CONOSCERE SAN PAOLO (27)

LIBRO II.

Preistoria della redenzione. (1)

CAPO I

L’umanità senza il Cristo.

I. LA PSICOLOGIA PAOLINA.

1. FONDO BIBLICO. — 2. ELEMENTI ELLENICI. — 3. IL COMPOSTO UMANO. — 4. LINGUAGGIO ECCLETTICO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA; S. E. I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Gli esegeti contemporanei non meritano il rimprovero di aver lasciato nell’ombra la psicologia di san Paolo, e parecchi le hanno dedicato monografie pregevoli; tutti poi le assegnano un posto di onore nell’economia della dottrina paolina. Ma vi è forse, nel senso stretto della parola, una psicologia di san Paolo? Se nessun libro sacro non è un libro scientifico, se gli scrittori ispirati non hanno ricevuto la missione di insegnarci i segreti della storia naturale e gli elementi della metafisica, Paolo, meno di tutti gli altri, avrà tollerato di essere abbassato al livello di quei filosofi ciarloni, di quei venditori ambulanti di sapienza umana, che egli colpiva con i suoi sarcasmi. Egli non ebbe mai l’intenzione di costruire un sistema di psicologia razionale. Egli adopera il vocabolario usuale — poiché bisogna pure che si faccia capire, e non avrebbe certamente la possibilità di istruirci se creasse di sana pianta un lessico nuovo — ma non ha pretese di esclusivismo nella scelta che fa, né di costanza nell’uso delle parole che prende a imprestito: ogni parola per lui è buona, purché traduca bene il suo pensiero del momento. La sua lingua si arricchisce e si modifica con l’età, con i paesi che attraversa, con le diverse società che frequenta: è personale nelle sue idee, ma ecclettico nella forma con cui le esprime, e questa varietà di colori forma uno degli stili, più vivi, più pittoreschi, più saporiti che si possano immaginare. Ma qualunque tentativo di trarne fuori un sistema filosofico coerente è assolutamente vano. Per convincersi che la lingua psicologica dell’Apostolo è in sostanza quella dei Settanta, e che la sua concezione dell’uomo è prima di tutto biblica, basterebbe considerare la parte che egli attribuisce al cuore. Per lui, come per gli autori dell’Antico Testamento, il cuore è il centro di ogni vita sensibile, intellettuale e morale, la sede universale degli affetti e delle passioni, del ricordo e del rimorso, della gioia e della tristezza, delle sante risoluzioni e dei desideri cattivi, il canale di tutti gli effluvi dello Spirito Santo, il santuario della coscienza, nel quale sono scolpite a caratteri indelebili le tavole della legge naturale, dove non penetra nessuno sguardo, eccetto quello di Dio. – La verità lo illumina, l’infedeltà lo acceca, l’impenitenza lo indurisce, l’ipocrisia lo falsa, la felicità lo dilata, l’angoscia lo stringe, la riconoscenza lo fa esultare. Il cuore è la misura dell’uomo; il cuore è l’uomo stesso, ed ecco perché Dio, volendo stimare l’uomo al suo giusto valore, lo considera nel cuore. Siccome il cuore riassume quasi tutta l’attività umana, la parte degli altri organi si trova ridotta in proporzione. Il fegato, sede della collera e dell’invidia, i reni, centro della coscienza, la milza, focolare della tristezza, non sono neppure nominati da san Paolo. – Gli occhi indicano l’intelligenza, e le orecchie l’attenzione, piuttosto per metafora che per metonimia; la figura per la quale i visceri esprimono la tenerezza o la misericordia, non ha quasi più nessun vigore. Però l’Apostolo risuscita un’antica parola, cara a Omero e agli antichi tragici — il diaframma, organo del sentimento e del giudizio — e la fa entrare in una decina di derivati o di composti che sono esclusivamente suoi. Ben più notevole è il compito che attribuisce alla testa. Per gli Ebrei, la testa era soltanto emblema della superiorità e della preminenza. I Greci ne facevano la sede del pensiero, perché in essa collocavano l’anima, monade immateriale, quasi sentinella alle porte dei sensi per scandagliare l’orizzonte e dirigere il cammino, come la vedetta che sta alla coffa della nave o come il pilota al timone. Ma Paolo, imbevuto di idee bibliche riguardo all’unità del composto umano, non poteva assimilare l’anima al motore di Descartes o al conduttore di Platone; perciò egli parla delle funzioni della testa nell’economia vitale, in termini nei quali sembrerebbe di udire l’eco delle dottrine biologiche moderne. Non facciamogli dire, con un esegeta contemporaneo, che il cervello ha il monopolio di tutte le impressioni sensorie per telegrafare poi in tutte le direzioni gli ordini dell’anima; ma si è portati per forza a credere che la relazione del Cristo con la Chiesa, nella sua teoria del corpo mistico, gli abbia dato l’intuizione di quello che è la testa rispetto al composto umano, tanto il suo linguaggio spicca su quello degli altri scrittori sacri. Già altrove abbiamo accennato a questo importante fenomeno così meritevole di attenzione.

2. L’influenza esercitata in lui dalla coltura ellenica non si può negare: essa si manifesta subito dall’introduzione di due termini — la coscienza (συνείδησις = suneidesis) e la ragione (νοῦς= nous) divenuti di uso tanto comune, che si stenta a capire come se ne sia potuto fare a meno. La parola « coscienza » è di origine abbastanza recente: nessuno scrittore del secolo di Pericle la conosceva ancora. Il primo a servirsene fu il comico Menandro, in questa celebre massima: Per ogni mortale, la coscienza è un dio (Framm. 654 – Didot, p. 103) ». Più tardi se ne impadronirono a gara storici e filosofi, dopo di averla spogliata del suo antico significato di testimonio e di complice, per farne, secondo la bella personificazione di Filone, quel giudice incorruttibile che siede in fondo all’anima e che si sforza, con i consigli e le minacce, di richiamare gli imprudenti ed i traviati, di ridurre i superbi e i Non già che l’idea di coscienza sia assente dalla Bibbia; ma le mancava la parola propria (es. Giob. IX, 21; Sam. XVIII, 13). Quello che può fare meraviglia è il fatto che, trovatasi là parola, gli autori del Nuovo Testamento ne lascino a Paolo l’uso quasi esclusivo. San Luca che la mette due volte in bocca all’Apostolo, per conto suo non se ne serve; poi non la troviamo più se non nell’Epistola agli Ebrei e nella prima Epistola di Pietro, che hanno così stretta parentela, per le idee e per il lessico, con lo stile di Paolo. Per san Paolo, la coscienza è un legislatore integro che formola e promulga la legge divina; un testimonio veridico le cui deposizioni non si possono respingere; un giudice imparziale che giudica in ultimo appello. Sicuro del valore di tale testimonianza e di tale sentenza, Paolo si appella alla coscienza sua e degli altri (II Cor. I, 12). Ma la coscienza per lui non è soltanto un tribunale dove si discute e si giudica il passato; è anche una luce interna che avverte l’uomo dei suoi doveri, una guida fedele che gli mostra imperiosamente la sua via. Così l’uomo sale o scende la scala della perfezione morale, nella misura in cui la sua coscienza è buona, pura, senza rimproveri, oppure al contrario è cattiva, macchiata, cauterizzata; il mezzo termine è che sia debole: allora merita indulgenza e riguardi (I Tim. I, 5-19). Non meno felice è l’altra parola che Paolo prende a imprestito dalla lingua profana; infatti siccome il λόγος (= logos) biblico significa la parola e non già la ragione, il νοῦς (= nous), di uso così frequente nella letteratura classica da Omero in poi, non aveva nella Bibbia un equivalente esatto. Il νοῦς (= nous), non è soltanto l’intelletto e la ragione, ma anche la maniera di pensare, l’opinione, il sentimento (Rom. VIII, 22). Essendo ausiliare nato della coscienza, con la quale talora sembra confondersi, è di sua competenza la legge naturale, ma quella soprannaturale è fuori della sua sfera, e i misteri la oltrepassano. Se non è assistito dal πνεῦμα (= pneuma) e da esso rinnovato, sarà vano, corrotto, riprovato; impotente contro la carne, può diventare esso medesimo carnale; e Paolo, sempre originale anche quando prende a ìmprestito, ci presenta strane associazioni di parole, come « lo spirito della ragione » e « la ragione della carne », le quali ci fanno toccare con mano l’impossibilità di spiegarlo col vocabolario classico. San Paolo s’impadronì pure della bella espressione platonica di « uomo interiore (Repubbl. IX, 589 A) », probabilmente senza conoscerne l’origine e dandole come corrispondente l’uomo esteriore; ma questa opposizione è di uso troppo sporadico e di una filosofia troppo elementare per formare il pernio di tutta la psicologia paolina, come pretenderebbero oggi alcuni esegeti. Nel passo dell’Epistola ai Romani, in cui afferma che gusta e approva la Legge di Dio secondo l’uomo interiore (Rom. VII, 22), l’Apostolo identifica chiaramente questo uomo interiore con la ragione, perché aggiunge: « Dunque io sono soggetto, per la ragione, alla Legge di Dio; per la carne, alla legge del peccato ». Il νοῦς (= nous) non si deve confondere col πνεῦμα (= pneuma): il πνεῦμα (= pneuma), entrando in lizza contro la carne, uscirebbe vittorioso dalla lotta, mentre il νοῦς (= nous) è infallibilmente vinto. L’antitesi carne e uomo interiore — oppure carne e ragione che è poi la stessa cosa — è dunque formata qui con elementi disparati, poiché l’uomo interiore indica la natura intellettuale che è l’essenza stessa dell’uomo, e la carne è la natura peccatrice la cui decadenza attuale suppone necessariamente uno stato primitivo di elevazione. Ma quando l’Apostolo augura agli Efesini « di essere fortificati dallo Spirito di Dio secondo l’uomo interiore », e scrive ai Corinzi: « Se il nostro uomo esteriore si. corrompe, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno (Ephes. III, 16) », l’uomo interiore non è soltanto più l’anima o la ragione, ma è la natura intellettuale arricchita dei doni della grazia, l’anima abitata dallo Spirito Santo e in possesso del πνεῦμα (= pneuma). Riassumiamo: L’uomo esteriore dipende dall’ordine fisico; l’uomo interiore appartiene sia all’ordine fisico, sia all’ordine morale e religioso. — L’uomo interiore e l’uomo esteriore esisterebbero nello stato di natura, come esistono nello stato di elevazione soprannaturale; ma mentre la nozione dell’uomo esteriore rimane invariabile in tutti e due i casi, la comprensione dell’uomo interiore è differente. — Perciò l’uomo interiore non è unicamente la parte invisibile e immateriale del composto umano, ma panche quello che la grazia opera in noi. Sotto l’influenza dello Spirito Santo, l’uomo interiore si fortifica e si rinnova; lasciato a se stesso, è impotente contro la, carne e diventa carnale.

3. La carne o il corpo costituisce l’uomo esteriore; l’anima, lo spirito, il cuore, la ragione, la coscienza, sono diversi aspetti o diverse denominazioni dell’uomo interiore. Rigorosamente parlando, il corpo e la carne non sono sinonimi: il corpo è la materia organizzata, viva o morta, degli uomini e degli animali, la carne è il corpo, senza però l’idea di organismo, ma con l’idea, in più, della vita (la carne nutrimento è κρέας = kréas). La carne fa dunque astrazione dall’omogeneità delle parti e suppone invece il principio vitale dal quale fa astrazione il corpo. Fatte poche eccezioni, Paolo annette sempre al corpo l’idea di organismo e di organismo umano (I Cor. XV, 37-40); sappiamo con che felici espressioni egli indichi così la Chiesa, complemento organico del Salvatore e parte integrante del Cristo mistico. Tuttavia la sinonimia tra il corpo e la carne esiste per lui in larga misura. Quando egli si dice « assente di corpo, ma presente di spirito » oppure « assente con la carne, ma presente con lo spirito »; quando vuole che la vergine sia santa « di corpo e di spirito » e che tutti i fedeli evitino le macchie « della carne e dello spirito »; quando augura che « la vita di Gesù apparisca nei nostri corpi » oppure « nella nostra carne mortale »; quando scongiura lo sposo cristiano « ad amare la sua sposa come il suo proprio corpo, poiché nessuno odia la propria carne », è difficile scoprire una differenza di significato tra questi due termini che quasi sempre possono scambiarsi, fatta eccezione per alcune restrizioni imposte dall’uso biblico il quale, per esempio, esige che si faccia menzione della carne invece che del corpo, quando si tratta della circoncisione. Ma quando la carne è messa in relazione con l’anima o lo spirito, acquista, per tale avvicinamento, parecchi nuovi significati assai complessi. – Le parole anima e spirito ebbero in ebraico, come in greco e in latino, una sorte quasi uguale e nella loro evoluzione semantica seguirono una via poco diversa. Dal significato etimologico di « soffio, aria in movimento », vennero a significare a volta a volta il « respiro », indice e condizione della vita, poi la « vita » stessa, poi il « principio vitale », finalmente una « sostanza vivente » distinta dalla materia e superiore a questa. Ma mentre, nell’uso, lo spirito andava sempre più staccandosi dalla materia, l’anima, per un fenomeno inverso, tendeva a identificarsi col principio vitale degli esseri animati. Tuttavia negli scrittori biblici la loro sinonimia generale risulta da questa triplice legge, che si corrispondono frequentissimamente in frasi parallele, che facilmente si scambiano nella stessa frase e che ricevono quasi indifferentemente gli stessi predicati. Se si è creduto di osservare che né la gioia né la paura né la speranza non sono mai attribuite allo spirito, che il desiderio e l’appetito sensibile si attribuiscono sempre all’anima (Haton, Oxford, 1889), questi sono forse fatti accidentali dei quali non bisogna esagerare il valore. Paolo, essendo solito a concentrare nel cuore tutte le manifestazioni della vita e prendendo dal vocabolario classico nuovi termini per indicare le operazioni intellettuali, assai raramente chiama anima o spirito il principio pensante. Secondo il racconto biblico, Dio, soffiando nelle narici dell’uomo un soffio di vita, ne fece « un’anima vivente », ossia un’anima che esercita nella carne e per mezzo della carne le funzioni vitali. Quindi la carne non si concepisce senza l’anima, e l’anima non si definisce senza qualche rapporto con la carne. Quando Paolo ringrazia Epafrodito di aver esposto l’anima sua per amore di lui, quando loda Prisca e Aquila di aver esposto la loro testa per salvare la sua anima, quando assicura ai Tessalonicesi, che avrebbe voluto dare loro non soltanto il Vangelo, ma l’anima sua, come una madre la dà per il suo bambino, è evidente che vuole parlare della vita (Fil. II, 30; Rom. XVI, 4; I Tess. II, 8). Perciò un gran numero di fenomeni psichici sono attribuiti indifferentemente alla carne o all’anima, perché l’anima in quanto è principio vitale, non si distingue adeguatamente dalla carne: « ogni anima » e « ogni carne » sono due espressioni equivalenti. – Sembra pure che Paolo, se non vi è indotto da una ragione di simmetria o dal desiderio di accentuare un contrasto, eviti di chiamare spirito la parte intelligente dell’uomo. Ma quando per eccezione lo spirito indica la sostanza pensante (I Cor. II, 11 etc.), vi è tra esso e l’anima una differenza modale che permette di dire senza tautologia: « Il Dio della pace vi santifichi interamente e tutto il vostro spirito e la vostra anima e il vostro corpo siano conservati immacolati (I Tess. V, 23) ». Il corpo o il substrato materiale, l’anima o la vita sensibile, lo spirito o la vita intellettuale, sono tre aspetti dell’uomo, i quali riassumono tutto il suo essere e tutte le sue attività; non sono tre parti distinte del composto umano. Per cercare in queste parole la tricotomia platonica, bisogna aver dimenticato che l’antropologia dell’Apostolo si poggia notoriamente sopra la concezione scritturale, e che non si potrebbe ammettere senza inverosimiglianza, che egli se ne allontani una sola volta, in una frase incidentale, in favore di un sistema incompatibile con la teologia ebraica. Per l’anima, l’uomo ha delle affinità con le potenze superiori; con la carne contrasta con i puri spiriti: « Il mio spirito, dice il Signore, non resterà sempre nell’uomo perché questi è carne (Gen. VI, 3) ». L’Antico Testamento ci offre numerosi esempi di tale antitesi:

L’Egiziano è uomo e non Dio: i suoi cavalli sono carne e non spirito (Is. XXXI, 3).

O palese o latente, l’antitesi imprime ordinariamente alla carne un’idea accessoria di debolezza, d’impotenza, di miseria e di caducità. Tutto ciò che è transitorio, perituro, terreno, prende il nome di carne; e tutto ciò che vi è di eterno, d’incorruttibile, di celeste, appartiene alla categoria dello spirito (I Cor. IX, 11). In questo significato, la carne è frequentemente sostituita con la carne e il sangue; noi abbiamo da lottare non « contro la carne e il sangue, ma contro gli spiriti cattivi delle regioni superiori (Ephes. VI, 12) ». – A questo ordine di idee si collega una locuzione che è assai difficile  da analizzare. Gli Ebrei dicevano comunemente dei loro parenti: « É mia carne » oppure « mia carne e mie ossa ». Paolo designa nella stessa maniera la comunanza di origine e le relazioni di parentela (Rom. IX, 3). In quatto si potrebbe vedere una semplice opposizione fisica fra la carne trasmessa per generazione e comune ai membri di una stessa famiglia, e l’anima che viene da Dio; così infatti la considera l’Epistola agli Ebrei (Ebr. XII, 9). Ma Paolo unisce troppo strettamente la carne e l’anima perché si possa distinguere il padre dell’anima dal padre della carne. Tra i figli della carne e i figli di Dio. l’Israele secondo la carne e l’Israele di Dio, Ismaele nato secondo la carne e Isacco nato secondo lo spirito, il Cristo figlio di Davide secondo la carne e figlio di Dio secondo lo spirito di santità (Rom. IX, 8; ), l’opposizione è sempre ontologica; essa ha luogo tra sostanze complete, e non tra parti componenti di una medesima sostanza.

4. Si vede quale disparità di elementi, quale varietà di influenze, quale complessità di combinazioni presenta l’antropologia di san Paolo. Si sarebbe tentati di applicare a lui quello che si disse di Filone: « Adopera termini differenti per esprimere fenomeni identici, e termini identici per esprimere fenomeni differenti; egli prende il suo vocabolario ora da una filosofia, ora da un’altra, e per lo più dalla stessa Bibbia ». Ma l’eclettismo dei due scrittori ha motivi affatto opposti: Filone, desideroso di far vedere che non vi è molto di bello e di vero che sia estraneo alla Bibbia, si lascia trascinare dal suo spirito naturalmente indeciso dietro a tutti i sistemi; Paolo invece sta sopra tutti i sistemi e fonde i loro prodotti disparati in un insegnamento più che mai personale, il quale tocca con le sue ramificazioni quasi tutti i punti essenziali della sua teologia. Il suo lessico eterogeneo porta contrasti di parole e urti di idee di un effetto singolare e imprevisto; quello poi che porta al sommo la difficoltà, è l’impiego delle antitesi e l’uso di termini opposti i quali reagiscono l’uno su l’altro; è ancora l’abitudine di passare insensibilmente su le diverse sfumature di significato di una stessa parola, fino a percorrerne tutta la gamma in un medesimo contesto. Ma in fondo la sua concezione del composto umano si ispira costantemente dal racconto biblico. Da questo risulta, tra l’anima e il corpo, un’unione assai intima in forza della quale tutta l’attività dell’uomo si può riferire al cuore, focolare della vita. La celebre definizione: « un’intelligenza servita da organi » non sarebbe stata del gusto di Paolo. Per cogliere il suo pensiero, bisogna lasciare da parte il dualismo di Platone, di Descartes e di Kant [tutti impregnati di uno stesso gnosticismo satanico – ndr.]; se egli paragona di passaggio il nostro corpo a una veste o a una tenda, questa figura isolata non ha conseguenza (II Cor. V, 1-4). Non altrimenti che Filone il quale dipinge l’unità del composto umano con i colori più realistici eppure, all’occasione, rappresenta il corpo come la dimora, il santuario o anche la prigione e la tomba dell’anima; Paolo non divide in due parti l’io unico dell’uomo; se subordina il corpo all’anima, come è giusto, non lo sottrae alla personalità. – L’apparizione del peccato, descritta così conforme ai dati biblici, porta un disordine morale che distrugge l’equilibrio delle nostre facoltà. L’uomo che era carne, sia perché è materia animata, sia perché non è puro spirito, diventa carne per un nuovo titolo, perché in lui abita il peccato: quindi vi è lotta e discordia in tutto il suo essere. Per ristabilire l’armonia rotta, ci vuole l’intervento attivo dello Spirito Santo la cui presenza porta proprietà, funzioni, relazioni, insomma una natura nuova che prende essa stessa il nome di spirito. Ma prima di penetrare i n questo campo speciale, dobbiamo studiare l’origine, l’invasione e la dominazione del peccato.