposta quale assoluto dovere. Ma non dimentichiamo, o carissimi, che la limosina non è di pane, di denaro, o di roba soltanto: essa è di ogni aiuto e sollievo, che si possa recare al prossimo, che ne abbisogna. Bella elemosina adunque è pur quella di porgere al prossimo qualche servigio, quella di consolarlo nelle sue afflizioni, quella di consigliarlo ne’ suoi dubbi, quella di istruirlo nella sua ignoranza, quella di ammonirlo con dolcezza dei suoi difetti, quella di animarlo al bene coi nostri buoni esempi, quella di pregare per la sua conversione, quella di visitarlo ed assisterlo nelle sue infermità, quella massimamente di disporlo in esse a fare una buona morte. E tanto più bella, tanto più meritoria sarà questa nostra qualsiasi elemosina, se, praticando l’esempio e gli ammaestramenti del Sacratissimo Cuore, la eserciteremo non solo verso quelli che ci amano, ma ancora verso di coloro che ci odiano, ci perseguitano e sono nostri nemici. E non l’hanno forse praticata così i Santi? S. Catterina da Siena ad una donna, che l’aveva infamata nell’onestà, rese i più umili servigi durante la infermità, che l’aveva incolta. S. Ambrogio ad un sicario, che gli aveva insidiata la vita, fe’ un assegnamento, per cui poté comodamente vivere. S. Sabino pregò per il tiranno, che gli aveva fatto troncare le mani per la fede, e insieme con la guarigione da un grave mal d’occhi gli ottenne da Dio la conversione e la salute dell’anima. San Mellezio, stando in carrozza col governatore che lo portava in esilio, gli stese le braccia sopra per liberarlo dal popolo, che voleva perciò lapidarlo. S. Acaio vendette le sue robe per soccorrere chi gli aveva tolta la stima. Oh! i Santi comprendevano appieno l’importanza di questa carità verso gli stessi nemici, il gradimento che ne ha Iddio, le ricompense con cui la ripaga. Pratichiamola così adunque anche noi, ed anche noi acquisteremo l’affetto del Cuore Santissimo di Gesù. E se ci manca la forza, eseguiamo il consiglio di S. Ambrogio: Si infirmus es, ora, opperò prostrandoci umilmente dinanzi al Divin Cuore, diciamogli con fiducia: O Cuore amantissimo di Gesù Cristo, così ardente di carità per noi, deh! fateci parte delle vostre vivissime fiamme, affinché anche noi sull’esempio e per amor vostro facciamo regnare nel nostro cuore la carità verso il prossimo. Ah! che purtroppo finora non ci ha dominati che l’egoismo, la freddezza, e forse anche l’odio e la brama della vendetta. No, non sarà più così per l’avvenire! Mercé i vostri santi aiuti noi vestiremo per il nostro prossimo viscere di carità, lo ameremo sinceramente nei nostri sentimenti, nelle nostre parole, nelle nostre opere, lo ameremo anche allora che fosse nostro nemico, e per tal guisa praticando i vostri esempi e la vostra dottrina di amore, speriamo fermamente di essere noi pure da Voi perdonati, da Voi amati, da Voi protetti, da Voi rimeritati ora e per tutta l’eternità.

OTTAVARIO DEI MORTI (4) Che sarà dei nostri morti?

OTTAVARIO DEI MORTI (4)

TRATTENIMENTO VI.

Che sarà dei nostri morti ?

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Dubbio angoscioso — Soave dottrina di S. Francesco di Sales — Come spiegare le parabole evangeliche? — Gli operai e gli invitati — Opinioni teologiche — Dottrina conforme alla bontà di Dio — Rivelazioni dei Santi — Contegno della Chiesa — Esempio. Appendice — Molti sono i chiamati, pochi gli eletti.

I.

Fra tante sciagure che fanno grami i giorni della vita mortale, una delle più crudeli, singolarmente pei cuori affettuosi e sensibili, si è per ciascuno la perdita dei suoi cari. Oh Dio! che strazio per la giovane sposa la morte del suo giovane consorte, per i figli la morte dei loro genitori, per amorosa sorella la morte di un caro fratello! La morte, nel tempo medesimo che colpisce le sue vittime, amareggia ancora i giorni di coloro che sopravvivono, o, per dir meglio, attenta con un colpo solo alla vita degli uni e al cuore degli altri. Ma se questa considerazione degli effetti terribili della morte è dolorosa per tutti, ei mi pare che siavi, per un credente specialmente, qualche cosa di più doloroso e terribile ancora, e questo si è il pensiero della sorte eterna che sarà toccata all’anima diletta della persona che si è perduta. « Sarà ella in luogo di salute, oppure di dannazione? Nel suo comparire alla presenza di Dio sarà ella stata un trionfo della sua misericordia infinita, oppure della sua giustizia inesorabile che vede macchie perfino negli Angeli? » Pensiero tremendo ed angoscioso che tante volte amareggia e tormenta non poche anime timide, esageratamente impressionate dalla considerazione dei divini giudizi e specialmente da quelle parole del Vangelo « Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti! » Ei mi pare quindi che non sia per nulla fuor di proposito che, a scopo di consolazione per queste povere anime, già abbastanza addolorate dalla perdita dei loro cari, io dica qualche cosa su questo argomento, attenendomi rigorosamente a quanto attorno ad esso ci hanno insegnato i Padri ed i Dottori della Chiesa. La loro dottrina sarà come un raggio di Paradiso che dissiperà non poco le tenebre in cui le getta il dolore. – Discutevasi un giorno alla presenza del Santo Vescovo di Ginevra, S. Francesco di Sales, su quelle tremende parole del Vangelo: « Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti ». Si diceva che il numero degli eletti è chiamato nelle Scritture piccolo gregge, mentre quello dei dannati legione e moltitudine… ed altre cose simili. Il Santo Dottore lasciò che tutti parlassero, e quando ognuno ebbe detto il suo parere, così egli prese a dire: « Io penso, invece, che vi saranno ben pochi cristiani che andranno dannati, — e intendeva parlare di coloro che appartengono alla Chiesa Cattolica — perché, possedendo essi la radice della vera fede, presto o tardi questa produrrà ordinariamente il suo frutto, che è la salute, e da morta che è, diventa vivente e opererà per la carità ». E siccome gli si obiettava la parabola del Vangelo in cui si parla del piccolo numero degli eletti: «In realtà, soggiungeva, se si paragonano i Cristiani Cattolici col resto del mondo e delle nazioni infedeli, il loro numero è molto piccolo; ma su questo numero io credo che ben pochi si dannino ». Ed a sostegno della sua opinione egli si riferiva alla bontà di Dio, la quale, secondo dice S. Paolo, come ha cominciato l’opera buona, così la condurrà fino a compimento. « Sarebbe mai possibile che la vocazione al Cristianesimo, che è un’opera di Dio ed un’opera perfetta, conducente al fine supremo, ch’è la gloria del Cielo, potesse essere tanto sovente frustrata del suo effetto? » Ed appoggiato a questa sua credenza, non voleva che si disperasse della conversione di alcun peccatore fino all’ultimo suo respiro. E spingevasi più oltre ancora: « tanto che non approvava che, anche dopo la morte, si portasse un giudizio sfavorevole su di coloro eziandio che avevano condotto una cattiva vita ». E la sua ragione principale era che « siccome la prima grazia della giustificazione non è meritata da alcuna opera precedente, così l’ultima grazia, che è quella della perseveranza finale, non viene punto concessa al merito. Ora chi è colui che mai conobbe i disegni di Dio? Chi è colui che fu suo consigliere? » Quindi il Santo voleva che « anche dopo l’ultimo respiro si continuasse a sperare in bene della persona defunta, qualunque fosse stata la morte che le era toccata in sorte, perché noi non possiamo avere che congetture molto incerte, unicamente fondate sull’esterno in cui anche i più abili possono ingannarsi ». – E questa dottrina così consolante sul più gran numero degli eletti, benché, rigorosamente parlando, non sia stata ancora fatta totalmente sua dalla Chiesa, sulla quale del resto non si è pur anco pronunziata, sembra nondimeno la più conforme al senso ben compreso delle Sacre Scritture. E per convincerci non abbiamo che ad esaminare brevemente i passaggi in cui se ne fa cenno. E primo ci si presenta S. Matteo, il quale al capo ventesimo del suo Vangelo paragona il regno del Cielo ad una vigna che il padre di famiglia fa coltivare ed a cui successivamente manda tutti gli operai che può incontrare. Venuta la sera, egli convoca tutti coloro che hanno lavorato per lui; dà loro la mercede pattuita, e l’operaio dell’ ultima ora è da lui ricompensato colla stessa moneta di colui che ha iniziato il suo lavoro fin dal principio del giorno. Si lamenta quest’ultimo, ma il Padrone gli risponde che gli dà ciò di cui avevano pattuito, soggiungendo che i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi, e conchiude: Molti sono chiamati, ma pochi sono eletti. Egli è evidente che se si vuole ben interpretare il senso di questa sentenza, non bisogna separarlo da tutto l’insieme del testo, di cui dessa è come la conclusione, ma spiegarla col testo istesso. Ora che cosa ci dice questa parabola? Ci dice forse che il più gran numero degli operai, chiamati a lavorare nella vigna, sono esclusi dalla ricompensa e dalla mercede al termine della giornata, e che quindi per analogia la maggioranza, degli uomini, che lavorano per Dio in sulla terra, saranno esclusi dalla ricompensa celeste? No, certamente, ci dice anzi il contrario; perciò in quella guisa che tutti gli operai della parabola evangelica ricevono una ricompensa, così i Cristiani, quelli almeno appartenenti alla Chiesa Cattolica, che vien raffigurata nella vigna, riceveranno, dopo le fatiche e le operazioni della presente vita, la ricompensa; e la sola conclusione che si può trarre dal sacro testo è la disuguaglianza della ricompensa. Lungi pertanto d’essere l’espressione della collera divina, questa sentenza è invece l’espressione della sua misericordia a riguardo dei peccatori e dell’efficacia meravigliosa del pentimento. – In un altro passaggio dello stesso Vangelo, al capitolo ventiduesimo, il regno dei Cieli viene rappresentato sotto la figura d’un banchetto, al quale gli invitati, che sono gli Ebrei, rifiutano di partecipare: allora il re ordina di convocare quanti si potranno incontrare per le vie e per le piazze della città ed in questo modo una moltitudine di gente d’ogni condizione introdotta nella sala del banchetto: sono i Gentili ed i Barbari da Gesù Cristo chiamati alla sua fede. E di tutta questa moltitudine uno solo viene cacciato via, perché non è vestito della veste nuziale. « Gettatelo, diceva il re, nelle tenebre esteriori, ove vi sarà lacrime e stridor di denti, poiché « molti sono i chiamati, e pochi gli eletti ». Uno solo è escluso; anche qui è adunque il piccolo numero che è riprovato. Ed è perciò, conclude il dotto Bergier, che se le parabole del Vangelo possono essere ammesse come argomenti di prova, noi dobbiamo credere che sarà il gran numero e non il piccolo che andrà salvo. Gesù Cristo paragona la separazione dei buoni e dei cattivi, nel giudizio finale, al buon grano separato dalla zizzania: ora in un campo, coltivato con cura, la zizzania non è certamente tanto abbondante quanto il buon frumento. La paragona ancora alla scelta che si fa tra i buoni ed i cattivi pesci; ora egli è mai possibile che il pescatore tragga nella sua rete un numero di pesci cattivi maggiore che non i buoni? Delle dieci vergini invitate alle nozze, cinque sono ammesse ad entrare con lo sposo. Nelle parabole dei talenti, due servitori sono ricompensati, uno solo è punito ». E non altrimenti opina il dotto e profondo Suarez, il quale commentando la sullodata evangelica sentenza così scriveva: « Se noi prendiamo il nome dei Cristiani in senso generale, in quanto che comprende tutti coloro che hanno l’onore di portare il nome di Gesù Cristo e fanno professione di credere in Lui, e quindi eretici, apostati, scismatici, protestanti etc, non neghiamo che in questo senso si possa sostenere come probabile l’opinione di coloro che ammettono che il più gran numero sarà riprovato; ed è così che mi spiego l’opinione più severa. Poiché, siccome vi sono sempre stati molti eretici ed apostati, è chiaro che essi saranno molto più numerosi di quelli che muoiono bene, tanto più poi se noi contiamo con essi i fedeli che muoiono male. Ma se per Cristiani noi intendiamo soltanto quelli che muoiono nella Chiesa Cattolica, mi pare più probabile l’ammettere, sotto la legge di grazia, che il più gran numero sia salvo. Ed infatti non v’ha nessun dubbio per coloro che muoiono prima di essere adulti, che essi son salvi pel fatto stesso di essere stati battezzati; in quanto agli adulti, anche supposto che per la maggior parte abbiano peccato mortalmente, nondimeno il più sovente si rialzano dalle loro colpe… e ve n’ha ben pochi che non siano disposti ad una buona morte per mezzo dei Sacramenti, e che non detestino i loro peccati almeno con un atto di attrizione ». Così il dotto commentatore di S. Tommaso; e questa distinzione fa scomparire ogni difficoltà nell’interpretazione dei sacri testi. Vi sono adunque molti chiamati, poiché è di fede che Dio vuole la salute di tutti gli uomini; vi saranno pochi eletti, se si considera la totalità del genere umano ed il grande numero di coloro che non appartengono alla religione cattolica.

II.

Del resto la tesi del più gran numero degli eletti, parlando dei Cattolici, non è forse quella che è più in armonia con la bontà e con la misericordia infinita di Dio, più propria a dilatare i cuori, a rialzare gli animi, a condizione però che uno non se ne autorizzi per commettere il peccato, cosa che necessariamente attirerebbe sul suo capo la collera e la maledizione del Cielo? Quindi, quand’anco la morte li avesse sorpresi improvvisamente, senza lasciar loro il tempo di ricevere i Sacramenti di santa Madre Chiesa, non desoliamoci e tanto meno disperiamo. Ricordiamoci che la misericordia di Dio è infinita. Chi ci dice che un buon pensiero, un sentimento di contrizione perfetta non abbiano trovato posto tra la loro ultima parola ed il loro ultimo sospiro? Chi conosce tutti i segreti della misericordia d’un Dio che « vuole la salute di tutti gli uomini… che non vuole la morte del peccatore, ma la sua conversione? » Non ha detto il Signore per mezzo d’Isaia: « Può dessa una madre dimenticare il suo figlio? Ebbene, quand’anco ella il dimenticasse, io non vi dimenticherò mai; io vi porto scritti nelle mie mani ». – Chi mai potrà dirci quello che avverrà nell’anima del morente alla vista dell’eternità che comincia, ed al pensiero di doversi presentare al tribunale dell’eterno Giudice, nelle mani del quale terribile cosa è il cadere? E là, ove l’occhio umano non vede, in certe morti specialmente, che un tratto di giustizia, chissà che invece non abbiano luogo segreti misteri di misericordia e miracoli di grazia? Alla luce di un ultimo raggio, Iddio si manifesta a certe anime, la cui più grande disgrazia fu quella di ignorarlo, e l’ultimo sospiro, compreso da Colui che scruta i cuori, può essere un gemito implorante il perdono. Non dimentichiamolo: un’ora, un minuto secondo basta a Dio per rischiarare una mente ottenebrata, per commuovere un cuore indurito nel peccato. In quell’attimo stesso, in cui più nessuna voce umana arriva a farsi capire dal moribondo, la voce di Dio lo penetra e lo convince. Chi è mai così ardito da mettere limiti alla misericordia infinita d’un Dio morto per noi?… Autorevoli teologi pensano che all’ora della morte Iddio largisce ai peccatori grazie particolari e straordinarie per eccitarli al pentimento, prima di comparire al suo tribunale; e tutti sanno che un atto di contrizione perfetta basta per cancellare i peccati di tutta una vita, ed assicurare la salute eterna. Ora sotto l’influenza di queste grazie straordinarie e dei lumi che procura all’anima l’avvicinarsi della morte, l’atto di contrizione diventa facile, e per produrlo non occorre che un istante, una parola, un « Perdono, Dio mio », anzi meno ancora, una semplice ispirazione del cuore verso Colui che si è offeso. Ed oh! potenza della misericordia di Dio , quell’anima che umanamente parlando si sarebbe detta per sempre perduta, eccola riconciliata d’un tratto col suo Giudice supremo e salva per tutta l’eternità.  « È un miracolo, esclama qui il P. Faber, è vero, ma un miracolo è facile a Colui che non aspetta che un gemito del cuore umano per perdonare e cangiare un ladro in un eletto… Verrà un giorno in cui noi conosceremo tutte queste ineffabili meraviglie della misericordia divina; non desistiamo intanto d’implorarla con illimitata confidenza ». Sì, lo so che sarebbe una presunzione colpevole quella di aspettarci questi miracoli della grazia, ma Colui che proibisce di pretenderli, si compiace qualche volta di farli. Giacobbe piangeva amaramente la morte del suo diletto Giuseppe, egli credeva che una belva feroce l’avesse divorato; e Giuseppe respirava ancora; languiva in una dura prigionia, ed intanto il Signore gli preparava una sorte gloriosa. Similmente quell’anima che noi crediamo colpita di morte eterna è forse un’anima predestinata; ella languisce nel Purgatorio e Dio le riserba un posto in Cielo. Mio Dio! voi ci proibite dunque di disperare della salvezza dei più grandi peccatori! Così è: perciò non escludiamo nessuno dai nostri suffragi privati, neppure gli scismatici, gli eretici, poiché chi mai ci potrà assicurare che Dio non abbia pure tra di essi dei servitori fedeli, non riconosciuti come Cattolici e non appartenenti alla Chiesa visibile, ma che pur nondimeno di cuore e di spirito sono suoi figli? In tutt’i casi è cosa certa che Iddio non condannerà alcuno a causa d’una ignoranza, di cui egli non ha colpa; poiché « Dio ama tutte le anime » anche quelle appartenenti a sette avverse al Cattolicismo, e si prende cura della salute di tutte. Non è Egli il loro Creatore ed il loro Padre? Il suo divino Figlio non è forse morto in sulla croce per salvare tutti gli uomini? « Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e pervengono alla cognizione della verità ». Chi ci potrà pertanto dire ciò che si passa nel cuore di certi uomini, anche separati, soprattutto in punto di morte? Non è forse Iddio onnipotente e nello stesso tempo e infinitamente misericordioso? e se una anima posta in tali condizioni, un peccatore ostinato nel delitto anche fino a quel momento supremo, implorano il suo perdono con sincerità, possiamo noi credere che il Signore rigetti la loro preghiera? No, Egli non respinge punto un cuore contrito ed umiliato. Queste anime non andranno forse subito al possesso del regno eterno, ma non andranno neppure perdute; e questo è quanto ci deve stare maggiormente a cuore. Si ascolti a questo proposito quanto ci dice ancora il dotto e pio P. Faber: « La nostra ignoranza riguardo a ciò che ha luogo nelle anime in punto di morte ci rende inaccessibile la più larga parte della vita umana, poiché la vita non si misura solo col tempo materiale. Il mondo con tutti i suoi spettacoli e i suoi clamori lascia a Dio poco posto nel cuore degli uomini; ma l’ora della morte è lunga, e Dio vi trova il suo posto. Essa cambia i minuti in anni, e moltiplica l’attività dello spirito nel momento in cui sta per abbandonare il corpo. È un’ora di verità, e un’ora di verità è più lunga d’un secolo di menzogna. Il Cielo allora si avvicina non solo per giudicare, ma eziandio per soccorrere… Il tempo dell’agonia può supplire a parecchie vite. Poco noi sappiamo di ciò che allora succede. Gli occhi spenti, il volto senza espressione e contratto dal dolore, la bocca senza parole, sono altrettanti veli che ci nascondono questo estremo abboccamento in terra del Creatore con la sua creatura. Ma l’osservazione e la psicologia concorrono per insegnarci che allora si operano grandi cose e di una natura più intellettuale di quanto potremmo immaginare… Oh! come si moltiplicano le magnificenze dell’amor di Dio attorno al letto dei moribondi! Cento volte più di quello che vediamo, cento volte più di quello che pensiamo! Confesso che qui camminiamo sopra un suolo sconosciuto, ma giacché in quel punto supremo la misericordia di Dio è così necessaria… io proclamo che questa regione sconosciuta del letto dei moribondi è il puro dominio della misericordia di Dio. Quest’ultima ora può spiegare molte salvezze inesplicabili».

III.

E qui potremmo porre fine al nostro dire, se non credessimo conveniente, per maggiormente raffermarci in questa consolante dottrina, citare alcune rivelazioni, che troviamo narrate negli scritti di anime sante. E prima ci si presenta S. Gertrude, la quale così scrive: « Riflettendo un giorno nel mio cuore sopra questo punto che molti cristiani all’ ora della loro morte sembrano pentirsi piuttosto pel timore dei divini castighi che non per un sentimento d’amore per Dio, ed avendo d’altra parte io inteso dire che non si può essere salvi senza un principio d’amor di Dio, bastante per produrre il pentimento ed il distacco dal peccato, Nostro Signore mi fece intendere queste parole: Allorquando vedrò in agonia quelli che si saranno ricordati di me con piacere e che avranno fatto qualche opera degna di ricompensa, Io comparirò loro al punto della morte con un viso così pieno d’amore e di misericordia, che si pentiranno dall’intimo del loro cuore d’avermi offeso durante la loro vita, e si salveranno con quest’atto di pentimento. Io vorrei pertanto che i miei eletti sapessero riconoscere questa misericordia, e che fra i numerosi benefìci che ricevono da me, mi ringraziassero anche di questo ». – Si legge pure nella vita di questa stessa Santa che avendo lungamente pregato per un’anima che le era stata raccomandata, e della cui eterna salute si aveva ragione d’essere molto inquieti, Nostro Signore le apparve e le disse: «Per amor tuo, o Gertrude, io voglio aver pietà di quest’anima e di un milione d’altre ancora. La mia luce divina che penetra l’avvenire, avendomi fatto conoscere che tu avresti pregato per quest’anima, in vista di queste preghiere future, allorquando si trovò in agonia, la favorii di sante disposizioni per procurarle una buona morte e prepararla a godere dei frutti della tua carità. Quest’anima è salva, e, se tu il vuoi, io le perdonerò tutte le sue colpe, e la libererò da ogni sorta di pene ». – Nella vita di S. Brigida troviamo rivelazioni non meno consolanti. Mentre un giorno questa santa pregava per un grande peccatore, che era infermo, il divin Maestro le fece intendere queste parole: « Colui che è ora ammalato e pel quale tu preghi, fu molto vile a mio riguardo: tutta la sua vita fu contraria alla mia. Ma tu fagli dire che se ha volontà di correggersi, nel caso che guarisse, Io lo salverò e gli darò la mia gloria ». Alcuni giorni dopo la Santa vide l’anima di questo peccatore lasciar la terra, e, libera dall’inferno, rendersi in Purgatorio ». – Un’altra fiata così Gesù parlò a S. Brigida: « Io sono così misericordioso che se mi fosse possibile soffrire di nuovo il supplizio della croce, lo rinnoverei per ogni peccatore in particolare ». Nella vita del B. Curato d’Ars si racconta che venne un giorno a trovarlo una signora, il marito della quale era stato sorpreso da una morte improvvisa, senza che avesse avuto tempo di riprendere cognizione. Disgraziatamente costui aveva tenuto una condotta poco edificante, per cui la povera moglie, desolata e disperata, molto temeva per la sua eterna salute. « Rassicuratevi, le disse il santo sacerdote dopo un breve raccoglimento, in virtù delle preghiere che voi avete fatte per la conversione di vostro marito, e di quelle che avreste fatte per l’anima sua dopo la morte, Iddio gli usò misericordia e gli diede il tempo di pentirsi. Ora egli è salvo, ma sta molto addentro nel Purgatorio, pregate per lui ». – Leggiamo nella vita del P. Ravignan che il generale Excelmans aveva perduto improvvisamente la vita in seguito ad una caduta da cavallo. Disgraziatamente egli non praticava la religione; aveva però promesso che un giorno si sarebbe confessato; ma non ne aveva avuto il tempo. Il P. Ravignan che da molto tempo pregava e faceva pregare per lui, rimase nella costernazione quando venne a conoscere una tale morte. Ora, il giorno stesso, una persona favorita di comunicazioni celesti, credette intendere una voce interna che le diceva: « Chi dunque conosce la grandezza della mia misericordia? Chi può sapere la profondità del mare, e la quantità d’acqua che racchiude? Molto sarà perdonato a certe anime che hanno molto ignorato! » — Ed ecco perché il santo gesuita era di parere che ai dì nostri, nei quali pure tante anime ingolfate nei pregiudizi si tengono lontane da ogni pratica di religione, molte se ne salvano per intervento diretto della divina misericordia, la quale non di rado agisce su loro negli ultimi momenti della vita. È vero che in questo caso l’anima deve purificarsi dalle sue colpe con un lungo e duro Purgatorio, ma che importa quando l’eternità è assicurata? Anche se le pene di quelle poverette venissero prolungate fino alla fine de’ secoli, oh! Non se ne lamenterebbero certo. Anzi gioirebbero in cuor loro, non altrimenti che quel condannato a morte, il quale venisse a sapere essergli stata commutata la pena capitale a pochi anni di prigionia. Consolanti sono al certo queste rivelazioni dei Santi, ma sono per noi più consolanti ancora, quando ci facciamo a riflettere che non solo non sono contrarie allo spirito della Chiesa, ma sono invece al tutto consone a quanto ella ne pensa. Se infatti questa buona Madre sa che ha ricevuto da Dio il potere di dichiarare santi, cioè salvi, alcuni suoi veri amici, sa pure che non le è dato il conoscere quali siano i suoi nemici definitivi. Dio è un buon padre, troppo facilmente lo si dimentica; e non dà a nessun uomo, neppure alla Chiesa Cattolica, sua sposa inspirata, di conoscere il disonore e l’onta eterna dei suoi figli, e ciò appunto perché noi di tutti possiamo sperare quaggiù senza eccezione di sorta. – Ed ecco perché questa Chiesa, ad eccezione di Giuda l’Iscariota, non si è mai pronunziata sulla sorte eterna di alcun altro uomo col dire: Costui è un riprovato! Qualunque sia lo stato di delitto, d’eresia, d’incredulità, d’infamia, di bestemmia, in cui uno muoia sotto i nostri stessi occhi, giammai la Chiesa dice o può dire: Questo uomo è un riprovato. Essa piuttosto dice: Io ignoro il giudizio di Dio; di modo che la

Chiesa cattolica non ha mai condannato un solo uomo. Chi non conosce la risposta che S. Francesco di Sales dava a colui che gli domandava se Lutero fosse dannato? « Noi non lo sappiamo! » Né altrimenti può rispondere un Cattolico. Così, si prenda pure l’empio più notorio , il più grande nemico della Chiesa, e si domandi a questa Chiesa: Quest’uomo è desso un riprovato? Ed ella risponderà sempre: Io non lo so! Si cerchi pure di trovare un sol prete che ci affermi che Voltaire è dannato: molti potranno rispondere: Io lo suppongo: ma non un solo ci dirà: In nome della fede cattolica io l’affermo. – Eravi a Roma un santo sacerdote che passava per taumaturgo. Uno scellerato, condannato a morte per i suoi delitti, aveva rifiutato tutti i conforti religiosi e non cessava di bestemmiare. Durante tre giorni, il Santo, come lo chiamava il popolo, gli si mise a lato, non omettendo nessuna delle risorse che gli dettava il suo zelo e scongiurandolo a non volere morire nell’impenitenza finale. Ma tutto è inutile. Il condannato sale sul palco, il sacerdote gli tien dietro, lo prega, lo scongiura con le lagrime agli occhi; ma è ancora respinto. «Popolo, grida egli allora rivolto agli astanti, tu sei testimonio della morte d’ un riprovato! » Ma ecco qual fu l’effetto di questa parola. Quarant’anni dopo si aprì il processo per la canonizzazione di questo venerando sacerdote: i miracoli erano constatati ma il promotore della fede oppose ai miracoli la parola pronunziata sul palco di quello scellerato impenitente, e la canonizzazione non ebbe luogo. Non era quella la parola d’un santo!…

* *

Si consolino adunque e sperino tutte quante le anime afflitte che hanno perduto i loro cari e sono dubbiose sulla loro sorte eterna. Confidino nel Signore Gesù, così pieno di tenerezza e di misericordia, quale non si può immaginare in sulla terra. Che altro fu la sua vita, se non un atto continuo di bontà e di amore infinito per tutte le miserie dell’umanità? « Venite a me, voi tutti che soffrite e siete afflitti ed Io vi consolerò, dice Egli a tutti ». Ora la perdita di una persona cara ed il pensiero di non poterla rivedere mai più non è forse una delle più grandi afflizioni per un’anima credente? Andiamo quindi con fiducia a lui, e cerchiamo con le nostre preghiere di commuovere il suo cuore, sulla sorte di chi noi piangiamo, per quanto poco rassicurante ci possa sembrare la sua fine. E per sostenerci nella nostra speranza ricordiamo sempre che nessun limite, nessuna impossibilità è posta quaggiù tra la grazia e l’anima, finché le resta un soffio di vita. E chi ci potrà mai dire, ripeto, quanto attivo e pronto non sia l’intervento di questa grazia, e farci comprendere quanto efficace non sia la cooperazione da parte dell’anima che Dio vuol salvare? Non ci dicono forse i padri della vita spirituale che basta un attimo per ricevere questa grazia e cooperare al suo onnipotente e salutare soccorso?… Non disperiamo quindi dell’eterna salvezza di nessuno, e, senza voler scrutare gli imperscrutabili disegni della giustizia di Dio, facciamoci sempre un dolce dovere di raccomandare tutte le anime dei trapassati alla sua infinita misericordia.

ESEMPIO: La Madre di Ermanno Coen

Quante anime non giudichiamo noi forse irreparabilmente perdute, ed invece conosceremo noi salve nel giorno del giudizio finale, e salve per intercessione di Maria? Pensando alla grande bontà e potenza di questa Madre Don dobbiamo mai disperare della sorte eterna dei nostri cari defunti. Ed una prova eloquente di ciò ce la fornisce la vita del P. Ermanno Coen, il celebre ebreo convertito per opera della Vergine SS. — Uno dei più grandi dispiaceri di questo convertito era il vedere la resistenza e l’ostinazione che la sua diletta genitrice opponeva a tutte le sue istanze e preghiere, affinché lasciasse il giudaismo e si convertisse alla Religione Cattolica. Avendo appreso che ella era morta senza dare alcun seguo esterno di pentimento, senza avere ricevuto il Battesimo, ne rimase cosi addolorato, che non poteva darsi pace. Ne scrisse per consolarsi al B. Curato d’Ars, il quale gli rispose: « Abbiate fiducia, voi riceverete un giorno e precisamente nella festa dell’Immacolata Concezione una lettera che sarà per voi causa di una grande consolazione». Queste parole erano già state da lui quasi dimenticate, quando 1′ 8 Dicembre 1850, sei anni dopo la morte della madre sua, riceveva la seguente lettera, che gli veniva indirizzata da una religiosa di Londra, persona a lui totalmente sconosciuta. Costei, dopo avergli parlato di una comunicazione avuta da Gesù dopo la Comunione, così continuava: « Il buon Gesù, per farvi conoscere quello che avvenne al momento della morte di vostra madre m’illuminò di un raggio di luce divina e mi fece comprendere, o meglio mi fece vedere in Lui ciò che io mi sforzerò di narrarvi. Essendo vostra madre sul punto di rendere l’ultimo respiro, quando già sembrava priva di conoscenza e quasi fuor di vita, Maria SS. si presentò innanzi al suo divin Figlio ,, e prostrandosi ai suoi piedi gli disse : « Grazia, misericordia, Figlio mio, per quest’anima che sta per morire. Ancora un istante, e poi sarà perduta, perduta per tutta l’eternità. Deh! fate, ve ne supplico, per la madre del mio servitore Ermanno, quello che Voi vorreste che egli facesse per la vostra, se ella fosse al suo posto, e se Voi foste al suo. L’anima della madre sua è il suo più caro tesoro, me l’ha consacrata migliaia di volte, l’ha affidata alla sollecitudine e tenerezza del mio cuore. Come potrò io soffrire che ella perisca? No, no, quest’anima m’appartiene; io la voglio, la reclamo come mia eredità, come prezzo del vostro sangue e dei miei dolori a piè della croce ». La divina supplicante non aveva ancora finito di parlare, che una grazia forte, potente eruppe dalla sorgente di tutte le grazie, dal Cuore adorabile del nostro Gesù, e venne ad illuminare l’anima della povera moribonda e trionfare istantaneamente della sua ostinata resistenza. Quest’anima si volse immediatamente con amorosa confidenza verso Colui, la cui misericordia la perseguitava fino tra le braccia della morte, e gli disse: « O Gesù, Dio dei Cristiani, Dio che adora mio figlio, io credo, io spero in Voi, abbiate pietà di me ». In questo grido che Dio solo intese e che partiva dall’intimo del cuore della morente, eranvi rinchiusi il pentimento sincero della sua ostinazione e delle sue colpe, il desiderio del Battesimo e la volontà di riceverlo e di vivere secondo le regole ed i precetti della nostra santa Religione, se ella avesse riacquistata la salute. Questo slancio di fede e di speranza in Gesù fu l’ultimo sentimento di queill’anima: nel momento istesso in cui lo faceva salire verso il trono della divina misericordia, i deboli legami che ancora la tenevano avvinta alla sua spoglia mortale si ruppero ed ella cadeva ai piedi di Colui che era stato suo Salvatore prima di essere suo giudice. — Dopo avermi fatto conoscere tutte queste cose, Gesù aggiunse: « Dì al P. Ermanno che questa è appunto una consolazione che io voglio accordare ai suoi lunghi dolori, affinché benedica e faccia benedire ovunque la bontà del Cuore di mia Madre e la sua potenza sul mio ». – Che cosa conchiudere da ciò? Che bisogna pregare anche per i defunti, la cui vita anteriore ed anche gli ultimi istanti c’ispirassero serie inquietudini per quanto riguarda la loro sorte eterna. – Ma non bisogna però contare su tali miracoli di misericordia divina per vivere nell’indifferenza, in riguardo al grande affare della nostra santificazione, durante il tempo in cui Iddio ci largisce forza e salute: sarebbe questo un tentarlo, un esporci a morire in uno stato che ci condurrebbe direttamente all’eterna dannazione. Prendiamo adunque le nostre precauzioni, mentre siamo ancora in tempo, e riflettiamo sovente a quella grande massima dei Santi che Colui che ci creò senza il nostro concorso, non ci salverà in via ordinaria senza la nostra cooperazione.

NOTA ESPLICATIVA

« Molti sono i chiamati, pochi gli eletti ».

Non possiamo nasconderci che la sentenza finale delle due parabole citate nel trattenimento precedente: la parabola cioè degli operai evangelici mandati ad ore diverse a lavorare nella vigna e ricompensati allo stesso modo e l’altra degli invitati nuziali non dia a prima vista molto a riflettere. Quindi, quantunque già ne abbiamo detto alcunché nel corso del trattenimento, tuttavia non crediamo fuor di luogo, trattandosi di materia tanto importante ed atta ad ingenerare nelle anime timide e scrupolose eccessivi timori sulla sorte della loro eterna salute, ritornarvi brevemente sopra. Tanto più che non mancano autori antichi e moderni, ed anche di grande autorità, che si schierano apertamente in favore del senso letterale di detta sentenza, e sostengono che « la dottrina in essa contenuta possa e debba essere la dottrina della Chiesa, perché fondata sulla S. Scrittura» (Foggini). Chi non conosce, per limitarci ad un esempio, i celebri discorsi del P. Bridayne e di Mons. Massillon, i quali vogliono dal nostro testo provare « que les elùs, comparés au reste des hommes ne forment qu’un un petit troupeau, qui échappe presque à la vue?». È noto però ora, come di questa verità di ordine storico siasi abusato, applicandone il senso ad un falso supposto, di ordine dogmatico. Cioè: anche dei fedeli maggiore sarà il numero dei reprobi, che non quello degli eletti. Invece da quanto abbiamo detto appare che noi ci troviamo di fronte a verità d’ordine ben diverso. Per conseguenza è solo per accomodazione che esurge per molti il senso favorevole alla tesi del piccolo numero degli eletti. Ora è legge ermeneutica dell’accomodazione, secondo il chiarissimo Cornely « che non è mai lecito obbligare gli altri ad accettare per vera e genuina sentenza dello Spirito Santo, quel senso che per accomodazione che noi attribuiamo alle parole della S. Scrittura; perciò nella dimostrazione e conferma dei dogmi non v’ha luogo alla accomodazione ». – Però, per sempre più convincerci della verità di quanto andiamo dicendo, ci piace riferire qui brevemente quanto intorno a queste due parabole del Vangelo di S. Matteo scrisse poco fa un moderno autore: «Per quanto spetta alla prima parabola il testo ed il contesto ci dicono che la dottrina di Gesù versava intorno alla distribuzione delle grazie celesti, ed in specie, che la misura della mercede nel regno di Cristo dipende non unicamente dalla grandezza, dalla fatica e dalla durata del lavoro o del valore esterno d’ogni singola opera, ma anzitutto ed in primo luogo dalla libera volontà e benevolenza del Gran Padre di famiglia, che in questo regno distribuisce a ciascuno le sue grazie. Certamente il Signore darà a ciascuno secondo le sue opere, osservando la più rigorosa giustizia riguardo a tutti; però il criterio decisivo di una mercede maggiore o minore non è la grandezza esterna e farisaica dell’opera in s’è, ma la grazia interna colla cooperazione da parte dell’uomo. Ora la misura di questa grazia dipende unicamente dalla libera benevolenza di Dio. Per questo anche nella parabola vien messa in evidenza tutta speciale la libera volontà del padre di famiglia per rapporto agli ultimi venuti. In tempo cioè relativamente molto breve, potranno taluni nel regno dei cieli acquistarsi meriti grandi quanto altri in lunghi anni, perché la grazia di Dio, che è un dono gratuito della sua misericordia, verrà loro comunicata in una misura molto più generosa. Ecco come e perché avverrà che « gli ultimi saranno primi, ed i primi ultimi ». Ora, se con questa idea principale della parabola mettiamo in relazione le parole finali del comma, è chiaro che il senso non può essere che questo: molti sono chiamati al grado ordinario di grazie, con le quali cooperando del loro meglio, meriteranno un dì il compenso dovuto in cielo, ma pochi invece sono i privilegiati, gli eletti a gradi speciali e straordinari di grazie, con le quali « stagionati in breve tempo, compiranno una lunga carriera» (Sap. IV. 13). – « Anche la seconda parabola termina con le parole : « molti sono i chiamati, e pochi gli eletti » e qui pure devesi per conseguenza elucidare il comma in rapporto con l’idea fondamentale della similitudine, tanto più che a questa si connette con un « poiché – enim » conclusivo. Qui la dottrina di Gesù comprende due punti: la riprovazione de’ primi ospiti ed i requisiti necessari a quelli che di fatto prendono parte al festino. Se noi riferiamo ora la sentenza a questa seconda parte, cui parrebbe anche riferirsi realmente in vista dal nesso esterno che a questa la lega, si avrebbe questo senso: anche nel popolo della nuova alleanza, che per divina disposizione sottentrò nel regno del Messia al popolo d’Israele, sono molti bensì i chiamati, ma solo pochi saranno ammessi di fatto nel vero ed eterno possesso del regno. Ma questa conclusione, come è facile a vedersi, non si accorda in nessun modo con la parabola; perché pur tacendo della circostanza, che tra gli ospiti che riempirono la sala del convito, uno solo fu trovato senza l’abito nuziale, certamente ripugnerebbe all’idea espressa dalla parabola l’ammettere che degli ultimi invitati anche solamente pochi abbiano in definitiva adempiuto alla condizione necessaria e conservato il loro posto al banchetto. La sentenza di Gesù dice perciò relazione, non con questo secondo punto della parabola, ma col primo, dove si pronuncia la riprovazione del popolo giudaico, e si contiene anche l’idea prima e fondamentale della similitudine. E in realtà essa si applica molto bene al popolo d’Israele, perché in questa breve sentenza si compendia e racchiude tutta quanta la parabola, che doveva precisamente annunziare al popolo ed ai sacerdoti il decreto della divina giustizia contro la loro incredulità. « Molti sono i chiamati ma pochi gli eletti » cioè di tutta la grande massa del popolo israelitico, che nella sua totalità fu invitata alle nozze del Messia, solamente pochi perverranno di fatto al regno. Ciò che i profeti avevano predetto, ciò che l’Apostolo scrive ai Romani trova qui pure la sua piena riconferma; la grande maggioranza del popolo finirà per perdersi, solo una piccola parte d’Israele perverrà di fatto alla salute ». Così l’illustre autore Paste (Lezioni Scritturali) il quale così parlando non fa che esprimere la dottrina più comune ed accettata nella Chiesa e nello stesso tempo più soave e consolante pei Cristiani.

 

 

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I LUPI ERETICI DI TORNO: CARITATIS STUDIUM di S. S. LEONE XIII

Questa lettera enciclica, benché diretta alla Chiesa di Scozia, contiene numerosi spunti dottrinali. Viene ancora e sempre ribadito il primato assoluto di Pietro e della sua Sede, su tutte le chiese dell’orbe, e l’assoluta preminenza dottrinale del Magistero pontificio. E l’insegnamento è ancor più attuale ai nostri giorni, in cui una falsa e blasfema setta ha usurpato la Sede del Sommo Pontefice spacciandosi, angelo di luce mascherato, per Chiesa di Cristo, e tutti si sentono in dovere ed in diritto di esprimere qualsiasi idiozia teologica senza fondamento dottrinale ed “… Infatti, in questo vorticoso cammino delle idee, ci sono parecchi uomini che dalla brama di disquisire su ogni cosa con arroganza e dal disprezzo dell’antichità sono sviati a tal punto da non dubitare di negare ogni fede al sacro volume, o almeno di sminuirla. Di certo gli uomini gonfi per presunzione di scienza e troppo fiduciosi del proprio giudizio, non capiscono come sia pieno di impudente temerità il valutare in modo del tutto umano le opere che sono di Dio; e per questo non ascoltano affatto Agostino che proclama: “Onora la Scrittura di Dio, onora la Parola di Dio anche se è oscura, metti in secondo piano, con la pietà, l’intelligenza”. Ovviamente si precisa che l’unico criterio di giudizio degno di fede, è il Magistero della Chiesa Cattolica, unica bussola certa, sicura e divinamente infallibile per orientarsi nel mare di congerie intellettualoidi psico-distorte in auge presso scriteriati e improbabili “teologi fai da te”, che fanno capo a sette eretiche e scismatiche, come il Novus ordo Vat. II, le (para)massoniche Fraternità pseudo-sacerdotali, le organizzazioni scismatiche di surreali monasteri o chiesetta da operetta (tipo palmariana), o come i sedevacantisti feeneysti, i sedevacantisti apocalittici, i tesisti antiteologici e chi più ne ha più … La dottrina vera distingue il Cattolico dai lupi infiltrati nel gregge, quindi seguiamo il consiglio di salvezza del Sommo Pontefice, e tutto ciò che non è conforme alla dottrina divina della Chiesa Cattolica, sia da rigettare … anathema sit!!

Leone XIII

Caritatis studium

Lettera Enciclica

25 luglio 1898

Il magistero della Chiesa in Scozia.

Lo zelo di carità che Ci rende solleciti per la salvezza dei fratelli dissidenti, non permette in alcun modo che Noi rinunciamo alla possibilità di richiamare all’abbraccio del Pastore buono coloro che un multiforme errore tiene lontani dall’unico ovile di Cristo. Sempre più fortemente ogni giorno ci rattristiamo per la misera sorte di un così grande numero di uomini che sono privi della integrità della fede cristiana. Pertanto, consapevoli della Nostra santissima funzione e come spinti dalla persuasione e dall’impulso interiore del Salvatore che tanto ama gli uomini, e la cui persona, senza alcun Nostro merito, rappresentiamo, persistiamo pieni di speranza nel chiedere con insistenza che vogliano finalmente anche loro rinnovare con noi la comunione dell’unica e medesima Fede. Opera grande, e fra le opere umane di gran lunga la più difficile da ottenersi: e il portarla a compimento appartiene soltanto a colui che può tutto. Dio. Per questo stesso motivo però, non ci perdiamo d’animo, e neppure siamo distolti dal proposito dalla grandezza delle difficoltà, che le forze umane da sole non possono vincere. “Noi infatti predichiamo Cristo crocifisso. … E ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini” (1Cor 1, 23-25). In tanto grande sviamento di opinioni, in mali tanto numerosi che incalzano e incombono, ci sforziamo di mostrare quasi con mano dove sia da ricercare la salvezza, esortando e ammonendo tutte le genti, affinchè alzino “gli occhi verso i monti, da dove verrà l’aiuto”. Infatti, ciò che Isaia aveva predetto come futuro, lo ha confermato l’evento: la chiesa di Dio appunto, che per l’origine divina e per il divino splendore così si segnala, da mostrarsi grandemente mirabile agli occhi di coloro che guardano: “Alla fine dei giorni, il monte della casa del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli” (Is II,2).  – In questi Nostri pensieri e progetti, tiene un posto speciale la Scozia, che, gradita lungamente e assai a questa Sede Apostolica, Noi stessi abbiamo cara proprio per uno specifico motivo. Ricordiamo infatti con piacere che vent’anni or sono abbiamo dedicato le primizie del ministero apostolico agli scozzesi: il secondo giorno dall’inizio del Pontificato, ci siamo occupati della restaurazione presso di loro della gerarchia ecclesiastica. Da quel tempo, con l’appoggio vostro, venerabili fratelli, e con quello del vostro clero, sempre ci siamo dedicati molto chiaramente al bene di questa gente, la cui indole li rende senza dubbio molto adatti alla verità da abbracciare. Ora poi, dato che Ci troviamo in quell’età in cui è ormai più vicina l’umana conclusione, Ci è sembrato opportuno rivolgerci a voi, venerabili fratelli, e offrire al vostro popolo un nuovo documento della attenzione apostolica. – Quella terribile turbinosa tempesta che nel secolo sedicesimo ha fatto irruzione nella Chiesa, come moltissimi altri in Europa, così allontanò la maggior parte degli scozzesi dalla Fede Cattolica, che per più di mille anni avevano conservato con gloria. È cosa a Noi gradita richiamare con il pensiero le non piccole benemerenze dei vostri antenati verso la causa cattolica, e ugualmente Ci piace ricordare coloro, certamente non pochi, per la cui virtù e le cui gesta si è reso famoso il nome della Scozia. Forse oggi però i vostri cittadini si rifiutano di ricordare a loro volta che cosa debbono alla chiesa cattolica e alla sede apostolica. Ricordiamo cose a voi note e assolutamente certe. – Nei vostri antichi annali si legge di un certo Niniano, scozzese, che, avendo sentito con più ardore mentre leggeva le sacre Scritture lo slancio del progresso spirituale, ebbe a dire: “Mi alzerò, attraverserò i mari e le terre, cercherò la verità che la mia anima ama. Ma occorrono davvero tanto grandi cose? Non è stato forse detto a Pietro: “Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”? Dunque nella fede di Pietro non c’è nulla di meno, nulla di oscuro, nulla di imperfetto, nulla di ostile per cui le dottrine depravate e le sentenze perverse, quasi porte dell’inferno, siano in grado di prevalere. E dove è la fede di Pietro, se non nella sede di Pietro? Di certo là, è là che io debbo andare, affinché uscendo dalla mia terra e dalla mia parentela, e dalla casa di mio padre, meriti di vedere nella terra di visione la volontà del Signore e di essere protetto dal suo tempio”. Si affrettò dunque pieno di riverenza verso Roma; e avendo con larghezza appreso presso i sepolcri degli Apostoli dallo stesso fonte e capo della cattolica verità, su ordine e mandato del Sommo Pontefice, ritornato a casa, educò i cittadini con gli esempi della fede romana, fondò la chiesa di Galloway, due secoli prima che il beato Agostino giungesse presso gli inglesi. Questa fede san Colomba, questa stessa gli antichi monaci, con le virtù così preclare dei quali è nobilitata la sede di Iona, questa essi custodirono con il massimo ossequio e insegnarono ad altri con la più grande diligenza. E perché non ricordare la regina Margherita, luce e splendore non soltanto della Scozia, ma del nome Cristiano in genere? Posta al vertice di cose mortali, avendo tuttavia aspirato in tutta la sua vita soltanto a ciò che è immortale e divino, riempì tutta la terra con lo splendore delle sue virtù. Ora poi, se ha raggiunto una santità così eccelsa, l’ha raggiunta per ispirazione e su impulso della Fede Cattolica. Non è poi forse la fermezza della Fede Cattolica che ha reso fortissimi difensori della patria Wallace e Bruce, luminari della vostra gente? Tralasciamo gli altri innumerevoli cittadini grandemente utili alla società, che la chiesa madre non ha mai cessato di formare. Tralasciamo tutti gli altri aiuti che sono stati a voi dati pubblicamente per mezzo di essa. Certamente con la sua provvidenza e autorità sono state aperte le sedi famosissime per gli ottimi studi di St. Andrews, Glasgow, Aberdeen, ed è stato costituito lo stesso sistema di amministrazione dei giudizi civili. Si capisce quindi che c’è un motivo sufficiente per cui il nome di “figlia speciale della Santa Sede” sia stato attribuito alla gente di Scozia.  – Da quel tempo però si è compiuto un grande rivolgimento e si è estinta in moltissime persone la fede degli avi. Dovremo forse pensare che non si potrà mai più rinnovare? Anzi, si manifestano invece alcuni segni inequivocabili che invitano a nutrire buona speranza riguardo agli scozzesi. Vediamo infatti che di giorno in giorno i Cattolici vengono considerati con maggiore gentilezza e benevolenza; che ai dogmi della sapienza cattolica non si mostra più, come un tempo, il disprezzo da parte del popolo, da molti invece simpatia, da non pochi rispetto; che le perverse opinioni che impediscono fortemente il discernimento del vero, a poco a poco vengono meno. E voglia il cielo che fiorisca con più abbondanza la ricerca della verità; e non si deve neppure dubitare che una più alta conoscenza della religione cattolica, ottenuta appunto genuina dalle sue fonti, e non da quelle altrui, cancelli totalmente dalle anime siffatti pregiudizi. – A tutti gli scozzesi si deve poi tributare una non piccola lode: hanno sempre avuto la consuetudine di studiare e riverire le divine Scritture. Permettano dunque che Noi con amore attingiamo qualcosa da questo argomento in ordine alla loro salvezza. È evidente che in questa venerazione delle sacre lettere, di cui abbiamo parlato, è in certo qual modo presente un qualche accordo con la Chiesa Cattolica; perché non potrebbe essere finalmente l’inizio del ristabilimento dell’unità? Non rifiutino di ricordare di aver ricevuto i libri dei due Testamenti dalla Chiesa Cattolica e non da altri: e che si deve alla vigilanza e alle continue attenzioni di questa se le sacre lettere sono uscite integre dalle terribili tempeste dei tempi e delle situazioni. – La storia dimostra che già nell’antichità il III Concilio di Cartagine e il pontefice romano Innocenzo I hanno operato con merito immortale per l’integrità delle Scritture. Più recentemente, sono note le vigilanti fatiche del medesimo genere di Eugenio IV e del Concilio di Trento. E anche Noi stessi, ben consapevoli dei tempi, con una lettera enciclica pubblicata recentemente, abbiamo richiamato con severità i Vescovi del mondo cattolico, e li abbiamo ammoniti diligentemente sul da farsi per salvaguardare l’integrità e la divina autorità delle sacre lettere. – Infatti, in questo vorticoso cammino delle idee, ci sono parecchi uomini che dalla brama di disquisire su ogni cosa con arroganza e dal disprezzo dell’antichità sono sviati a tal punto da non dubitare di negare ogni fede al sacro volume, o almeno di sminuirla. Di certo gli uomini gonfi per presunzione di scienza e troppo fiduciosi del proprio giudizio, non capiscono come sia pieno di impudente temerità il valutare in modo del tutto umano le opere che sono di Dio; e per questo non ascoltano affatto Agostino che proclama: “Onora la Scrittura di Dio, onora la Parola di Dio anche se è oscura, metti in secondo piano, con la pietà, l’intelligenza”. “Coloro che studiano le venerabili lettere debbono essere esortati… a pregare per poter comprendere”. “Non affermino temerariamente come conosciuto ciò che invece non è conosciuto … nulla deve essere affermato con temerarietà, ma ogni cosa deve essere trattata cautamente e con modestia”. – Pur tuttavia, siccome la Chiesa doveva sussistere in perpetuo, essa ha dovuto essere fondata non sulle sole Scritture, ma su di un qualche altro fondamento. Spettò certo al suo divino fondatore fare in modo che il tesoro delle celesti dottrine non venisse mai dissipato nella Chiesa; cosa che sarebbe necessariamente avvenuta, se lo si fosse affidato all’arbitrio dei singoli. È dunque evidente che fin dall’inizio della Chiesa è stato necessario un Magistero vivo e perenne, al quale fosse affidato dall’autorità di Cristo sia l’insegnamento salvifico di tutte le altre verità, sia l’interpretazione sicura delle Scritture; e che questo Magistero, munito e custodito dalla continua assistenza dello stesso Cristo, nel suo insegnamento, non potesse in alcun modo cadere in errore. A questo Dio ha provveduto con grandissima sapienza e larghezza per mezzo del suo unigenito Figlio, Gesù Cristo: e questi ha posto al sicuro l’autentica interpretazione delle Scritture quando ha ordinato ai suoi Apostoli, prima di tutto e principalmente, di non mettere mano alla scrittura, e di non distribuire senza discernimento e senza regola i libri delle Scritture più antiche, ma di insegnare a tutte le genti a viva voce, e di condurle con la parola alla conoscenza e alla professione della celeste dottrina: “Andate in tutto il mondo e predicate l’evangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). – Il primato poi dell’insegnamento lo ha affidato a uno solo, sul quale doveva poggiarsi, come sul fondamento, la totalità della chiesa docente. Consegnando infatti a Pietro le chiavi del regno dei cieli. Cristo gli affidò, nello stesso tempo, di reggere gli altri che dovevano dedicarsi al “ministero della parola”: Conferma i tuoi fratelli” (Lc XXII,32). Dovendo così i fedeli imparare da questo magistero tutto ciò che riguarda la salvezza, è necessario che essi gli richiedano anche la stessa intelligenza dei libri divini. – Appare poi facilmente come sia incerta e incompleta, e inadeguata allo scopo, la dottrina di coloro che pensano che si possa ricercare il senso delle Scritture unicamente sulla base delle Scritture stesse. Infatti, ammesso questo principio, il criterio supremo della interpretazione è posto infine nel giudizio dei singoli. Allora, cosa di cui ci siamo occupati prima, a seconda della disposizione d’animo, di ingegno, di conoscenze, di costumi con cui ciascuno si sarà accostato alla lettura, così interpreterà il significato della Parola divina sulle medesime cose. Di conseguenza, la differenza di interpretazione genera necessariamente la diversità del sentire e le contese, trasformando così in occasione di male, ciò che era stato dato per il bene dell’unità e della concordia. – La realtà stessa dimostra che Noi parliamo secondo verità. Infatti, tutti coloro che sono privi della fede cattolica e le sette fra loro in disaccordo riguardo alla religione, avanzano tutte la pretesa che le sacre Scritture confermano le loro convinzioni e le loro istituzioni. Tanto più che non vi è nessun dono di Dio così santo di cui l’uomo non possa abusare a sua rovina, quanto le stesse divine Scritture, come con gravi parole il beato Pietro ammonisce: “Gli ignoranti e gli instabili corrompono [le divine scritture]… per loro propria rovina” (2Pt III,16). Per questo motivo Ireneo, molto vicino al tempo degli apostoli e loro interprete fedele, non ha mai cessato di inculcare nelle menti degli uomini che la conoscenza della verità può essere ricevuta soltanto dalla viva dottrina della chiesa: “Dove infatti c’è la Chiesa, lì c’è pure lo Spirito di Dio, e dove c’è lo Spirito di Dio lì c’è la Chiesa e ogni grazia; lo Spirito è la verità …”. “Dove si trovano i carismi del Signore, là bisogna imparare la verità, presso coloro in cui si trova la successione Apostolica della Chiesa”.” Se i Cattolici, anche se non così uniti nell’ambito delle cose civili, sono tenuti tuttavia congiunti e connessi fra di loro nella meravigliosa unità della fede, non c’è il minimo dubbio che lo siano in virtù e ad opera principalmente di questo Magistero. – Molti scozzesi separati da noi nella fede, amano tuttavia il Nome di Cristo con tutto il cuore, e cercano di osservare i suoi insegnamenti e di imitare i suoi santissimi esempi. Ma con quale intelletto e con quale cuore potranno mai conseguire ciò che perseguono, se non permettono di essere ammaestrati loro stessi e gli altri alle cose celesti in quel modo e per quella via che lo stesso Cristo ha costituito? Se non sono in ascolto della parola della Chiesa, al cui insegnamento lo stesso Autore della fede ordinò agli uomini di obbedire come a lui stesso: “Chi ascolta voi, ascolta me, chi disprezza voi, disprezza me”? Se non chiedono gli alimenti della pietà e di tutte le virtù a colui che il Pastore supremo delle anime ha costituito Vicario della sua funzione, affidandogli la cura di tutto il gregge? Nel frattempo è certo che Noi non verremo meno al Nostro compito: prima di tutto quello di chiedere supplici a Dio che voglia concedere alle menti inclinate al bene un più abbondante sostegno della sua grazia. Possa davvero la bontà divina, da Noi supplicata, donare alla madre Chiesa questa desideratissima consolazione: potere riabbracciare molto presto tutti gli scozzesi ricondotti “in spirito e verità” alla fede dei padri. Che cosa non devono essi sperare da questa recuperata concordia con noi? Subito risplenderebbe ovunque la perfetta e assoluta verità con il possesso dei beni supremi che avevano perduto con la secessione. Tra questi beni uno di gran lunga si distingue, e la cui privazione è veramente miserevole: intendiamo il sacrificio santissimo nel quale Gesù Cristo, sacerdote e vittima nello stesso tempo, si offre Lui stesso ogni giorno al Padre, per il ministero dei suoi sacerdoti sulla terra. In virtù di questo sacrificio vengono a noi applicati gli infiniti meriti di Cristo, prodotti appunto dal sangue divino che Lui, posto sulla croce, per la salvezza degli uomini ha effuso una volta per tutte. La fede in queste cose fioriva integra presso gli scozzesi nel tempo in cui san Colomba trascorreva la sua vita mortale: e poi anche più tardi, quando qua e là furono edificati grandiosi templi, che attestano per i posteri lo splendore dell’arte e della pietà dei vostri antenati. – L’essenza stessa e la natura della Religione implicano in realtà la necessità del Sacrificio. In questo infatti risiede la parte essenziale del culto divino, nel riconoscere e riverire Dio come il supremo Dominatore di tutte le cose, sotto il cui potere ci troviamo noi e tutte le nostre cose. Non vi è infatti altra ragione e causa del Sacrificio, che proprio per questo è detto “cosa divina”: eliminati i sacrifici, nessuna religione può sussistere e nemmeno essere pensata. La legge dell’evangelo non è inferiore alla legge antica: è anzi di molto superiore, perché essa ha pienamente portato a compimento ciò che quella aveva iniziato. Molto tempo prima che Cristo nascesse, i sacrifici praticati nell’Antico Testamento prefiguravano infatti il Sacrificio compiuto sulla croce; dopo la sua Ascensione al cielo, quel medesimo sacrificio viene continuato con il sacrificio eucaristico. Errano pertanto grandemente coloro che lo respingono come se fosse una diminuzione della verità e della forza del sacrificio che Cristo ha compiuto inchiodato alla croce: “essendosi offerto una sola volta per espiare i peccati di molti” (Eb IX, 28). – Quella è stata una purificazione degli uomini del tutto perfetta e assoluta: e non è affatto un’altra, ma è la stessa, quella contenuta nel Sacrificio Eucaristico. Poiché infatti era necessario che un rito sacrificale accompagnasse in ogni tempo la Religione, il divino disegno del Redentore fu che il sacrificio consumato una volta per tutte sulla croce, diventasse perpetuo e perenne. La ragione di questa perpetuità è contenuta nella santissima Eucaristia, che non presenta soltanto una vana figura o memoria della cosa, ma la stessa verità, quantunque in un modo diverso: per questo l’efficacia di questo sacrificio, sia per ottenere sia per espiare, deriva totalmente dalla morte di Cristo: “Poiché da dove sorge il sole fin dove tramonta, il mio nome è grande fra le genti; e in ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome un’oblazione pura; perché grande è il mio nome fra le genti” (Mal 1,11). – Quanto al resto, poi, il Nostro discorso si riferisce più propriamente a coloro che professano il nome cattolico: e per questo semplice motivo, perché vogliano con la loro opera essere di un qualche giovamento al Nostro progetto. La carità cristiana comanda di ricercare, secondo le possibilità di ciascuno, la salvezza dei più vicini. A loro domandiamo quindi, prima di tutto, di non desistere dal pregare e supplicare per questo motivo Dio, il quale soltanto può effondere nelle menti la luce efficace e piegare le volontà a suo piacimento. Infine, poiché soprattutto gli esempi hanno il potere di piegare le anime, si dimostrino loro stessi degni della verità di cui per dono divino sono in possesso; e alla consuetudine di una vita bene ordinata, aggiungano il pregio della fede che professano: “La vostra luce risplenda dinanzi agli uomini, affinchè vedano le vostre opere buone” (Mt 5,16). E conseguano insieme, con l’esercizio delle virtù civili, che di giorno in giorno sempre più sia manifesto che non è possibile presentare, se non per calunnia, la religione cattolica come nemica della nazione: anzi da nessun’altra parte si ritrova un aiuto maggiore per la sua dignità e il pubblico vantaggio. – È poi anche di grande utilità custodire con ogni impegno, anzi rendere ancora più solida, e circondare con ogni difesa, l’educazione cattolica dei giovani. Noi sappiamo bene che ci sono presso di voi delle scuole di carattere pubblico adeguatamente organizzate per la gioventù desiderosa di imparare, nelle quali non si sente certo la mancanza di un ottimo metodo di studio. Ma è necessario sforzarsi e fare sì che le scuole cattoliche non siano in nulla inferiori alle altre; e non si deve neppure fare in modo che i nostri adolescenti siano meno preparati nella cultura letteraria e nella finezza della dottrina, cose che la fede cristiana reclama come stimatissime compagne per la sua difesa e per il suo ornamento. L’amore della Religione e la carità di patria esigono dunque che tutti gli istituti che i Cattolici convenientemente possiedono, sia per l’istruzione elementare sia per l’insegnamento delle discipline superiori, essi cerchino di rafforzarli e di accrescerli secondo le loro possibilità. – È anche giusto che si curi particolarmente l’erudizione e la cultura del clero, che oggi può mantenere con dignità e con utilità il suo posto soltanto se risplenderà di ogni pregio di cultura e di dottrina. A questo proposito proponiamo alla beneficenza dei cattolici di aiutare con il massimo zelo il Collegio Blairsense. Opera utilissima, avviata con grande zelo e generosità da un devotissimo cittadino, non si permetta con una interruzione che venga meno e che vada in rovina, ma con emula generosità si proceda anche in meglio, e si giunga celermente al compimento. Questo infatti ha un grande valore, come è grande il valore del provvedere affinché in Scozia l’ordine sacro possa davvero essere curato scrupolosamente e in modo conforme ai tempi. – Tutte queste cose, venerabili fratelli, che il nostro sentire così benevolo verso gli scozzesi Ci ha fatto dire, sappiate intenderle come particolarmente affidate al vostro zelo e alla vostra carità. Inoltre, della premura di cui a Noi avete ora dato prova in modo eccellente, continuate a dar prova, affinchè siano compiute queste cose che sembrano non poco giovevoli allo scopo prefissato. Certamente si tratta di una causa difficilissima, come spesso abbiamo dichiarato, e ben al di là delle forze umane per essere risolta; ma di gran lunga santissima e del tutto conforme ai disegni della bontà divina. Per questo non tanto Ci impressiona la difficoltà della cosa, quanto ci consola il pensiero che mai mancherà l’aiuto di Dio misericordioso a voi che vi impegnate assiduamente a seguire le Nostre prescrizioni. –  Come garanzia dei doni celesti e testimonianza della Nostra paterna benevolenza, a voi tutti, venerabili fratelli, al clero e al vostro popolo, impartiamo con grande affetto nel Signore la benedizione apostolica.

Roma, presso san Pietro, 25 luglio 1898, anno XXI del Nostro pontificato.

 

CHRIST’S KINGDOM ON EARTH

CHRIST’S KINGDOM ON EARTH

[Il regno di Cristo sulla terra:

Sermone-meditazione di

fr. U.K., Sacerdote Cattolico con missione canonica in unione on il Santo Padre GREGORIO XVIII.]

 

The Perpetual Sacrifice of the Cross

On some Internet sites and even in books circulating among Catholics, one can find strange statements. For example:“God the Father will cease having the Real Presence on the altars of the world, as the unbloody Sacrifice.” – Also: “We know now that the Priests could only be removed once the Papacy itself was put aside, into Exile.”- It seems that by the first statement someone says that God the Father “will cease” or stop Christ from being the Priest and the victim of the unbloody Sacrifice. – By the second statement, someone declares the Priesthood, instituted by Christ Himself, as removed, when the Papacy was put into Exile. – Both of these statements are heretical, because they contradict Holy Scripture and the Holy Tradition of the Catholic Church. – What are Catholics obliged to know about the perpetual renewal of the Sacrifice of the Cross? – The Real Presence on the altars as the unbloody Sacrifice and the Priesthood of Christ will be continued until the last day of this world’s existence. – First we must know the teaching of the New Testament and of the Catholic Catechism, which is the following:

“Mass will be celebrated until the Day of Judgment (1 Cor, XI, 26). Not any or all of the adversaries of the Church, not Antichrist himself, will be able to suspend the offering of the holy sacrifice. The last Mass said will be on the last day of this world’s existence. This is what Our Lord meant when He said: “I am with you all days, even to the consummation of the world” (Matt. xxviii, 20)”.

The Catechism Explained,
From the original of Rev. Francis Spirago, Professor of Theology,
Edited by Rev. Richard F. Clarke, S.J.
Nihil Obstat: Thos. L. Kinkead, Censor Librorum,
Imprimatur: + MICHAEL AUGUSTINE, Archbishop of New York.
New York, August 8, 1899.
Copyright 1899, by Benzinger Brothers,
New York, Cincinnati, Chicago
p. 536.

“He promises to be with them (not for three or four hundred years only) but all days even to the consummation of the world. How then could the Catholic Church ever go astray; having always with her pastors, as is here promised, Christ himself, who is the way, the truth, and the life. St. John, xiv.”

“For as often as you shall eat this bread, and drink the chalice, you shall shew the death of the Lord, until he come.” (1 Cor, XI, 26).

HOLY BIBLE

Douay Version of the Old Testament of 1609, and with the Rhemish Version of the New Testament of 1582,

Published by JAMES DUFFY, 7, Wellington-quay, Dublin, MDCCCLVII.

PUBLISHED WITH THE APPROBATION OF THE CATHOLIC ARCHBISHOPS & BISHOPS OF IRELAND

APPROBATION Given at Dublin, this 4th day of May, 1857.

+ PAUL CULLEN, Archbishop of Dublin, Primate of Ireland,

Delegate Apostolic, &c., &c.

+ JOSEPH DIXON, Archbp. of Annagh, Primate of all Ireland,&c.

+ JOHN, Archbishop of Tuam.

+ PATRICK M‘GETTIGAN, Bishop of Raphoe.

+ JOHN RYAN, Bishop of Limerick.

+ JAMES BROWNE, Bishop of Kilmore.

+ JOHN CANTWELL, Bishop of Meath.

+ THOMAS FEENY, Bishop of Killala.

+ CHARLES MAC NALLY, Bishop of Clogher.

+ EDWARD WALSHE, Bishop of Ossory.

+ WILLIAM DELANEY, Bishop of Cork.

+ JOHN DERBY, Bishop of Clonfert.

+ FRANCIS KELLY, Coadjutor Bishop of Derry.

+ DANIEL VAUGHAN, Bishop of Killaloe.

+ WILLIAM KEANE, Bishop of Cloyne and Ross.

+ PATRICK DURCAN, Bishop of Achonry.

+ PATRICK FALLON, Bishop of Kilfenora and Kilmacduagh.

+ JOHN KILDUFF, Bishop of Ardagh.

+ DAVID MORIARTY, Bishop of Kerry.

+ JOHN P. LEAHY, Coadjutor Bishop of Dromore.

+ D. O’BRIEN, Bishop of Waterford.

+ JAMES WALSHE, Bishop of Kildare and Leighlin.

+ DANIEL M‘GETTIGAN, Coadjutor Bishop of Raphoe. ,

+ L. GlLLOOLY, Coadjutor Bishop of Elphin.

+ JAMES MAC EVILLY, Bishop of Galway.

+ THOMAS FURLONG, Bishop of Ferns.

1 Cor, XI, 26 and Annotations on St. Mathew 28:18-20.

So, we see that the Word of God and the Catholic Catechism univocally and unequivocally state that “Mass will be celebrated until the Day of Judgment”, and the “Antichrist himself, will not be able to suspend the offering of the holy sacrifice”, and therefore the Blessed Sacrament of the altar and the Priesthood are Sacraments, which were instituted by God Himself, for His Church, “even to the consummation of the world”.

 

The teaching of THE COUNCIL OF TRENT:

“On the Institution of the Most Holy Sacrifice of the Mass.

Forasmuch as, under the former Testament, according to the testimony of the Apostle Paul, there was no perfection, because of the weakness of the Levitical priesthood; there was need, God, the Father of mercies, so or daining, that another priest should rise, according to the order of Melchisedech, our Lord Jesus Christ, who might consummate and lead to what is perfect as many as were to be sanctified. – He, therefore, our God and Lord, though He was about to offer Himself once on the altar of the Cross unto God the Father, by means of His death, there to operate an eternal redemption; nevertheless, because that His priesthood was not to be extinguished by His death, in the Last Supper, on the night in which He was betrayed – that He might leave, to His own beloved Spouse the Church, a visible sacrifice (can. i), such as the nature of man requires, whereby that bloody sacrifice, once to be accomplished on the Cross, might be represented, and the memory thereof remain even unto the end of the world, and its salutary virtue be applied to the remission of those sins which we daily commit, – declaring Himself constituted a priest forever, according to the order of Melchisedech, He offered up to God the Father His own Body and Blood under the species of bread and wine; and, under the symbols of those same things, He delivered (His own body and blood) to be received by His Apostles, whom He then constituted priests of the New Testament; and by those words, “Do this in commemoration of me” He commanded them and their successors in the priesthood to offer (them); even as the Catholic Church has always understood and taught (can. ii) (vii. 11, 18, 3 Heb. x. 14, 2Ibid- Heb. ix. 13 ff). For, having celebrated the ancient Passover, which the multitude of the children of Israel immolated in memory of their going out of Egypt, He instituted the new Passover (to wit), Himself to be immolated, under visible signs, by the Church through (the ministry of) priests, in memory of His own passage from this world unto the Father, when by the effusion of His own Blood He redeemed us, and delivered us from the power of darkness, and translated us into His kingdom. (1 Cor. xi. 24, Ps. cix. 4, I Cor. xi. 24, Ex. xii, xiii, Col. i. 13).”

DOGMATIC CANONS AND DECREES
AUTHORIZED TRANSLATIONS OF THE DOGMATIC DECREES OF THE COUNCIL OF TRENT, THE DECREE ON THE IMMACULATE CONCEPTION, THE SYLLABUS OF POPE PIUS IX, AND THE DECREES OF THE VATICAN COUNCIL
Nihil Obstat REMIGIUS LAFORT, D.D., Censor
Imprimatur +JOHN CARDINAL FARLEY, Archbishop of New York  – June 22, 1912
COPYRIGHT, 1912, BY THE DEVIN-ADAIR COMPANY
SESSION XXII September 17, 1562

DOCTRINE ON THE SACRIFICE OF THE MASS
DOGMATIC CANONS AND DECREES; CHAPTER I On the Institution of the Most Holy Sacrifice of the Mass p.132-134.
CHAPTER IX Preliminary Remark on the Following Canons ON THE SACRIFICE OF THE MASS, p.143

Perhaps you also heard statements like the following: “Masses wherein the priest alone communicates sacramentally are unlawful, and are therefore to be abrogated.”

Such statements as this are heretical too.

456 years ago, the same COUNCIL OF TRENT infallibly pronounced:

Canon VIII. If anyone saith that Masses wherein the priest alone communicates sacramentally are unlawful, and are therefore to be abrogated; let him be anathema” (the same book).

Let us look at the teaching of the

Baltimore Catechism.

“Was all sacrifice to cease with the death of Christ?

No; there was to be in the New Law of Grace a perpetual sacrifice, in order to renew continually that which was once accomplished on the Cross, and to apply the fruits of the sacrifice of the Cross to our souls.

Although the sacrifice of the Cross once accomplished was sufficient for all time, yet not the remembrance of a remote sacrifice only was to remain with men, but the sacrifice was to be ever present with them, and that which had been acquired for all men upon the Cross was, by a perpetual renewal of this sacrifice, to be applied also to each one.

Was such a sacrifice promised to us by God?

Yes; even in the Old Law it was prefigured by the sacrifice of Melchisedech, and was foretold by the Prophet Malachias: “I have no pleasure in you (Jews), saith the Lord of Hosts, and I will not receive a gift of your hand; for from the rising of the sun even to the going down, my name is great among the Gentiles, and in every place there is sacrifice, and there is offered to my name a clean oblation” (Mal. i, 10, 11). In this prophecy it is clearly expressed that:

The Jewish sacrifice was to be abolished by God.

In its place a new sacrifice was to be offered, which should be a clean sacrifice, and, as the Hebrew expression indicates, an oblation. This sacrifice was to be offered up to God perpetually among all nations, and in all places.”

This prophecy certainly does not apply to the bloody sacrifice of the Cross, which is not offered at all times and in all places, but was only offered once, upon Golgotha.

This prophecy applies, however, perfectly to the Holy Sacrifice of the Mass.

The sacrifice of Melchisedech was a figure of the Sacrifice of the Mass. Melchisedech was King of Salem, prince and priest, and as such he was a type of Jesus Christ. Melchisedech offered up bread and wine. His sacrifice was an offering of food.

Jesus Christ was to institute a more exalted sacrifice.

Which is the perpetual sacrifice foretold by Malachias?

It is the Sacrifice of the Mass.

By whom was the Sacrifice of the Mass instituted?

It was instituted by Jesus Christ at the Last Supper.

At the Last Supper Christ Himself celebrated the Holy Sacrifice of the Mass for the first time, and gave also to His Apostles the power and command to continue to celebrate it. Christ at the Last Supper offered up Himself to His heavenly Father under the appearances of bread and wine. He said: “This is my body, which shall be offered up for you. This is the chalice of my blood, which shall be shed for you.” By the separated species Jesus here evidently represents His death, which certainly was a sacrifice. He celebrates it beforehand, gives even now His Body and His Blood for us. He offers Himself for us to His heavenly Father, to whom He looks up, whom He thanks, to whom also He offers Himself upon the Cross. We find here at the Last Supper the same parts which form the chief parts of the Mass, as: Offertory, Consecration, Communion. Without sacrifice the figure of the Holy Eucharist, the Paschal Lamb, would not be exactly fulfilled.

Jesus instituted the Supper of the New Law as sacrifice and Sacrament for all time, by saying to His Apostles: “Do this in commemoration of me.”

For this reason the Council of Trent declares: “Whoever supposes by the words: “Do this in commemoration of me,” Christ did not ordain the Apostles as priests, or did not intend that they and other priests should offer up His Body and Blood, let him be anathema (excommunicated).”

Sunday School Teacher’s

EXPLANATION Of the Baltimore Catechism

BY THE REV. A. URBAN,
Nihil Obstat REMIGIUS LAFORT, S. T. L. – Censor Librorum

Imprimatur +JOHN M FARLEY, D. D – Archbishop of New York

NEW YORK, SEPTEMBER 14, 1908 – Copyright, 1908, by JOSEPH F. WAGNER, New York, Lesson Twenty-fourth, On the Sacrifice of the Mass, p.290, 291.

Thus, we can conclude:

God cannot contradict Himself.

According to God’s Revelation, God will not cease having the Real Presence on the altars of the world, as the unbloody Sacrifice until the consummation of the world, and Christ’s Priesthood was not removed once the Papacy itself was put aside, into Exile.

The Church of Christ, i.e. the Catholic Church, being God’s Institute, also cannot contradict Her Founder and Head.

Catholics are obliged to believe only in the truths revealed by God Himself and His Church. Consequently, every teaching, that contradicts God’s Revelation and the infallible Church’s teaching, must be absolutely rejected by Catholics.

In the Perpetual Sacrifice of the Cross,

Fr. UK

Il Sacrificio della croce è perpetuo

Gesù Cristo è il Monarca. La Chiesa di Cristo è la sua Monarchia. La Chiesa ha ricevuto la costituzione monarchica da Gesù Cristo stesso.

Cristo è il Re. La Chiesa è il regno di Cristo sulla terra.

Cristo è l’imperatore. La Chiesa è l’impero universale di Dio fondato su Gesù-Cristo stesso.

La Chiesa è la Sposa dell’Agnello di Dio, che toglie i peccati dei suoi membri, è la Gerusalemme celeste, la Città di Dio.

Cristo è lo Sposo e la Chiesa è la Sposa di Dio, la Regina del cielo.

Cristo è il capo della Chiesa. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo.

La Chiesa è la Casa di Dio e il suo Regno senza fine.

“Il Regno di Cristo fu molto chiaramente predetto dai profeti dell’Antico Testamento, gli ebrei cercarono un Principe della casa di David, perché pensavano che sarebbe venuto a renderli politicamente dominatori su tutta la terra. Essi si aspettavano un regno temporale, ma non un impero spirituale, religioso, come la Chiesa. Le loro menti, distorte dalla sapienza mondana, si rifiutarono di ricevere il Figlio di Dio, nato dalla casa di re Davide ed erede di Salomone, essi non desideravano avere un Re, ma Cesare, i cui successori li hanno in seguito dispersi dal loro paese e dalla loro casa quando hanno distrutto Gerusalemme “.

La Chiesa di Gesù Cristo è la città santa, la nuova Gerusalemme.

“C’è solo un’autorità nella Chiesa: l’autorità di Cristo”.

“Come Cristo ha ricevuto la pienezza del potere dal Padre suo, così Egli lo ha affidato interamente a Pietro e ai suoi successori”, dice san Cirillo.

“Essendo il Papa così strettamente unito a Cristo, la sua fede non può crollare, né vacillare, perché il nostro Redentore ha pregato per Pietro, affinché la sua fede non venisse mai meno, ed infatti nulla turba la Chiesa quanto l’attacco al Papato.” Se la Sede di Pietro viene scossa, pure l’intero Episcopato è minacciato … “dicono gli antichi vescovi di Francia”.

“Cristo non è morto per se stesso ma per noi; Egli ha fondato la Chiesa per la nostra salvezza, ha consacrato i Vescovi, ha ordinato sacerdoti e li ha inviati per la salvezza delle anime, ha nominato Pietro capo della Chiesa per l’unità ed il benessere della Chiesa”

 “Cristo è il capo e la fonte sia degli Ordini Sacri che della giurisdizione, che è l’esercizio degli ordini sacri. Perciò nessun Vescovo o pastore può esercitare le sue funzioni senza il consenso del Papa, che Cristo ha nominato nella persona di Pietro per nutrire i suoi agnelli e pascere le pecore del suo gregge “.

“I Vescovi ricevono la loro giurisdizione dal Pontefice, e governano le loro diocesi a nome proprio, essendo i Vescovi titolari delle loro sedi; il Papa, invece, è il Vescovo titolare non delle loro sedi, ma della Sede di Pietro, collocata nella città eterna di Roma. “

“I Papi possono essere cacciati da Roma per un certo periodo, per cause politiche o di altro tipo, e la storia ci dice infatti che diversi tra di loro sono stati cacciati molte volte dalla città eterna; ma successivamente, passata la tempesta, si torna di nuovo nella città di Pietro”.

“Cristo ha costituito la Chiesa dandogli la forma di una monarchia. Negarlo sarebbe contrario agli insegnamenti della Chiesa, dato che è insegnamento “De fide”. Cristo non ha costituito la Chiesa per essere amministrata come una repubblica, nella quale i Vescovi ed i sacerdoti fossero eletti dai laici. Poiché tutto il potere della Chiesa discende da Cristo fino al clero, l’autorità del clero non proviene dunque dal popolo ma da Cristo stesso.

“Cristo è il Re del suo clero e dei suoi laici.” La salvezza dei Cristiani non dipende dai re, dai monarchi, né dagli imperatori della terra.

La Chiesa di Cristo non fa affidamento su governanti terreni, che spesso anzi l’hanno perseguitata. La Chiesa è sopravvissuta a tutte le persecuzioni perché è stata sempre fedele a Cristo, che è il suo Governante, il suo Re, il suo Monarca, il suo Imperatore.

“Nel corso dei secoli, la Chiesa universale ha viaggiato da un luogo all’altro; come era stato già per il suo Sposo che, quando fu su questa terra, non ha avuto dimora stabile ove poggiare il capo, così essa è sempre in esilio ed in viaggio su questa terra. La Chiesa attraversa questo mondo di esilio, alla ricerca dei membri della decaduta progenie.”

Il Cristiano vive in questo mondo, sebbene non appartenga a questo mondo ma al cielo, dove il suo Signore e Maestro dimora nella gloria.

[testo tratto da:]

CHRIST’S KINGDOM ON EARTH,
Or THE CHURCH and her Divine Constitution, Organization and Framework
Explained for the people
By Rev. Jas. L. Meagher,
New York
The Christian Press Association
Publishing Co.
St. Joseph’s Provincial Seminary.
Perlegi opus cui tituliis : Christ’s Kingdom on Earth, or, The Church and Her Divine Constitution, Organization and Framework, Explained for the People,
by the Rev. J. L. Meagher,
et nihil in eo reperi quod obstat, quoad Fidem et Mores, quominus typis evulgetur,
Trojae, 9a Decembris, 1891.
H. GABRIELS, Censor Deputatus, Bishop of Ogdensburg
Imprimatur, + P. A. LUDDEN, Bishop of Syracuse.
Imprimatur, + M. A. CORRIGAN,  Archbishop of New York.
COPYRIGHT 1891
BY REV. JAMES L . MEAGHER
ALL RIGHTS RESERVED.

Fr. UK.

 

OTTAVARIO DEI MORTI (3) Possiamo piangere i nostri morti?

OTTAVARIO DEI MORTI (3)

TRATTENIMENTO V

Possiamo piangere i nostri morti?

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Crudele chi vieta le lagrime — Pianse Gesù — Pianse Maria — Piansero i Santi — Le lagrime sono un benefizio — Dottrina di S. Francesco di Sales — Triplice pensiero incoraggiante. Esempio.

I.

Ella è certamente una grande consolazione il pensare che con la morte non tutto finisce e che l’anima, la parte più nobile di noi stessi, sopravvivrà alla distruzione del corpo. Ciò non impedisce però che alla perdita dei nostri cari noi possiamo sentire, e sentiamo infatti gravissimo dolore, ed amarissime lagrime sgorgano dai nostri occhi in occasione della loro scomparsa. La morte, per quanto siamo persuasi che è una legge inevitabile, a cui tutti più o meno presto, più o meno tardi, dobbiamo sottostare, è tuttavia qualche cosa di sì spaventoso e terribile che è impossibile non sentirsi sconvolgere l’animo. Sì, è vero, vi furono dei falsi devoti che col pretesto di onorare Iddio si spinsero all’eccesso di fare oltraggio alla natura umana e di proibire le lagrime a coloro che soffrono nella perdita delle persone che furono ad essi più care, ma ad un eccesso sì inaudito l’umanità diede un fremito di orrore e rivolse altrove gli sguardi. E li rivolse a Gesù, suo capo e modello, li rivolse a Maria, la più forte e magnanima delle creature, li rivolse ai Santi, i più grandi eroi della terra; ed a questi sguardi l’umanità comprese che la religione, no, non vieta il piangere coloro che ci hanno preceduti nell’eternità. Comprese anzi che le lagrime, per quanto amare, sono tuttavia un benefizio della Provvidenza, senza delle quali la vita sarebbe insopportabile. Non sono infatti desse che ci sollevano dal peso crudele delle angosce e alleggeriscono il cuore del pesante fardello del dolore? L’uomo è condannato a nutrirsi del pane bagnato nelle lagrime, e se non fosse bagnato in quest’acqua salutare, oh! quante volte questo pane sarebbe troppo duro ad ingoiarsi! Siamo già così disgraziati su questa terra, che se non ci fosse permesso di piangere, sovente varrebbe meglio mille volte morire che vivere cesi. La religione dunque non vieta di risentire la perdita di coloro che abbiamo amato, non comanda punto la stoica durezza dell’orgoglio e dell’indifferenza, ma vieta solo i lamenti, questi soltanto essa riprova, proibisce e condanna, ma le lagrime, no. Anzi ella ripete di continuo col suo fondatore: beati quelli che piangono! Scopo pertanto di questo trattenimento sia lo spiegare come un Cristiano debba piangere quelli che la morte gli ha rapito. In Betania, piccolo castello della Giudea, era morto Lazzaro, fratello di Maria Maddalena e di Marta; e quando Gesù, che molto lo amava, arrivò presso il castello, già quattro giorni erano passati, dacché il morto giaceva sepolto nella tomba. Trovò le due sorelle e gli Ebrei che erano con esse in grande costernazione, per cui anch’Egli si sentì molto turbato e pianse, dicono gli Evangelisti. Oh! quanto eloquenti non sono queste lagrime che Gesù ha versato sulla tomba del suo amico Lazzaro! Non ci dicono desse che, se in presenza della morte pianse lo stesso Uomo-Dio, non può essere una debolezza colpevole, se noi pure piangiamo la perdita dei nostri cari? Ma non solo pianse Gesù, ma ancora pianse Maria SS. In sul Calvario si consumava il più gran delitto che mai abbia funestato la terra. Appeso ad un duro legno di Croce, dove l’avevano confitto i suoi nemici, crivellato il capo con spine, trafitti con chiodi i piedi e le mani, il corpo tutto lacerato dai flagelli, se ne moriva, come un infame, il Redentore del mondo. Ai pie della croce una grande figura di donna, impietrita dal dolore, col volto inondato di pianto, stava fissando il morente. Era Maria che versava lagrime sulla morte crudele del Figlio. E quante non ne aveva già versate nel corso della sua vita, pensando a quell’ora crudele; quanti singhiozzi non avevano lacerato il suo cuore dopo la terribile profezia del vecchio Simeone: Defedi in dolore vita mea, et anni mei in gemitibus, la fa esclamare la Chiesa! Ora le lagrime ed i singhiozzi della Regina dei mesti, perché non dovrebbero legittimare, santificare anzi il nostro pianto, quando la morte ci colpisce nella persona dei nostri cari? Piansero i Santi: quante lagrime non versò S. Agostino sulla tomba della madre sua, S. Monica! « Al pensiero della tua serva fedele, dice egli indirizzandosi a Dio, mi si fece presente alla mente e il suo amore per te, e la sua grande tenerezza per me; ed a tale ricordo non potendo vincere la commozione lasciai libero corso alle lagrime, che fino allora avevo trattenute, ed alleviato da questo sfogo di pianto, il mio cuore trovò finalmente un dolce riposo, che tu solo conosci, o mio Dio e mio Signore ». – Non meno espressive, flebili e commoventi sono le espressioni che sgorgano dal cuore di S. Girolamo nell’elogio funebre del suo caro Nepoziano: « A chi consacrerò io d’ora in avanti le mie laboriose veglie? In qual cuore potrò io sfogare i miei più segreti pensieri? Dove è colui che m’incoraggiava nei miei studi, e li animava con armonie più dolci che non gli ultimi canti del cigno? Nepuziano non mi sente più! Tutto sembra morto attorno a me: la mia stessa penna incerta e triste, la carta bagnata dalle mie lagrime si rifiutano di comunicare e ricevere l’espressione del mio pensiero, come se più non volessero partecipare al sentimento del mio dolore. Ogni qualvolta io mio provo a dargli libero sfogo e spargere qualche fiore su quella tomba diletta,. ecco che subito i miei occhi si riempiono di lagrime, e la tristezza che è in me si risveglia, mi rigetta con lui nella polvere del suo sepolcro ». – Quante belle e commoventi non sono pure le parole di S. Bernardo, piangente su d’un suo fratello che la morte aveva rapito al suo tenero affetto, nel monastero stesso ove avevano vissuto così felici ed uniti! « Scaturite, scaturite pure dagli occhi miei, o lagrime, così bramose di scorrere per le mie guance. Colui che v’impediva di colare non è più!.. Non è già lui che è morto, son io che non vivo più che per morire! O Gerardo, fratello mio, tu mi sei stato tolto, tu mi sei stato rapito… Con te son scomparse tutte le mie gioie, tutte le mie delizie. Oh! chi mi darà di morire per raggiungerti più presto; poiché il sopravvivere è per me il più crudele dei tormenti. Che da quest’oggi io non viva più che nell’amarezza e nelle lagrime, non viva più che nei rimpianti; e non altra sia la mia consolazione che di sentirmi morire di giorno in giorno!…. Io ti piango, o Gerardo, sei tu tutta la causa delle mie lagrime; io piango perché tu mi eri fratello pel sangue, ma molto più perché noi due non formavamo che un solo spirito intento ad un solo scopo: al servizio di Dio. L’anima mia era sì unita alla tua che i nostri cuori non ne formavano che uno solo; e la spada della morte ha trafitto quest’ anima che era insieme e tua e mia e ci ha disgiunti Oh! Perché, perché ci siamo tanto amati, dal momento che dovevamo separarci: e dopo esserci così amati, perché non ce ne siamo insieme andati!.. » – Oh! quanto adunque non è dolce di piangere così, all’esempio di Gesù, di Maria e dei Santi; quando la morte ci colpisce negli affetti più cari, le lagrime, come abbiamo detto, sono un benefizio che Dio ci largisce per calmare il nostro dolore. Si direbbe che l’Altissimo nella sua misericordia verso l’uomo colpevole, senza tuttavia venire meno alla sua giustizia, abbia voluto procurargli in tal modo un sollievo in mezzo alle dure prove di questa triste esistenza. « Non sarò certamente io, esclama il dolce S. Francesco di Sales, che vi dirò di non piangere, quando avete la disgrazia di perdere un parente, un amico. Piangete, piangete pure: è ben giusto che voi versiate lagrime in testimonianza del sincero affetto che voi portavate a quei cari defunti. Così facendo non fate che imitare Gesù, che pianse sulla tomba di Lazzaro. Noi non potremo mai impedire alla nostra povera natura di sentire la condizione di questa vita e la perdita di coloro che ci erano dolci compagni nel cammino di quaggiù La religione non ci proibisce punto di sentire tali perdite, avendo lo stesso nostro dolce Salvatore consacrato l’affetto e benedetto le tenerezze dell’amicizia. Ed ecco perché io penso che l’insensibilità di coloro che non vogliono che siamo uomini, sempre mi parve una chimera, ed è perciò che sempre giudicai il dolore muto come orgoglioso e finto ».

II.

Ma dopo aver permesso le lagrime, così continua il santo Dottore: « Procurate però che queste dimostrazioni esterne siano moderate, e che i vostri sospiri e i vostri singhiozzi non siano tanto testimonianze di rincrescimento che segni di compassione e di tenerezza. Lungi da noi il piangere come coloro che, solo attaccati a questa miserabile vita, dimenticano completamente che noi siamo in viaggio verso l’eternità. Adoriamo in tutte le cose i segreti disegni della divina Provvidenza e diciamo sovente in mezzo alle nostre lagrime: Mio Dio, siate benedetto, poiché tutto è buono ciò che a voi piace « Quindi, dopo che avremo pagato il tributo alla parte inferiore dell’anima, fa d’uopo che compiamo il dovere alla superiore, ove risiede, come su d’un trono, lo spirito di fede che deve consolarci nelle nostre afflizioni per mezzo delle nostre stesse afflizioni. Beati quei che godono d’essere afflitti e convertono l’assenzio in miele! Sia lodato Iddio! È sempre con calma che io piango, sempre con un sentimento di amorosa sottomissione verso la Provvidenza di Dio, poiché, dacché Nostro Signore ha amato la morte, e l’ha data per oggetto al nostro amore, non posso volerne alla morte, perché mi toglie i miei cari, purché essi muoiono nell’amore della morte santa del Salvatore Qual cosa di più ragionevole che la santissima volontà di Dio si compia in coloro che noi amiamo come in tutte le altre cose? E non basta che in questi casi noi ci sottomettiamo alla sua volontà, ma ancora dobbiamo mostrarci in un qualche modo contenti di quello che fa. Non è Egli un buon padre, che sa perfettamente perché ci affligge e ci toglie quelli che amiamo? Entriamo pertanto nei suoi disegni, e ci aiuti la fede a sopportare questi sacrifici impossibili alla natura. Diciamogli dal profondo dell’anima: Signore, fate pur quanto vorrete; toccate pure nel mio cuore la fibra che vi piacerà, che dessa darà sempre un suono armonioso. Sì, o mio Dio, che la vostra volontà sia fatta su di mio padre, su di mia madre, su di tutti i miei cari, in tutto e da per tutto!…. Non voglio con ciò dire che non bisogna augurare loro una lunga vita, e pregare per la loro conservazione; no!, ma solamente che non dobbiamo lasciarci andare a dire a Dio: « Lasciateci questa persona, prendeteci quella ». E quand’anco il Signore ci togliesse quanto abbiamo di più caro, non ci dovrebbe più che tanto bastare di possedere Iddio? Non è Egli tutto? Non è Egli forse vero, che se non avessimo che Lui, avremmo già troppo? Ahimè! il Figlio di Dio, il nostro caro Gesù, non possedette certo tanto in sulla croce, allorché dopo aver tutto lasciato ed abbandonato per amore ed ubbidienza del Padre suo, fu come abbandonato e lasciato derelitto da Lui ». Tale il linguaggio del santo Vescovo di Ginevra, che del resto non è altro che il linguaggio della fede e delle anime stesse dei nostri cari, che la morte ci ha tolto, se la loro parola potesse arrivare fino a noi. « Certamente, continua lo stesso Santo, il più grande desiderio, che questi cari defunti ebbero nel separarsi da noi, fu che noi non prolungassimo di troppo il dispiacere che ci cagiona la loro assenza, ma che ci sforzassimo di moderare, per amor loro, il dolore che ci dà il loro amore; ed ora, dal seno della felicità che già hanno raggiunto o stanno per raggiungere, ci augurano una santa consolazione, e ci fanno capire che, moderando il nostro dispiacere, dobbiamo conservare e i nostri occhi per piangere ciò che è più degno di pianto ed il nostro spirito per occuparci di cose più nobili ed efficaci di quello che non lo siano le cose transitorie e caduche. « Non piangete, par che ci dicono, seguite piuttosto la via che può condurvi ove noi già ci troviamo; sappiate che ad essa si arriva portando la propria croce, amando Iddio, servendolo con tutto il cuore nel lutto, nelle separazioni, nei dolori, nelle tristezze, nelle lagrime, di cui tutta la vita nostra è ripiena. – Il Cielo è in capo a tutto ciò: fa d’uopo passare per queste prove, come il soldato s’incammina verso la gloria attraverso i campi di battaglia, senza vacillare e senza meravigliarci. E poiché è proprio della vera amicizia il cercare di assecondare le giuste bramosie dell’amico, per far piacere a queste anime dilette, rassegniamoci alla divina volontà, riprendiamo coraggio, abbandonandoci in tutto e per tutto alla misericordia infinita del nostro dolce Salvatore ».

III.

E ci aiuterà ad ottenere questa rassegnazione un triplice pensiero: anzitutto che questi cari defunti appartenevano a Dio ben più che non a noi; quindi, se Egli nella sua provvidenza ha giudicato che era tempo di chiamarli a sé, dobbiamo credere che l’ha fatto pel più gran bene delle anime loro, e dobbiamo perciò amorosamente e dolcemente chinare il capo innanzi ai suoi segreti disegni, adorando in silenzio e benedicendo la profonda sapienza di Colui che tutto dirige, e governa. In secondo luogo che questa terra, in cui viviamo, non è poi un soggiorno così dolce e dilettevole che debbasi tanto rimpiangere per coloro che lo lasciano. Quindi se Iddio per un effetto misterioso della sua misericordia li ha tolti dal mondo, dobbiamo piuttosto consolarci che non rattristarci, perché li ha nello stesso tempo sottratti alle sofferenze, alle miserie e agli affanni di questa triste esistenza, nonché ai tormenti degli affari e alle agitazioni ed alle rivolte che turbano questa nostra età, ai disinganni della fortuna, alle infermità, alle malattie, alle disgrazie di ogni genere continuamente sospese sul nostro capo e che ci minacciano ad ogni istante. Poiché che cosa è mai la vita umana se non una serie di dolori, di lagrime e di angosce?…. Quanto dunque non sono più felici coloro che Dio ha tolti da questo mondo, ove non v’ha che perversità, menzogna, ipocrisia, ove siamo di continuo esposti alle calunnie, alle ingiustizie, alle catastrofi di ogni specie. Mio Dio, come si può mai essere attaccati a questa vita, quando la si vede fuggire così rapidamente, e nonostante ciò ripiena di tristezze, di pianti e di tombe? Non piangiamo dunque troppo i nostri cari trapassati; pensiamo che se sono morti giovani hanno sfuggito tante pene e dolori che forse più tardi li attendevano, ed essendo meno pesante il conto che devono rendere a Dio, più presto saranno ammessi agli eterni gaudi. Se invece erano già avanzati in età, Iddio li ha preservati dal bere le ultime gocce del calice della vita che ordinariamente sono le più amare, se ne son iti, quando non più altro avevano da aspettarsi quaggiù che le debolezze, le miserie, le malattie della vecchiaia. E v’ha forse qualche cosa in ciò che sia veramente da compiangersi? Un terzo pensiero che deve consolarci nella perdita dei nostri cari è che questi morti non sono poi così lungi da noi, come il possiamo credere. Senza vederli possiamo ancora conversare con loro, scambiare i nostri pensieri, comunicare loro i nostri sentimenti. Se già sono in possesso della felicità eterna, la teologia c’insegna che s’interessano a noi, vedono in Dio ciò che noi facciamo, e, se a Dio piace, conoscono le parole che loro noi rivolgiamo, pregano per noi; e se invece sono nel Purgatorio ci è facile confidare al nostro buon Angelo custode ciò che desideriamo comunicare loro. E perché non adottiamo ancor noi questa bella pratica tanto in uso presso i Santi? Di Suor Maria Dionisia dell’Ordine della Visitazione, morta in odore di santità, si legge che aveva l’abitudine di confidare agli Angeli Custodi delle anime del Purgatorio le preghiere e le commissioni, che ella voleva far loro pervenire. « Sovente, racconta l’autore della sua vita, queste sante comunicazioni andavano tant’oltre che la pia religiosa sentiva attorno a sé questi spiriti protettori, che le scoprivano i bisogni delle anime sofferenti affidate alle loro cure, e le inspiravano ciò che doveva fare per la loro liberazione ».

* *

Con quest’esempio poniamo fine al presente trattenimento e concludiamo. Quando adunque la morte viene a battere alla porta della nostra casa e ci rapisce una persona amata, oh! Lasciamo pure che i nostri occhi versino amare lagrime, il non piangere in questi casi, il non sentire dolore è come avere un cuore di marmo, senza viscere, senz’amore. Procuriamo però per altro lato che le nostre lagrime non siano già sterili ed inefficaci, ma meritorie; e tali lo saranno, quando saranno accompagnate da sentimenti di fede, di speranza, di amore. Ah! sì piangiamo con la fede ed accettando il calice del dolore, che Dio ci porge, non dubitiamo di dire « Signore, siete voi che volete infliggermi una tanta perdita; io non ne so il perché, ma credo, credo fermamente che è per il mio bene, perché Voi siete giusto, Voi siete buono, Voi siete amoroso. Ah! Signore, vedete: tutta la mia natura è in fremito, troppo le ripugna questo calice amaro, ma non la mia, la vostra volontà sia fatta ». Piangiamo, sì, ma il nostro pianto scorra nella speranza; e fidenti nella divina misericordia, sollevando al Cielo gli occhi pieni di lagrime, esclamiamo: « Là si riposano, si deliziano, si beano le anime di coloro che piango, là un giorno mi ricongiungerò con essi per non esserne mai più separato ». Piangiamo, sì, ma piangiamo per amore e ricordando Gesù, che tanto sofferse per amor nostro, ci goda l’animo di poter soffrire anche noi qualche cosa per amor di Lui. E poi preghiamo: la preghiera è sempre un bisogno dell’anima, ma lo è specialmente ai pie’ di una tomba. Il mondo ci pesa, quando il dolore si è impadronito di noi; si è allora che l’anima nostra si sente portata verso regioni più alte, più pure, più calme, ove essa vuol cercare coloro che la morte le ha strappato. Ha come un bisogno prepotente di rivederli, di parlare loro ancora. Ma chi la solleverà dalla terra, chi la trasporterà al di là degli astri, verso quest’altro mondo più luminoso e perfetto, che è la dimora degli spiriti? La preghiera, la preghiera umile e fiduciosa, la preghiera del figlio sul seno del padre suo. Oh! se tutti gli afflitti conoscessero i tesori nascosti che racchiude la preghiera; se sapessero tutto ciò che contiene di santi sfoghi, d’ineffabili tenerezze, di consolazioni soavi e celesti, come ben presto le loro lagrime sarebbero asciugate e come accetterebbero facilmente le croci che la Provvidenza loro manda! Ma noi lo sappiamo: perché dunque non ricorriamo a lei nel momento della prova? Facciamolo e saremo consolati.

ESEMPIO: S. Francesco di Sales.

Un esempio ammirabile, del come dobbiamo diportarci in occasione della perdita dei nostri cari, ce lo porge il grande Vescovo di Ginevra in tutta la sua vita, ma specialmente in occasione della morte del suo genitore, che egli amava con affetto tutto singolare. Quando questo vegliardo rese l’anima sua generosa a Dio, il figlio prediletto del suo cuore non attorniava con gli altri il letto della sua agonia; si trovava ad Annecy, impegnato nella predicazione della Quaresima. Il messaggero, che gli apportava la straziante notizia, senza riguardo alcuno, gliela comunicò, quando egli, uscendo dalla sagrestia, stava per salire in sul pulpito. Il santo rimase per un momento atterrato, congiunse le mani in silenzio, ed alzò gli occhi al Cielo: poscia, sostenuto da una forza di volontà sovrumana e dalla grazia divina, montò in pulpito e predicò sul Vangelo del giorno col suo solito zelo e fervore. Non fu che in sul finire del suo discorso che disse ai suoi uditori con un accento che l’emozione faceva tremare e che si spense nelle lagrime: « Fratelli miei, appresi pochi momenti fa la morte di colui a cui più d’ogni altro sono debitore sulla terra; mio padre, l’amico vostro, non è più! Come voi gli facevate la grazia di amarlo, così vi supplico di pregare pel riposo dell’anima sua e di non aver a male che io mi assenti due o tre giorni per recarmi a rendergli i miei estremi doveri ». L’incredibile fermezza di Francesco che aveva potuto durante un’ora dominare assolutamente la natura, l’accento commosso delle sue ultime parole, le lagrime che gli inondavano il viso, fecero profondissima impressione nell’uditorio. Da tutte le parti si scoppiò in singhiozzi; ogni ascoltatore mescolò le sue lagrime a quelle dello apostolo, e questo esempio sublime d’energia cristiana in un’anima così tenera, sorpassò l’effetto di tutti i suoi sermoni. Nel discendere dal pulpito Francesco, che già aveva celebrato la sua Messa, ne intese due altre, inginocchiato in un canto dell’ altare, immobile e come immerso in profonda adorazione, nel suo dolore e nelle consolazioni divine. Dopo partì subito pel castello di Sales. Arrivando nella camera mortuaria, si gettò ginocchioni accanto al corpo inanimato del padre suo, lo copri di baci e di lagrime, e senza venir meno nel suo dolore alla gravità di un prete ed a quel pieno possesso di se stesso che dà la santità, si mostrò il più tenero ed il migliore dei figli. Presiedette egli stesso alla sepoltura ed ai funerali del padre suo, e non ne abbandonò le spoglie mortali che quando l’ebbe deposto, con le preghiere supreme della Chiesa, nel sepolcro della cappella di Sales. Allora, facendo tacere il suo dolore, si occupò di consolare gli assistenti e specialmente la santa madre sua, che non trovava che nelle sue parole celestiali un dolce refrigerio allo strazio del suo cuore. La confessò, come pure i suoi fratelli, le sue sorelle, ed i suoi famigliari, ed il giorno dopo, nella Messa che celebrò per l’anima del padre suo, li comunicò tutti di sua mano. Dopo il santo Sacrificio, rivolse loro ancora qualche parola di consolazione, e poscia, senza perder tempo, si accomiatò da tutti per recarsi nuovamente là, dove il suo dovere pastorale e la salute delle anime lo volevano. Riprese le sue prediche della Quaresima e le continuò anche lungo tempo dopo le feste di Pasqua. La sua ammirabile energia nell’accettare e padroneggiare il dolore profondo, che gli aveva cagionato la perdita del suo amato genitore, aveva dato alla sua santità già così luminosa qualche cosa di più perfetto ancora, e Dio ne lo ricompensò con maggior abbondanza di grazie. Non meno ammirabile fu la sua condotta nell’occasione della morte della madre sua. Iddio permise che egli la assistesse durante la sua agonia e ne ricevesse l’ultimo respiro. Quando tutto fu finito, benedisse la sua spoglia mortale, le chiuse gli occhi e la bocca, e, dopo averle dato l’ultimo bacio, lasciò finalmente sgorgare le sue lagrime che aveva trattenute fino a quel momento. Profondo fu il suo dolore, inconsolabile agli occhi del mondo, perché  aveva perduto la sua migliore amica, ma pieno di consolazione davanti a Dio. Fu in quest’occasione che scrisse parole celestiali a S. Giovanna Chantal, cercando, egli che aveva tanto bisogno di consolazione, di consolare quest’anima santa, che in quei giorni era stata orbata della morte di una sua carissima figliuola. « Ah! sì, il mio dolore è vivo, ma pure è tranquillo, e non oso né gridare, né lamentarmi sotto il colpo della mano divina che ho imparato ad amare teneramente fino dalla mia giovinezza. Ma ahimè! bisognava pure dare un tantino sfogo alle lagrime; non abbiamo noi un cuore umano ed una natura sensibile? Perché non piangere un poco sui nostri trapassati, dal momento che lo Spirito di Dio non solo ce lo permette, ma c’invita? Dio ci dà, Dio ci toglie: sia benedetto il suo santo nome ». Ed è cosi che i Santi piangevano la morte dei loro cari; a loro somiglianza piangiamoli pure ancor noi, soltanto procuriamo che, come le loro, anche le nostre lagrime siano lagrime di rassegnazione e di abbandono alla santa volontà di Dio.

DOMENICA XXIII, IV quæ superfuit Post EPIPHANIA (2018)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE, 

IV quæ superfuit Post EPIPHANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XCVI: 7-8

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judæ.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Orémus.

Deus, qui nos, in tantis perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te adjuvánte vincámus.

[O Dio, che sai come noi, per l’umana fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute dell’ànima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca patire per i nostri peccati.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XIII: 8-10

Fratres: Némini quidquam debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit. Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices, Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur: Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur. Plenitúdo ergo legis est diléctio.

OMELIA I

 [Mons. BONOMELLI, Omelie, vol. I, Marietti Ed. Torino, 1899. Om. XVII]

“Non vogliate avere altro debito, che quello d’amarvi l’un l’altro; perché chi ama il prossimo, ha adempiuta la legge. Di fatto, il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male e se vi è alcuna altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non opera alcun male: il compimento dunque della legge è l’amore „ (Rom. XIII, 8-10).

Il tratto della epistola, letta or ora, è tolto dal capo decimoterzo della lettera di S. Paolo ai fedeli di Roma. È brevissimo, perché si contiene tutto in soli tre versetti: ma se poche sono le parole e le sentenze, vasto quanto mai si può dire è il loro significato. Bastici il dire che l’Apostolo i n queste poche righe ha compendiata tutta la legge, come in termini dichiara egli stesso in quelle parole, che avete udito: Il compimento della legge è l’amore. Il soggetto, che siamo chiamati a considerare è caro e giocondo ad ogni anima bennata e per se stesso si raccomanda alla vostra attenzione. “Non vogliate avere altro debito, che quello di amarvi l’un l’altro. „ Queste parole si possono mutare in queste altre: Ogni vostro dovere si riduce all’amore scambievole. Se noi percorriamo tutti gli scritti del nuovo Testamento non troviamo un precetto più spesso e più vivamente raccomandato e inculcato quanto il precetto della carità fraterna. Gesù Cristo lo chiama precetto nuovo, perché prima di lui non fu mai sì chiaramente imposto, né mai a tanta altezza di perfezione portato: lo chiama precetto suo, perché è quello che più gli sta a cuore e meglio d’ogni altro esprime la natura e l’indole della legge evangelica, tantoché afferma, che all’osservanza di questo precetto si conosceranno i suoi discepoli. Nessuna meraviglia pertanto che S. Paolo qui riduca tutti i doveri del cristiano all’amore reciproco. Ma qui si affaccia naturalmente una difficoltà: come è mai possibile che tutti i doveri del cristiano si riducano all’amore fraterno, che dobbiamo avere gli uni con gli altri? – Narra S. Girolamo, che l’apostolo Giovanni, più che nonagenario, dimorava in Efeso: ogni volta che i fedeli si raccoglievano nella chiesuola, vi veniva portato a braccia dai discepoli, che lo pregavano di far loro udire la sua parola. Il santo vegliardo non faceva che ripetere: ” Figliuolini miei, amatevi a vicenda. „ Annoiati i discepoli di udir sempre quelle parole, gli dissero : “Maestro, perché  ci dici sempre questo? „ Egli rispose, scrive S. Girolamo, in modo degno di lui: “Perché è il precetto del Signore, e se anche solo si adempie, basta ,, (Degli Scrittori eccles.). La risposta d’un tanto apostolo, commentata da tanto dottore, mi dispenserebbe da qualunque spiegazione; ma è prezzo dell’opera svolgerla più largamente. E per pigliare le cose un po’ dall’alto, vediamo anzi tutto che cosa sia questo amore del prossimo. E forse quel sentimento comune, che più o meno ci porta tutti ad amare il nostro prossimo, quella cotal tenerezza, che sentiamo verso i nostri simili, che fa spuntare negli animi nostri la compassione verso i sofferenti? Certamente questo sentimento è buono, fa onore alla nostra natura; questa tenerezza, questa compassione verso i sofferenti è il carattere delle anime nobili ed è dono del cielo. Ma non è questo l’amore del prossimo, che il Vangelo comanda. Questo sentimento, questa tenerezza, questa compassione può aversi anche senza le opere. Quanti mostrano di sentire al vivo i mali altrui e son larghi di parole e scarsissimi ai fatti! Silla fu uno de’ più mostruosi tiranni, dei quali parli la storia. Eppure, assistendo in teatro, piangeva come un fanciullo udendo rappresentare alcune scene commoventi. S’inteneriva alle scene d’un immaginario dolore e faca versare torrenti di sangue e di lagrime. – Ho visto avari commuoversi dinanzi alle miserie dei tapini e rifiutare un soldo di limosina! – L’amore del prossimo comandato da Gesù Cristo è forse quel sentimento che ci muove ad amarlo per le sue buone e belle doti, per i benefici ricevuti, per i vantaggi che ne speriamo, per il piacere che proviamo in beneficarlo? Non io condannerò siffatto amore, che può essere naturalmente buono; ma in tal caso l’amor nostro non abbraccerà tutti, perché non tutti sono forniti di belle e buone qualità, ne da tutti abbiamo ricevuti benefici, o possiamo sperarne, e il piacere che si prova in amarli e beneficarli non è continuo e bastevole, e lo fosse anche, sarebbe un motivo affatto umano, e perciò troppo debole e incerto. Qual è dunque l’amor del prossimo che compendia in sé l’adempimento di tutti i nostri doveri? È quello che si accende nel nostro cuore, che esce dalle fibre più riposte dell’anima nostra, che ci fa sentire il bene e il male altrui come se fosse bene e male nostro: è quello che si manifesta nelle opere, che ci muove efficacemente al soccorso di quanti ne abbisognano, secondo le nostre forze: è quello infine che ha la sua radice e il suo alimento nella ragione non solo, ma nella fede e in Dio stesso. È questo l’amore del prossimo, che regge ad ogni prova e che compendia l’adempimento di tutti i nostri doveri. – Io devo amare il mio prossimo; e perché? Perché Dio lo ha creato, quel Dio che ha creato me pure; perché Dio lo conserva; perché Dio ha scolpita in lui la sua immagine e lo ama come un padre ama il figliuol suo. Io devo amare il mio prossimo, perché il Figliuol di Dio si è fatto uomo per lui, come per me; perché ha patito ed è morto per lui, come per me; perché Gesù Cristo gli offre le sue grazie, ha stampato od è pronto a stampare nell’anima sua il carattere d i figlio di Dio, e lo chiama al possesso eterno di se stesso. Io devo amare il mio prossimo, in una parola, perché lo vuole Iddio, perché Gesù Cristo me lo comanda, perché è mio fratello per natura. e per grazia, e come è operoso l’amore di Dio  verso il prossimo, così a somiglianza del suo dev’essere operoso il mio. Ecco l’amore del prossimo secondo il Vangelo. – L’amore del prossimo, che scaturisce da sì alta e pura fonte, racchiude in sé tutte le qualità e doti, che lo rendono perfetto. Esso è universale, perché si estende a tutti ed a ciascun uomo, perché non vi è pure un uomo solo, pel quale non valgano i motivi sopra accennati. Siano cattolici, siano eretici, siano scismatici, siano ebrei, siano pagani, tutti sono opera delle mani di Dio, per tutti è morto Gesù Cristo. — Questo carattere di universale nel senso più ampio della parola è proprio soltanto dell’insegnamento evangelico. Fuori del Cristianesimo l’amore del prossimo è l’amore di famiglia, della tribù, della nazione, ma non dell’uman genere: si estende ad alcuni, ma non a tutti e per lo più. è figlio delle simpatie, della gratitudine, o della speranza. È un amore continuo, perpetuo, perché i motivi, che lo accendono e lo alimentano, come ciascun vede, sono continui e non cessano, né possono cessare un solo istante. I motivi non sono propriamente negli uomini, nei loro meriti, ma in Dio Creatore e Redentore, nel suo volere, e perciò non soggetti a mutamento di sorta e quindi anche l’amore, che ne è l’effetto, non solo è universale e continuo, ma eguale nel senso or ora spiegato. – È un amore eguale, perché quantunque possa e debba variare d’intensità in ragione dei vincoli diversi che ci legano al prossimo, nondimeno a tutti si estende senza eccezione, come a tutti si estendono la creazione e la redenzione. – Che importa che questi sia povero, rozzo, ignorante? Che importa che quello sia ingrato, vizioso, scellerato? Che importa che mi odi, mi insulti, mi perseguiti ferocemente? Io deplorerò, condannerò le opere sue, ma amerò lui, perché non cessa d’essere l’opera di Dio, la conquista di Gesù Cristo. Il mio amore si appunta in Dio e in Gesù Cristo, e Dio e Gesù Cristo non si muta mai. Ecco il segreto che spiega la carità cristiana; ecco il perché questi missionari e queste suore abbandonano la famiglia e la patria, si seppelliscono in un ospitale, in un ricovero, valicano i mari, si gettano in mezzo ai barbari, ai selvaggi, ai c annibali per istruirli, incivilirli, per morire per loro e con loro. Ora, l’amore del prossimo, quale l’abbiamo tratteggiato, deve necessariamente manifestarsi in due modi: col non dire, né far cosa che spiaccia o rechi danno al prossimo e col dire e fare tutto ciò che gli piace o gli rechi vantaggio, come meglio è dato a noi. E per questo che l’Apostolo, volendo mostrare che tutti i doveri verso il prossimo si recapitolano nella carità, scrive: “Di fatto il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male, e se vi è altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. „ Chi ama di vero amore il prossimo, come ama se stesso, adempie la legge perfettamente, non fa male a chicchessia e fa bene a tutti quelli, ai quali può farlo. E dunque vero ciò che l’Apostolo soggiunge in forma di sentenza assoluta: “Compimento della legge è l’amore — Plenitudo legis est dilectio. Forse mi direte: Ma non abbiamo noi doveri verso noi stessi e verso Dio? Ora questi non sono compresi nell’amore verso del prossimo. Come dunque poté dire l’Apostolo: “L’amor e del prossimo è il compimento della legge? „ Veramente può intendersi i n questo senso: A quel modo che l’amore di Dio ci porta all’adempimento dei doveri, che riguardano Dio, così l’amore del prossimo ci porta ad adempire tutti i doveri, che abbiamo col prossimo; ma parmi che possa intendersi assai bene in quest’altro modo: Certamente chi ama Dio, dee volere ciò che vuole Iddio e, per conseguenza, deve amare il prossimo, come lo ama Dio e come Dio comanda. Nell’amore di Dio è chiaramente compreso l’amore del prossimo, come nella causa si contiene l’effetto. Ma nell’amore del prossimo si contiene anche l’amore di Dio? In qualche senso, sì, o carissimi. Perché è impossibile amare il prossimo stabilmente, senza eccezione, attuosamente, con sacrificio di se stessi, anche quando esso è ingrato e ci odia, senza l’aiuto di Dio, senza l’amore di lui e se nel prossimo non vediamo e non amiamo Dio stesso. “Niuno, dice S. Giovanni, vide giammai Iddio: se noi ci amiamo gli uni gli altri, Dio dimora in noi e la sua carità in noi è compiuta „ (Epist. I. IV, 12). Che è come dire: Iddio si ama nell’uomo: chi ama l’immagine di Dio, ama Dio, e l’uomo è veramente l’immagine viva di Dio sulla terra. Amiamo adunque Dio e ameremo il prossimo: amiamo il prossimo, come si dee, ed ameremo Dio, perché questi due amori non si possono separare.

Graduale Ps CI: 16-17

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja. [Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia] Alleluja

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt VIII: 23-27

“In illo témpore: Ascendénte Jesu in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine, salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens, imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare obœdiunt ei?”

OMELIA II

 [Mons. G. Bonomelli, ut supra, omelia XVIII]

” Gesù essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un grande movimento del mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. E Gesù dormiva. I suoi discepoli, accostatisi a lui, lo svegliarono, dicendo : Signore  salvaci, noi ci perdiamo. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? E alzatosi, comandò al vento ed al mare e si fece grande bonaccia. E gli uomini ne stupivano, dicendo: E chi è costui, che i venti ed il mare gli ubbidiscono? „ (Matt. VIII, 23-28).

Gesù Cristo dopo aver guarito il lebbroso presso Cafarnao e in Cafarnao il famiglio del centurione e liberata dalla febbre la suocera di Pietro, lungo la riva del lago di Tiberiade o di Genesaret, che gli Ebrei chiamavano mare, montò sopra una barchetta e di là, come narra S. Marco (IV, 1, 2), ammaestrava le turbe schierate sulla riva. E poiché ebbe finito, licenziata la moltitudine, volle tragittarsi sulla riva opposta del lago. Nella traversata avvenne il fatto che vi ho narrato, che sarà il soggetto delle nostre considerazioni comuni, sì, ma pur sempre belle ed utili. “Gesù, essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un gran movimento nel mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. „ Questo il fatto, che non ha bisogno di spiegazione di sorta; piuttosto qui è da ricordare una dottrina comune dei Padri, che ha il suo fondamento nei Libri santi, ed è questa: vi sono nei Libri divini fatti che dobbiamo tenere con tutta certezza, essere avvenuti, come si narrano e che sono ordinati a significare altri fatti e ad insegnarci altre verità. Così noi dobbiamo tenere che Isacco saliva veramente il monte, carico delle legna, come narra la Scrittura; ma dobbiamo anche tenere che Isacco, in quell’atto, raffigurava Gesù Cristo che saliva il Calvario, portando il legno della croce. Possiamo applicare questo principio al fatto evangelico, che veniamo considerando. Eccovi la barchetta, sulla quale montò Gesù Cristo coi discepoli: eccovi il mare e la tempesta, che sorge. Che simboleggia essa quella barchetta? Simboleggia la Chiesa, nella quale sta sempre Gesù Cristo co’ suoi discepoli. Che cosa adombra il mare? La vita presente, che si alterna tra le burrasche e la calma. E la burrasca che sorse, che significa? Le lotte, i travagli, le prove, le persecuzioni che la Chiesa deve sostenere attraverso ai secoli. Ora quello che si può dire della Chiesa, in qualche senso e ragguagliata ogni cosa, si può dire d’ogni anima, nella quale Gesù Cristo abita per la fede e per la grazia, che  viaggia su questo mare del mondo, ora tranquillo ed ora tempestoso. La storia della Chiesa e d’ogni anima cristiana è dipinta al vivo nella navicella, che solca il lago di Tiberiade. La Chiesa sferra dalle spiagge della terra, e spiega le vele verso le sponde del cielo: sopra di essa sta sempre Gesù Cristo con gli Apostoli, nella persona del suo Vicario e de’ suoi Vescovi e lo seguono i suoi fedeli. Essa, è vero, non può naufragare, ma non va immune da tempeste: tempeste suscitate dalle passioni, da nemici interni ed esterni, più o meno violente secondo i tempi ed i luoghi. Ricordatevelo bene, o figliuoli dilettissimi: Gesù Cristo non promise mai alla sua Chiesa la pace stabile; anzi le predisse persecuzioni d’ogni fatta: annunziò che le porte, cioè le potenze d’inferno, l’avrebbero sempre combattuta e ch’essa ne sarebbe uscita vincitrice. Dunque non facciamo le meraviglie se la vediamo sì spesso or qua, or là, ora nel capo, ora nelle membra fieramente assalita. È la sua condizione. Può avere periodi di pace; ma pace continua, stabile, non mai; essa naviga sul mare, troppo spesso campo e giuoco dei venti e delle procelle; la pace vera e perfetta l’avrà solo in quel dì, che si chiuderanno i tempi e getterà l’àncora sul porto tranquillo e sicuro della eternità. Ciò che dico della Chiesa, l’applichi ciascuno a se stesso, e si ricordi che la vita è una milizia, cioè un periodo, in cui la pace e le battaglie necessariamente si avvicendano. E perché Dio vuole che la sua Chiesa, come una nave, che veleggia sul mare, sia a sì frequenti intervalli flagellata dalle procelle? Perché il somigliante vuole o permette per ogni anima, che naviga in questo pelago fortunoso della vita? Perché, se la guerra mostra il valore del soldato, la lotta mette in luce la forza divina della Chiesa: perché le prove impongono la vigilanza continua, affinano la virtù, obbligano a ricorrere a Dio, esercitano la pazienza, avvivano la fede, accrescono la, speranza e danno occasione al merito. L’acqua che ristagna, impaluda e si corrompe; un’aria immobile si altera e soffoca; la pace troppo lunga snerva il soldato: il movimento preserva l’acqua dalla corruzione, la bufera muta e rinfresca l’aria, la guerra addestra il soldato, e le lotte ringagliardiscono e purificano la Chiesa non meno che i singoli fedeli (S. Cipr.: De Mortalitate). – Ritorniamo alla navicella, che sul lago di Tiberiade era fieramente sbattuta dai venti per guisa, dice il Vangelo, che a quando a quando era coperta dalle ondate e minacciata d’essere sommersa. Che faceva Gesù? “Egli  ntanto dormiva, „ col capo adagiato, come dice S. Marco, sopra un guanciale. Egli dormiva e, credo, veramente, non in apparenza. Egli era perfetto uomo, e come uomo aveva bisogno di cibo, di bevanda, di riposo e di sonno come noi, e perciò nulla di più naturale, che dopo le fatiche della predicazione e dell’intera giornata secondasse il bisogno della natura e si addormentasse. Egli certo vedeva il pericolo ed il terrore degli Apostoli, eppure dormiva e mostrava di non veder nulla e di nulla curarsi. Similmente talvolta accade che la Chiesa soffra grandi pressure e corra gravi pericoli, e che Gesù Cristo lasci fare e quasi dorma: accade talvolta che la navicella dell’anima nostra sia qua e là trabalzata dalle onde frequenti delle tribolazioni e delle tentazioni, e che l’aiuto dall’alto venga meno: Gesù dorme. Egli vuole che ricorriamo a lui, e così con la preghiera in parte meritiamo l’onore della vittoria. — E ciò che fecero gli Apostoli là sul lago di Tiberiade. Essi, vedendo Gesù che riposava tranquillamente, in sulle prime non volevano turbare il suo sonno; ma, crescendo l’impeto della procella, e levandosi più minacciose le onde, e non potendo più oltre reggere al timone ed ai remi, vistasi la morte alla gola, corsero a Gesù, e destatolo, sclamarono: ” Signore, salvaci, noi ci perdiamo. ,, E questo, o cari, uno dei frutti più preziosi delle tribolazioni e dei grandi pericoli: veggendoci impotenti a superare la prova, conosciamo meglio noi stessi, sentiamo la necessità del soccorso divino e mossi dalla fede e dalla speranza, ci prostriamo innanzi a Dio e preghiamo. — Ah! sono le tribolazioni, sono i dolori, sono le tentazioni quelle che ci sollevano da questa terra e ci conducono a Dio. – Gli Apostoli ricorsero a Gesù e lo pregarono perché li stringeva davvicino il pericolo della morte. Imitiamoli ogni qualvolta i venti delle tentazioni e delle tribolazioni agitano e minacciano la navicella dell’anima nostra: il nostro grido, la nostra preghiera sia quella stessa degli apostoli: “Signore, salvaci, . noi ci perdiamo — Domine, salva nos, perimus. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? „ E come ciò? Gli Apostoli si gettano ai piedi di Gesù e lo pregano con tutto l’ardore dell’anima di salvarli dalla morte, ed Egli li rimprovera, come soverchiamente timidi e uomini di poca fede? Dovevano dunque astenersi dal pregarlo ed aspettare quando tutti fossero stati gettati in mare? Perché dunque il rimprovero? Senza dubbio Gesù li rimprovera pel soverchio timore, onde erano sopraffatti, timore, che non dovevano avere, trovandosi con Lui, che non poteva perire: è il manco di conoscimento della sua divina persona, l’angoscia smodata, la poca fede che Gesù riprende negli Apostoli. Allorché preghiamo d’essere liberati dai mali del corpo, non ci facciano mai difetto la calma, la rassegnazione ai divini voleri e la figliale fiducia in Dio. “E alzatosi, Gesù comandò ai venti ed al mare e si fece grande bonaccia. „ Sembra evidente che Gesù volgesse la parola al vento ed al mare, anzi S. Luca dice che li rimproverò, e ciò in forma di comando assoluto, come Signore d’ogni cosa, e incontanente si quietò il vento, e il lago tornò tranquillo in guisa che apparve chiaramente tutto ciò essere stato effetto del volere di Gesù Cristo. Come allora pregato fece cessare la tempesta del lago, così anche al presente, pregato da noi, sperderà i venti e le burrasche, che travagliano la sua Chiesa e turbano le anime nostre, se ciò tornerà a bene di quella e di queste. Purtroppo, o fratelli, per molti si pecca in varie maniere per ciò che spetta il ricorrere a Dio nei bisogni. – Vi sono molti, che non si curano di ricorrere a Dio allorché i nemici spirituali li stringono e le passioni rompono a rivolta, o ricorrono fiaccamente. Questi cadranno, perché senza l’aiuto di Dio non possono far nulla, e l’aiuto Iddio ordinariamente non l’accorda a chi non lo prega. Allorché adunque la tentazione ci preme e ci incalza, leviamo la mente a Dio, imploriamo con fede viva il soccorso, ed il soccorso, non ne dubitate, verrà. Vi sono altri, che nelle pene della vita, nei travagli temporali, nelle infermità, nelle calamità pubbliche o private, corrono ai piedi degli altari, pregano, fanno pellegrinaggi, digiuni e pretendono in modo assoluto che Dio li esaudisca. Costoro confondono malamente le cose: allorché si tratta della salvezza dell’anima nostra, dei beni spirituali assolutamente necessari, anche la preghiera può e deve essere assoluta, perché Dio si è obbligato ad esaudirci. Non sia mai per altro che vogliamo imporre a Dio il tempo e il modo. Che se si tratta di beni temporali, la nostra preghiera vuol essere condizionata, perché potrebb’essere che ciò che per noi si domanda non piacesse a Dio e tornasse anche di danno al conseguimento della salvezza nostra. Stiamo in guardia contro tutti questi difetti, nei quali frequentemente si cade anche dai buoni. “Gli uomini poi ne stupivano, dicendo: Chi è costui, che il vento e il mare gli ubbidiscono? „ Questi uomini, che rimasero colmi di stupore alla vista di tanto miracolo, erano gli Apostoli e forse anche alcuni altri, che sopra altre piccole barche l’avevano seguito. Ed è bene a credere, che non solo stupissero del miracolo, ma vivamente ringraziassero Gesù d’averli scampati dalla morte e lo riconoscessero per l’aspettato Messia, per Salvatore del mondo e l’adorassero. Figliuoli carissimi! la gratitudine è un sacro dovere con gli uomini, allorché ci beneficano: quanto è più sacro con Dio ogni qualvolta ci benefica, e ci benefica sempre, ad ogni istante! La gratitudine dei benefici ricevuti è il miglior mezzo per ottenerne altri anche maggiori.

 Credo

Offertorium

Ps CXVII: 16; 17

Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini. [La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo purget semper et múniat. [O Dio onnipotente, concedici, Te ne preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da ogni male la nostra fragilità.]

Communio

Luc IV:22 Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei. [Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

Postcommunio

Orémus.

Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et coeléstibus semper instáurent aliméntis. [I tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi celesti alimenti.]