CONOSCERE SAN PAOLO (25)

CONOSCERE SAN PAOLO (25)

LIBRO PRIMO

Il paolinismo. (1)

CAPO I.

Definizione del paolinismo.

IL VANGELO DI PAOLO.

-1. NOZIONE GENERALE. — 2. IL VANGELO DI PAOLO E IL MISTERO DEL CRISTO. — 3. ELEMENTI DEL PAOLINISMO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Si vuole intendere, per paolinismo, l’insegnamento del Dottore dei Gentili, considerato nei suoi caratteri particolari e nel suo concatenamento organico. Siccome questa parola risponde a un’idea giusta ed è in certo modo necessaria, crediamo che convenga conservarla purgata però dalle sue scorie razionalistiche. Le differenze di tono, d’idee, di stile, che danno agli scrittori sacri la loro fisionomia particolare e la loro individualità, colpirono fin da principio gli storici e gli interpreti: basta, per convincersene, rileggere le prefazioni nelle quali san Gerolamo caratterizza i profeti, e le pagine di sant’Ireneo, di Eusebio e degli altri Padri, sul simbolismo dei quattro animali di Ezechiele, applicato agli Evangelisti. Bastava infatti aprire gli occhi per constatare che il Libro della Sapienza non somiglia all’Ecclesiaste, che il quarto Vangelo ha forma ben diversa da quella dei tre Sinottici, e che san Giacomo non si mette dallo stesso punto di vista di san Paolo. Questi da principio con la sua predicazione fa nascere un certo stupore in una frazione della comunità cristiana: se non gli viene contestato il diritto di predicare ai Gentili, si è però sorpresi che venga dispensato dalla Legge mosaica: il caso fu giudicato tanto grave, da venire deferito al giudizio degli Apostoli e della Chiesa madre di Gerusalemme. Qui Paolo vinse la sua causa; ma la sua vittoria non lo mise al riparo dalle calunnie e dalle ostilità alle quali fu esposto per tutta la vita. Molto tempo dopo, gli anziani di Gerusalemme si sentirono turbati da tali accuse, e Paolo, consigliato da loro, credette bene di mostrare con i fatti il suo rispetto sempre mantenuto verso le istituzioni religiose della sua nazione. Questo non dimostra affatto che Paolo abbia ingegnato una dottrina sua propria, né che vi sia stata, nella Chiesa primitiva, cattedra contro cattedra, o altare contro altare; ma è per lo meno un segno, che non tutti i predicatori del Vangelo davano la stessa importanza all’abolizione della Legge, alla libertà dei Gentili e alla loro perfetta eguaglianza con gli Ebrei, e non ne parlavano con lo stesso entusiasmo: altrimenti le discussioni, i dissensi, i malintesi, invece di perpetuarsi, sarebbero stati troncati alla radice. – Non vi sono già due Vangeli, due messaggi di salute: il vero Vangelo, il solo, è quello che Paolo va insegnando d’accordo con tutti gli Apostoli (I Cor. XV, 11). Anatema a chiunque ne predichi un altro! Ma no, continua l’Apostolo, non è un altro Vangelo, « è soltanto il tentativo dì alcuni per mettere la discordia tra voi e per rovesciare il Vangelo del Cristo (Gal. I, 7) ». Ai Corinzi egli ironicamente concede che avrebbero ragione di prestare orecchio ai suoi avversari, se questi predicassero un altro Cristo, se conferissero un altro Spirito, se annunziassero un altro Vangelo (II Cor. XI, 4); ma è questa un’ipotesi assurda che si distrugge da se stessa al solo esporla; poiché non vi è che un solo Vangelo, come non vi è che un Cristo e uno Spirito Santo. Se però non vi sono due Vangeli, vi sono tuttavia diverse maniere di predicare, il medesimo Vangelo, secondo i tempi, i luoghi e le persone. Paolo dice di aver ricevuto, per sua porzione, il vangelo dell’incirconcisione (Gal. II, 8), come Pietro ricevette quello della circoncisione. Ammettiamo che sia giusta la spiegazione data da Tertulliano: Non ut aliud aliter, sed ut alter aliis prædicet; che il « vangelo dell’incirconcisione » sia la predicazione agli incirconcisi, e che i due apostoli, di comune accordo, delimitino non già il campo esclusivo del loro apostolato — né l’uno né l’altro non la intese mai così — ma il teatro speciale in cui si svolgerà la loro azione. Ne risulta sempre che la diversità di uditorio impone, se non un tempo diverso, almeno una maniera diversa di esporre il medesimo tema evangelico. Ed è questo appunto che le migliori autorità intendono per il Vangelo di Paolo.

2. Egli stesso lo mostra chiaramente nella dossologia finale dell’Epistola ai Romani: Gloria a Colui che è abbastanza potente per confermarvi nel mio vangelo e nel messaggio di Gesù Cristo, nella rivelazione del mistero nascosto da tutta l’eternità, ma oggi svelato e notificato a tutte le nazioni, con gli scritti dei profeti, secondo l’ordine del Dio eterno, affinché esse obbediscano alla fede. (Rom. XVI, 25-26). – L’idea principale di questo passo è evidentemente la descrizione delle tre fasi del mistero: una volta, nascosto nelle profondità dei consigli divini, ma oggi svelato provvidenzialmente e anzi notificato a tutto l’universo. Questa notificazione si rivolge soprattutto ai Gentili che ne sono interessati in modo speciale; essa ha lo scopo di sottometterli alla fede con far risplendere ai loro occhi la prospettiva dei beni evangelici destinati a loro come agli altri; essa si fa per mezzo delle profezie antiche, oggi meglio comprese; e tutto questo per ordine espresso di Dio, re dei secoli, al quale deve risultarne la gloria, perché egli ne ha l’iniziativa. Qui san Paolo identifica il suo vangelo col messaggio di Gesù Cristo, cioè con la predicazione che ha Gesù Cristo come oggetto, e lo connette col mistero dei disegni della Redenzione. Il mistero stesso, pure non essendo espressamente definito in questo punto, è descritto, con i suoi molteplici caratteri che ci saranno minutamente esposti nelle Epistole della prigionia: insinuato dai profeti, ma rimasto incompreso, esso è ora rischiarato con luce nuova e annunziato ai Gentili che deve condurre alla fede. Tutti questi particolari riuniti insieme ci mostrano che il mistero è il disegno della salvezza concepito da Dio da tutta l’eternità, nascosto prima nella penombra della rivelazione antica, oggi proclamato solennemente in tutto l’universo; disegno in virtù del quale tutti gli uomini devono essere salvati dalla mediazione del Cristo e dalla loro mistica unione con Lui. Ora il tenore di questo mistero è il tema essenziale del vangelo paolino. Le lettere della prigionia ci diranno come: Ora io sono felice di soffrire per voi e compio (con gioia) nella mia carne quello che manca ai patimenti del Cristo per il suo corpo (mistico) che è la Chiesa. Io ne sono stato costituito ministro con l’incarico che Dio mi ha affidato, di annunziarvi pienamente la parola di Dio, il mistero nascosto ai secoli e alle generazioni (passate), ma oggi rivelato ai suoi santi cui Dio volle far conoscere quanto è preziosa per i Gentili la gloria di questo mistero; cioè il Cristo in voi, la speranza della gloria (Col. I, 24-27). Qui la parola vangelo non è pronunziata; ma in realtà Paolo non intende altra cosa quando parla della sua predicazione, dell’incarico affidatogli, della missione che compie, dei patimenti che sostiene e che è pronto a incontrare ancora per compiere degnamente la sua missione. Ora tutto questo mira alla promulgazione del mistero tra i pagani. Questo mistero, una volta nascosto negli arcani della scienza divina, ora esposto in piena luce e altamente proclamato, è il Cristo accessibile non soltanto agli Ebrei, ma anche agli stessi Gentili, salvatore universale degli uomini e loro comune speranza. Non più eccezioni né favori né privilegi: d’ora innanzi il Cristo appartiene a tutti, e a tutti nella stessa misura. Ecco quello che Paolo si sente chiamato a predicare senza ritardo, quello che gli fa sfidare le persecuzioni, quello che lo consola dei patimenti; è l’annunzio del gran mistero, il vangelo dell’incirconcisione. Queste medesime idee sono più ampiamente sviluppate nella lunga digressione dell’Epistola agli Efesini: “Io Paolo, il prigioniero del Cristo Gesù per voi, Gentili, se almeno avete appreso qual è la dispensazione della grazia di Dio, che mi è stata data per voi, (voglio dire) che per rivelazione io ho avuto conoscenza del mistero quale ve l’ho esposto in poche parole. Voi leggendole potete apprezzare l’intelligenza che io ho del mistero del Cristo, il quale in altre generazioni non fu notificato ai figliuoli degli uomini come ora è stato rivelato ai suoi santi Apostoli e profeti nello Spirito: cioè che i Gentili sono coeredi e membri del medesimo corpo e compartecipi della promessa nel Cristo Gesù, per mezzo del Vangelo del quale io sono divenuto ministro… Sì, a me, l’infimo di tutti i santi, è stata data questa grazia, di annunziare alle nazioni la ricchezza imperscrutabile del Cristo e di mettere in luce qual è l’economia del mistero nascosto dall’eternità in Dio, Creatore di tutte le cose… Perciò vi prego di non perdervi di coraggio per causa delle mie tribolazioni per voi: esse sono gloria vostra (Ephes. III, 1-13). – In questo passo risaltano quattro pensieri: l’Apostolo, secondo la sua abitudine, si dice il prigioniero del Cristo, il prigioniero del Vangelo, per il vantaggio dei Gentili. Per aver difeso la loro causa si è attirato l’odio dei suoi compatrioti; per aver sostenuto i loro diritti, soffre la persecuzione: perciò i suoi patimenti sono per lui un motivo di gioia e devono essere per loro un vanto. Egli si rivendica una conoscenza non già esclusiva, ma specialissima del mistero del quale la sua lettera contiene l’esposizione più chiara e più completa; soprattutto egli si rivendica la missione di annunziare dappertutto questo articolo di fede; e il ricordo di un favore così immeritato provoca in lui un’esplosione di umile gratitudine (Ephes. III, 3-4). Egli identifica il mistero col Vangelo che ha incarico di pubblicare, non soltanto lui, ma lui più che gli altri; ministero sublime che ha lo scopo di svelare agli uomini la ricchezza ineffabile dei consigli della Redenzione e di rivelare agli Angeli stessi gli abissi della sapienza divina (Ephes. III, 8-9). Finalmente il mistero — e per conseguenza il vangelo di Paolo — è definito ancora una volta, e con più di precisione che mai: « i Gentili sono coeredi », cioè eredi della grazia e della gloria allo stesso titolo e nella stessa misura degli Ebrei ai quali fino allora sembrava riservato il patrimonio dei favori celesti; essi sono « membri del medesimo corpo » mistico del Cristo e per conseguenza tra loro e gli Ebrei non vi è né privilegio né differenza né disuguaglianza; essi sono « compartecipi della promessa » meravigliosamente liberale, fatta ai Patriarchi nel corso dei secoli; ed essi hanno tutto questo « nel Cristo » che è la causa meritoria e « per mezzo del Vangelo » che ne è la condizione essenziale (Ephes. III, 6). – Le nostre ricerche ci conducono sempre al medesimo risultato: il vangelo di Paolo, detto altrimenti il mistero di Dio, il mistero del Cristo, il mistero del Vangelo, o semplicemente il mistero, è, nella sua formula più larga e più precisa, il mistero della redenzione di tutti gli uomini per mezzo del Cristo e nel Cristo. Qua e là, le Epistole ci forniscono alcuni dati di più; ma bisogna stare in guardia contro il pericolo di credere che l’Apostolo voglia richiamare alla nostra attenzione un punto caratteristico della sua dottrina ogni qual volta egli si appella al suo vangelo. Quando, provocato dai disordini dei Corinzi nella celebrazione dell’agape, egli richiama alla loro memoria l’insegnamento del Signore intorno all’Eucaristia, non insinua punto che le altre Chiese siano meno favorite a questo riguardo (I Cor. XI, 28); e quando, per rispondere ai loro dubbi nascenti, ripete un frammento della sua catechesi sopra la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù Cristo, è così lungi dal pretendere di distinguersi, in questo, dagli altri Apostoli, che subito soggiunge: « Così io come loro, predichiamo così, e così voi avete creduto (I Cor XV, 11) »… Certamente egli deve aver insistito più degli altri sul valore soteriologico della sepoltura e della risurrezione di Gesù Cristo, ma la prova che questo punto di vista non è esclusivamente suo proprio, è che egli suppone conosciuto dai Romani e dai Colossesi, che non erano stati suoi discepoli, il simbolismo del seppellimento mistico del Cristiano nel Battesimo (Rom. VI, 4 – Col. II, 12). Tuttavia la menzione che egli fa del suo vangelo, anche quando essa non implica necessariamente un articolo caratteristico della sua predicazione, per lo meno ridesta l’attenzione del lettore. Alla presenza di questo testo: « il giorno in cui Dio giudicherà le azioni segrete degli uomini, secondo il mio vangelo, per mezzo del Cristo Gesù (Rom. II, 16) », i migliori esegeti si domandano qual è il punto al quale allude la frase « secondo il mio vangelo »; e con ragione concludono che non è né il giorno del Signore, né le azioni segrete degli uomini come materia del giudizio divino, né il fatto stesso del giudizio, ma la maniera con cui sarà fatto il giudizio con la mediazione del Cristo. Questa infatti è una delle idee favorite di Paolo. Agli impudenti detrattori che lo accusano di alterare la parola di Dio, di nasconderla sotto meschini travestimenti, di avvolgerla a bella posta in enigmi, egli protesta che non va predicando se stesso, « ma il Cristo Gesù Signore (II Cor. IV, 5) ». Egli accentua la parola Signore: sappiamo infatti che egli considerava la confessione della signoria del Cristo come una professione di fede compendiata e come un riassunto del Vangelo (Rom. X, 9-10). Così pure quando fa menzione del suo vangelo parlando della Legge mosaica e lo oppone a quello dei giudaizzanti (I Tim. I8-14), ci fa pensare alla sua dottrina capitale sopra la natura della Legge che è impotente per se stessa, indipendentemente dalla grazia, e serve soltanto a trattenere sul retto cammino, col terrore e con le minacce, i ribelli e i delinquenti. Nella seconda Epistola a Timoteo, egli ricorda ancora a questo suo discepolo un altro punto del suo vangelo: « Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di David, è risuscitato da morte secondo il mio vangelo, per il quale soffro fino ad essere incatenato come un malfattore (II Tim., II, 8) ». Il punto al quale allude, evidentemente non è la discendenza dal sangue di David; è dunque la risurrezione di Gesù Cristo il cui ricordo è per il Cristiano un conforto e un incoraggiamento, in mezzo alle traversie e alle persecuzioni. Tutti questi particolari sparsi qua e là ci dicono che non dobbiamo comprimere il vangelo di Paolo in una formola troppo stretta, come sarebbe la libertà dei Gentili relativamente alle osservanze legali, oppure la giustificazione per mezzo della fede senza le opere della Legge, o anche l’universalità dei divini disegni della Redenzione. Il vangelo di Paolo non è tanto una tesi particolare quanto piuttosto il complesso della dottrina evangelica contemplata sotto un certo aspetto e presentata in una luce speciale: è un quadro nel quale possono trovare posto tutte le verità. Perciò dopo di aver considerate le indicazioni dell’Apostolo, conviene passare, come controprova, ai punti della sua dottrina.

3. Chiudiamo dunque le sue Epistole, come se nulla ci avesse detto del suo vangelo, e domandiamo ai teologi più versati nella sua dottrina, senza distinzione di scuole né di tendenze, quali ne sono i punti essenziali e gli elementi costitutivi. Non si tratta ancora di raggrupparli e di classificarli, ma soltanto di farne la lista: più tardi si esaminerà se sono veramente fondamentali e se non si possono trascurare senza alterare l’economia dell’insieme, se sono caratteristici, almeno sotto l’aspetto in cui li considera l’Apostolo, se sono tali da poter formare un tutto che sia coerente. Ecco anzitutto il verdetto di questo referendum nel quale l’enumerazione degli articoli si succede senza ordine logico.

Il disegno divino della Redenzione, che comprende l’iniziativa divina della grazia, l’elezione e la predestinazione eterne nel Cristo, le preparazioni provvidenziali, la finalità dell’opera redentrice.

Il contrasto dei due Adami, il tipo e l’antitipo, il quale riassume la storia dell’umanità; l’uno è causa del peccato, della morte, della decadenza; l’altro è autore, della giustizia, della vita, del risorgimento. L’antitesi carne e spirito, che alcuni a torto mettono come base del paolinismo, ma che è di capitale importanza per la soteriologia come per la morale.

Il compito e il fine della Legge, che a prima vista sembrerebbero meno strettamente legati all’insegnamento dell’Apostolo, ma il cui valore non può essere secondario nel vangelo del Dottore delle Genti.

La morte redentrice del Cristo, da parecchi considerata, con manifesta esagerazione, come una creazione esclusiva del genio di Paolo, ma che certamente è nel centro della sua dottrina.

La giustificazione per mezzo della fede, come parallelo della redenzione e applicazione soggettiva della morte redentrice.

La risurrezione di Gesù Cristo come complemento intrinseco dell’opera redentrice e come causa esemplare della nostra risurrezione gloriosa.

La Chiesa corpo mistico del Cristo, frutto della sua morte e della sua risurrezione.

Il battesimo, sigillo della fede e rito d’incorporazione col Cristo mistico, con l’Eucaristia che dà a questo corpo il suo alimento e il suo crescere.

L’escatologia come risultato normale della vita cristiana. Si potrebbe senza dubbio allungare questa lista di alcuni altri articoli; ma per lo più si constaterebbe o che già sono compresi in qualcuno dei punti indicati, o che non hanno nulla di veramente caratteristico, o che si trovano, per così dire, alla periferia del pensiero paolino. Così l’apocalittica, in quanto è distinta dall’escatologia, manca di originalità e segue i dati tradizionali; la demonologia e l’angelologia sono idee superficiali tolte dal linguaggio popolare e senza una seria influenza sopra la sostanza dell’insegnamento; la teoria intorno all’origine, all’estensione e alla dominazione del peccato è invece capitale, ma è compresa nell’antitesi dei due Adami, come parte nel tutto; finalmente la teodicea, in ciò che ha di specificamente paolino, è interamente contenuta nella teoria dei disegni della redenzione. Questo complesso dottrinale che costituisce l’insegnamento particolare del Dottore dei Gentili, è quello che si chiama paolinismo e che si può chiamare anche, con un termine forse discutibile, ma intanto accettato e sanzionato dall’uso, la Teologia di san Paolo. Prima di proseguire, dissipiamo un malinteso o un equivoco: Noi non trattiamo gli autori sacri « da teologi » e non consideriamo i loro scritti « come altrettante costruzioni o almeno abbozzi teologici »; noi non li consideriamo « a volta a volta come rivelazione e come teologia » e non distinguiamo in essi « da una parte il dato rivelato e dall’altra l’elaborazione » del dato divino. Altro è la teologia di san Paolo e altro è, per esempio, la teologia di san Tommaso: la teologia di san Paolo è la somma delle rivelazioni divine trasmesse per mezzo del Dottore dei Gentili; la teologia di san Tommaso è l’interpretazione, felice quanto si vuole, ma necessariamente umana e fallibile, dei dati rivelati di Paolo e degli altri scrittori ispirati. Paolo ci fornisce gli elementi di una teologia, ma non fa egli stesso la sua teologia, nel senso ordinario di questa parola: egli pensa sistematicamente, cioè in modo logico e coerente, ma non ha un sistema suo, e per ridurre a sistema il suo pensiero bisognerà qualche volta colmare lacune, stabilire confronti, tirare certe conclusioni. Questo è il compito del teologo: interprete fedele e leale, egli deve mirare a rendere meno imperfettamente che si possa tutto il pensiero, niente altro che il pensiero, della sua guida ispirata, senza falsarlo, senza sforzarlo, senza snaturarlo o per eccesso o per difetto. Noi non siamo di quelli che vogliono leggere in san Paolo « più di quanto dice e di quanto può dire »; che lo considerano come un semplice « collaboratore della grazia e del Maestro interiore »; che col pretesto che « la lettera uccide », non vogliono legarsi alle sue parole e alle sue formule. Era necessario precisare così le cose, perché sebbene quanto abbiamo detto non sembri punto superare il livello delle intelligenze mediocri, in realtà sfugge anche a parecchie menti colte.

(Continua …)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.