CONOSCERE SAN PAOLO (28)

LIBRO II

Preistoria della redenzione.

CAPO I

L’umanità senza il Cristo. (2)

II. IL REGNO DEL PECCATO.

1. ORIGINE DEL PECCATO. — 2. ESTENSIONE DEL PECCATO. — 3. L’IMPERO DI sATANA. — 4. GLI SPIRITI ELEMENTARI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA; S. E. I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. La corruzione del genere umano, luogo comune della teologia ebraica, non poteva non colpire gli stessi pagani. È noto che i primi tre capitoli della Lettera ai Romani svolgono questa tesi: « Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio… Tutti, Ebrei e Greci, sono sotto il (giogo del) peccato ( Rom. III, 23 e 9) ) ». L’Apostolo espone il fatto e non lo dimostra altrimenti che con appellarsi all’esperienza confermata, specialmente per gli Ebrei, dalla testimonianza della Scrittura. Il doppio fine, a cui mira, è di provare che non vi è salvezza fuori del Vangelo (Rom. III, 20), e che gli Ebrei, nonostante le loro incontestabili prerogative, non hanno, in faccia al peccato e alla giustizia soprannaturale, nessun privilegio sopra i Gentili, oggetto del loro disprezzo (Rom. II, 1). Un fenomeno generale deve risalire alla medesima causa, e si poteva pensare che l’Apostolo, descritto lo straripamento del male, ne avrebbe indicata la sorgente comune. Egli invece è trascinato altrove da due idee sussidiarie: gli preme di conchiudere che il Vangelo promette e dà quello che la Legge faceva sperare invano (Rom. III, 21-26); e poi non vuole lasciare il lettore sotto l’impressione che la salute portata dal Vangelo sia in contraddizione con la Legge (Rom. II, 13 e cap. V). Perciò quando viene a parlare dell’origine del peccato, non la mette in rapporto diretto con la corruzione morale di cui ha tracciato il triste quadro, ma si contenta di metterla in linea parallela con l’origine della giustizia che essa per analogia rischiara (ivi, V, 12-21): questo è passare dal più conosciuto al meno conosciuto, è procedere secondo le regole della logica. Infatti nessun Ebreo e nessun proselito poteva ignorare la storia della creazione e della caduta, e non vi è dubbio che questa storia facesse parte delle dottrine elementari insegnate a tutti i catecumeni che venivano dai Gentili. – Ora dal racconto della Genesi risulta chiaramente che la disobbedienza di Adamo attirò sopra l’umanità la morte, l’inimicizia di Dio e un cumulo di miserie delle quali la più umiliante è la ribellione dei sensi. L’uomo, formato di elementi perituri, trovava nell’albero della vita un antidoto contro la sua naturale corruttibilità; ma il peccato, scacciandolo dal paradiso terrestre, fece cadere sopra di lui e sopra la sua discendenza il fatale decreto di morte. Allora invece della familiarità divina e dei premurosi favori di cui era stato ricolmo, si vide cadere addosso maledizioni su maledizioni: infertilità del terreno, dura legge del lavoro, esilio lontano dalla faccia di Dio. Adamo ed Eva, creati nella rettitudine e nell’innocenza, non portavano in se stessi i germi della perversione morale; bisognò che la suggestione al male venisse loro dall’esterno; ma il peccato turbò subito l’armonia delle loro facoltà e tolse loro il dominio sopra le potenze inferiori; col sentimento del pudore nacque in essi la concupiscenza. Senza troppo speculare su questi tre dati scritturali, ogni lettore di buon senso conchiuderà che una penalità comune implica un’offesa comune; che la perdita dell’amicizia divina suppone uno stato anteriore di favore e di grazia; che per attirare sopra tutti i suoi discendenti una sentenza di condanna, Adamo doveva rappresentarli per un titolo che non gli era conferito soltanto dalla sua qualità di primo uomo, e che vi era dunque, nei disegni di Dio, tra Adamo e la sua discendenza, un’unione di solidarietà, assai poco conforme alle nostre idee moderne di individualismo a oltranza, ma perfettamente accessibili al pensiero antico. Perciò il dogma della decadenza originale non poteva creare nessuna difficoltà per i contemporanei di san Paolo poiché ammettevano senza esitare, sopra la fede delle Scritture, che la disobbedienza di Adamo ci procurò la morte, l’inclinazione al male e le tristi condizioni dell’umanità attuale. Le favole puerili, aggiunte più tardi al fondo biblico dai redattori del Talmud, non alterarono l’essenza del dogma. Paolo dunque non mira a dimostrare la caduta originale: egli suppone che sia già conosciuta, come suppone che sia conosciuto il rapporto di solidarietà senza del quale non sarebbe comprensibile la caduta originale; ma egli si serve di due idee per spiegare l’opera del rialzamento. Difatti la reversibilità dei demeriti nella persona di Adamo spiega la reversibilità dei meriti nella persona del Cristo, dato che la prima verità sia affatto incontestabile, e che vi sia tra Adamo e il Cristo una relazione facilmente ammissibile. Ciò posto, l’insegnamento dell’Apostolo si riassume così: Il peccato deriva da Adamo; la morte deriva dal peccato. Il peccato deriva da Adamo. « Per un solo uomo il peccato è entrato nel mondo ( V, 12) ». Quest’uomo è evidentemente il nostro primo padre; il peccato è la potenza del male che Gesù Cristo verrà a distruggere; il mondo significa il genere umano, e l’entrata del peccato non è un’apparizione isolata e passeggera, ma un’invasione trionfale. Il peccato non si propaga soltanto per imitazione, col contagio dell’esempio, ma si trasmette per eredità. « Infatti per la disobbedienza di un solo uomo, tutti nonostante il loro numero sono stati costituiti peccatori ». Non vi è che una sola colpa, e tuttavia vi sono molti condannati, molti colpevoli, molti peccatori: dunque la colpa di uno solo era comune a tutti.

La morte deriva dal peccato. « La morte passò in tutti gli uomini perché tutti avevano peccato ». Non si tratta di peccati personali, ma di un peccato unico comune a tutti. Difatti se l’Apostolo parlasse qui di peccati attuali, assegnerebbe alla morte un’origine differente da quella che le assegnava al cominciare della frase. Egli le assegnerebbe un’origine manifestamente falsa, poiché si sa che tutti gli uomini muoiono ma che non tutti sono colpevoli di peccati attuali. Le assegnerebbe una causa che egli stesso non ammette, poiché soggiunge tosto che « il peccato non viene imputato », come degno di morte, « a difetto di una legge » che pronunzi contro di esso la pena di morte, e che tuttavia « la morte ha regnato anche sopra quelli che non avevano peccato a imitazione della trasgressione di Adamo », in altri termini, « che non erano colpevoli di peccati attuali ». Perciò i migliori commentatori protestanti e razionalisti, quando fanno da esegeti e non da teologi, accettano la nostra spiegazione, per quanto questa possa essere contraria alle loro prevenzioni e ai loro sistemi, perché essa appare come la sola ragionevole e la sola conforme alla manifesta intenzione dell’Apostolo. – La trasmissione del peccato originale ha come corrispondente la diffusione della giustizia del Cristo: non bisogna allontanarsi da questa analogia. Come la privazione della grazia originale è consumata, in diritto e in principio, dalla disobbedienza di Adamo il quale agisce in nome e a danno di tutta la sua posterità, e come essa per diffondersi non aspetta che la nostra entrata reale nella famiglia umana per mezzo della generazione naturale, così il merito guadagnato da Gesù Cristo il quale agisce in nome ed a vantaggio dell’umanità di cui è rappresentante, ci è acquisito, in diritto e in principio, una volta per sempre, e per comunicarsi non aspetta che la nostra unione effettiva al Cristo per mezzo della fede e del battesimo. Se in questa solidarietà del merito e del demerito rimane sempre qualche cosa di misterioso, il mistero è il medesimo da una parte e dall’altra, ma la spiegazione di questo mistero non è di competenza della teologia biblica.

2. Il peccato, entrato nel mondo e stabilitovisi come in una fortezza, vi regna dispoticamente. L’impero del male cresce e si dilata sempre più; la corruzione del cuore guadagna la mente, e la perversione della mente affretta quella dei costumi. Così si spiega, agli occhi di san Paolo, il progresso dell’idolatria e lo straripare del vizio. L’essere divino, percepito attraverso il velo della creazione e in fondo alla coscienza, imponeva all’uomo un triplice dovere: cercare Dio intravveduto dalla ragione, onorarlo dopo di averlo trovato, ringraziarlo dei suoi benefizi per renderselo propizio. Al contrario i pagani, traviati dai loro istinti depravati, disprezzarono la felicità di conoscere Dio, incatenarono la verità per non udirne la voce molesta, prostituirono gli onori divini alle creature più abiette, spinsero il traviamento fino al punto di compiacersi della menzogna e della Così cadde su loro la pena del taglione, terribile e inesorabile. Prima di tutto si oscurò la loro ragione, i loro pensieri divennero vani, essi medesimi diventarono zimbello delle illusioni e dei sofismi, la loro stoltezza divenne tanto più incurabile, quanto più essi facevano pompa di sapienza. L’accecamento della loro mente, unito con l’indurimento del cuore, li abbandonò ben presto alle passioni impure; essi stessi si votarono all’ignominia e si fecero, senza volerlo, gli esecutori delle divine vendette (Rom. I, 18-28). Finalmente come essi avevano abbandonato Dio, così Dio li abbandonò al loro senso riprovato; essi furono « pieni d’iniquità, di malvagità, di cupidigia, di malizia, d’invidia, di omicidio, di dissenso, di astuzia, di furberia; detrattori, maledici, empi, insolenti, superbi, vanitosi, inventori di delitti, ribelli ai loro genitori; senza intelligenza, senza lealtà, senza affezione, senza misericordia (Rom. I, 29-31) ». Questo quadro fu molte volte confrontato con quello che fa l’autore della Sapienza (capp. XIII,- XIV). Se non vi è affatto dipendenza letterale e neppure un’imitazione voluta, è però difficile non vedervi una reminiscenza. L’assurdo del politeismo e la scostumatezza dei pagani dappertutto ripugnavano al senso morale degli Ebrei. Quello che distingue Paolo dai suoi compatrioti, è che nel flagellare con estremo rigore i vizi dei Gentili, simpatizza con la loro persona e stabilisce la loro colpabilità sopra le basi della moralità naturale, invece di fondarla sopra l’ignoranza della Legge, spiega il progresso dell’idolatria e della sfrenatezza con una specie di processo psicologico che serve ad un tempo come castigo e come rimedio e che fa risultare il bene dallo stesso eccesso del male. Qualcuno ha voluto sostenere che Paolo, non mantenendosi fedele alle sue massime, non attribuisse la corruzione generale dell’umanità alla caduta originale, e citano, come prova, queste sue parole: « Anche noi una volta camminavamo tutti nei nostri desideri carnali, facendo la volontà della carne e dei pensieri (cattivi) ed eravamo per natura figli d’ira come gli altri (Ephes. II, 3) ». Ma che cosa significa questa frase! In qualunque maniera si vogliano intendere, le parole « noi eravamo per natura figli di ira come gli altri », abbracciano necessariamente tutti gli uomini senza eccezione. Difatti se « noi » indica gli Ebrei, secondo la spiegazione comune, « gli altri » sono i non Ebrei, ossia tutti i Gentili; e se « noi » indica i Cristiani, come vogliono certi commentatori, « gli altri » saranno i non Cristiani, ossia tutti gli infedeli o Ebrei o Gentili: in tutti e due i casi l’affermazione è universale. D’altra parte, secondo l’analogia biblica, i « figli dell’ira » sono gli uomini meritevoli dell’ira divina, ed esposti ai colpi di quest’ira, vendicatrice. Non si tratta dunque più che di stabilire il significato della parola « naturalmente » o « per natura ». Siccome si chiamano disposizioni naturali quelle che noi portiamo nascendo, sia che le abbiamo per eredità, sia che le abbiamo per qualunque altra causa, sant’Agostino pensava che noi siamo « figli dell’ira per natura » in quel modo che uno è cieco di nascita o moro di razza, perché il peccato, senza appartenere alla costituzione essenziale del nostro essere, è ereditario in noi. Calvino attaccandosi a questa interpretazione, esagera, secondo il suo solito, il pensiero di sant’Agostino e pretende che noi nasciamo col peccato come il serpente nasce col suo veleno. Molti teologi protestanti arrivano a pretendere che il peccato originale sia inerente alla nostra natura. L’Apostolo non dice questo; egli indica ben chiaramente quello che ci rende « figli dell’ira »: è l’obbedire « ai desideri e alla volontà della carne »; è, in altri termini, il commettere il peccato attuale. Quando egli aggiunge che tali siamo « per natura », il senso di questa espressione dev’essere fissato dall’opposizione latente che essa implica; ora la sola opposizione qui suggerita dal contesto è quella della grazia: per la grazia, noi siamo giusti, santi, figli di Dio; per natura siamo peccatori e figli dell’ira, ossia evidentemente per la natura abbandonata a se stessa e senza l’appoggio della grazia. Se dunque il peccato originale qui non è nominato, è però sufficientemente indicato come la sorgente comune delle inclinazioni cattive che infettano la nostra natura.

3. Noi arriviamo così a tracciare la genealogia del male. Il regno del peccato si spiega con l’abuso della libertà umana; il cattivo uso della libertà dipende dalla corruzione della natura, dalla potenza della carne; la corruzione naturale deriva dalla disobbedienza di Adamo; ma bisogna risalire ancora più in alto. Secondo san Paolo come pure secondo san Giovanni, poiché tutti e due si ispirano dal racconto della Genesi e dal Libro della Sapienza, il primo istigatore del peccato fu il diavolo, il serpente infernale che sedusse Eva e, per mezzo di Eva, il nostro primo padre, e che, omicida fin da principio prosegue sempre, senza tregua, la sua opera di morte (Gen. III, 1-4). E diavolo è quello che suscita ostacoli a i predicatori del Vangelo e persecuzioni contro i fedeli; è quello che fomenta l’idolatria, insinua il dubbio nelle intelligenze e mette la ribellione nei cuori. Il suo nome ordinario è satana, ma Paolo lo chiama anche Belial e serpente, nelle Epistole ai Corinzi, diavolo nell’Epistola agli Efesini, nelle Pastorali e negli Atti (Rom. XVI, 20; I Cor. V, 5; etc.) …. Ora lo descrive come un solo personaggio o come un essere collettivo che rappresenta il potere del male; ora lo dissemina in una folla di spiriti cattivi che abitano le sfere superiori, le regioni sopramondane, le tenebre (Ephes. II, 2; VI, 12). È difficile decidere in quale misura l’Apostolo adoperi, senza troppo valutarlo, il linguaggio comune, perché le sue formule generalmente non sono l’oggetto di un’asserzione espressa e si trovano quasi tutte nella teologia ebraica e rabbinica.- Quello che afferma chiaramente, è che il gran nemico si è creato anche lui un regno col fine di distruggere il regno di Dio. Ogni regno si svolge nel tempo e nello spazio, occupa un territorio e riempie un’epoca: il territorio in cui si esercita l’impero di satana è questo mondo; l’epoca che gli è assegnata è il secolo presente. Per gli Ebrei contemporanei degli Apostoli, il mondo presente e il secolo presente erano due locuzioni simili che avevano come corrispondenti un mondo futuro e un secolo futuro, cioè un regno terreno del Messia o un regno celeste di Dio nei suoi santi. Esse assumevano da questo contrasto un senso peggiorativo più o meno marcato, secondo i diversi autori. Non occorre conoscere a fondo il linguaggio di san Paolo per aver osservato che in esso la parola mondo raramente indica il complesso della creazione materiale; molte volte il mondo vuol dire la dimora, il teatro, la condizione attuale dell’uomo; più spesso ancora indica l’umanità presente, debole, cieca, abbandonata alle passioni, lontana dal suo ultimo fine. Dopo il peccato, il mondo è nemico di Dio; la sapienza del mondo si oppone alla sapienza di Dio, lo spirito del mondo allo spirito di Dio, la tristezza del mondo alla tristezza secondo Dio, le cose del mondo alle cose di Dio. Paolo esprime con singolare energia questa irreconciliabile ostilità con dire che egli è crocifisso al mondo e che il mondo è crocifisso per lui. Lo stesso senso peggiorativo lo ha pure qualche volta il secolo presente in forza di un’antitesi espressa o sottintesa col secolo futuro. E secolo futuro è l’era della felicità senza mescolanza di mali e senza fine; il secolo presente, in preda alle miserie, alla morte e al peccato, è perverso nei suoi princìpi e nelle sue tendenze (Gal. I, 4). Di modo che il mondo e il secolo arrivano ad essere quasi sinonimi; tuttavia la distinzione etimologica rimane, e la sinonimia non è assoluta. Il mondo così inteso è il regno di satana; il secolo è la durata assegnata al suo regno. L’Epistola agli Ebrei, san Giovanni e san Paolo esprimono questa dominazione con formule alquanto differenti: san Giovanni chiama satana « il principe di questo mondo (Joan. XII, 31) »; l’Epistola agli Ebrei gli attribuisce « il potere della morte (Ebr. XII, 14) »; san Paolo, rincarando la dose, lo chiama « il dio di questo secolo (II Cor. IV, 4) ». Dopo il trionfo finale, Dio sarà tutto in tutti; ma durante il periodo di lotta che si estende alla parousia, l’impero del mondo è diviso, e il demonio si rivendica la sua parte di sovranità. Egli raccoglie intorno a sé i banditi, i ribelli, ì fuggiaschi; li acceca con i suoi sofismi e li sottrae all’influenza del Vangelo; egli regna interamente su loro: è il loro dio. Siccome la sua dominazione non può stabilirsi né durare se non con l’errore e la menzogna, « i l dio di questo secolo » è un dio delle tenebre: “Rivestite l‘armatura di Dio per poter resistere alle macchinazioni del diavolo; poiché noi non abbiamo da lottare contro la carne e il sangue, ma contro i principati, contro le potestà, contro i dominatori di questo Mondo di tenebre, contro gli spiriti di malizia (che sono) nelle regioni celesti” (Ephes. VI, 11). – Il potere occulto che ci fa guerra, ora è concentrato nella persona del suo capo, ora è diviso tra una moltitudine di esseri nemici, « potenze e principati, prìncipi di questo mondo, spiriti di malizia ». La loro sfera di azione sono il mondo, le tenebre, le regioni sublunari. Se si prendono queste espressioni nel senso letterale, le regioni celesti non possono essere altro che i luoghi vicini al pianeta, conosciuti volgarmente col nome di cielo; e che i demoni vi risiedano, è una necessità portata dalla guerra da loro ingaggiata contro l’umanità. San Paolo ricorda agli Efesini il tempo in cui essi seguivano « il corso di questo mondo, il capo della potenza dell’aria, dello spirito che ora opera nei figli della ribellione (Ephes. II, 11) ». Il senso preciso di quasi tutte queste parole è discusso; tuttavia non si può sfuggire all’impressione che l’aria di cui si tratta, sia proprio l’atmosfera materiale in cui stanno annidati i diavoli per piombare improvvisamente sopra l’uomo e dove « il ruggente si aggira nell’ombra i n cerca di una preda (I Piet. V, 8) ». Questa concezione era allora comune, e non vi è anacronismo nell’attribuirla a san Paolo. – Il peccato che domina il genere umano e che ha la sua sede nella carne, invece di essere una personificazione del male, non sarebbe forse una persona vera, il diavolo stesso? Alcuni Padri lo hanno creduto, e parecchi teologi eterodossi lo sostengono ancora (Simon). Ma questa opinione che non poggia sopra nessuna ragione solida, urta contro gravi difficoltà esegetiche. Tutto quello che si può e che si deve concedere, è che la presenza di un essere personale dietro il principio del male facilita assai la personificazione costante del peccato.

4. San Paolo riconosce forse una classe di spiriti intermedi, né diavoli né Angeli, benché forse destinati a diventare un giorno o diavoli o Angeli, esseri ambigui, più scaltri che cattivi, per lo più ostili all’uomo per bricconeria e per capriccio, esseri che ricordano i fauni, i silvani, le driadi e le ninfe della mitologia greco-latina, i folletti, i silfi delle leggende medioevali, i peri e i djinn delle fiabe arabe, i geni dei venti e delle acque delle religioni animistiche e della superstizione popolare? Ecco una questione affatto moderna che gli antichi commentatori non hanno mai fatta né sospettata. Diciamo subito che in san Paolo non si trova la più piccola traccia di questa nuova concezione. Quando egli scrive ai Galati: « Se noi o un angelo del cielo vi annunziasse un altro Vangelo, sia anatema (Gal., I, 9) », parla degli Angeli buoni, di quelli che vedono la faccia di Dio: egli però non prende sul serio il caso in cui o un Angelo dal cielo o egli stesso venga a distruggere quello che ha costruito: l’ipotesi è irrealizzabile; soltanto essa ripugna di meno alla ragione, che la verità di un altro Vangelo. – Neppure il consiglio che dà ai Corinzi non accenna agli angeli prevaricatori. « La donna deve avere in capo » il velo, simbolo del « potere » maritale, « per causa degli angeli (I Cor. I, 10) ». Gli angeli, senz’altra spiegazione, significano sempre gli Angeli buoni; non bisogna dunque pensare a quegli spiriti celesti, né buoni né cattivi definitivamente, i quali, secondo il Libro di Enoch, s’invaghirono delle figlie degli uomini e peccarono con esse. Questa interpretazione ha l’inconveniente d’introdurre un motivo estraneo al contesto, senza avere il vantaggio di rispondere alle idee ebraiche contemporanee; infatti la caduta degli Angeli era per gli Ebrei un fatto di storia antica, del quale non si vedeva più la ripetizione. Un’interpretazione più semplice e più naturale viene suggerita dalla lettura attenta del passo: « Conoscendo il vincolo di subordinazione che unisce la donna all’uomo sia nell’atto stesso della creazione, sia nel disegno del Creatore, la donna deve portare sul capo il segno della sua dipendenza, per motivo degli Angeli associati da Dio all’atto della creazione e da Lui incaricati di promulgare la Legge e di vigilare perché sia osservata. « Si tratta dunque del rispetto dovuto non tanto agli Angeli che sono testimoni del sacrificio eucaristico, quanto piuttosto agli Angeli preposti al governo del mondo e della Chiesa. – In favore degli spiriti intermedi che non sarebbero né angeli né demoni, s’invoca pure il testo seguente: « Ai perfetti noi predichiamo la sapienza, non la sapienza di questo secolo né dei principi di questo secolo la cui autorità passa, ma predichiamo la sapienza di Dio che ha per oggetto il mistero, la (sapienza) nascosta, che Dio ha predestinata prima dei secoli per la nostra gloria. Questa sapienza non l’ha conosciuta nessuno dei prìncipi di questo secolo, poiché se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (I Cor. II, 6-8) ». Alcuni Padri hanno creduto che i « prìncipi di questo secolo » sono i demoni; certi commentatori moderni vedono in essi gli spiriti elementari che mettono in azione le forze fisiche della natura. Ma senza parlare di questa idea strana, che i demoni o gli spiriti elementari abbiano crocifisso il Cristo e che non lo avrebbero crocifisso se avessero avuto la vera sapienza, il contesto indica chiaramente che i « prìncipi di questo secolo » indicano esseri umani, quelli che governavano allora il mondo e che ebbero il potere di mandare alla morte Gesù. Infatti in questi due primi capitoli Paolo stabilisce un contrasto tra la sapienza umana, la sapienza secondo la carne, la sapienza di questo mondo, che è propria dei filosofi, dei nobili e dei potenti, e la sapienza divina, rivelata dallo Spirito Santo agli umili, ai deboli e ai piccoli che formano la gran maggioranza della Chiesa: questa sapienza fu ignorata dagli Erodi, dai Caifa e dai Pilati, perché se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso l’Autore stesso della sapienza. I fedeli dunque non arrossiscano della loro bassezza, della loro ignoranza, del loro nulla secondo il mondo, perché essi posseggono una scienza alla quale non possono arrivare i geni e le potenze di questo mondo. Chi non vede come l’intrusione di demoni o di spiriti elementari turberebbe il corso di un pensiero così limpido? La tesi degli spiriti elementari si ripara qualche volta sotto l’ombra protettrice di un testo oscuro. Dio « spogliando i principati e le potestà, le diede pubblicamente a spettacolo, conducendole in trionfo sopra la croce (Col. II, 15) ». Sappiamo che « i principati e le potestà » comprendono qualche volta gli spiriti infernali; ma qui la cosa è diversa. Difatti non si può credere che l’Apostolo non si riferisca ai « principati e alle potestà » che ha nominato pochi versetti prima. I Colossesi li onoravano con un culto superstizioso per causa della loro dignità intrinseca e perché li sapevano associati alla promulgazione e alla custodia della Legge mosaica. Paolo ricorda loro che Dio inchiodò sopra la croce di Gesù quella Legge decrepita e spogliò del loro potere i mediatori dell’antica alleanza. Non vi è più che un solo Mediatore; il compito degli Angeli è finito, ed essi ora servono all’esaltazione del Crocifisso e ne scortano, per così dire, il carro trionfale. Che essi siano stati infedeli alla loro missione, l’Apostolo non lo insinua affatto; ma comunque, la loro missione è terminata, e i Colossesi hanno torto a non riconoscerlo per inaugurare un culto ingiurioso al Cristo.