CONOSCERE SAN PAOLO (24)

CONOSCERE SAN PAOLO (24)

LIBRO SESTO

L’Epistola agli Ebrei (4)

CAPO III.

Le due alleanze.

I. IL CONTRASTO DELLE DUE ALLEANZE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]

Dimostrare la superiorità del Nuovo Testamento sull’Antico, stabilire nel tempo stesso il carattere assoluto e definitivo del Vangelo, è, come abbiamo detto, lo scopo reale, benché nascosto, dell’Epistola. A questa tesi si collegano tre punti fondamentali: il contrasto delle due alleanze, le obbligazioni della nuova economia, la consumazione delle promesse. L’idea di una nuova alleanza, con Gesù come mediatore, non è una specialità dell’Epistola agli Ebrei: Paolo ha già citato il testo di Isaia, che l’annunzia (Rom. XI, 27-28; Is. LIX, 20); egli e San Luca mettono esplicitamente l’istituzione dell’eucaristia in relazione con una nuova alleanza conchiusa nel sangue di Gesù (I Cor. XI, 25; Luc. XXII, 20), e gli altri due sinottici esprimono lo stesso pensiero (Mat. XXIV, 28; Marc. XIV, 24). Quello che ha di originale la nostra Epistola, è che essa innesta la nuova alleanza sopra l’antica e fa uscire la Chiesa dalla Sinagoga, senza soluzione di continuità, come il frutto nasce dal flore o lo stelo dal germe. Sotto una forma paradossale che contiene un granello di verità, si è potuto dire che « l’autore dell’Epistola è un evoluzionista, e San Paolo un rivoluzionario… Uno abolisce la Legge, l’altro la trasfigura ». In fondo la differenza dei due punti di vista è assai piccola: Paolo dipinge meravigliosamente l’armonia e la connessione dei due Testamenti, e l’autore dell’Epistola non è meno radicale di Paolo riguardo l’imperfezione e l’abolizione della Legge mosaica: si direbbe anzi che è più radicale ancora, perché rifiuta alla Legge gli elogi che Paolo le dà a larga mano, ed insiste volentieri sopra i suoi vizi redibitori. – Era una Legge « carnale », intrinsecamente « invalida ed inutile » la quale doveva appunto per questo venire ripudiata a suo tempo. Incapace a « condurre nulla alla perfezione (Ebr. VII, 16) », non poteva dunque avere che un carattere relativo e passeggero: poiché l’autore suppone sempre l’esistenza di una economia soprannaturale che apre effettivamente all’uomo l’accesso a Dio. – L’Antico Testamento, rispetto al Nuovo, aveva tre svantaggi: era un contratto strettamente bilaterale e soggetto, per sua natura, ad essere annullato. — I mezzi stabiliti per stringerlo maggiormente erano insufficienti. — Finalmente portava in sé i caratteri di un semplice abbozzo e di una preparazione. L’antica Legge era una διαθήκη (=diateke); nel senso di alleanza (berith) ma non nel senso di testamento: la nuova invece è insieme l’una e l’altra cosa. Ora, dal momento che il testatore è morto, il testamento diventa irrevocabile. Qui troviamo un’idea comune a Paolo ed al redattore dell’Epistola. Un secondo punto di contatto è che la promessa fatta alla stirpe di Abramo, ha la natura di testamento — Paolo la chiama anche διαθήκη (=diateke) — in quanto è un contratto unilaterale col quale Dio si obbliga senza subordinare la sua obbligazione ad alcuna circostanza esteriore (Ebr. IX, 16-27). Il patto del Sinai invece era un contratto del genere do ut des, facio ut facias. Se il popolo violava i suoi impegni, Dio veniva sciolto dai suoi: così la storia sacra non è che una serie d’infedeltà da parte degli Ebrei, e di parziali abbandoni da parte di Dio, ben presto seguiti da riconciliazioni effimere. Geremia prediceva la fine di questo stato di cose la cui instabilità indicava abbastanza il carattere transitorio: « Io conchiuderò una nuova alleanza con la casa d’Israele e con la casa di Giuda, non un’alleanza come quella che ho fatto con i loro padri il giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra di Egitto. Poiché essi hanno lasciato la mia alleanza, io pure li ho abbandonati (Ebr. VIII, 8-12) ». – Il grave difetto dell’antico patto era la sua tendenza ad invecchiare ed a morire finalmente di vecchiaia (Ebr. VIII, 13), tendenza che non trovava nelle istituzioni mosaiche un rimedio sufficiente. Il sacrificio perpetuo aveva bensì lo scopo di simboleggiare l’alleanza e di ravvivarne il sentimento; d’altra parte i sacrifici per i peccati, che toccavano il loro punto culminante nel giorno dell’Espiazione, miravano a riconciliare le parti contraenti scancellando il ricordo delle infedeltà; ma tutto questo produceva soltanto una « giustificazione carnale », ed in virtù di una specie di finzione legale, poiché è evidente che il sangue degli animali non può lavare il peccato né purificare la coscienza (Ebr. IX, 9, 10). L’Antico Testamento non poteva dunque essere altro che un abbozzo. Per questo il Salmista predice un nuovo sacerdozio destinato a soppiantare il sacerdozio di Aronne; egli annunzia un nuovo sacrificio che renderà caduco il rituale levitico; Geremia profetizza una nuova alleanza che per forza si sostituirà alla prima (Sal. CIX, 4; Ger. XXXI, 31-34). Però questa nuova alleanza non è tanto la distruzione violenta, quanto la consumazione dell’antica. Le relazioni tra i due Testamenti sono espresse da queste quattro parole: ombra (skia), figura (upodeigma), antitipo (antitupos), similitudine (parabole) (X, 1). L’ombra è opposta al corpo, l’antitipo alla verità, la figura e la similitudine alla realtà. Si può notare qui che il linguaggio dell’Epistola differisce da quello degli altri scrittori sacri: essa chiama antitipo quello che Paolo chiamerebbe tipo, ed il tipo è per essa il modello presentato a Mosè sul Sinai con l’ingiunzione di riprodurlo: l’immagine (eikon), che essa oppone all’ombra, è il corpo (soma) della terminologia paolina. Ma il redattore dell’Epistola insiste più di tutti sul carattere figurativo dell’economia mosaica e lo esprime ordinariamente con antitesi tra la terra e il cielo, tra il presente ed il futuro, tra il materiale e l’immateriale, tra la copia e l’archetipo.

II. LE OBBLIGAZIONI DELLA NUOVA ALLEANZA.

1. NECESSITÀ DELLA FEDE. — 2. PERICOLI DELL’INFEDELTÀ.

1 . Due parole riassumono la morale della nostra Epistola: fede e perseveranza. « Avviciniamoci (a Dio) con un cuore sincero, nella pienezza della fede… Attacchiamoci incrollabilmente alla professione della speranza (Ebr. X, 22-23) »: questo è il ritornello che si ripete continuamente sotto forme diverse. Questa preoccupazione parenetica ci spiega già la parte diversa che la fede deve fare nell’Epistola agli Ebrei e nelle quattro Epistole maggiori di Paolo. In queste si trattava degli effetti della fede incipiente; nell’altra si tratta dei frutti della Fede perseverante. – Di questa fede l’autore dà una definizione che non è certamente alla maniera di Aristotele, per mezzo del genere e della differenza specifica, ma che tutta via le conviene perfettamente e la distingue da qualunque cosa che non è lei: « La fede è la realtà delle cose che noi speriamo, la prova di quelle che non vediamo (Ebr. XI, 1) ». – La parola greca (upostasis); ha tre significati ben determinati: fondamento, convinzione ferma e realtà. Fatta astrazione dal contesto, ciascuno di questi tre significati può entrare benissimo nella definizione della fede. La fede è infatti il fondamento della speranza ed in genere di tutta la nostra vita soprannaturale; essa è pure una persuasione ferma, tanto sicura, che non lascia nessun luogo al dubbio; finalmente è la realtà delle cose che speriamo, in quanto è una presa di possesso anticipata dei beni futuri ed impedisce alle nostre speranze di essere vane e fantastiche. San Tommaso si ferma al primo significato e v’introduce egli stesso la parola latina substantia: « L’oggetto della speranza, egli dice, è contenuto in germe nella fede, come l’oggetto della scienza è contenuto in germe nei principi; perciò la fede è il fondamento della speranza, come i principi sono il fondamento della scienza ». Tuttavia l’ultimo significato — quello di realtà — ci sembra preferibile, perché il primo o si riduce a questo (poiché il fondamento di una cosa non è altro che il suo substratum, la sua realtà) oppure scambia l’oggetto della speranza con la speranza: questo è inammissibile, perché il testo ha elpizoménon e non elpìdos Il secondo significato poi distruggerebbe il parallelismo tra i due membri della definizione, perché se upòstasis può significare persuasione, elegkos che ne è il correlativo, non vuol dire convinzione soggettiva. La fede è dunque non soltanto un pegno, ma anche un acconto dei beni sperati. Essa è, come dice San Tommaso, un cominciamento della vita eterna in noi; perché, secondo Sant’Agostino, il credere ciò che non si vede, è meritare di vedere ciò che si crede. L a fede è ancora la prova delle cose che non si vedono. Se fosse lecito tradurre elegkos, per convinzione, si darebbe ad upostasis  il significato di persuazione, e si potrebbe tradurre così tutto il versetto: La fede è una persuasione delle cose che si sperano, una convinzione delle cose che non si vedono. Ma disgraziatamente l’uso non permette questo senso: elegkos significa bensì argomento per confutare, confutazione, prova, azione del convincere se si vuole, ma non mai convinzione soggettiva. La traduzione della Volgata è dunque proprio esatta: argumentum non apparentium. Quelle cose che non si vedono, non sono soltanto le cose invisibili di loro natura, ma quelle che sfuggono allo sguardo della nostra mente. Senza averle vedute, noi sappiamo dalla fede che esse esistono: la fede per noi tiene il posto di prova. È evidente che questa parte della definizione è molto più estesa che la prima; essa abbraccia l’oggetto totale della fede, passato, presente e futuro, tutto ciò che crediamo su la testimonianza di Dio; mentre l’altra, confondendosi con l’oggetto della speranza, per questo appunto è ristretta alla realtà futura. I numerosi esempi di fede che riempiono tutto il capo XI, preciseranno ciò che può avere di indeterminato questa descrizione sommaria. In tutti gli esempi, senza eccezione, la fede indica l’adesione dell’intelletto alla testimonianza divina; ma siccome la verità da credere su la parola di Dio, non s’impone all’intelletto con la sua evidenza, vi è sempre un intervento della volontà che rende l’atto di fede libero e meritorio. Eccetto questi due punti comuni, i diversi atti di fede presentano una certa varietà, e se ne possono distinguere tre specie: « Dalla fede sappiamo che il mondo è stato fatto dalla parola di Dio, di modo che quello che si vede non è stato fatto da cose visibili ». Qui l’atto di fede si risolve in un atto dell’intelletto e comprende soltanto le sue parti essenziali: adesione della mente alla testimonianza della Scrittura ed intervento della volontà che piega l’intelletto ad ammettere, su la testimonianza di Dio, un fatto remoto che non si può verificare. Quando la testimonianza divina ha per oggetto una promessa, fede si unisce naturalmente con la speranza, e le due virtù, senza confondersi, si danno la mano. Tale è la fede di Sara, d’Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe e dei patriarchi in generale, la cui fede fu fiduciosa e la speranza fedele. Qualche volta la cosa promessa esige un miracolo subordinato alla fede dell’uomo: ci vuole allora quella fede viva che muove le montagne. Per la fede si divisero le acque del Mar Rosso, e caddero le mura di Gerico. Per lo più la testimonianza divina consiste in un precetto, o almeno porta con sé un obbligo diverso dalla fede stessa. La fede allora, se è sincera, dovrà essere operosa. Per la fede Noè costruì l’arca; Abramo abbandonò la patria, visse in esilio, stabilì di sacrificare suo figlio; Mosè affrontò l’ira di Faraone, disprezzò le delizie dell’Egitto, obbedì ai comandi divini; Rahab la meretrice accolse gli esploratori ebrei; i giudici, i profeti, i santi dell’Antico Testamento sfidarono tanti pericoli, sostennero persecuzioni, subirono la morte più crudele. « Per la fede » quei santi personaggi « hanno ricevuto testimonianza ». È vero che la Scrittura, la quale vanta la loro giustizia e racconta le loro grandi azioni, non sempre fa speciale menzione della loro fede; ma ciò non è necessario, poiché, secondo Abacuc, « il giusto vive per mezzo della fede ». La fede è la misura della giustizia, e la giustizia è la prova della fede: così si spiega la fede di Abele e di Enoc. La Scrittura non ne fa espressa menzione, ma dice di Abele, che offrì un’ostia più eccellente di quella del fratello, e che il suo sangue grida vendetta; di Enoc dice che egli piacque a Dio e meritò così di essere rapito in cielo. L’autore ne conchiude che fu per causa della loro fede: sia in virtù del testo di Abacuc che fa dipendere la giustizia dalla fede, sia, particolarmente per Enoc, per quel principio riflesso, che senza la fede è impossibile piacere a Dio. Come piacere a Dio, senza andare a Lui? E come andare a Lui, senza credere alla sua esistenza e alla sua provvidenza? Senza dubbio Dio, conosciuto con i soli lumi della ragione, può esercitare un’attrattiva su l’anima; ma questo sentimento filosofico non risponderebbe all’economia della nostra salute nello stato attuale di elevazione. Meno facile è il vedere perché non basterebbe la fede nell’esistenza di Dio. Non sarà perché l’anima non saprebbe portarsi verso Dio sicut oportet, se non lo considera come suo ultimo fine e, nello stato presente, come suo fine soprannaturale?

2. Quanto più necessaria è la fede, tanto più funesta è l’infedeltà. Per due volte sembra che l’autore presenti l’apostasia come un male irreparabile. Per apprezzare tutto il significato di questi passi, bisogna considerarli nel loro contesto: « Se noi pecchiamo deliberatamente dopo di aver ricevuto la piena conoscenza della verità, non vi resta più sacrificio per il peccato, ma l’attesa terribile del giudizio e l’ardore di un fuoco pronto a divorare i nemici. Chi violava la Legge di Mosè, era messo a morte su la deposizione di due o tre testimoni: di qual supplizio più terribile non sarà giudicato degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio, avrà tenuto come profano il sangue dell’alleanza, nel quale fu santificato, coprendo di obbrobrio lo Spirito di grazia? (Ebr. X, 26-29) ». Il peccato che ha qui di mira l’Apostolo, non è certamente un peccato qualunque, anche grave, ma è il peccato per eccellenza, l’apostasia. La tendenza generale della lettera che tutto fa convergere intorno alla fede, e la sfera di idee in cui si muove l’autore, già permettono di sospettarlo. – L’esortazione che precede e quella che segue immediatamente, in cui si tratta soltanto di fede sincera, di speranza incrollabile, di fedeltà alle assemblee religiose, confermano questa impressione, e l’allusione a Mosè che puniva di morte l’idolatria su la deposizione di due o tre testimonianze, viene ancora a confermarla. Il peccato stesso è descritto come un atto che calpesta il Figlio di Dio, che considera come profano o impuro il sangue dell’alleanza, che copre d’infamia lo Spirito Santo, che succede alla piena conoscenza della verità di cui non può essere altro che una negazione. Tutti questi caratteri sono d’accordo ad indicare l’apostasia deliberata, la bestemmia contro lo Spirito Santo. Questo peccato non sarà rimesso né in questo mondo né nell’altro, perché inaridisce la sorgente della grazia e chiude la via al pentimento. Senza la fede infatti è impossibile piacere a Dio e riconciliarsi con lui. Al cristiano che, con piena conoscenza della verità, ricadesse nel giudaismo, non rimarrebbe più ostia per il peccato; non nell’istituzione mosaica la quale non prevede sacrifici per certe specie di colpe, e neppure nel Cristianesimo il quale possiede un solo sacrificio, quello della nuova alleanza da cui l’apostata si è separato. Certamente Dio che risuscita i morti, può sempre rianimare il germe disseccato della grazia e riaccendere la fiaccola spenta della fede, ma l’autore non doveva accennare a tale miracolo ipotetico, proprio nel momento in cui dipingeva a colori così foschi le conseguenze dell’apostasia. – La sua intenzione appare ancora più manifesta nel secondo passo. Egli vuol dare agli Ebrei l’alimento degli adulti e non il latte dei bambini, benché la loro istruzione non sembri corrispondere alla loro età nella fede. Egli lascerà dunque da parte i dogmi elementari che s’insegnano ai catecumeni, perché, soggiunge, « è impossibile rinnovare con la penitenza coloro che, una volta illuminati e favoriti del dono celeste e divenuti partecipi dello Spirito Santo… vengono a cadere, crocifiggendo di nuovo per se stessi il Figlio di Dio ed esponendolo all’infamia ». Tocca agli esegeti il fissare il senso esatto di ciascun inciso. Essi converranno senza dubbio che non si tratta qui di una colpa qualunque, ma di una caduta profonda, (παραπεσόντας = parapesontas) la quale rimette i colpevoli nello stesso grado degli Ebrei infedeli. Per ricondurli al punto da cui sono caduti, bisognerebbe di nuovo farli passare per le tappe dell’iniziazione cristiana e disporli nuovamente alla penitenza; ma questa via non si fa due volte. L’autore non dice che la loro conversione sia impossibile a Dio, e che per loro non vi sia più speranza; ma dice che è « impossibile » ai banditori del Vangelo « rinnovarli con la penitenza », di prepararveli di nuovo. E per farci intendere in che cosa consiste questo rinnovamento e questa preparazione, avverte che si asterrà dal ripetere le istruzioni che si danno ai catecumeni per disporli al Battesimo. Qui non si fa questione affatto del potere che ha la Chiesa, di rimettere i peccati.

III. CONSUMAZIONE.

1 . RIPOSO IN DIO. — 2. INIZIAZIONI GRADUALI.

1. L’unione con Dio è il fine ultimo della nostra esistenza, l’ultimo termine delle aspirazioni dell’uomo, lo scopo istintivo, se non riflesso, di ogni culto. Questo fortunato scioglimento è espresso nella nostra Epistola in termini assai indovinati: « il riposo di Dio », cioè il riposo di cui Dio gode dopo l’opera della creazione e della redenzione, il riposo di cui Egli ci vuol far godere con Lui e in Lui, il riposo di cui egli è l’autore e l’oggetto, il riposo che propone alle nostre speranze, sia come dono gratuito, sia come eredità, sia come ricompensa. Lo scrittore sacro, fedele al suo metodo tipologico, ne vede la figura nella terra promessa alla .quale aspiravano gli Ebrei, non tanto come al termine delle loro peregrinazioni, quanto come al centro della teocrazia, dove sarebbero stati più vicini a Dio, nel suo dominio e sotto la sua egida (Ebr. III, 7; IV, 11). Per molto tempo l’infedeltà ne li tenne lontani, e quando vi entrarono, dopo di aver disseminato di cadaveri le sabbie del deserto, si accorsero di aver ricevuto soltanto un acconto delle divine promesse. Le prospettive si allontanarono, ed essi intravidero un altro « riposo di Dio », quello che essi, come li scongiura il Salmista, non si devono chiudere con il loro indurimento: « Vi è dunque un sabato ulteriore per il popolo di Dio. E colui che entrerà in questo riposo divino riposerà egli pare delle sue fatiche, come Dio delle sue. Sforziamoci dunque di entrare in quel riposo, e guardiamoci dalla disobbedienza (Ebr. IV, 11) » che ne chiude l’entrata agli Ebrei increduli. Questo riposo di Dio è Gesù, antitipo di Giosuè, che ce lo promette e ce lo assicura.

2. Ma per potervi entrare, bisogna subire una serie di iniziazioni che sono lo scopo del sacerdozio del Cristo e che si esprimono con le quattro parole: « espiare, purificare, santificare, consumare »: termini quasi sinonimi, con differenze degne di studio. La parola « espiare » (ilaskestaia) — corrispondente all’ebraico kipper — è essenzialmente sacerdotale. Essa indica l’azione del sacerdote che scancella il peccato o lava le macchie morali nel sangue delle vittime. – Il compito di Gesù pontefice è « di espiare i peccati del popolo (Ebr. II, 17) » col suo sangue e di rendergli così propizio Dio. Ecco perché San Giovanni lo chiama « propiziazione per i nostri peccati » e San Paolo « propiziatore » o « mezzo di propiziazione (I Giov. II, 4) »; poiché i due effetti sono correlativi, e Dio si placa nella misura in cui i nostri peccati ricevono un’espiazione proporzionata. « Purificare » (katarizein) dice quasi la stessa cosa. Il sangue è il gran mezzo di espiazione ed è pure il mezzo ordinario di purificazione. Il Figlio « compie la purificazione dei peccati (Ebr. I, 3) » col suo sangue (Ebr. IX, 14): poiché « quasi tutto, secondo la Legge, è purificato nel sangue, e senza effusione di sangue non vi è remissione » dei peccati (Ebr. IX, 22). Quello che ha di speciale la purificazione compiuta da Gesù, è che essa, all’opposto dei riti mosaici, è spirituale, è interiore, tocca la coscienza, è assoluta e definitiva (X, 2). – L’espiazione e la purificazione sono come il rovescio della santificazione e della consumazione: le prime distruggono il peccato, e le altre vi mettono al posto suo una perfezione positiva. « Santificare » è consacrare un essere a Dio, segregandolo dagli usi profani, è destinare una cosa al culto divino, rendere una persona atta a questo stesso culto. Ma mentre la santità prodotta dai riti antichi era soltanto legale, la santità propria del Nuovo Testamento trasforma le anime: una terminologia identica esprime così concetti affatto diversi. Non è più il sangue delle vittime che « santifica operando la purificazione secondo la carne (IX, 13) »; ma è « il sangue dell’alleanza (X, 29) » nuova, è l’atto spontaneo del vero pontefice (X, 10) che offre se stesso in sacrificio, che consuma e consacra per sempre, una volta per tutte, quelli che santifica (X, 14). – La « consumazione » è forse la parola più caratteristica dell’Epistola. Consumare (τελειοῦν = teleioun), è rendere perfetto (τέλειος = teleios), cioè condurre al termine ideale (τέλος = telos) che segna il punto di perfezione di un essere. La Legge mosaica è ripudiata perché non poté consumare nulla (VII, 19). I santi dell’Antico Testamento intravidero il termine senza raggiungerlo, perché non conveniva che fossero consumati prima di noi (XI, 40). Gesù Cristo fu consumato per il primo: « Conveniva che Dio, dal quale e per il quale tutto esiste, volendo far entrare nella gloria un’infinità di figli, consumasse col patimento il capo della loro salute (II, 16) ». Il capo (arkegos) precede i suoi soldati all’assalto e li introduce nella città espugnata dopo di esser ivi penetrato lui medesimo. Ecco perché, « benché fosse Figlio, imparò l’obbedienza con quello che ebbe da soffrire e, consumato, divenne per tutti quelli che gli obbediscono il principio della salute eterna. (V, 9) ». Dovunque egli cammina innanzi ed apre la strada. Egli è consumato per tutta l’eternità (VII, 28) » e noi siamo « consumati (X, 14) » con Lui. Qui notiamo alcune differenze, ma ben più numerose somiglianze, tra Paolo ed il redattore dell’Epistola. Questi ci salva al seguito del Cristo e con la mediazione di Gesù pontefice, quello invece ci salva nel Cristo Gesù ed in unione col Cristo mistico; l’uno accentua la distinzione tra l’autore della salute e coloro che la ricevono, l’altro invece mette in rilievo l’identità del capo e delle membra. Né l’uno né l’altro ignora che l’applicazione individuale della redenzione è tuttavia da farsi, e che il sangue di Gesù non purifica l’anima se non per mezzo del rito sacramentale; ma l’uno e l’altro considera la funzione del Cristo come compiuta con un solo atto, col suo sacrificio volontario; l’uno e l’altro considera il rialzamento dell’umanità come già compiuto, in principio, dall’obbedienza amorevole del Figlio. Per tutti e due, noi siamo salvi soltanto nella speranza, ma la nostra speranza è certa, e vi è un vincolo strettissimo tra il principio della salute e la sua consumazione. « Voi siete venuti al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, alle miriadi di Angeli, all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti in cielo (XII, 22-23) ». Così noi già ci moviamo nella sfera della realtà celeste; la fede è una presa di possesso anticipata dei beni che si sperano, la carità è un anticipo della gloria, e la Chiesa è il vestibolo del cielo.

SAN RAFFAELE ARCANGELO (2018)

Raffaele Arcangelo.

[Messale Romano, commento di D.G. LEFEBVRE O.S.B., L.I.C.E.; R. Berruti, – Torino, 1936]

Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

L’Arcangelo Raffaele è uno dei sette che stanno sempre al cospetto di Dio (Ant. Magnif.) e gli offrono l’incenso delle loro |preghiere e di quelle degli uomini (Off.). « Quando tu, o Tobia, pregavi e seppellivi i morti, e, lasciando il tuo pranzo, di giorno nascondevi i morti in casa tua e di notte li seppellivi, io presentai al Signore la tua preghiera. E perché tu eri accetto al Signore, fu necessario che la tentazione ti provasse » (2a Lez.). Tobia divenne cieco; ma «la perdita della vista meritò a questo vecchio di trovare un medico celeste», dice S. Agostino. Raffaele — Dio guarisce fu inviato dal Signore a guarire Tobia, come l’Angelo di cui ci parla il Vangelo, che scendeva ogni anno a smuovere l’acqua della piscina probatica. Egli mostrò al giovane Tobia la medicina che avrebbe reso la vista a suo padre, accompagnò e protesse il giovane nel suo viaggio; gli fece trovare una sposa e sventò le insidie del demonio. Canta la Chiesa in un suo Inno: « La nostra lode sale, piena di venerazione, a tutti i principi della corte celeste, ma in modo speciale noi veneriamo l’Arcangelo Raffaele, medico e amico fedele, che incatena il demonio e Io schiaccia colla sua potenza ». « O Cristo, re di bontà, tu che ci hai dato un tale custode, fa che il nemico non ci possa mai nuocere » e alle Lodi ripete: « Vieni in nostro aiuto, Arcangelo, allontana da noi tutti i mali, accresci le forze ai languidi, disperdi la gente perfida di tra i credenti, affinché uniti tutti in un solo ovile ci regga l’unico pastore ». – Questa festa fu estesa alla Chiesa Universale da Benedetto XV.

ORATIO

451

Dirigere dignare, Domine Deus, in adiutorium nostrum, sanctum Raphaélem Archangelum; et quem tuæ maiestati semper assistere credimus, tibi nostras exiguas preces benedicendas assignet. Per Christum Dominum nostrum. Amen

(ex Missali Rom.).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem repetita (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

Sermone di san Bonaventura Vescovo

Sui Santi Angeli Sermone 5, sulla fine

[Brev. Rom. 2° noct.]

– Raffaele significa medicina di Dio. E dobbiamo notare che si può essere liberati dal male mediante tre benefici, che Raffaele ci accorda quando ci guarisce. Dapprima Raffaele, il medico celeste, ci libera dall’infermità dello spirito, inducendoci al dolore della contrizione; onde Raffaele disse a Tobia: Appena sarai entrato in casa tua, ungi gli occhi di lui col fiele. Così fece, e ci vide. Perché non poté far ciò Raffaele stesso? Perché l’Angelo non dà la compunzione, ma mostra solo la via. Per il fiele s’intende dunque l’amarezza della contrizione, che guarisce gli occhi interni della mente, secondo il Salmo: «Egli guarisce i contriti di cuore» (Ps. CXLIII,3). Questa contrizione è un ottimo collirio. Nel capo secondo dei Giudei si dice che l’Angelo salì al luogo di quelli che piangevano, e disse al popolo: «Io vi trassi dal paese d’Egitto, feci per voi tali e tanti benefizi; e tutto il popolo pianse, onde quel luogo fu chiamato il luogo dei piangenti» Jud. II,1 et 5. Carissimi gli Angeli tutto dì ci parlano dei benefizi di Dio, e ce li richiamano alla mente, dicendoci: Chi è che t’ha creato, che t’ha redento? Che hai fatto, chi hai offeso? Se ripensi a questo, non troverai altro rimedio che piangere.

– In secondo luogo Raffaele ci libera dalla schiavitù del diavolo, penetrandoci della memoria della passione di Cristo; in figura di che è detto nel capo sesto di Tobia: Se metterai un pezzetto di quel cuore sui carboni accesi, il suo fumo scaccerà qualunque specie di demoni. Infatti nel capo ottavo di Tobia si dice, che Tobia mise un pezzetto di esso cuore sui carboni, e Raffaele confinò il demonio nel deserto dell’alto Egitto. Che significa ciò? Non avrebbe potuto Raffaele confinare il demonio, se non si fosse posto quel cuore sui carboni? Era forse il cuore del pesce che dava tanto potere all’Angelo? No certo! Esso non avrebbe potuto nulla, se li non ci fosse stato un mistero. Infatti con ciò ci si fa intendere che non c’è nulla oggi che ci liberi dal potere del diavolo come la Passione di Cristo, la quale procedé dal suo cuore, come da una radice, cioè dalla carità. Il cuore Infatti è la sorgente d’ogni nostro calore vitale. Se dunque metti il Cuore di Cristo, cioè la passione che soffrì, la cui radice è la carità, sorgente del suo ardore, sui carboni, cioè sulla memoria infiammata, subito il demonio sarà allontanato in modo da non poterti più nuocere.

– In terzo luogo ci libera dalla pena di trovarci in opposizione con Dio, pena che abbiamo incorso offendendo questo Dio, e ciò inducendoci a pregare con insistenza; e a questo si riferisce quel che disse l’Angelo Raffaele a Tobia nel capo dodicesimo: «Quando pregavi piangendo, anche io offrivo la tua preghiera al Signore» Tob. XII,13. Gli Angeli ci riconciliano con Dio, per quanto possono. I nostri accusatori davanti a Dio sono i demoni. Gli Angeli poi ci scusano, allorché offrono le nostre preghiere, che c’inducono a fare con devozione, com’è nel capo ottavo dell’Apocalisse: «Salì il fumo degli aromi nel cospetto del Signore dalla mano dell’Angelo» Apoc. VIII, 4. Questi profumi che si consumano soavemente, sono le preghiere dei Santi. Vuoi placare Dio che hai offeso? Prega con devozione. Essi offrono a Dio la tua preghiera per riconciliarti con Dio. In san Luca si dice che Cristo, preso da spasimo, pregava intensamente, e che gli apparve un Angelo del Signore a confortarlo Luc. iii, 43. Ora tutto ciò avvenne per noi, perché Egli non abbisognava del conforto di lui, ma per mostrarci ch’essi assistono volentieri quelli che pregano con devozione, e volontieri li aiutano e confortano, e ne offrono a Dio le preghiere.

Deus, qui beátum Raphaélem Archángelum

Tobíæ fámulo tuo cómitem dedísti in via:

concéde nobis fámulis tuis;

ut eiúsdem semper protegámur custódia et muniámur auxílio.

CONOSCERE SAN PAOLO (23)

CONOSCERE SAN PAOLO (23)

LIBRO SESTO

L’Epistola agli Ebrei (3)

II. IL SACERDOZIO DEL CRISTO.

1 . GESÙ CRISTO PONTEFICE. — 2. SECONDO L’ORDINE DI MELCHISEDEC.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]

1 . Il confronto con gli altri mediatori — profeti, Angeli, Mosè — preparava l’animo al Mediatore supremo, al « gran pontefice che è penetrato nei cieli ». Nominato il pontefice, tutto converge verso di lui. L’autore dell’Epistola non si propone forse di dimostrare che il Cristianesimo è la Religione perfetta, ideale, definitiva? e l’altezza di una religione non è forse indicata dal suo sacerdozio? Gesù Cristo è sacerdote e pontefice: sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec come mediatore sacro; pontefice come antitipo di Aronne che ne è soppiantato (Ps. CIX, 4). Ma non vi è nessun’altra distinzione tra questi due titoli, e il nome di pontefice non implica qui l’idea di una gerarchia di cui Gesù Cristo sarebbe l’apogeo: « Ogni pontefice, scelto tra gli uomini, è costituito rappresentante degli uomini nelle cose che riguardano il culto di Dio, affinché offra oblazioni e sacrifici per i peccati. Egli sa usare indulgenza verso gli ignoranti e i traviati, perché Egli stesso è stato circondato di debolezza. Perciò deve offrire i sacrifici del peccato per se stesso come per il popolo. E nessuno si arroga questo onore, se non è chiamato da Dio, come fu Aronne (V, 1-4) ». Non vi è in queste parole — come troppo sovente si dimentica — una definizione del sacerdote e neppure del pontefice, ma soltanto del pontefice ebreo. I caratteri non convengono tutti a Gesù Cristo, oppure gli convengono soltanto per analogia, come il tipo rappresenta in generale l’antitipo, con imperfezioni che questo non ha. Così come è, la descrizione può tuttavia servire di tracciato ad uno studio sul sacerdozio del Cristo, perché esprime bene i caratteri essenziali del sacerdote: il suo compito di mediatore, la comunanza di vita che suppone, la vocazione divina che ne è la condizione, il sacrificio che ne è la funzione principale. – Il sacerdote è anzitutto mediatore: « Egli è stabilito per gli uomini nelle cose che riguardano il culto di Dio ». Se l’uomo dovesse a Dio un culto soltanto individuale, egli stesso accumulerebbe le sue offerte sopra l’altare, v i verserebbe le sue oblazioni e il sangue delle vittime, senza aver bisogno d’intermediari. Ma in tutti i luoghi e in tutti i tempi, in qualunque gruppo che non facesse pubblica professione di ateismo, gli uomini compresero di dovere a Dio un culto sociale. Naturalmente ne veniva incaricato il più degno: nella famiglia, il padre; nella tribù, il patriarca; nella nazione, il re. Però quando la società si allargò oltre i confini della tribù patriarcale, per un istinto che fa onore alla natura umana, si affidarono ordinariamente le funzioni sacerdotali ad una casta speciale, libera dalle cure e dagli interessi profani, custode severa delle tradizioni e dei riti, giudicata più accetta alla divinità e perciò più atta al suo compito. – Ma, come abbiamo detto, l’autore dell’Epistola non parla del sacerdote in genere. Egli non si domanda che cosa sarebbe stato il sacerdote nello stato della natura, né che cosa sarebbe se l’umanità non fosse decaduta: il suo sguardo non esce dal mondo delle realtà attuali e non oltrepassa l’orizzonte biblico. Egli prende il genere umano così com’è, oppresso dalla coscienza del peccato e impotente ad aprirsi da sé una via verso il cielo. Se si fa astrazione dalla barriera che il peccato alza tra noi e Dio, si comprenderà imperfettamente il compito che egli assegna al pontefice, compito che consiste principalmente « nell’offrire oblazioni e sacrifici per i peccati». Il sacerdote rimane sempre il rappresentante degli uomini presso Dio, ma di fatto egli rappresenta ora una umanità peccatrice; è sempre incaricato di quello che riguarda il culto di Dio,, ma siccome le relazioni normali tra Dio e l’uomo sono turbate, il suo primo scopo è quello di ristabilirlo. Gesù Cristo viene dunque su la terra per scancellare i peccati; egli s’incarna perché Dio non gradisce più i sacrifici del rito aronnico, e il suo scopo è raggiunto quando ha compiuto la purificazione dei peccati. – Perché possa essere mandatario, ambasciatore, capo religioso dell’umanità, il pontefice deve appartenere alla famiglia umana. In forza della solidarietà che ci unisce al nostro padre comune, il peccato di Adamo è il nostro peccato; per lo stesso vincolo di solidarietà, la giustizia del Cristo sarà la nostra giustizia. San Paolo ci ha già reso familiare questa idea. « Il santificatore e i santificati sono tutti (figli) di un medesimo (Padre)… Dunque poiché i figli partecipavano alla carne e al sangue, egli pure vi partecipò… Poiché non viene in soccorso degli Angeli; ma porta soccorso alla stirpe di Abramo. Per conseguenza egli doveva rendersi simile in tutto ai suoi fratelli (Ebr. II, 11-17) ». – La complessità di questo passo dipende specialmente da due cause: anzitutto l’autore vuole spiegare nel tempo stesso la necessità e le convenienze dell’incarnazione e degli altri abbassamenti del Cristo; poi, invece di prendere la questione di fronte, come un dogma da stabilire, la prende di fianco, come un’obiezione da risolvere. Innalzando Gesù Cristo ad un’incomparabile altezza sopra ogni creatura, Egli non ha potuto dissimulare la fase transitoria di umiliazioni, che lo abbassa sotto gli Angeli. Egli risponde che il Cristo doveva partecipare alla nostra natura per essere sacerdote, e doveva partecipare alle nostre prove per essere sacerdote perfetto (II, 17-18). Non già che nell’Altissimo vi sia vera necessità; non vi sono che ragioni di convenienza e necessità ipotetiche; ma dal momento che, nei disegni di Dio, il Figlio deve salvare gli uomini con un atto sacerdotale, bisogna che Egli li possa chiamare suoi fratelli. Altrimenti Egli sarebbe il loro capo, come è il capo degli Angeli, ma non sarebbe il loro pontefice. Sotto tale aspetto, « il santificatore e i santificati » devono avere la stessa origine. Per salvare, in qualità di sacerdote, la razza di Abramo, bisogna che Egli le appartenga. Ecco che cosa rende necessaria l’incarnazione; ma di una necessità condizionale, subordinata al disegno della redenzione. – L’Epistola non separa l’idea di sacerdote da quella di sacerdote perfetto. Il pontefice ideale di una umanità colpevole, dopo di aver vestito la natura umana, dev’essere associato ai patimenti e alla morte che sono ora il retaggio comune degli uomini. « Conveniva a colui per il quale e per mezzo del quale tutto esiste e che conduce molti figli alla gloria, consumare per mezzo dei patimenti l’autore della loro salute (Ebr. II, 10) ». Nel subire liberamente la morte. Gesù Cristo non si propone soltanto di togliere ogni potere al padrone attuale della morte, a satana, ma vuole ancora liberarci da quel timore servile della morte, il quale ci teneva soggiogati. Con prendere le nostre miserie e le nostre infermità, egli si mette in condizione di conoscere meglio i nostri bisogni e le nostre debolezze, di comprendere meglio le nostre tentazioni e le nostre cadute e di compatirci finalmente in quel temperamento perfetto che sa evitare nel tempo stesso l’eccesso dell’indulgenza e l’eccesso del rigore (metriopatein). Però la rassomiglianza ha un limite: « noi abbiamo un pontefice capace di compatire le nostre debolezze, essendo stato provato in tutte le cose, per rassomigliarci (in tutto) eccetto i l peccato » (IV, 15). La ragione è chiara: quanto più il sacerdote ha il dovere di avvicinarsi a Dio per attirarvi i suoi fratelli, tanto più ha bisogno di essere santo; quanto più ha la missione di espiare i peccati, tanto più conviene che Egli stesso ne sia esente. Se fosse costretto a sacrificare per i suoi peccati, prima di pensare ai peccati del popolo, avrebbe bisogno di un altro sacerdote per supplire alla sua insufficienza. « Conveniva dunque che noi avessimo un tale pontefice, santo, senza malizia, senza macchia, separato dai peccatori e più elevato che i cieli. (VII, 26; IV, 14) ».

2. Nella religione naturale, il sacerdote è designato o dalla sua dignità o dalla scelta di coloro che Egli rappresenta: Dio lo gradisce, ma non lo nomina. Nella religione soprannaturale non avviene così. Dio, quando rivela il culto con cui vuol essere onorato ne affida il deposito a chi gli piace. Chiunque osasse, senza vocazione divina, ingerirsi nelle funzioni sacre del sacerdozio, sarebbe un intruso ed un usurpatore. Ora siccome Aronne è stato regolarmente investito del pontificato, con la sua discendenza, per soppiantarlo ci vuole una chiamata esplicita dell’ Altissimo. Questo appunto è il caso di Gesù Cristo: « Egli non glorificò se stesso per diventare pontefice, ma Colui che gli ha detto: tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato (Ebr. V, 5 cit. Ps. II, 7) », lo chiamò al sommo sacerdozio. Benché il Figlio sia Figlio da tutta l’eternità, queste parole, secondo il Salmista, gli sono rivolte soltanto nel momento in cui prende la natura umana. Nel farsi uomo, è ipso facto consacrato sacerdote, cioè mediatore titolato del genere umano presso Dio. Suo Padre gli confermerà con giuramento questa dignità: « Il Signore lo ha giurato e non se ne pentirà: Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec (V, 6; Ps. CIX, 4) ». La prerogativa esclusiva di Aronne è così revocata. Ma questo trasferimento di sacerdozio non si limita ad una semplice sostituzione di persone; esso equivale al cambiamento dello stesso sacerdozio che, dall’ordine di Aronne, passa all’ordine di Melchisedec. – Questo personaggio misterioso che appare e scompare nella Scrittura come una meteora, ha soltanto importanza, per l’autore dell’Epistola, come tipo del Cristo. Tre circostanze lo colpiscono: l’etimologia dei nomi, la condotta di Abramo verso il Sacerdote-Re di Salem ed il silenzio della Scrittura riguardo la sua origine. Melchisedec significa « re di giustizia », e re di Salem vuol dire « re di pace »; ora il regno del Messia dev’essere il regno della pace e della giustizia. Melchisedec è Sacerdote-Re; il Cristo pure è Sacerdote-Re, e la nostra Epistola, eccetto una volta sola, associa sempre il suo regno al suo sacerdozio. Il sacerdote ideale, al termine della sua evoluzione, si trova così ricondotto al suo concetto primitivo. L’incontro del patriarca col re di Salem, fornisce due altri particolari tipici il cui significato è quasi il medesimo: « Melchisedec benedisse Abramo, ed Abramo gli pagò la decima (VII, 2) ». È un principio ammesso da tutti, che la benedizione scende dal padre al figlio, dal re al suddito, dal sacerdote al laico, in una parola, dal superiore all’inferiore. Non è meno evidente che il pagamento della decima è un atto di sudditanza verso un’autorità maggiore, regale, sacerdotale e divina. Ora Melchisedec benedice colui nel quale devono essere benedette tutte le nazioni della terra, e riceve da lui, come decima, la parte migliore del bottino. Con questo doppio atto, tutta la posterità di Abramo, che questi porta in sé, non esclusi i sacerdoti figli di Levi, riconosce virtualmente la superiorità di Melchisedec e, a più forte ragione, di Colui del quale Melchisedec è soltanto la figura. Il silenzio della Scrittura è ancora più fecondo di applicazioni tipiche. Stando al racconto biblico, Melchisedec è senza padre, senza madre, senza genealogia »; i suoi giorni non hanno « né fine né principio », poiché l’agiografo non nomina alcuno dei suoi antenati e non ricorda neppure il tempo della sua nascita e della sua morte. La genealogia, essenziale per i sacerdoti levitici, è indifferente per lui. Possedendo il sacerdozio a titolo personale, e non per eredità, non possono essere un impedimento né la qualità dei suoi avi né la patria di sua madre. Il pontefice secondo l’ordine di Melchisedec, avrà lo stesso privilegio, e la sua discendenza dal sangue di Giuda non farà ostacolo al suo sacerdozio. Ma bisogna che prima sia abolita la prerogativa di Aronne: è l’oggetto del giuramento di Dio. – Petau e Bellarmino hanno raccolto i testi dei Padri i quali vedono nel pane e nel vino offerti da Melchisedec, la figura dell’Eucaristia. L’autore dell’Epistola non poteva quasi fermarsi a questo significato tipico, senza compromettere la sua tesi e senza snervare il suo ragionamento. È probabile che egli alluda all’Eucaristia quando dice: « Noi abbiamo un altare dal quale non hanno diritto di mangiare coloro che restano al servizio del tabernacolo ». Ma qui, tutto inteso a dimostrare che il Cristo consuma per sempre gli eletti con un solo sacrificio, che l’offerta per il peccato diventa inutile da quando il peccato è sovrabbondantemente espiato, che l’insufficienza degli antichi sacrifici risulta appunto dalla loro ripetizione, non poteva mettere in rilievo l’oblazione che si ripete e la vittima che si sacrifica periodicamente sopra l’altare. Altrimenti avrebbe dovuto spiegare perché il sacrificio eucaristico riproduce e commemora, senza moltiplicarlo, il sacrificio cruento del Calvario. – Il silenzio riguardo al sacrificio di Melchisedec, ha pertanto fatto nascere gravi errori. Si pretese che il Cristo fosse, ad un tempo o successivamente, sacerdote secondo l’ordine di Aronne e secondo l’ordine di Melchisedec: secondo l’ordine di Aronne, per il suo sacrificio, e secondo l’ordine di Melchisedec per la sua dignità; oppure secondo l’ordine di Aronne su la terra, secondo l’ordine di Melchisedec in cielo. Non si è riflettuto che, secondo l’insegnamento formale dell’Epistola, questi due ordini sono incompatibili. Gesù Cristo non può essere sacerdote secondo l’ordine di Aronne, se succede all’ordine di Aronne e se è sacerdote soltanto in virtù dell’abolizione del sacerdozio di Aronne. « Se Egli fosse su la terra — cioè se il suo sacerdozio appartenesse alla sfera tipica e figurativa in cui si svolge l’ordine di Aronne — non sarebbe neppure sacerdote, essendo altri incaricati di offrire i doni, conforme alla Legge (Ebr. VIII, 4) ». Gesù Cristo dunque è sacerdote soltanto secondo l’ordine di Melchisedec, e tale rimane in eterno. Non bisogna confondere la dignità sacerdotale con l’esercizio del sacerdozio. Il sacerdote non diventa sacerdote nel momento in cui offre il sacrificio, poiché non ha il diritto di offrirlo se non perché è sacerdote. La consacrazione sacerdotale di Gesù Cristo coincide con l’incarnazione: all’entrare nel mondo, Egli, per bocca del Salmista, dice a suo Padre: « Tu non hai voluto oblazioni e sacrifizi, ma mi hai preparato un corpo. Gli olocausti è i sacrifici per il peccato non ti sono stati graditi; allora io ho detto: eccomi, vengo… per fare, o Dio, la tua volontà (X, 5-7, citaz. Ps. XXIX, 7-9) ». La volontà di Dio è che egli muoia, ed egli morrà all’ora stabilita: quello sarà il suo sacrificio. Ma Egli è sacerdote dal primo momento della sua vita mortale, ed è la divinità, come spiegano i Padri, che consacra la sua. umanità. L’eternità del suo sacerdozio si spiega con lo stesso principio. Se il sacerdote fosse sacerdote soltanto finché offre il sacrificio, oppure finché ha la possibilità di offrirlo, il sacerdozio del Cristo avrebbe soltanto un’eternità relativa, e dovrebbe cessare, al più tardi, nel giorno in cui cesserà il sacrificio incruento che Egli offre, fino alla fine dei secoli, col ministero dei suoi rappresentanti. Ma non è così: il suo sacerdozio è eterno, perché Egli lo possiede « non secondo la legge di una istituzione carnale, ma secondo la potenza di una vita indissolubile (VII, 16) ». L’istituzione rituale che fa i sacerdoti dell’ordine di Aronne, vale soltanto fino alla loro morte, e la delegazione che essa conferisce, spira con la vita; ma l’unione ipostatica che consacra sacerdote il Cristo, è indissolubile, e per conseguenza il suo sacerdozio non ha fine. Gli altri non possono rimanere sacerdoti per sempre « essendone impediti dalla morte; ma Egli possiede un sacerdozio inamovibile, perché rimane per sempre… sempre vivente per intercedere per noi (Ebr. VII, 23-25) ». Comunque si voglia intendere questa intercessione, è chiaro che essa non termina con la vita mortale del Cristo, e che per conseguenza la morte non è per lui, come è per gli altri, il limite estremo del sacerdozio. In lui il sacerdozio non è un accidente separabile dalla persona. Egli è mediatore dell’umanità perché è Uomo-Dio, ed è perciò impossibile che cessi di essere tale. Gesù pontefice sarà sempre il rappresentante titolato del popolo da lui salvato e sempre ne eserciterà le funzioni, anche solo offrendo al Padre un’oblazione virtualmente eterna; ma ancorché non facesse nessun uso di tale potere, lo conserva per sempre, ed è questo che lo costituisce gran sacerdote per tutta l’eternità.

III. IL SACRIFIZIO DEL CRISTO.

La funzione specifica del sacerdote è il sacrificio: « Ogni pontefice è stabilito per offrire doni e sacrifici; perciò bisognava che Egli pure avesse qualche cosa da offrire ». Nello stato attuale dell’umanità decaduta, il fine principale del sacrificio è l’espiazione del peccato, e come espiazione del peccato l’Epistola agli Ebrei considera il sacrifìcio del Cristo, benché faccia menzione di varie specie di sacrifizi — doni (dora), oblazioni (prosforai), immolazioni (tusiai), olocausti (olocautomata) () — che l’unico sacrificio della croce abolisce e sostituisce. – Che l’immolazione del Calvario sia un sacrificio in cui Gesù Cristo è nel tempo stesso sacerdote e vittima, non si può dubitare, se si leggono i quattro testi seguenti dei quali il primo enunzia il fatto, il secondo il modo, il terzo l’efficacia, il quarto il valore infinito di questo sacrificio:

“- Egli non ha bisogno, ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti (ebrei) di offrire vittime, prima per i suoi peccati, poi per quelli del popolo; poiché lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso (Ebr. VII, 27).

– Il sangue del Cristo che offrì se stesso a Dio, (ostia) immacolata, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per (renderci atti a) servire il Dio vivente (IX, 14).

– Il Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere i peccati della moltitudine, apparirà una seconda volta, senza peccato, per (conferire) la salute a quelli che l’attendono (IX, 28).

– Avendo offerto una sola ostia per i peccati, si è seduto per sempre alla destra di Dio… Poiché con un’unica oblazione ha reso perfetti per sempre quelli che sono santificati” (X, 12-14).

L’immolazione del Calvario è confrontata di passaggio, per via di contrasto, con gli olocausti del rituale mosaico, col sacrificio della vacca rossa, col sacrifizio con cui fu sigillata l’alleanza del Sinai (Olocausti, , 6-8; vacca rossa VI, 13; alleanza IX, 15, 23). – Ma l’autore non si ferma a queste analogie e si affretta ad arrivare al più perfetto, o al meno imperfetto, dei riti dell’antica Legge, quello del giorno dell’Espiazione. Il sacrificio dell’Espiazione, celebrato soltanto una volta all’anno, in presenza di tutta l’assemblea, con l’apparato più solenne, era anche il solo al quale il sommo sacerdote doveva intervenire personalmente, ed era per eccellenza il sacrificio per il peccato (Lev. XVI, 1-34); nessun altro sacrificio figurava, meglio di quello, il sacrificio del Cristo. La scena è descritta con un lusso di particolari dei quali non sempre si comprende l’opportunità (Ebr. IX, 1-10): parecchi infatti sembrano indifferenti al senso tipico. Forse l’autore ne fa menzione per far vedere che egli apprezza lo splendore del culto nazionale, che non è insensibile a quei ricordi e che non crede di dover abbassare il passato per esaltare il presente. La divisione del tabernacolo in due parti, separate da un velo che si sollevava una sola volta all’anno, dinanzi al solo pontefice, è essenziale al tipo. Essa significava, come spiegherà l’autore, che l’accesso al santuario non era ancora aperto. Il compito del sommo sacerdote, nel giorno dell’Espiazione, era di riconciliare il popolo con Dio offrendo il sangue delle vittime nel Santo dei santi (IX, 7). Generalmente il sommo sacerdote ebreo non compiva personalmente l’atto dell’immolazione. Il testo sacro sembra indicare che egli stesso colpisse la vittima nel giorno dell’Espiazione, ma avrebbe potuto farlo anche per mezzo di un altro, senza mutare il valore ed il significato del rito. Quello che importava per il sacrificio, era che egli stesso offrisse il sangue, e che lo offrisse nel Santo dei santi. Questi due atti che ne costituiscono uno solo, fanno parte integrante dello stesso simbolismo. Il più grave errore dei sociniani [seguaci di Socino, gnostico cabalista del XVI secolo, vero fondatore riconosciuto della massoneria attuale – ndr.] fu di dividere quello che per sua natura doveva rimanere indissolubilmente unito. Siccome, secondo loro, Gesù Cristo è sacerdote soltanto per il sacrificio, e siccome il sacrificio del Cristo è soltanto l’oblazione del suo sangue fatta nel santuario eterno, ne risultava questo paradosso contradetto ad ogni pagina dell’Epistola degli Ebrei, che cioè la morte del Cristo non è un sacrificio, che Gesù Cristo non è sacerdote su questa terra, e che diventa sacerdote soltanto nell’entrare in cielo, il giorno dell’Ascensione. – L’autore non si propone di esaurire tutta la tipologia dei riti dell’Espiazione. Egli non dice nulla del capro emissario che sembrava adatto a facili confronti. Ricorda di passaggio, ma in un’altra scena, la cremazione della vittima (Ebr. XIII, 11-12) fuori del campo, figura o simbolo del supplizio di Gesù, fuori della porta. Generalmente egli si ferma alla funzione del pontefice e ne fa l’applicazione al Cristo o per via di confronto o per via di contrasto; ma i contrasti predominano. Nel tipo confrontato con l’antitipo, quattro punti essenziali differiscono:

I preparativi del sacrificio. Aronne sacrifica per se stesso prima di occuparsi del popolo; Gesù Cristo, pontefice « santo, immacolato, non avendo nulla di comune con i peccatori, e più elevato dei cieli », non ha da sacrificare per se stesso, perché essendo senza peccato, è sempre in condizione di poter esercitare il suo ministero (Ebr. IX, 7).

II luogo del sacrificio. Da una parte, un tabernacolo perituro, terrestre, fatto dalla mano dell’uomo, figurativo; dall’altra un santuario eterno, celeste, costruito da Dio, ideale e perfetto (IX, 11).

La materia del sacrificio. Là il sangue dei tori e dei capri, di animali privi di ragione; qui il sangue della vittima pura, del pontefice stesso, del Figlio prediletto (Ebr. IX, 12-14).

I frutti del sacrifizio. Il sommo sacerdote ebreo penetra un momento nel Santo dei santi, per uscirne subito, e non ha il diritto d’introdurvi alcuno; Gesù Cristo entra in cielo per non uscirne più, e vi fa entrare dietro di sé tutti quelli che partecipano al suo sacrificio. Il sacrificio di Aronne dev’essere periodicamente ripetuto, perché non ottiene il risultato desiderato: il sacrificio del Cristo è necessariamente unico, perché ripugna alla sua perfezione l’essere. La relazione positiva del tipo con l’antitipo sta tutta nel particolare che l’uno e l’altro pontefice apre il Santo dei santi col sangue dell’espiazione; ma anche questo unico particolare non dev’essere « forzato. Nel giorno dell’Espiazione, passava un certo tempo tra la morte della vittima e l’oblazione del suo sangue sul propiziatorio; nel sacrificio della croce questo intervallo non esiste: l’oblazione coincide con la morte, e l’entrata nel Santo dei santi avviene con l’oblazione. Da quel momento il cielo è virtualmente aperto, e il momento dell’entrata effettiva non ha più importanza. Infatti il voler rimandare questa entrata al giorno dell’Ascensione, sarebbe un materializzare troppo il rapporto del tipo con l’antitipo. Per continuare in questa via, bisognerebbe cercare qual è il propiziatorio celeste che Gesù asperge del suo sangue. Nel momento in cui Gesù spira, tutto è consumato: immolazione, offerta, aspersione del sangue, diritto di entrare in cielo. I partigiani del sacrificio celeste dimenticano questo. Separando la morte della vittima dall’oblazione del sangue, o considerano la prima come una semplice preparazione che non entra nell’essenza del sacrificio, e allora sono obbligati a conchiudere con i sociniani, che Gesù Cristo non è stato sacerdote su questa terra e che inaugura il suo sacerdozio soltanto entrando in cielo — il che è manifestamente contrario alla dottrina apostolica — oppure vedono, nelle due azioni, due sacrifici distinti e, senza negare il valore del sacrificio della croce, si figurano un sacrificio celeste differente dall’altro per il modo dell’oblazione, un po’ come l’eucaristia differisce dal sacrificio cruento del Calvario; ma questa opinione nuova, sospetta per la sua stessa novità, non ha nessun fondamento nella nostra Epistola.

CONOSCERE SAN PAOLO (22)

CONOSCERE SAN PAOLO (22)

LIBRO SESTO

L’Epistola agli Ebrei; (2)

CAPO II

Il Cristo mediatore.

1 . L A PERSONA DEL CRISTO.

1 . IL FIGLIO DI DIO IMMAGINE E IMPRONTA DEL PADRE. — 2. CREATORE DEL MONDO. — 2. FASE DI ABBASSAMENTO E VITA DI GLORIA.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]

1. Il giudaismo, indipendentemente dal suo sacerdozio, ebbe tre sorta di mediatori: i profeti, gli angeli, Mosè. I profeti erano messaggeri straordinari, delegati nei momenti di maggiore crisi religiosa, per scongiurare le apostasie e per mantenere vive le speranze messianiche. Tutto l’Antico Testamento ci mostra la parte attiva degli Angeli come messi di Dio, ma la loro azione si esercita soprattutto nell’alleanza del Sinai (Ebr. II, 1). Mosè poi, il cui nome già richiama l’idea del mediatore per eccellenza (Gal. III, 19-20), viene ultimo nella serie, dopo i profeti e gli Angeli, come ultimo termine di una graduatoria ascendente. Ma quanto si rimpiccoliscono questi mediatori dinanzi a Gesù! Il confronto serve soltanto a far risaltare maggiormente, col contrasto, la sua incomparabile grandezza, i profeti parlavano in nome di Dio, o meglio era Dio che parlava in loro e per mezzo loro, ma questo avveniva una volta, nelle età remote, ai patriarchi morti da lungo tempo, nell’infanzia dell’umanità; e la loro rivelazione era frammentaria, spezzata nel tempo e nello spazio. Ora invece, alla fine dei tempi, dopo tutte le preparazioni provvidenziali, Dio ha parlato a noi, eredi dei Patriarchi, per mezzo del Figlio e in Lui. È evidente che una rivelazione fatta a poco a poco, a briciole ed a frammenti e in diverse maniere, con figure, simboli ed allegorie, non è né perfetta né definitiva e non può stare alla pari con la rivelazione di Colui che possiede come suoi tutti i tesori di scienza e di sapienza (Ebr. I, 1). Gli Angeli sono gli esecutori delle volontà divine; in ultima analisi non sono altro che ministri di Dio preposti al servizio degli eletti e che si possono paragonare agli agenti atmosferici. Non solo la funzione degli Angeli è di servire, ma il loro servizio è subordinato al bene degli eletti: così la folgore e la tempesta portano gli stessi nomi e, fatte le debite proporzioni, compiono gli stessi uffici: Dio fa dei venti i suoi messaggeri, e dei fuochi accesi i suoi ministri. Il Cristo invece è il Figlio, generato nell’oggi eterno; il suo trono è eterno: i cieli sono opera delle sue mani; Egli li cambia a suo talento, mentre Egli stesso non è suscettibile di mutazione e di decadenza. La sua supremazia sopra gli Angeli appare già dal suo nome: Egli è Figlio di Dio in una maniera incomunicabile; Egli è Dio, e quello che l’Antico Testamento dice di Jehovah, conviene a Lui medesimo, o piuttosto è detto di Lui medesimo. Per conseguenza Egli è creatore, è eterno, è re universale; e gli Angeli devono anch’essi rendergli omaggio. Mosè poi fu l’intendente fedele della casa di Dio; ma egli era tale come servitore, e la casa non era sua. Il Cristo, in qualità di Figlio, governa la casa sua, cioè la Chiesa: poiché è Lui che l’ha fondata. – La dignità sovreminente del Cristo deriva tutta dalla sua filiazione divina. Egli è incomparabilmente superiore ai profeti, perché è Figlio; Egli ecclissa gli Angeli, perché è Figlio; la vince su Mosè, perché è Figlio; è mediatore unico della creazione, come pure della redenzione, perché è Figlio; è erede di tutte le cose, perché è Figlio; è il sacerdote eterno, perché è Figlio. Benché gli si riconoscano dei fratelli che qualche volta prendono il titolo di figli, quando si tratta del Figlio semplicemente, del Figlio per eccellenza, del Figlio di Dio, non vi è più equivoco possibile, e tutti pensano al Figlio per natura, al Figlio Monogenito, nato dal Padre prima di tutti i secoli (IV, 14; VI, 6; VII, 3; X, 29). – La personalità del Figlio rimane immutabile nella sua preistoria divina nel seno del Padre, nella sua apparizione storica come mediatore, salvatore e sacerdote, nella sua vita glorificata di là dalla storia. I diversi attributi che gli convengono per questo triplice modo di esistenza, sono frequentemente riuniti nella stessa frase ed enumerati senza cambiamento di soggetto. Questo fatto che si può constatare nel Prologo di San Giovanni e nei passi cristologici dell’Epistola ai Colossesi e dell’Epistola ai Filippesi, si nota soprattutto nella nostra. Eccone due esempi presi dal principio: “Dio ci ha parlato per mezzo del Figlio, (esistenza storica). Che stabilì erede di tutte le cose, (esistenza glorificata). Per mezzo del quale fece anche i secoli”, (preesistenza divina). Oppure, mantenendo l’ordine cronologico: “Irradiamento della sua gloria, impronta della sua sostanza, che sostiene tutto con la sua potente parola, Dopo di aver compiuto l’espiazione dei peccati, Si è seduto alla destra della Maestà”. – Preesistenza eterna, esistenza storica, sopravvivenza glorificata: questo è il quadro naturale in cui possiamo classificare le principali idee cristologiche dell’Epistola. – Alla loro volta, le idee relative alla preesistenza eterna si suddividono in tre classi: titoli del Cristo preesistente, sua funzione nella creazione, sua natura divina. – Gesù Cristo, da tutta l’eternità, è il Figlio di Dio; è l’irradiamento della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza. Del primo nome abbiamo già parlato. – L’espressione irradiamento della gloria del Padre, è presa dal libro della Sapienza, dove il parallelismo stabilisce con precisione il significato dell’irradiamento e della gloria. La Sapienza increata « è un soffio della potenza di Dio ed un effluvio della gloria pura dell’Onnipotente… perché essa è un irradiamento della luce eterna, uno specchio fedele dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà (Sap. VII, 26) ». L’irradiamento è spiegato dall’effluvio, e la gloria dalla luce. La gloria infatti nella Bibbia non è l’opinione né la riputazione né l’onore; è lo splendore e, per estensione, la bellezza e la maestà. La gloria del Padre è lo splendore e la maestà di Colui che abita una luce inaccessibile, nel quale è la luce, che è egli stesso la luce che non può ecclissarsi né oscurarsi, di cui lo splendore che avvolgeva talora il santuario — la shekinah della teologia ebraica — era il simbolo. Il Figlio non è il suo riflesso — poiché in che cosa potrebbe essere riflesso il Padre? — ma è il suo splendore e, per stringere più da vicino la parola greca ἀπαύγασμα (=apaugasma), il risultato di questo irradiamento. Il Padre è dunque concepito come un sole ardente che dardeggia i suoi raggi; ma mentre nel corpo luminoso da noi conosciuto vi è sempre un nucleo oscuro, alimento o residuo della luce, in Dio, nel quale tutto è luce, l’irradiamento è assoluto e si riverbera in un’immagine uguale a lui. Il Crisostomo ha dunque ragione di vedere nell’irradiamento della gloria del Padre, l’equivalente dell’articolo del Simbolo Lumen de Lumine, e gli altri commentatori greci, seguendo le orme di Origene (In Jerem. Homil.), hanno diritto d’inferire che questo irradiamento, inseparabile dal focolare luminoso da cui emana, è dunque eterno come lui. Però la divinità del Figlio non risulta dallo stesso irradiamento, ma dal fatto che una emanazione di Dio non può essere che sostanziale e infinita. – Il Figlio è anche l’impronta della sostanza del Padre. Occorre appena notare che ὑπόστσις (= upostasis) indica la sostanza e non la persona, poiché questo ultimo significato, estraneo al linguaggio biblico, qui non si potrebbe adattare: come potrebbe infatti il Padre riprodurre nel Figlio, proprio quello che li distingue tra loro? Non bisogna neppure tradurre χαρακτήρ (= karakter) per sigillo, perché il greco non ammette questo significato, e la metafora non si adatterebbe bene all’idea: piuttosto il Padre sarebbe il sigillo che fa di se stesso un’impronta adeguata con tutta l’energia della sua sostanza. Il χαρακτήρ (= karakter) è la linea caratteristica di una persona o di una cosa; si dice particolarmente del ritratto fatto sopra una medaglia, dell’impronta incisa in un conio; Filone gli dà come sinonimi immagine (eikon), copia (mimema), effigie (epeikonisma) – « La natura ragionevole è l’immagine del divino e dell’invisibile, essendo segnata col sigillo di Dio di cui il Logos eterno è l’impronta (De plant. Noe, 5) ». Perciò il Verbo, secondo Filone, non è il sigillo (efraghis) di Dio, ma è l’impronta (caracter) incisa su questo sigillo. – Ma noi oltrepasseremmo il senso del nostro testo, se gli applicassimo il concetto filoniano del Verbo, effigie di Dio, che ci segna a sua immagine e ci rende partecipi della natura divina. L’impronta non è una semplice copia, ma è l’esatta riproduzione del modello, con un’idea di causalità che la parola copia non ci chiama alla mente. Vi è dunque correlazione perfetta tra l’irradiamento e l’impronta: l’uno e l’altra ci offrono l’immagine del Padre e derivano dal Padre. – Figlio, irradiamento, impronta, sono termini quasi sinonimi coi quali si cerca di esprimere con linguaggio umano l’attività intima di Dio. Il Verbo è sempre designato con nomi che esprimono la sua eterna processione e per conseguenza la sua attitudine a rivelarci il Padre che nessuno non vide mai né può vedere se non nel Figlio, sua immagine. Ma sarebbe un grave errore il pensare che, oltre la sua funzione di mediatore e di rivelatore, il Verbo non fosse niente altro: il Figlio sarebbe Figlio, ancorché non avesse da condurci al Padre: la gloria di Dio irradierebbe, ancorché non vi fosse nessuno sguardo estraneo a contemplare il suo irradiamento; altrettanto bisogna dire dell’impronta che il Padre fa della sua sostanza. Questi titoli sono relativi, ma di una relazione intrinseca, necessaria, indipendente dall’esistenza delle creature. Quelli invece di creatore e di conservatore, che ancora dobbiamo esaminare, sono condizionati dall’esistenza degli esseri finiti.

2. Il Figlio è creatore del mondo: « Per mezzo di lui, Dio ha fatto i secoli (Ebr. I, 2) », e non possiamo dubitare che i secoli non siano il complesso delle cose limitate dallo spazio e dal tempo. Nulla prova che il significato gnostico di emanazioni divine, di eoni, fosse già si prende cura di definire i secoli: “Fide intelligimus aptata esse sæcula verbo Dei ut ex invisibilibus visibilio fierent” (XI, 3). I secoli corrispondono ai mondi della teologia ebraica: nel Talmud, Dio è chiamato creatore dei secoli; nella Scrittura, re dei secoli o Dio dei secoli (Tim. I, 17), e s’intendono sempre, per secoli, i mondi. Il Figlio è pure conservatore dell’universo: « Egli sostiene tutto con la sua potente parola (I, 3) ». Se la funzione di creatore sembra subordinata perché viene secondo l’ordine delle processioni divine, quella di conservatore è presentata come indipendente ed assoluta: singolarità apparente, poiché la conservazione delle cose non è che il prolungamento virtuale dell’atto creatore. Forse lo scrittore sacro ci vuol fare intendere che la mediazione del Figlio non implica nessuna dipendenza, e che la sua attività creatrice non è quella di un ministro o di uno strumento. Alcuni Padri videro la divinità e l’attività creatrice del Figlio in un testo che si può tradurre in due maniere: « Colui che ha disposto tutte le cose è Dio », oppure: « è Dio cha ha disposto tutte le cose ». A noi sembra preferibile la seconda traduzione. L’autore ha allora affermato che il Cristo, « apostolo e pontefice della nostra confessione, è stato fedele a Colui che lo ha fatto (apostolo e pontefice), come Mosè in tutta la sua casa », cioè nella casa di Dio. Ma vi sono due differenze: la prima è che Mosè è stato fedele come servo, e il Cristo come Figlio; la seconda è che Mose è una parte della casa di Dio, mentre il Cristo ne è l’ordinatore o il fondatore. Ora è evidente che l’ordinatore di una casa vale di più che la casa stessa o che una parte qualunque di essa, e da ciò  risulta la superiorità del Cristo su Mosè. Qui viene il passo discusso: Omnis namque domus fabricatur ab dliquo; qui autem omnia creavit, Deus est, che noi crediamo si debba tradurre così « Poiché ogni casa è disposta da qualcuno; ma è Dio che ha disposto tutte le cose (III, 4) ». Queste parole, non potendo essere la spiegazione dell’ultimo versetto che le precede, perché questo versetto è per sé evidente, si dovranno riferire al penultimo nel quale si dice che il Cristo è stato fedele a Colui che lo ha costituito suo rappresentante, come fu fedele Mosè nella casa di Dio. Benché il Cristo, come pontefice, sia il fondatore e l’ordinatore di questo edificio — perché il suo sacrificio si riverbera sul passato — è Dio che, in fin dei conti, dispone tutte le cose e mette nella sua casa Mosè come servo, e il Cristo come Figlio. – Senza tener conto di questo passo, il Figlio è altrove chiamato Dio. anche con l’articolo determinativo: « Il tuo trono, o Dio, sussiste re nei secoli dei secoli (Ebr. I, 8-9) ». L’autore gli applica senza esitare i testi dell’Antico Testamento il cui soggetto è Jehovah e che esprimono attributi specificamente divini: « Nel principio, Signore, tu  hai fondato la terra; e i cieli sono opera delle tue mani; essi periranno, ma tu sussisti in eterno (I, 10-12) ». Che gli Angeli siano tenuti ad adorarlo (I, 6), è la conseguenza prevista e necessaria della sua dignità trascendente. Non si vede che cosa aggiungano il prologo di San Giovanni e le Epistole ai Filippesi e ai Colossesi, a questa affermazione esplicita della divinità del Cristo.

3. Benché sia Dio, Gesù Cristo è pure vero uomo. Già dal seno del Padre, il Figlio domanda che gli sia preparato un corpo (X, 5, 9). Vuole partecipare alla carne e al sangue, come i figli adottivi (II, 14), e diventare simile a loro in tutto, eccetto il peccato (IV, 15; V, 7, 8; VII, 26): così esige il suo compito di sacerdote (II, 17); egli dunque si sottoporrà alla prova e ne uscirà vincitore (II, 18; IV, 13). Possederà in sommo grado tutte le virtù: la confidenza in Dio (II, 13), la fedeltà (II, 17; III, 2), la misericordia (IV, 15), soprattutto l’obbedienza che imparerà alla scuola del dolore (VII, 7, 8). – Eccetto i Vangeli, nessuno scritto ispirato moltiplica di più le allusioni alla vita mortale di Gesù: discendenza dalla tribù di Giuda (VII, 14), progresso in grazia e in sapienza (II, 10; V, 9; VII, 23), segni e prodigi che attestano la sua missione divina (II, 4), tribolazioni e persecuzioni, agonia e preghiera nel giardino degli Ulivi (V, 7), morte volontaria (XII, 2), crocifissione fuori delle porte della città (XIII, 12). Forse il nome di Gesù è scelto a preferenza di Cristo, per inculcare meglio la verità della natura umana. Ma in nessun altro luogo è più perfetta la comunicazione degli idiomi: il Participatio carni et sanguini, con il Corpus aptasti mihi (II, 14), non vale forse, come formola teologica dell’incarnazione, il Verbum caro factum est di San Giovanni o l’In ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corpolariter, di San Paolo? – La vita glorificata del Cristo è rappresentata come il frutto della sua abnegazione e della sua morte. L’ignominia della croce prelude al regno trionfale. Erede del mondo per diritto di nascita, il Figlio diventa erede per un nuovo titolo, per diritto di conquista, e nel tempo stesso acquista il diritto di associare a sé dei coeredi. -Noi riconosciamo qui le idee familiari a Paolo; ma, cosa degna di nota, l’Epistola accenna appena una volta, di passaggio, alla risurrezione (XIII, 20), mentre descrive con compiacenza Gesù, pontefice dell’umanità, che entra nel santuario celeste aperto per sempre, e che siede alla destra del Padre come avvocato e intercessore (IV, 16;VI, 20; VII, 26; IX, 11, 12, 24): — « Avendo compiuto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nel più alto » dei cieli. — « Noi abbiamo un pontefice che si è seduto alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e del tabernacolo vero ». — « Avendo offerto una sola ostia per i peccati, si è seduto per sempre alla destra di Dio ». — « Invece della gioia che gli si offriva, ha sofferto la croce, contando per nulla l’ignominia; e si è seduto alla destra del trono di Dio (I, 3; VIII, 1; X, 12, XII, 2) ». Negli altri scritti del Nuovo Testamento, Gesù prende posto alla destra del Padre come trionfatore, come re, come giudice; nell’Epistola agli Ebrei lo fa soprattutto come sacerdote, e di là continua il suo ufficio di mediatore.

CONOSCERE SAN PAOLO (21)

CONOSCERE SAN PAOLO (21)

LIBRO SESTO

L’Epistola agli Ebrei; (1)

CAPO I.

Introduzione. 

1. LA QUESTIONE DELL’AUTORE. CARATTERE E STILE DELLA LETTERA. — 2. TRADIZIONE ORIENTALE E OCCIDENTALE. — 3. PRETESI RAPPORTI CON FILONE. — 4. CONGETTURE DIVERSE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]

I. Tra le lettere del Nuovo Testamento, la sola Epistola agli Ebrei è anonima. L’esordio, dove l’autore suole declinare il suo nome e i suoi titoli, è soppresso. L’allusione alle catene — che potrebbero essere quelle di Paolo — si appoggia sopra una falsa lezione (Ebr. X, 34, “vinctis”). Alcuni tratti assai vaghi e non privi di difficoltà hanno fatto pensare a San Paolo, ma possono benissimo convenire a molti altri: « Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato messo in libertà. Se viene subito, io vi vedrò con lui… Quelli dell’Italia vi salutano (Ebr. XIII, 23-24) ». Non vi sono altri particolari più espliciti; e vi sono in queste poche parole tre anfibologie. Altrove sembra che si distingua molto nettamente dalla prima generazione cristiana e che si metta tra coloro che hanno ricevuto il Vangelo di seconda mano (Ebr. II, 13). Per lo meno nulla finora rivela una personalità distinta. Lo stile poi ci mette completamente fuori di strada: non vi è nulla che sia più diverso dalla lingua e dalla maniera di Paolo. E non parlo soltanto del vocabolario al quale si dà spesso troppa importanza nelle questioni di autenticità, benché l’assenza di espressioni e di particelle di cui Paolo sembra non poter fare a meno, e la presenza di locuzioni estranee alla sua terminologia diano pure da pensare: parlo della dizione nel senso più largo, delle immagini, dei paragoni, della maniera di concepire e di presentare le cose: Non si può fare a meno che sottoscrivere al giudizio di Origene. « Lo stile dell’Epistola detta agli Ebrei è di carattere affatto diverso da quello dell’Apostolo. L’Epistola è di una grecità migliore, e chiunque è capace di dare un giudizio in questa materia, ne deve convenire ». Basta leggere il primo periodo così cadenzato, così proporzionato, così armonico, per convincersi che non è uscito dalla penna di Paolo. E il seguito della lettera non smentisce le promesse del principio. Nessun autore biblico, non eccettuato neppure San Luca, scrive con tanta purezza: nessun ebraismo, pochissime di quelle irregolarità e scorrettezze — anacoluti, iperbati, concordanze a senso — che abbondano nelle Epistole paoline. Il perfetto concatenamento del discorso, l’arte dei passaggi naturali, il tono oratorio sostenuto senza sforzo, la padronanza di una lingua sempre abbondante e sempre ben cadenzata, rendono questa lettera ben diversa dagli scritti di Paolo. L’eloquenza dell’Apostolo, fatta di passione e di logica, assomiglia ad un torrente impetuoso che rompe le dighe, mentre la nostra Epistola è un fiume maestoso le cui tortuosità appena temperano la monotonia. – L’Epistola è piena di reminiscenze e di allusioni bibliche; ma il modo di citare e di adoperare l’Antico Testamento, si allontana di molto dalle abitudini di Paolo. Questo quasi sempre cita a memoria, combinando insieme testi spezzati, mentre il redattore dell’Epistola copia parola per parola il suo manoscritto dalla Bibbia greca e non si permette mai delle citazioni composite. Paolo, benché segua ordinariamente la versione dei Settanta, non manca di ricorrere al testo originale quando vi è troppa divergenza; l’autore dell’Epistola non mostra in nessun punto di conoscere l’ebraico, anche quando vi è notevole divergenza tra i due testi. Paolo non attribuisce direttamente a Dio altre parole che quelle messe dalla Scrittura in bocca a Dio; l’altro chiama parole di Dio anche certi passi scritturali dove di Dio si parla in terza persona. Finalmente le formule di citazione sono interamente diverse, come può provarlo un solo confronto: l’Epistola agli Ebrei non adopera neppure una volta l’espressione come sta scritto (γέγραπται=ghegraptai), che è la formola consueta dell’Apostolo.

2. Eppure sono proprio i giudici più competenti in materia di stile, i Padri di Alessandria, quelli che unanimi e da tutti i tempi vedono in questa lettera l’opera di San Paolo. Clemente, dietro il suo maestro Panteno, Origene, San Dionigi, San Pietro, Sant’Alessandro, Sant’Atanasio, Didimo, San Cirillo, Eutalio — e lo stesso Ario, a quanto pare — tutti sono concordi. Non bisogna dire che essi chiudano gli occhi su la diversità di stile: per spiegarla, Clemente supponeva che la lettera, scritta originariamente in ebraico, fosse stata tradotta in greco da San Luca: ipotesi insostenibile e che infatti non ha più chi la difenda. Se vi è cosa certa, è che l’Epistola agli Ebrei fu scritta in greco: una traduzione non avrebbe mai tanta spigliatezza e tanta libertà di mosse; l’autore poi si serve esclusivamente dei Settanta, anche quando si allontanano dal testo originale; egli vi profonde le paronomasie, le assonanze, le allitterazioni, in una misura che non si può ammettere in un traduttore. L’arte con cui sa arrotondare i periodi, sarebbe un prodigio inaudito, se egli si fosse trovato dinanzi ai brevi incisi uniti per coordinazione di un testo ebraico qualunque. Finalmente, per non dire di tutto il resto, il ragionamento fondato sul doppio significato della parola διαθήκη (= diateke)  — alleanza e testamento — sarebbe affatto impossibile in lingua ebraica. Secondo Origene, le idee sarebbero di Paolo, e la dizione sarebbe di uno dei suoi discepoli noto a Dio solo. « I documenti storici giunti fino a noi, soggiunge Origene, fanno il nome di Clemente, vescovo di Roma, oppure di San Luca, autore del Vangelo e degli Atti ». Perciò, benché consapevole delle difficoltà, Origene sta a quella che egli chiama la tradizione antica e, in pratica, dimenticando i suoi dubbi di critico e di linguista, cita senza esitare l’Epistola sotto il nome di Paolo. La stessa cosa fa Eusebio, benché la metta una volta tra gli scritti contestati, per deferenza verso il sentimento degli altri. Tutta la chiesa greca col concilio di Antiochia [264] e con quello di Laodicea [390], con San Gregorio Taumaturgo, con San Cirillo di. Gerusalemme, con Sant’Isidoro di Pelusio, con Sant’Epifanio, con San Basilio e con i due Gregori, con San Giovanni Crisostomo e con Teodoro di Mopsuesta, con Severiano di Gabala, la chiesa della Siria con la Peshitto, con Sant’Efrem e con San Giacomo di Nisibi, fanno la stessa affermazione degli Alessandrini: in una parola, l’Oriente è unanime. – Ma in Occidente non è così: conosciuta a Roma, nel primo secolo, da San Clemente che se ne serve come di cosa sua, l’Epistola agli Ebrei generalmente non vi era considerata né come autentica né come canonica. Il frammento del Muratori e il prete Caio riconoscono soltanto tredici lettere di San Paolo. Né Sant’Ireneo, né Sant’Ippolito, a quanto dice il Gobar, non ne ammettono l’autenticità; infatti il primo non la cita neppure una volta nella sua grande opera contro le eresie ed è dubbio che vi faccia qualche allusione. San Cipriano pure si astiene dal citarla e quando afferma, con parecchi altri scrittori latini, che Paolo scrisse a sette chiese, sembra che equivalentemente neghi che essa sia opera dell’Apostolo. Tertulliano, non si sa su quali dati, l’attribuisce a Barnaba, e il modo con cui la cita, dimostra abbastanza che non la crede canonica. Tra gli eretici, Marcione la respingeva; invece il banchiere Teodoto, capo dell’oscura getta dei melchisedechiani, l’accettava. Non sappiamo quale fosse a questo riguardo l’atteggiamento di Covato e di Novaziano, ma non abbiamo nessuna ragione di pretendere, come qualche volta si è fatto, che essi se ne servissero per negare alla Chiesa il diritto di rimettere i peccati. Nel quarto secolo i dubbi persistevano ancora e non erano neppure dissipati nel quinto. Tuttavia San Gerolamo va nell’esagerazione quando sostiene che i Latini non avevano l’abitudine di accettare l’Epistola come canonica: vi erano contestazioni e disaccordi, non c’era unanimità né in un senso né nell’altro. Se l’Ambrosiastro e Pelagio non la commentano, se Febade, Ottato di Milevi, Zenone, Vincenzo di Lerino, Orosio, non se ne servono, se il codice Claromontanus e il codice Mommscianus la escludono dal loro canone, Vittorino, Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano, Lucifero di Cagliari, Paciano, Faustino, Rufino, le sono favorevoli; Pelagio e l’Ambrosiastro la citano qualche volta senza riserve; Filastro, in contradizione con se stesso, tratta da eretici quelli che la attribuiscono ad altri che a San Paolo; ma bisogna dire che Filastro, secondo la fine osservazione di Sant’Agostino, dà alla parola eretico un significato che è suo speciale. Ma quando il Concilio d’Ippona del 393 e quello di Cartagine del 397 ebbero inscritta nella lista dei libri canonici tredici Epistole di Paolo e l’Epistola agli Ebrei dello stesso Apostolo; quando Innocenzo I, nella sua lettera ad Esuperio di Tolosa nel 405, e il concilio di Cartagine del 419 ebbero catalogato semplicemente quattrodici Epistole di San Paolo, gli antichi dubbi intorno alla canonicità scomparvero e, benché non si portasse nessun argomento nuovo in favore dell’autenticità, a poco a poco si accettò l’opinione generale o almeno la maniera comune di parlare. Soltanto gli eruditi, come Isidoro di Siviglia, conservarono il ricordo delle discussioni passate la cui traccia sussiste ancora nel posto assegnato all’Epistola, o al decimo posto o alla fine delle lettere paoline oppure anche fuori della serie. – Proprio quando la questione sembrava definitivamente risolta da tre concili dei quali era stata l’anima, Agostino incominciò a dubitare dell’autenticità. I suoi scrupoli andavano sempre crescendo, e mentre prima soleva citare la lettera sotto il nome di San Paolo, negli ultimi anni se ne astenne o non lo fece se non con espresse riserve: a lui non veniva l’idea che una decisione conciliare potesse troncare la questione dell’autore; e non venne neppure tale idea a San Gerolamo che, dopo di aver assistito al concilio romano in cui l’Epistola agli Ebrei era stata per la prima volta attribuita a San Paolo, non temeva di scrivere: Nihil interesse cuius sit, cum ecclesiastici viri sit et quotidie Ecclesiarum lectione celebretur. La pubblica lettura dell’Epistola era un argomento in favore della canonicità, ma non pregiudicava punto l’autenticità di uno scritto anonimo. Legare la canonicità con l’autenticità e sostenere, come fa il Gaetano, che se l’Epistola non fosse di Paolo, non sarebbe canonica, è un errore teologico dei più madornali. È anzi un abuso di linguaggio il parlare qui di autenticità, perché autentico è opposto ad apocrifo, e nella lettera non vi è nulla che permetta di sospettare che l’autore si sia voluto spacciare per Paolo. – Dopo Origene, la questione non fece nessun passo avanti; l’ipotesi di un traduttore che avrebbe rivestito della forma greca l’originale ebraico di Paolo, pure dando il senso più largo alla parola traduttore, ipotesi messa avanti da Clemente di Alessandria, accettata da Eusebio e da San Gerolamo, adottata poi da parecchi teologi del medioevo, è totalmente abbandonata oggi e non merita di essere confutata. – D’altra parte gli autori che si sostituiscono a Paolo non soddisfano troppo. Harnack propone Aquila e Priscilla, soprattutto Priscilla, per motivo di non so quali caratteri femminili che si scoprirebbero nella lettera. Godet, senza un fondamento molto più sicuro, pensava a Silvano. Alcuni antichi fanno il nome di Luca e di Clemente di Roma, o come traduttori o come redattori. È certo che Clemente conosce la nostra Epistola e se ne serve, ma il suo stile è così diverso, che si può affermare sicuramente che non è sua. Egli coordina le proposizioni invece di subordinarle, profonde le dossologie, cita la Scrittura in un modo tutto suo, e finalmente le sue idee e la maniera con cui le esprime dimostrano un’altra mentalità. Contro San Luca saremo meno recisi, principalmente per le autorità che stanno per lui. Con l’autore dell’Epistola egli ha questo di comune, che scrive il greco con purezza e si mette nella sfera delle idee di Paolo; le sue relazioni con Timoteo e la sua dimora a Roma rispondono pure ad altri dati. Come aveva notato Clemente di Alessandria, tra l’Epistola e gli Atti vi è una certa affinità di lessico e di dizione. Ma senza contare che questi punti di contatto non hanno nulla di decisivo, e neppure di meraviglioso, come possiamo persuaderci che San Luca, un pagano convertito, conoscesse a fondo il rituale mosaico e desse tanta importanza a osservanze che per lui erano senza valore? E poi San Luca non rivela mai la retorica speciale e la coltura alessandrina di cui pare imbevuto il redattore della lettera. Questo carattere è appunto quello che ha fatto pensare ad Apollo, messo avanti da Lutero e sostenuto da molti critici. Apollo apparteneva alla compagnia di Paolo e conosceva Timoteo; era di Alessandria e poteva aver frequentato la scuola di Filone; era assai eloquente e o « versatissimo nella Scrittura ». Ma tutto questo prova al più che Apollo potrebbe aver composto l’Epistola agli Ebrei, se non vi si opponesse un’obiezione decisiva. Non si vede né quando né come Apollo avrebbe acquistato il diritto di parlare da maestro alla chiesa ebreo-cristiana, e non bisogna dimenticare che l’opinione la quale gli attribuisce la nostra Epistola, è totalmente sprovvista di fondamento storico e di base tradizionale. – Poiché si tratta di ipotesi, noi diamo la nostra preferenza a Barnaba: per lui vi è la testimonianza positiva di Tertulliano e di una parte notevole dell’Occidente. Egli era ebreo di nascita ed ellenista di educazione; come levita, conosceva il rituale mosaico; come abitante di Cipro, doveva avere familiare la letteratura alessandrina, inoltre godeva di grande autorità a Gerusalemme e nelle chiese della Palestina. A dire il vero, se la lettera pubblicata col suo nome più di un secolo fa, fosse opera sua, non bisognerebbe pensare a lui neppure per un istante; ma gli eruditi dei nostri giorni sono sempre più concordi nel riconoscere che l’Epistola detta di Barnaba non è di Barnaba. Non vi è dunque più contro di lui nessuna obiezione di peso, e si potrebbe considerarlo come redattore dell’Epistola sotto la direzione o l’ispirazione dello stesso Paolo.

3. Certi critici moderni, rinunziando a scoprire il nome del grande incognito, si accontentano di indicare un Alessandrino oppure « Un discepolo di Paolo, tinto di filonismo ». Questa formula è fallace: se ci limitiamo ad un confronto generico e superficiale, troveremo facilmente tra il nostro autore e Filone un buon numero di punti di contatto; ma se si stringe il parallelo, con l’appoggio di testi, la maggior parte delle somiglianze scompaiono o si cambiano in senso contrario. Filone chiama bensì il suo Logos gran sacerdote, messaggero, mediatore, intercessore; ma quali sono i titoli onorifici che egli non dà al suo Logos? Del resto, il Logos di Filone è gran sacerdote dell’universo, di questo gran tempio di Dio, che è l’uomo (De Somnis I): che rapporto si vede qui col pontefice della nuova alleanza? Si assicura che il Logos di Filone, come il Figlio dell’Epistola agli Ebrei, è chiamato ἐπαύγασμα (=epaugasma) e χαρακτήρ (=karakter), della sostanza divina; ma l’Epistola certamente prende la prima parola dal libro della Sapienza; e in Filone è l’anima umana, e non il Logos, che è il χαρακτήρ (=karakter) di Dio. Si vuole vedere un’analogia evidente nella maniera con cui i due autori trattano la storia di Melchisedec; ma Filone insiste principalmente su l’offerta del pane e del vino, di cui l’Epistola non dice neppure una parola, e la somiglianza si riduce, in ultima analisi, ad una etimologia delle più comuni, poiché nessuno ignora che in ebraico melek significa re, e zedeq vuol dire giustizia. Del resto l’allegorismo dei due scrittori non ha nulla di comune: le allegorie di Filone non sono altro che simboli morali e propri del significato accomodatizio; quelle dell’Epistola agli Ebrei, se cosi vogliamo chiamarle, sono tipi profetici. La stessa differenza — e più marcata ancora — si trova in un altro punto in cui si cercano invano somiglianze. I due scrittori frequentemente oppongono il cielo alla terra, il visibile all’invisibile, il passeggero all’eterno, l’immagine alla realtà; ma mentre il filosofo alessandrino [neo-platonico e gnostico –ndr.] si volge al passato, e di là dal mondo dei fenomeni contempla il mondo delle idee, il mondo intellegibile (κόσμος νοητός = kosmos noetos) che gli è servito di archetipo, lo sguardo dell’agiografo è continuamente rivolto al futuro, e gli avvenimenti della storia ebraica sono il libro in cui legge i destini della Gerusalemme celeste, eterna ed immutabile. Noi non ci fermiamo alle somiglianze di minimo valore, delle quali molte sono puramente immaginarie. Non si ebbe il coraggio di pretendere che « la parola di Dio più penetrante di una spada a due tagli (Ebr. IV, 12) » dovesse derivare dal λόγος τομεύς (= logos tomeus) di Filone? Come se il Logos divisore di Filone fosse cosa diversa da un demiurgo occupato a separare gli elementi della materia caotica: concezione affatto estranea all’Epistola. La parola più tagliente di una spada λόγος τομώτερος (=logos tomoteros) è la parola profetica che arriva infallibilmente al suo scopo. Riguardo poi al verbo petrispatein (moderare i propri sentimenti e le proprie passioni) che apparteneva al linguaggio filosofico del tempo, bisogna davvero essere a corto di argomenti, per sostenere che l’autore dell’Epistola lo abbia preso da Filone.

4. Se la dipendenza da Filone diventa sempre più problematica quanto più si studia da vicino, la dipendenza da Paolo — dipendenza di idee, e non di parole — diventa sempre più manifesta, ed è oggi ammessa da quasi tutti i critici. L’impressione che si riporta da una lettura ripetuta, è ben tradotta da uno dei migliori conoscitori della lingua biblica: « La rassomiglianza dei pensieri con quelli di Paolo, appare con un’evidenza sempre crescente, e nel tempo stesso si resta sempre più sorpresi che si sia trovato chi abbia attribuito a Paolo lo stile e la dizione (Moulton) ». Eccoci dunque ricondotti all’opinione di Origene, divisa ancora ai nostri giorni dalla maggioranza dei critici e degli esegeti, così cattolici come eterodossi. Origene distingueva tra l’autore ed il redattore, dando una larghissima parte al redattore. Paolo avrebbe dato le idee, l’ispirazione, e un discepolo di Paolo, noto a Dio solo, le avrebbe raccolte nella memoria, aggiungendovi gli opportuni schiarimenti (Eusebio, Hist. Eccl., VI, 25). A lui sarebbe dovuta la forma, l’unione delle parti, insomma la composizione; egli sarebbe lo scrittore di un’opera di cui Paolo resterebbe l’autore. – Si diceva una volta, nello stesso senso, che il secondo Vangelo era il Vangelo di Pietro, e il terzo quello di Paolo, perché San Marco e San Luca avrebbero riprodotto rispettivamente la predicazione dei due grandi Apostoli. L’opinione di Origene è abbastanza malleabile per piegarsi a tutte le esigenze dei critici; spiega relazioni e differenze e soddisfa ai dati della tradizione. Noi pensiamo che si debba accettare, e così pure pensano quasi tutti i cattolici, con differenze innumerevoli che non è né possibile né utile discutere. – Direttamente o indirettamente, la sostanza è di Paolo; la forma è di un incognito il cui nome è noto soltanto a Dio.

II. QUADRO STORICO E IDEA CENTRALE.

1. L’EPISTOLA È INDIRIZZATA A GIUDEO – CRISTIANI DELLA PALESTINA. — 2. IDEA DOMINANTE E DIVISIONE.

1. La questione della data e della destinazione ha per il teologo un’importanza appena secondaria. Lasciamo che i critici cerchino i destinatari dell’Epistola, in Roma, in Alessandria, in Antiochia, a Corinto, a Tessalonica e anche a Ravenna e nel borgo di Iamnia. La maggior parte di queste supposizioni fantastiche non meritano di essere neppure ricordate: al più meritano un cenno i partigiani di Roma e di Alessandria. Alessandria avrebbe qualche probabilità, se i destinatari di una lettera fossero obbligati ad essere del medesimo paese dell’autore, e se l’autore non avesse potuto apprendere la coltura alessandrina fuori di Alessandria: ma è cattivo segno, quando un’opinione si fonda sopra una pura ipotesi; e come spiegare che i Padri alessandrini, da tutti i tempi unanimi nel ricevere la nostra Epistola come canonica, non abbiano avuto mai il sospetto che fosse indirizzata alla loro chiesa? Il solo motivo di pensare a Roma, è il saluto dei fratelli dell’Italia, se si intendono per οἰ ἀπὸ τῆς Ίταλίας (= oi apo tes Italias) non i Cristiani residenti in Italia, ma quelli che ne sono originari. È troppo poco un’anfibologia, per fondarvi un’ipotesi sprovvista di ogni base tradizionale; tanto più che quel testo, anche nel senso più favorevole, ci porta sì in Italia, ma non a Roma. È possibile immaginare nella chiesa romana, composta in gran maggioranza di pagani convertiti, tanto fanatismo per il rituale mosaico, da trovarsi nel pericolo di apostatare piuttosto che rinunziarvi? Dire che l’autore si rivolga unicamente ad un piccolo gruppo di ebrei convertiti (Zahn), e che miri soltanto all’assemblea particolare riunita nella casa di Aquila e di Priscilla (Harnack), equivale a complicare l’arbitrario con l’inverosimile. – L’antica opinione che metteva in Palestina i destinatari dell’Epistola, conserva ancora tutte le probabilità. Essa ha dalla parte sua una tradizione rispettabile alla quale non fa contrappeso nessuna tradizione contraria; il titolo stesso che, pure non appartenendo al testo primitivo, risale per lo meno al secondo secolo, poiché si trova in tutti i manoscritti e in tutte le versioni; finalmente l’incredibile varietà e l’inconsistenza delle ipotesi che le si vollero sostituire. Essa ha soprattutto in suo favore, con i dati concordanti della data e dell’ambiente, i caratteri intrinseci: « un sapore di terra ebrea tanto marcato ed un’assenza così completa di qualsiasi allusione al culto pagano, che stentiamo a capire come vi si possa trovare la più piccola indicazione che riveli dei lettori usciti dal paganesimo ». – È impossibile, a nostro parere, portare la composizione dell’Epistola dopo la catastrofe del 70: il tempio è ancora in piedi, e il rituale mosaico è sempre in vigore. L’autore, è vero, si riferisce alla descrizione biblica del tabernacolo ed alla legislazione scritta del Pentateuco, senza tener conto delle modificazioni portate dal tempo, o perché suppone la pratica conforme alla regola, o piuttosto per dare alla sua tipologia un fondamento scritturale; ma si sente sempre che egli non combatte contro ombre, e che la sua polemica ha di mira realtà. presenti. Dopo la caduta del tempio che segnava la fine dei sacrifizi, dopo la rovina di Gerusalemme senza speranza umana di risurrezione, lo stato d’animo dei destinatari sarebbe un enigma indecifrabile. Prima di quella data fatidica, la loro tentazione si spiega: essi rimpiangevano il culto degli antenati con lo splendore e la pompa delle sue solennità, mal compensate, ai loro occhi, dallo spiritualismo cristiano. Detestati, calunniati, perseguitati, trattati da disertori dai loro compatriotti, si sentivano invadere l’anima da pensieri di scoraggiamento e di apostasia: alcuni si guardavano indietro e forse già erano vicini alla defezione. Si era alla vigilia di una gran crisi nazionale; il giudaismo si dibatteva negli spasimi di un’agonia che a molti poteva sembrare una risurrezione. L’ora era critica per gli ebrei convertiti: bisognava o fare causa comune con i patrioti fanatici, o romperla con loro sfidando la loro collera e le loro maledizioni; bisognava o rinnegare il Cristo, oppure uscire in campo con Lui, portando la sua ignominia. Scelsero l’ultimo partito gli ebrei convertiti quando, nel 66 o 67, all’avvicinarsi di Tito, si rifugiarono a Pella, non senza lasciarsi dietro certamente più di un traviato o di un indeciso. Per confermarli nella fede, l’Apostolo spediva loro la sua lettera.

2. L’Epistola agli Ebrei è una vera lettera, e non una tesi od un’omelia. Del trattato dommatico ha il disegno bene ordinato, il procedere regolare, il nesso degli argomenti e degli svolgimenti; essa ricorda l’omelia per il tono oratorio più elevato di quanto convenga a una corrispondenza ordinaria, per il continuo alternarsi dei punti speculativi e delle conclusioni parenetiche: tuttavia essa appartiene certamente al genere epistolare. Essa è indirizzata ad una cerchia ristretta di persone delle quali l’autore conosce bene il lato forte e il debole, esalta le virtù, riprende i difetti, cerca di scongiurare i pericoli. L’Epistola non è dunque un trattato, ma è una lettera che, se si vuole, ha dell’omelia, e che il suo autore qualifica col nome più esatto quando la chiama « una parola di esortazione ». Come parola di esortazione, ha uno scopo immediato e pratico: il dogma non è l’occasione della morale, ma la morale è la ragione di essere del dogma. L’autore — e non ne fa mistero — vuole fermare i giudeo-cristiani su l’orlo dell’abisso; egli dimostra a loro quanto la caduta sarebbe funesta e anche irragionevole, poiché sarebbe un ritorno dal più perfetto al meno perfetto, dalla luce del Vangelo alla penombra dell’economia antica. Per dimostrare che la legge di grazia è una religione migliore, stabilisce che essa è la Religione definitiva, immutabile, eterna, ideale. Avendo ogni religione lo scopo di facilitare l’accesso a Dio e di unirci a Lui, il valore di una religione si deve misurare dalla maniera più o meno efficace con cui raggiunge questo scopo. Ora la missione di operare l’avvicinamento tra il cielo e la terra, incombe soprattutto al sacerdote, intermediario tra l’uomo e Dio. Ecco dunque i tre postulati che l’autore dell’Epistola suppone continuamente e che il lettore non deve mai perdere di vista. — Un’istituzione religiosa si misura dall’unione che produce tra l’uomo e Dio. — Questa unione è tanto più intima, quanto più vicino all’ideale è il sacerdote mediatore. — Il valore, l’efficacia del sacrificio dà alla sua volta la misura del sacerdote. Ma mentre il parallelo tra il giudaismo e il Cristianesimo, che forma il vero argomento dell’Epistola, resta latente o appena penetra la superficie, il contrasto fra i mediatori delle due religioni e le funzioni sacerdotali di questi mediatori, forma il disegno apparente ed esteriore della lettera. I lunghi passi parenetici sono talmente collegati con le prove e portati così naturalmente, che non interrompono il corso della dimostrazione. – A prima vista si distinguono le tre parti seguenti in cui dogma o morale si fondono in un tutto armonico: La persona del Cristo opposta a quella degli altri mediatori, profeti, angeli, Mosè e Giosuè. Esortazione all’obbedienza e alla fedeltà (cap. I-IV). — Il sacerdozio del Cristo, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec, opposto al sacerdozio levitico. Esortazione all’ideale e al più perfetto (cap. V – VIII). — Il sacrifizio del Cristo opposto al sacrificio del giorno dell’Espiazione. Pericoli dell’incredulità, valore della fede, esortazione alla perseveranza (cap. VIII- XIII). – Noi seguiremo questa divisione, aggiungendo un capitolo supplementare sul contrasto fra le due alleanze e le due economie, contrasto che è il fondo nascosto dell’Epistola.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: JUCUNDA SEMPER

Ancora una volta, come abbiamo avuto modo di notare nelle lettere Encicliche già esaminate di Leone XIII, il Santo Padre, compone un inno di lode alla Vergine Santissima, Madre di Dio e Madre nostra, ed al Santo Rosario, preghiera che per eccellenza ci consente di accedere agli aiuti divini, alle grazie che come un acquedotto, secondo la felice espressione di San Bernardo, giungono fino a noi, indegni, onde sovvenirci nei bisogni personali, ed ancor più nelle vicende infauste dei popoli oppressi e vilipesi da ogni genere di mali, materiali e soprattutto spirituali. L’Enciclica scorre come un soave nettare, come balsamo odoroso dell’anima, come motivo di gioia e di speranza in tempi in cui le oscure potenze infernali lavorano più che mai non solo nell’ombra, bensì alla luce del sole per confondere ogni principio di fede e di salvezza. Le parole del Sommo Pontefice ci spingono alla fiducia certa dell’aiuto della Vergine Madre di Dio, e cita al proposito le parole di San Bernardino da Siena: “Ogni grazia, che si dispensa su questa terra, passa per tre ordini successivi. Da Dio viene comunicata a Cristo, da Cristo alla Vergine e dalla Vergine a noi”. Cosa più della grazia di Dio ci serve in questi tempi di buio spirituale totale? Tempi in cui la Chiesa è “eclissata” e sostituita da un esercito di lupi famelici, in abito carnevalesco, già marchiati a fuoco, servi del demonio, sacerdoti di Baal, che dispensano veleno con sacrileghi ed invalidi sacramenti in riti blasfemi ed abominevoli, offerti al signore dell’universo, il lucifero-baphomet, e che inducono le anime al peccato convincendoli di una ribaltata dottrina di Cristo e della vera Chiesa, dottrina appunto di satana, che punta dritto all’inferno eterno. Ma consoliamoci meditando la lettera con intrepida e indiscussa fiducia nelle parole del Salvatore … portæ inferi non prævalebunt, porte che non prevarrano mai, appunto perché con la recita del Santo Rosario, Maria  … Ipsa conteret caput tuum!

“Jucunda semper expectatione erectaque spe octobrem mensem conspicimus redeuntem …”

Leone XIII
“Iucunda semper”

Lettera Enciclica

Il Rosario Mariano
8 settembre 1894

Noi guardiamo sempre con gioiosa attesa e con rinnovata fiducia al ritorno del mese di ottobre; perché, da quando cominciammo ad esortare i fedeli a consacrare questo mese alla beatissima Vergine, esso ha portato da per tutto ad una potente fioritura del Rosario fra i Cattolici. Quale sia stato il motivo delle Nostre esortazioni l’abbiamo esposto più di una volta. Poiché i tempi, forieri di sciagure per la Chiesa e per la società, esigevano l’aiuto potente di Dio, Noi ritenemmo di doverlo implorare appunto mediante l’intercessione della sua Madre e soprattutto con quella formula di preghiera, di cui il popolo cristiano ebbe sempre a sperimentare la salutare efficacia. La provò infatti fin dalle origini del Rosario mariano, sia nella difesa della Santa Fede contro i nefasti attacchi degli eretici, sia nel rimettere in onore quelle virtù, che erano state soffocate dalla corruzione del mondo. La provò con una serie ininterrotta di benefici, privati e pubblici, il cui ricordo fu dovunque immortalato anche con insigni istituzioni e monumenti. E anche ai nostri tempi, travagliati da molteplici crisi, siamo lieti di riconoscere che proprio dal Rosario sono provenuti frutti salutari. Tuttavia, guardando intorno, venerabili fratelli, voi stessi vedete che ancora permangono, e in parte aggravati, i motivi per invitare anche quest’anno i vostri fedeli a ravvivare il fervore delle loro suppliche verso la Regina del cielo. – Inoltre quanto più fissiamo il pensiero sull’intima natura del Rosario, tanto più chiaramente ci si manifesta la sua eccellenza ed umiltà. E perciò cresce in Noi il desiderio e la speranza che la Nostra raccomandazione sia così efficace da dare il più largo sviluppo a questa santissima preghiera, diffondendo sempre più la sua conoscenza e la sua pratica. A tale scopo non richiameremo qui gli argomenti che, sotto vari aspetti, abbiamo esposto su questo stesso soggetto negli anni precedenti; ma ci piace piuttosto considerare ed esporre come, nei divini disegni della Provvidenza, il Rosario risvegli, nell’animo di chi prega, soave fiducia di essere esaudito, e muova la materna pietà della Vergine benedetta a rispondere a tale fiducia con la tenerezza dei suoi soccorsi. – Il nostro supplichevole ricorso al patrocinio di Maria si fonda sul suo ufficio di mediatrice della divina grazia; ufficio che Ella – graditissima a Dio per la sua dignità e per i suoi meriti, e di gran lunga superiore per potenza a tutti i santi – continuamente esercita per noi presso il trono dell’Altissimo, ora, questo suo ufficio forse da nessun altro genere di preghiera è così vivamente espresso come nel Rosario, dove la parte avuta dalla Vergine nella redenzione degli uomini è così messa in evidenza, che sembra svolgersi ora davanti al nostro sguardo; e ciò porta un singolare profitto alla pietà, sia nella successiva contemplazione dei Sacri Misteri, sia nella recita ripetuta delle preghiere. – Ci si presentano dapprima i Misteri Gaudiosi. Il Figlio eterno di Dio si abbassa fino agli uomini, fattosi uomo Egli stesso. Ma con l’assenso di Maria, “che lo concepisce di Spirito Santo”. Quindi Giovanni, per una grazia speciale, “viene santificato” nel seno materno ed è arricchito di eletti doni “per preparare le vie del Signore”. Ma ciò avviene in seguito al saluto di Maria che, per divina ispirazione, si reca a far visita alla sua parente. Viene finalmente alla luce il Cristo, “l’atteso delle genti”, e viene alla luce dal seno della Vergine. I pastori e i magi, primizie della fede, si dirigono con ansia frettolosa alla sua culla e “trovano il Bambino con Maria sua Madre”. Egli poi vuole essere portato in persona al tempio per offrirsi pubblicamente in olocausto a Dio Padre. Ma è per opera della Madre che qui “è presentato al Signore”. È sempre Lei che, nel misterioso smarrimento del Figlio, lo ricerca con ansiosa sollecitudine e lo ritrova con gioia immensa. – Nello stesso senso parlano i Misteri Dolorosi. È vero che Maria non è presente nell’orto del Gethsemani dove Gesù trema ed è triste fino alla morte, e nel pretorio, dov’è flagellato, coronato di spine, condannato a morte. Ma già da tempo Ella aveva conosciuto e veduto chiaramente tutte queste cose. Quando infatti si offrì a Dio come sua ancella, per divenire poi sua madre, e quando nel tempio si consacrò interamente a Lui, insieme al Figlio, già fin da allora, in virtù di questi due fatti, Ella divenne partecipe della dolorosa espiazione del Cristo, a vantaggio del genere umano. Non vi è quindi alcun dubbio che anche per tale ragione, durante le crudeli angosce e torture del Figlio, Ella provò in cuor suo i più acuti dolori. Del resto, proprio alla sua presenza e sotto i suoi occhi doveva compiersi quel divin sacrificio, per il quale con il proprio latte ella aveva generosamente allevata la vittima. Ciò si contempla nell’ultimo e più commovente di questi misteri. “Stava presso la Croce di Gesù Maria sua Madre”, la quale, mossa da un immenso amore per noi, per averci suoi figli, offrì Ella stessa il suo Figlio alla giustizia divina, e con lui morì in cuor suo, trafitta dalla spada del dolore. – Infine, nei Misteri Gloriosi, che seguono quelli Dolorosi, è più copiosamente confermato questo stesso misericordioso ufficio della Vergine eccelsa. Con tacita gioia gusta la gloria del Figlio trionfante sulla morte; lo segue poi con materno affetto nel suo ritorno alla Sede Celeste. Ma quantunque degna del cielo, è trattenuta sulla terra, come suprema Consolatrice e Maestra della Chiesa nascente; “Ella penetrò oltre ogni credere, nei profondi arcani della Sapienza Divina”. E poiché l’opera santa della redenzione degli uomini non si poteva dire compiuta prima della discesa dello Spirito Santo, promesso da Cristo, ecco che la vediamo là in quel cenacolo pieno di ricordi, a pregarlo insieme con gli Apostoli e a vantaggio degli Apostoli con gemiti inenarrabili; ad affrettare alla Chiesa la Sapienza dello Spirito consolatore, supremo dono di Cristo, tesoro che non le verrà mai meno. Ma in misura ancor più piena e perenne ella potrà perorare la nostra causa, quando sarà passata a vita immortale. E così da questa valle del pianto la vediamo assunta alla Città Santa di Gerusalemme, tra le feste dei cori angelici; la veneriamo elevata sopra la gloria di tutti i santi, incoronata di stelle dal suo divin Figlio, assisa presso di Lui, Regina e Signora dell’universo. – In tutti questi misteri, venerabili fratelli, se così bene si manifesta “il disegno di Dio, disegno di sapienza, e disegno di misericordia”, non meno chiaramente risplendono nello stesso tempo i grandissimi benefici della Vergine Madre verso di noi: benefici che non possono non riempirci di gioia, perché ci infondono la ferma speranza di ottenere, per la mediazione di Maria, la clemenza e la misericordia di Dio. – A questo stesso fine, in perfetta armonia con i misteri, tende la preghiera vocale. Precede, com’è giusto, l’orazione domenicale rivolta al Padre celeste, Poi, dopo aver invocato lo stesso Padre con la più nobile delle preghiere, la nostra voce supplichevole dal trono della sua maestà si volge a Maria; in ossequio alla ricordata legge della sua mediazione e della sua intercessione, espressa da San Bernardino da Siena con le seguenti parole: “Ogni grazia, che si dispensa su questa terra, passa per tre ordini successivi. Da Dio viene comunicata a Cristo, da Cristo alla Vergine e dalla Vergine a noi”. E noi nella recita del Rosario passiamo per tutti e tre i gradini di questa scala, in diversa relazione tra loro; ma più a lungo e, in certo qual modo, più volentieri noi ci tratteniamo sull’ultimo, ripetendo per dieci volte il Saluto Angelico, quasi per innalzarci con maggior confidenza agli altri gradini, cioè per mezzo di Cristo, a Dio Padre. Se torniamo a ripetere tante volte lo stesso saluto a Maria, è perché la nostra preghiera, debole e difettosa, venga rafforzata dalla necessaria fiducia, fiducia che sorge in noi pensando che Maria, più che pregare per noi, prega in nostro nome. Di certo le nostre voci saranno più gradite ed efficaci al cospetto di Dio se saranno appoggiate dalle preghiere della Vergine; alla quale egli stesso rivolge l’amorevole invito: “Risuoni la tua voce al mio orecchio, perché soave è la tua voce” (Ct II,14). – Per questa stessa ragione nel Rosario torniamo tante volte a celebrare i suoi gloriosi titoli di mediatrice. In Maria noi salutiamo Colei che “incontrò favore presso Dio”; Colei che fu da Lui in modo singolarissimo “colmata di grazia”, perché tale sovrabbondanza si riversasse su tutti gli uomini; Colei a cui il Signore è unito col vincolo più stretto che possa esistere; Colei che, “Benedetta fra le donne”, “sola tolse di mezzo la maledizione e portò la benedizione”, ossia il frutto benedetto del suo seno, nel quale “tutte le genti sono benedette”; Colei, infine, che invochiamo “Madre di Dio”. Ebbene, in virtù di una dignità così sublime, che cosa non potrà ella chiedere con sicurezza “per noi peccatori”; e che cosa, d’altra parte, non potremo sperare noi, in tutta la vita e nelle estreme nostre agonie – Chi avrà recitato con ogni diligenza queste preghiere e meditato con fede questi Misteri, non potrà non ammirare i divini disegni che hanno unito la Vergine Santissima alla salvezza degli uomini; e, con commossa fiducia, bramerà rifugiarsi sotto la sua protezione e nel suo seno, ripetendo la supplica di san Bernardo: “Ricordati, o piissima Vergine Maria, che non si è mai udito al mondo che uno che sia ricorso alla tua protezione, che abbia implorato il tuo aiuto, che abbia invocato la tua intercessione, sia stato da te abbandonato”. – Ma la virtù che il Rosario ha di ispirare la fiducia in chi prega, la possiede anche nel muovere a pietà verso di noi il cuore della Vergine. Quanto deve essere soave per Lei il vederci e l’ascoltarci, mentre intrecciamo in corona domande per noi giustissime e lodi per Lei bellissime! Così pregando, noi desideriamo e rendiamo a Dio la gloria che gli è dovuta; cerchiamo unicamente l’adempimento dei suoi cenni e della sua volontà; esaltiamo la sua bontà e munificenza chiamandolo Padre e chiedendogli, benché indegni, i doni più preziosi. Di tutto questo, Maria gioisce immensamente e, per la nostra pietà, di cuore “magnifica il Signore”. Perché, quando ci rivolgiamo a Dio con il “Padre nostro”, noi lo supplichiamo con una preghiera degna di Lui. – Ma alle cose che in essa domandiamo, già di per sé così rette e ordinate e così conformi alla fede, alla speranza, alla carità cristiana, s’aggiunge un pregio che non può non essere sommamente apprezzato dalla Vergine santissima. Questo: che alla nostra voce si unisce quella del suo Figlio Gesù, il quale dopo averci insegnato, parola per parola, questa formula di preghiera, autorevolmente ce la impone: “Voi, dunque, pregherete così” (Mt VI, 9). Stiamo certi, quindi, che, se noi saremo fedeli a questo comando con la recita del Rosario, Maria, da parte sua, non mancherà di esercitare con maggior benevolenza il suo ufficio di premurosa carità; e accogliendo con volto benigno questi mistici serti di preghiere ci ricompenserà con abbondanza di grazie. – Un’altra validissima ragione poi per contare con maggior sicurezza sulla generosa bontà di Maria, sta nella natura stessa del Rosario, così adatto a farci ben pregare. L’uomo, per la sua fragilità, è spesso, durante la preghiera, portato a distrarsi dal pensiero di Dio e a venir meno al suo lodevole proposito. Orbene, chi considera attentamente questo fenomeno, vedrà subito quanto efficace sia il Rosario, non solo per far applicare la mente e per scuotere la pigrizia dell’anima, ma anche per eccitare un salutare pentimento delle colpe, e, finalmente, per innalzare lo spirito alle cose celesti. E ciò perché, com’è ben noto, il Rosario è composto di due parti, distinte fra loro, ma inseparabili: la meditazione dei misteri e la preghiera vocale. Di conseguenza, questo genere di preghiera richiede da parte del fedele una particolare attenzione che non solo gli fa elevare, in qualche modo, la mente a Dio, ma lo porta anche a riflettere così seriamente sulle cose proposte alla sua considerazione e alla sua contemplazione che è indotto anche a trarne stimolo ad una vita migliore e alimento ad ogni forma di pietà. Infatti nulla vi è di più grande o di più meraviglioso di queste cose, che sono come il compendio della fede cristiana; che, con la loro luce e intima forza, sono state fonte di verità, di giustizia e di pace; che hanno segnato per il mondo un nuovo ordine di cose, ricco di frutti meravigliosi. – Si badi inoltre al modo con cui questi profondissimi Misteri sono presentati a chi reciti il Rosario: un modo cioè che ben si adatta alle menti anche dei semplici e dei meno istruiti. Il Rosario non ha di mira di farci scrutare i dogmi della fede e della dottrina cristiana, ma principalmente di porre quasi davanti al nostro sguardo e di richiamare alla nostra memoria dei fatti. Poiché i fatti che sono presentati quasi nelle stesse circostanze di luogo, di tempo e di persona, nelle quali avvennero, impressionano maggiormente l’animo e lo commuovono salutarmente. E poiché queste cose sono generalmente inculcate e scolpite negli animi fin dalla fanciullezza, ne consegue che, appena enunciato un Mistero, chiunque ha effettivamente amore alla preghiera, lo percorre senza nessuno sforzo di immaginazione, ma con moto spontaneo della mente e del cuore e, per l’aiuto di Maria, ne attinge in abbondanza una rugiada di grazie celesti. – Ma vi è un’altra ragione che rende le nostre corone più gradite e più meritorie al cospetto della Vergine. Quando con devoto ricordo ripetiamo il triplice ordine dei Misteri, noi veniamo a dimostrarle più chiaramente la nostra affettuosa riconoscenza; perché con ciò noi professiamo che mai ci saziamo di ricordare i benefici elargiti dalla sua inesauribile carità, per la nostra salvezza. Ora noi possiamo avere appena una vaga idea della gioia, sempre nuova, che il ricordo di questi grandiosi fatti, ripetuti con frequenza e con amore al suo cospetto, può infondere nel suo animo benedetto, muovendolo a sentimenti di sollecitudine e di generosità materna, Inoltre questi stessi ricordi fanno sì che le nostre preghiere diventino più ardenti ed efficaci: perché ogni Mistero che passa davanti al nostro pensiero ci fornisce un nuovo stimolo a pregare, quanto mai valido presso la Vergine. Sì, a te noi ricorriamo, santa Madre di Dio; e tu non disprezzare questi miseri figli di Eva! Te noi supplichiamo, o mediatrice potente e benigna della nostra salvezza, te noi scongiuriamo con tutta l’anima; per le soavi gioie ricevute dal Figlio Gesù; per la partecipazione ai suoi indicibili dolori, per lo splendore della sua gloria che in te si riflette. Orsù, ascoltaci, benché indegni, ed esaudiscici! – L’eccellenza del rosario mariano, messa in luce anche dalle due considerazioni, che or ora vi abbiamo esposto, vi dirà ancor più chiaramente, venerabili fratelli, perché non ci stanchiamo di inculcarlo e promuoverlo con ogni cura. Come abbiamo osservato da principio, la nostra epoca ha sempre più bisogno degli aiuti celesti; specialmente per le molte tribolazioni che soffre la Chiesa, avversata nel suo diritto e nella sua libertà; e poi per i molti pericoli che minacciano le basi stesse della prosperità e della pace dei popoli cristiani. Ebbene, ancora una volta dichiariamo solennemente che nel Rosario noi riponiamo le più grandi speranze di ottenere questi aiuti. Voglia Dio – è questo un Nostro ardente desiderio – che questa pratica di pietà riprenda dappertutto il suo antico posto di onore ! Nelle città e nei villaggi, nella famiglie e nelle officine, presso i nobili e i popolani il Rosario sia amato e venerato come il più nobile distintivo della professione cristiana e come il più valido aiuto a propiziarci la divina clemenza. – E poiché l’insensata perversità degli empi a tutto ormai ricorre – con l’inganno e con l’audacia – per provocare la collera divina e attirare sulla patria il peso di un giusto castigo, è necessario che la pia pratica del Rosario sia seguita con sempre maggiore impegno. Oltre a ciò tutti i buoni soffrono con Noi, perché nel seno stesso dei popoli Cattolici vi sono troppi che non contenti di godere delle offese comunque arrecate alla Religione, essi stessi, forti di un’incredibile licenza di propaganda, mostrano di non mirare ad altro che ad esporre al disprezzo e allo scherno della gente le cose più sante della Religione e la sperimentata sua fiducia nell’intercessione della Vergine. In questi ultimi mesi poi non si è risparmiata neppure l’augustissima persona di Gesù Cristo Salvatore. Non si è avuta vergogna di impadronirsene per le attrattive del palcoscenico, ormai troppo spesso contaminato di nefandezze, e di rappresentarvela spogliata della maestà della sua natura divina; senza la quale necessariamente crolla il fondamento stesso della Redenzione del genere umano. E si colmò l’onta quando si volle riabilitare dall’infamia dei secoli l’uomo reo della delittuosa perfidia che la storia ha bollato come la più abominevole e la più mostruosa: il traditore di Cristo. – Dinanzi a tali eccessi, commessi o in via di esserlo per le città d’Italia, si è levato un generale grido d’indignazione e un’energica protesta per la violazione dei sacrosanti diritti della Religione, in quella nazione che giustamente considera suo precipuo vanto l’essere Cattolica. Davanti a tali eccessi, com’era naturale, è insorta la vigilante premura dei Vescovi che hanno presentato giustissime recriminazioni a coloro che hanno l’inalienabile dovere di tutelare l’onore della Patria Religione; e non solo hanno avvisato i loro greggi della gravità del pericolo, ma li hanno esortati anche a speciali atti di riparazione dell’empia offesa lanciata contro l’amorosissimo Autore della nostra salvezza, Noi abbiamo immensamente apprezzato le molteplici e notevoli dimostrazioni di zelo, date dai buoni in queste circostanze, e ne abbiamo tratto un vivo conforto all’animo Nostro, profondamente ferito. Ma dato che abbiamo occasione di parlare, non possiamo soffocare la voce del Nostro altissimo ministero. E perciò parliamo, per aggiungere la Nostra più energica protesta a quelle già levate dai vescovi e dai fedeli, Ma mentre lamentiamo e detestiamo quel sacrilego misfatto, con lo stesso ardore del Nostro animo apostolico, rivolgiamo una calda esortazione a tutti i Cristiani, ma particolarmente agli Italiani, perché custodiscano intatta, difendano strenuamente e continuino ad alimentare con opere oneste e pie quella Fede avita che costituisce la loro più preziosa eredità. È questa una ragione di più, per cui Noi vivamente desideriamo che durante il mese di ottobre i singoli fedeli e le confraternite facciano a gara nell’onorare la grande Madre di Dio, la potente Ausiliatrice del Popolo Cristiano, la gloriosissima Regina del ciclo. Per parte Nostra, di gran cuore confermiamo i favori delle sante indulgenze, precedentemente concessi a questo proposito. – E Dio, venerabili fratelli, che “nella sua misericordiosa bontà ci dette una Mediatrice così potente”, “e volle che tutto ci venisse per le mani di Maria”, per la sua intercessione e il suo favore, accolga propizio i voti e appaghi le speranze di tutti. Come auspicio poi di questi beni, aggiungiamo di tutto cuore per voi, per il vostro clero e il vostro popolo l’Apostolica Benedizione.

Roma, presso S. Pietro, l’8 settembre 1894, diciassettesimo del Nostro pontificato.

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps CXXIX:3-4
Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.
[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]
Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.
[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio
Orémus.
Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.
[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses
Phil I: 6-11
“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, etin defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse.
Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XIX– Marietti ed. Torino 1899 – imprim.-]

“Ho fiducia che quegli il quale ha cominciato in voi l’opera buona, la compirà fino al giorno di Gesù Cristo. Siccome è giusto ch’io senta di tutti voi, perché io vi ho nel cuore, voi tutti che siete miei compagni nella grazia, così nelle mie catene come nella mia difesa e per la confermazione del Vangelo. Perché Iddio mi è testimonio con quanto affetto io vi ami tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E di questo vi prego, che la vostra carità abbondi di più in più in conoscenza ed in ogni sentimento: affinché discerniate le cose contrarie e siate schietti e senza inciampo per il giorno di Cristo, ripieni per Gesù Cristo del frutto di giustizia a gloria e lode di Dio „ (Ai Filippesi, capo I, vers. 6-11).

É questa la lezione della Epistola della corrente Domenica, che la Chiesa ha pigliato dal primo capo ai Filippesi. L’apostolo S. Paolo scrisse questa lettera da Roma tra il 60 e il 63 dell’era nostra, allorché vi era sostenuto in carcere la prima volta, sotto l’imperatore Nerone, come apparisce chiaramente dalla lettera stessa. Essa è indirizzata ai fedeli di Filippi, celebre città della Macedonia, oggidì miserabile villaggio. Fu in quella città che S. Paolo fondò la prima Chiesa cristiana (Atti Apost. XVI, 9-40) in Europa; Chiesa fiorentisma, che fu sì larga di conforti e di aiuti all’Apostolo prigioniero a Roma. È una delle lettere più affettuose scritte da S. Paolo, e che ci mostra come in lui si accoppiasse mirabilmente alla tempra adamantina dell’Apostolo la tenerezza d’un padre, e, direi quasi, di  una madre.  I versetti che vi ho riportati appartengono al proemio della lettera, e contengono i più lieti auguri spirituali. – Ed ora alla spiegazione. L’Apostolo, fatti, come suole in tutte le sue lettere, i più cordiali saluti ai fedeli, ai sacerdoti e diaconi (S. Paolo comincia tutte le sue lettere coi saluti, e spesso sono abbastanza diffusi. Una sola lettera fa eccezione, quella agli Ebrei. Della quale differenza si danno parecchie ragioni, che si leggono presso gli interpreti. S. Paolo qui saluta prima i fedeli, poi i vescovi e infine i diaconi o ministri. A Filippi v’erano forse molti Vescovi? Non pare. Ve ne poteva essere uno, e forse quell’uno, Epafrodito, discepolo dell’Apostolo, era assente. Sembra che a quel tempo il nome di Vescovo si desse anche ai semplici preti, e così intesa la cosa, il senso è piano. È bensì vero che questa interpretazione non è accolta da tutti; ma scioglie ogni difficoltà) che erano a Filippi, e assicuratili che serbava di loro tutti affettuosa memoria, dal primo dì ch’ebbero comune il Vangelo fino a quello in cui scrive, continuando gli auguri e le lodi da essi troppo bene meritate, dice: “Nutro fiducia che quegli il quale ha cominciata in voi l’opera buona, la compia fino al giorno di Gesù Cristo … Dopo le congratulazioni fatte ai Filippesi. che riguardano il passato, S. Paolo getta lo sguardo innanzi e sembra domandare a sè stesso: Come sarà per l’avvenire? Abbiamo cominciato felicemente, sta bene: saremo perseveranti nella fede e nella grazia ricevuta? — Risponde tosto: Ho fiducia che sì! — Ma in chi ripone egli la sua fiducia l’Apostolo? Negli uomini? nelle loro volontà sì mobili?, nelle loro forze sì deboli? nella propria vigilanza? Non mai! L’Apostolo la ripone in Dio, dicendo: “Nutro fiducia che Quegli il quale ha cominciata in voi l’opera buona, cioè la vostra conversione, la compirà fino al giorno di Gesù Cristo. „ Evidentemente quegli che ha cominciato è Dio, e Dio condurrà ogni cosa a termine felice. Voi comprendete, o carissimi, che in questa sentenza S. Paolo parla del principio e della fine della nostra santificazione: Cœpit… Perficiet parla del dono sì prezioso della chiamata alla fede, cœpit, e dell’altro non meno prezioso della perseveranza, perficiet. Su questi due punti capitali che cosa ci insegna la fede e che cosa dobbiamo fermamente tenere? Nessuno ha diritto per sé o può meritare il dono della fede: esso è un dono affatto superiore alla nostra natura ed alle nostre forze, e come l’occhio non può meritare la luce, né l’orecchio l’armonia, così l’uomo non può meritare la fede che è la prima e fondamentale di tutte e grazie. Ma questa grazia prima e fondamentale, Iddio, quanto è da sé, l’offre a tutti? Si, perché, per sua bontà, tutti vuol salvi, e non vuole che alcuno perisca; che se molti non la ricevono, non è da chiamarne in colpa Iddio, ma solamente la volontà degli uomini che non fanno ciò che potrebbero e dovrebbero per riceverla. E quando l’uomo ha ricevuto la fede, la grazia prima, ed è fatto figliuolo adottivo di Dio, per conservare questa grazia e perseverare in essa fino al termine della vita, ha bisogno d’un’altra grazia? Sì: e senza di essa certamente l’uomo non potrebbe perseverare. E questa grazia della perseveranza l’uomo la può rigorosamente meritare? No: ma Iddio, buono com’è, la concede certamente a tutti quelli che corrispondono alla sua grazia, che gliela domandano umilmente e che da sé fanno ciò che possono (Concilio di Trento, Sess. VI  c. 13). Dov’è l’uomo che cominci la fabbrica e non la voglia condurre a fine? Dov’è l’uomo che cominci un viaggio e non voglia finirlo? Come dunque Dio, sapientissimo, comincierebbe l’opera della nostra salute e non vorrebbe compirla? Come chiamarci alla fede e alla grazia e poi rifiutarci la perseveranza? No, no; Egli che ha cominciato, compirà l’opera: Qui cœpit in vobis opus bonum, perficiet. – Dilettissimi! Qual conforto! qual consolazione per noi! Iddio pietoso ha chiamato noi, tutti quanti siamo qui raccolti, alla fede: Egli dunque ha cominciato in noi l’opera sua, cioè la nostra santificazione: qual dubbio mai che non voglia altresì compirla? Qui cœpit… perficiet. Ma ricordiamo in pari tempo un’altra verità troppo necessaria, ed è questa: la nostra salvezza eterna dipende principalmente da Dio, dalla sua grazia che comincia, accompagna e compie, e perciò qui S. Paolo parla soltanto di Dio; ma essa dipende anche da noi in secondo luogo, e se noi veniamo meno dalla nostra parte, torna inutile altresì ciò che Dio fa dal lato suo. Dio, ponetevelo bene nell’animo, non fallirà mai, mai dalla parte sua: il suo concorso non farà mai difetto, ne siamo sicurissimi: quello che può far difetto è il concorso nostro, a talché, se noi ci perderemo, la causa, e causa unica, saremo noi. – “Dio compirà l’opera buona, così S. Paolo, fino al giorno di Gesù Cristo. „ Che giorno è questo? Forse quello della nostra morte, nel quale si decide la nostra sorte eterna e si compie il dono della perseveranza? Indubbiamente sarebbe vero il dire che alla nostra morte si compie la perseveranza; ma, secondo il linguaggio dei Libri santi, il giorno di Dio, o di Gesù Cristo, è il giorno finale, il giorno del gran giudizio, nel quale si conferma la sentenza pronunciata il giorno della morte, e nel quale con un premio o con una pena eterna si suggella la sorte irrevocabile d’ogni uomo. Parve ad alcuni che l’Apostolo, col ricordare la perseveranza legata al giorno del giudizio finale, volesse indicare essere vicinissimo quel gran giorno: ma nulla di più erroneo. L’Apostolo qui ricorda il giorno del giudizio, e non lo dice né vicino, né lontano; nella lettera seconda a quei di Tessalonica, li esorta a non smuoversi, né turbarsi, quasi  che quel giorno sia prossimo (capo II): che verrà quando lo si crederà meno, ripetendo presso a poco le stesse parole del Vangelo. Passiamo al versetto seguente. – “Siccome è giusto ch’io senta di tutti voi, perché vi ho nel cuore, voi tutti che siete miei compagni nella grazia, così nelle mie catene, come nella mia difesa, e per la confermazione del Vangelo. „ S. Paolo aveva sortito un alto ingegno, aveva avuto una istruzione elevata ai piedi di Gamaliele, quale si poteva avere a quei tempi e in quei luoghi [L’istruzione presso gli Ebrei si riduceva pressoché allo studio della Scrittura santa e in particolare del Pentateuco, che racchiude tutta la legge divina, civile, criminale, penale, ceremoniale, ecc. ecc. – Il popolo ebreo era un popolo eminentemente isolato dagli altri, e tale l’aveva formato Mosè per impedire, che cadesse nella idolatria. Per esso non vi è altra scienza che quella della sua legge e della sua storia nazionale, che si confondeva con la legge o rivelazione divina, che è la stessa cosa. Di ciò che esisteva fuori della nazione ebraica, arti, scienze, storia, lettere, ecc. ecc. l’ebreo non se ne occupava, anzi l’aveva in sospetto e quasi in orrore, come una idolatria. Più tardi, dopo la cattività babilonese e più ancora dopo la diffusione della civiltà greca in Oriente, questo orrore degli Ebrei di tutto ciò che era pagano, venne scemando e ne abbiamo una prova al tempo dei Maccabei e nei libri stessi ispirati di quell’epoca, nei quali si vede un cotal riflesso della scienza greca. Era una conseguenza naturale del movimento politico e scientifico di quel tempo e del contatto forzato che Israele aveva coi popoli vicini e con la civiltà greca e romana. Filone e Giuseppe Ebreo non sarebbero stati possibili due secoli prima. Paolo fu istruito da Gamaliele, e benché la sua istruzione fosse ristretta quasi tutta alla legge mosaica, secondo lo spirito dei farisei, gli intransigenti d’allora, pure ebbe qualche riverbero, qualche sprazzo della scienza e della cultura greca. (Vedi il Cardinal Meignan dove parla dei Maccabei, ecc. ecc.)], ma la sua conoscenza della lingua greca era molto imperfetta, come apparisce dalle lettere e come confessa egli stesso ai Corinti; si sente l’Ebreo che parla greco, e perciò lo stile è rotto, il periodo contorto, la parola e la struttura risentono la lingua ebraica e la difficoltà di rilevarne il senso più volte è grave assai, e ne abbiamo un saggio nel periodo che avete udito. In sostanza l’Apostolo, dopo aver detto che si tiene sicuro della perseveranza dei suoi Filippesi, mercé della grazia di Dio, afferma essere giusto che così pensi e dica, perché li ha in cuore: Eo quod habeam vos in corde. Noi pure spesso diciamo d’una persona che amiamo vivamente: io la tengo in cuore, la porto nel cuore, l’ho in cuore, e somiglianti espressioni. Siccome il cuore è lo strumento e la sede dell’amore,, così per esprimere che amiamo una persona, siamo soliti dire: l’ho in cuore. – “Voi persevererete nel Vangelo, così Paolo, lo spero; e mi è dolce sperarlo, perché vi amo: e come non vi amerei, mentre voi siete compagni della mia grazia, e mi siete larghi di aiuti nella mia carcerazione, nella difesa che sostengo per la professione del Vangelo? „ È da sapere che i buoni Filippesi, udita la prigionia di Paolo in Roma, si erano affrettati a mandargli Epafrodito per confortarlo e per soccorrerlo nei suoi bisogni. Quest’atto di amore e di tenerezza filiale aveva commosso l’Apostolo, ed ecco perché li chiama compagni e partecipi delle sue catene, della difesa e confermazione del Vangelo. L’amore fa sì che tanto le gioie come i dolori siano comuni tra le persone amate, e perciò rende necessario tra loro il soccorso vicendevole, e tutto questo in ragione dell’intensità dell’amore stesso; è questa una verità che non abbisogna di prova. L’amore tra i primi Cristiani era grandissimo, tantoché gli stessi gentili, additando i Cristiani e meravigliando, dicevano: vedete come questi Cristiani si amano! — Ecco perché le Chiese di Grecia, come attesta S. Paolo, mandavano soccorso alle Chiese di Palestina travagliate dalla fame: era il primo esempio di scambievole carità che il mondo pagano stupefatto vedeva. Greci che soccorrevano Giudei, dei quali ignoravano la lingua, i paesi, tutto, fuorché la fede e la carità, nella quale si sentivano fratelli! Ecco come popoli che non si conoscono, che sono divisi da monti, da mari, da interessi, da usi, da leggi, da memorie, in Cristo si stringono tra loro come fratelli e si aiutano scambievolmente! È il carattere del Cristianesimo: tutti i membri della Chiesa Cattolica, sparsi ai quattro angoli della terra, congiungono le loro menti in una sola fede, congiungono i loro cuori in una sola speranza e nella stessa carità verso Dio e verso il prossimo, e creano quella stupenda solidarietà, che è la sua gloria e la sua forza. Paolo geme nel carcere a Roma; con lui gemono i Cristiani di Filippi, di Corinto, di Tessalonica, di Efeso, di Gerusalemme; la Chiesa così forma un solo corpo, un solo cuore, e uno è per tutti e tutti per ciascuno. Questa ammirabile unione e solidarietà, che appariva nella Chiesa ai tempi di Paolo, apparisca anche in oggi: i fedeli stiano congiunti coi loro pastori, i pastori coi loro Vescovi, i Vescovi col Vescovo dei Vescovi : siano un solo corpo, comuni le tribolazioni, comuni i dolori, comuni le vittorie e i trionfi. “Poiché Iddio mi è testimonio con quanto affetto io vi ami tutti nelle viscere di Gesù Cristo. „ Non so dirvi come queste espressioni sì calde d’affetto e che si sentono traboccare dal cuore, mi ricerchino tutte le fibre dell’anima e mi commuovano! Mi raffiguro il santo Apostolo, quell’uomo della tempra d’acciaio, nel fondo del suo carcere, pallido, macilento, disfatto dalle veglie, dai digiuni, dai patimenti, curvo sotto il peso degli anni e dei pensieri, carico di catene, col patibolo sotto gli occhi; eppure, dimentico di sé, egli trova espressioni di affetto paterno e, quasi temesse che i suoi cari Filippesi ne dubitassero, invoca Dio a testimonio di ciò che dice: “Dio mi è testimonio con quanto affetto vi ami rutti — Testis enim mihi est Deus, quomodo cupiam omnes vos. „ Egli non distingue tra ricchi e poveri, tra istruiti e non istruiti: sono tutti suoi figli, tutti li abbraccia con lo stesso affetto, come fa un padre con i suoi figli: Omnes vos. E perchè li ama tutti egualmente? Perché non guarda alle loro doti e qualità personali, ma tutti li considera in Gesù Cristo: In visceribus Christi! Ecco la gran legge della vera carità. – Se voi guardate l’uomo come è in se stesso, non rare volte vi sentirete mossi, non ad amarlo, ma sì a respingerlo. Questi è coperto di cenci schifosi, di piaghe fetenti; quello è grossolano, rozzo, ignorante, non capisce nulla, senza cuore; un terzo è pieno di vizi, dedito all’ubriachezza, ozioso, iracondo, petulante, insolente; se noi seguitiamo la natura, come potremo amare questi infelici, ancorché sappiamo che sono fratelli nostri? Noi sentiamo ripugnanza ad avvicinarli, a parlare con loro, a toccarli. Così è; ma se pensiamo a Dio che li ha creati, a Gesù Cristo che li ha amati fino a morire per loro, e darsi loro in cibo; in una parola, se noi li riguardiamo nelle viscere di Gesù Cristo: In visceribus Jesu Christi, cioè li riguardiamo nell’amore di Gesù Cristo, noi non possiamo non amarli; o rinnegare Gesù Cristo, od amarli con Lui e per Lui. Ecco come si spiega l’eroismo dei santi e delle anime innamorate di Gesù Cristo, che passano i loro giorni negli ospedali, nei lazzaretti, negli orfanotrofi, nelle case del dolore, nelle missioni in remotissime e barbare contrade, consacrandosi al servizio degli infermi, alla istruzione degli ignoranti, senza nemmeno conoscerli, con la certezza di non trovare in essi nemmeno la gratitudine. Amano nelle viscere di Gesù Cristo: In visceribus Jesu Christi. Guardano solo a Gesù Cristo, e da Lui solo attendono la loro mercede. Ed è cosa consolante e che prova lo spirito della Chiesa essere sempre lo stesso, il vedere ai giorni nostri i Cattolici d’Europa che soccorrono le Chiese d’Oriente, le Missioni della Cina, gli orfanotrofi aperti in Africa, le scuole cristiane fondate in mezzo agli infedeli. Nella Chiesa Cattolica spariscono i confini delle nazioni e non apparisce che la grande famiglia dei figli di Dio. “Vi amo in Gesù Cristo, o Filippesi, esclama l’Apostolo, e perché vi amo, vi desidero, vi prego ogni bene. „ E qual bene nell’ardore della tua carità domandi tu, o Paolo, ai tuoi figli? “Che la vostra carità sempre più abbondi in conoscenza e in ogni buon sentimento. „ Quale carità? La carità vera, operata verso Dio e verso i fratelli; la carità che è compimento della legge e la regina di tutte le virtù; la carità che è congiunta alla scienza, in scientia, col conoscimento della verità e con il discernimento, ossia con la prudenza dell’operare. Giovi, poiché qui cade in acconcio, giovi rettificare qualche idea intorno alla carità, affinché non pigliamo abbaglio. Sembra che alcuni, udendo predicare e magnificare la carità, pensino ch’essa si riduca ad amare e beneficare indistintamente le persone tutte; che la carità per poco non badi alla verità, ed operi ad occhi chiusi. S. Paolo in questo luogo condanna siffatto pregiudizio, scrivendo: “La vostra carità cresca sempre più nella conoscenza e in ogni sentimento — In scientia et in omni sensu. ,, Tutti gli atti della nostra vita, anzi, tutti i pensieri, i desideri e le parole tutte, se siamo uomini, devono essere soggetti alla gran legge della ragione; se siamo Cristiani, alla legge della ragione e della fede: in altri termini, alla gran legge della verità. Essa, ed essa sola, è la guida d’ogni pensiero e d’ogni atto, e quello è bene che è conforme a verità, quello è male che alla verità non è conforme. Immaginare una virtù che non sia frutto della verità, è immaginare un bel colore senza luce, un bell’edificio senza ordine, un bel corpo senza la giusta proporzione delle varie membra. La verità è l’unica base della virtù, e per conseguenza anche della regina di tutte le virtù, che è la carità. Questa deve amare e operare secondo verità, e se esce dalla verità, e, peggio poi, se opera contro la verità, non è virtù, ma vizio. Il perché amare il prossimo, beneficare il prossimo perché vizioso, e col nostro amore e con la nostra beneficenza spingerlo maggiormente al vizio, o in esso raffermarlo; amare il prossimo e addormentarlo nell’errore per non recargli dispiacere, non è carità, ma offesa della carità, è un odiarlo; il medico che per amore dell’infermo gli risparmia la medicina amara, e non taglia il membro cancrenoso; il padre che per amore del figlio non lo corregge e non lo punisce, non amano, ma odiano l’infermo e il figlio. Nessuno ha avuto maggior carità di Gesù Cristo per gli uomini, per i quali diede la sua vita stessa; ma Egli non dissimulò i loro errori, non tacque le loro colpe, smascherò le loro passioni, non dubitò, al bisogno, di ferire anche il loro malinteso amor proprio per giovar loro: ecco la vera carità, la carità figlia della verità, congiunta alla scienza e alla prudenza, come S. Paolo la pregava ai suoi Filippesi: “La vostra carità abbondi sempre più nella conoscenza e in ogni sentimento. „ “Io prego Dio, così l’Apostolo, affinché la vostra carità sempre più abbondi insieme con la scienza e con la prudenza: „ e perché? “Perché discerniate le cose contrarie, „ ossia “distinguiate le vere e le buone dalle false e cattive, e quelle abbracciate e queste fuggiate. „ È una espressione che troviamo in un’altra lettera di S. Paolo (I ai Tessal., V, 21), dove scrive: “Mettete ogni cosa alla prova, e tenete ciò che è bene — Omnia probate, et quod bonum est tenete. „ Si accusa la nostra Religione di offendere e quasi distruggere i diritti della ragione; voi qui udite S. Paolo esortare i fedeli ad usare la ragione per distinguere il bene dal male, il meglio dal bene, il vero dal falso, ed a regolarsi col conoscimento e con ogni prudenza: Scientia et omni prudentia. Certo codesta prova la si vuol fare alla luce della fede, ma sempre con la ragione, perché questa, come quella, viene da Dio, e se sono inviolabili i diritti della fede, lo sono pure anche quelli della ragione, e se si offende Dio rigettando la prima, lo si offende anche col non rispettare la seconda. Noi rispetteremo l’una e l’altra, unendo e armonizzando tra loro il lume della fede e quello della ragione, perché entrambi, come vengono da Dio, così conducono a Dio, fonte di ogni verità. – Camminando dietro sì fida scorta, sarete trovati “sinceri o schietti, e senza inciampo per il giorno di Cristo, „ cioè netti, puri nella fede e mondi d’ogni macchia nel giorno del giudizio, nel quale apparirà l’opera di ciascuno. In questi pochi versetti due volte l’Apostolo ci riduce alla mente una delle più terribili verità della fede: il giudizio di Dio, e bene a ragione; perché la certezza che verrà giorno nel quale ogni nostro pensiero ed affetto, ogni nostra parola ed opera saranno disvelate agli occhi di tutto il mondo e giudicate da Dio, infallibile e inesorabile Retributore, ci riempie di un salutare timore e quasi ci costringe a provvedere a noi stessi, a fare noi qui di presente quel giudizio al quale non potremo sfuggire. “Giudicate voi stessi, così l’Apostolo in un altro luogo, e non sarete giudicati. „ Eccoci all’ultimo versetto: e così sarete “ripieni, per Gesù Cristo, del frutto di giustizia, a gloria e lode di Dio. „ Non basta essere mondi d’ogni macchia, ma fa mestieri essere ricchi del frutto di giustizia, che è quanto dire delle opere giuste e sante, senza delle quali la fede è morta. L’Apostolo ha cura di ricordarci un’altra verità, che per lui si ripete sì spesso, ed è che sì la fede come le opere della fede, i frutti di giustizia, si debbono sempre ripetere dalla grazia della quale Gesù Cristo è fonte: Per Jesum Chrìstum. E mentre tutto deriva a noi da Gesù Cristo, tutto poi è anche rivolto a lode e gloria di Dio, termine ultimo di tutte le opere sue e nostre. 

Graduale   
Ps CXXXII: 1-2
Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!
[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]
V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron. [È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps CXIII: 11
Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.
[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII:15-21
In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Om. XX.]

“I farisei, raccoltisi, tennero consiglio come potessero cogliere in parole Gesù; e gli mandarono i loro discepoli insieme con gli Erodiani, dicendo: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace e insegni la via di Dio con verità, e non ti curi di chicchessia, perché non guardi in faccia ad uomini. Dicci adunque ciò che ti pare: è egli lecito o no pagare il censo a Cesare? Ma Gesù, conoscendo la loro malvagità, disse: A che mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del Censo. Essi gli porsero un denaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa figura e questa scritta? Gli dissero: di Cesare. Allora Egli disse loro: Rendete adunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio „ (S. Matteo, XXII, 15-21).

Voi ora avete udito il Vangelo della odierna Domenica, che ci presenta un interesse tutto speciale, perché vi è annunciata una dottrina gravissima, e che tocca senza eccezione ogni persona. Il fatto che si narra in questo Vangelo, avvenne in Gerusalemme, nel tempio o piuttosto nell’atrio o sotto i portici del tempio, il martedì o al più tardi, il mercoledì che precedette la morte di Gesù Cristo. La spiegazione di queste poche sentenze del Vangelo ci domanda maggiore tempo del solito, e perciò è buona cosa farne tesoro e por tosto mano al nostro commento. – Gesù aveva recitata la parabola di quei crudeli vignaiuoli, i quali avevano bestialmente ucciso il figlio del padrone mandato ad esigere i frutti della vigna, e chiaramente fatto conoscere che Dio avrebbe rigettato Israele e chiamato al suo luogo un altro popolo. Quella parabola era chiarissima, e la terribile minaccia aveva ferito vivamente gli scribi e i farisei, i quali, come dice il Vangelo, avrebbero messe le mani sopra Gesù, se non avessero avuto timore del popolo che lo circondava e lo acclamava. Quegli scribi  e farisei tremavano sempre dinanzi al popolo (capo XXI). Che fecero essi? Udite. “I farisei, raccoltisi, tennero consiglio, come potessero cogliere in parole Gesù. „ È verissimo ciò che scrisse un valente filosofo, ragionando dell’uomo: “Egli, ora ci apparisce come un angelo, ed ora come un demonio. „ Vedete questi scribi e farisei: essi lo seguono da per tutto, studiano i suoi passi, scrutano tutte le sue parole, tutti i suoi atti; non hanno mai trovato in Lui colpa alcuna; una vita santissima, una dottrina ammirabile, dolce, paziente, disinteressato, tutto amore per i sofferenti, tutto zelo per la gloria di Dio, non fa male a nessuno, bene a tutti, segna il suo cammino con i miracoli. Che vogliono essi? Perché non uniscono le loro voci a quelle del popolo, salutandolo almeno uomo di Dio e profeta? No, essi lo odiano, perché la sua vita e la sua dottrina sono la condanna della loro. Essi si raccolgono a consiglio: a che fare? Forse per esaminare la dottrina di Cristo o i suoi miracoli, e per seguirlo se trovati veri? Forse per scrutare le profezie e vedere se si compiono in Cristo? No: si stringono a consiglio per trovar modo di coglierlo in fallo, e strappargli di bocca una parola e farne un capo di accusa contro di Lui: Ut caperent eum in sermone. Oh nequizia! Oh perversità di animo! Tendere il laccio, scavare la fossa al fratello! Ed erano uomini che meditavano sempre i Libri santi, che digiunavano, che si atteggiavano a zelatori della gloria di Dio e della sua legge! Tanto può, o cari, la passione allorché prende signoria nel cuore dell’uomo: non v’è delitto, a cui essa non lo sospinga, e gli esempi di tanta nequizia non mancano anche ai giorni nostri negli eredi dello spirito degli scribi e dei farisei. Ecco il consiglio a cui si appigliarono: “I farisei mandarono i loro discepoli con gli Erodiani a Gesù. „ Giova fermarci su queste parole del Vangelo. Chi fossero i farisei, ve lo dissi altra volta, ma qui è da por mente ad una cosa che mette in maggior rilievo la loro perfidia. I farisei, oltre essere gli uomini della rigida osservanza della legge, rappresentavano anche il partito nazionale giudaico, che odiava fieramente la dominazione romana ed aspettava l’ora della riscossa per rivendicarsi a libertà. Ed era questo loro patriottismo che dava ad essi grande influenza sul popolo. Gli Erodiani per contrario formavano il partito di Erode Antipa, re di Galilea, che a quei giorni era venuto in Gerusalemme per celebrarvi la Pasqua. Erode era il figlio di quell’Erode che uccise i bambini, e quello stesso che aveva messo a morte il Battista, straniero, amico dei Romani, e loro tributario. Naturalmente i partigiani di Erode, religiosamente e politicamente, erano affatto contrari ai farisei (Era naturale che gli Ebrei detestassero Erode il padre, e poi il figlio, Erode Antipa. Erano usurpatori e tiranni, pessimo poi tra i tiranni il primo, detto forse per ironia, il Grande. Ma non v’è tiranno che non abbia un partito, e l’ebbe anche Erode, come sappiamo dal Talmud. A capo del Sinedrio erano due grandi Rabbini, Hillel e Manahem: Manahem, guadagnato dall’oro, dall’ambizione o per altri mezzi, passò al servizio di Erode e fu seguito da ottanta principali splendidamente vestiti. Fu l’origine del partito detto degli Erodiani – Didon, vol. II, p. 189-.); eppure voi li vedete dimenticare il loro partito e le loro opposizioni, darsi la mano e ordire un intrigo contro Gesù. I partigiani risoluti della indipendenza nazionale e gli abbietti vassalli d’un re straniero, scettico, dissoluto e crudele, e tutto ligio agli oppressori della patria, farisei ed Erodiani fanno alleanza tra loro a danno di Gesù. La politica di tutti i secoli è sempre piena di queste colpevoli e vergognose alleanze! I discepoli dei farisei e gli Erodiani, dopo essersi intesi tra loro, si presentano a Gesù, e in atto umile, come di discepoli che ricorrono al maestro, desiderosi di essere illuminati e pronti a seguirlo in ogni cosa, gli propongono un caso di coscienza. Ma prima mandano innanzi una lunga e bugiarda lode per ingannarlo e tirarlo nel laccio, se fosse stato possibile. Sentite le melate parole di quegli ipocriti: “Maestro, noi sappiamo che sei verace. „ Lo chiamano maestro o dottore della legge, titolo onorevolissimo presso i Giudei; lo chiamano maestro, quasi volessero farsi suoi discepoli, mentre lo volevano disonorare e tradire! ” Sappiamo che sei verace; „ gli danno lode di un uomo schietto, sincero. Non basta, e aggiungono: ” Tu insegni la via di Dio con verità, „ cioè tu sei la guida sicura che ci scorgi e conduci a Dio, che ci metti sulla via della verità e del cielo. E non basta ancora: “Tu non ti curi di chicchessia, „ che voleva dire: Tu non temi né Cesare, né Erode, né principi, né popolo. “Tu non guardi in faccia a persona; „ ossia, tu ami la sola verità, non temi che Dio, non cerchi che di ammaestrare chi vuol conoscere la via sicura. Lode più ampia, più magnifica, voi lo vedete, non si poteva dare a Gesù Cristo e, se fosse stata sincera, grande doveva essere la mercede a chi la faceva. Ma sulle labbra di quegli uomini era una turpe menzogna, era un’arte scellerata per ingannare il divino Maestro; lo lodavano per eccitarlo a dire francamente ciò che essi volevano udire dalla sua bocca per aver buono in mano di accusarlo e perderlo, come tosto udrete. Vedendo tanta e sì sfacciata perfidia ed ipocrisia, noi siamo sdegnati e giustamente. Ma permettete che vi domandi: La menzogna, l’adulazione, la perfidia, l’ipocrisia, l’inganno, le arti del tradimento, sono forse sì rare anche presso di noi, che dobbiamo farne le meraviglie? A voi, o cari, la risposta. Abbominate tutte queste arti di sedurre e ingannare i fratelli, degne dei farisei e degli Erodiani. Mandate innanzi tutte queste ipocrite lodi, quei tristi tendono il laccio e dicono a Gesù: “Dicci adunque ciò che ti pare: è egli lecito o no pagare il censo a Cesare? „ Era difficile architettare una insidia più sottile e più pericolosa, e per conoscerne tutta la malizia, ponderate ciò che sono per dirvi. I Romani da cent’anni circa signoreggiavano i Giudei, mettendovi a governarli ora re e tetrarchi, ora proconsoli o governatori, come loro piaceva. I Giudei, e più ancora i Galilei, fremevano sotto questo dominio straniero: l’orgoglio nazionale e il sentimento religioso si sentivano umiliati e feriti da questa signoria pagana: aspettavano ansiosamente il tempo opportuno di spezzare l’odiato giogo, e ponevano le loro speranze nel futuro Messia. Gli scribi e i farisei e i sacerdoti erano l’anima di questo partito patriottico e religioso, che trent’anni appresso divampò in modo tremendo, provocando lo sterminio della nazione. Ogni Giudeo doveva pagare tra le altre una tassa personale annua d’un danaro, ottanta centesimi dei nostri. Era generale persuasione che non era lecito pagare quella tassa, perché ingiusta, trattandosi di stranieri usurpatori, e per giunta stranieri pagani. – Ora si poneva nettamente la questione dinanzi a Gesù Cristo, nell’atrio del tempio e circondato, com’è credibile, da gran folla: “Dicci, è lecito o no pagare il censo a Cesare (Si noti la domanda: È lecito o no pagare il censo a Cesare? Si usa la parola censo, perché essa stessa forestiera e in sommo grado odiosa al popolo.)? „ Gesù doveva rispondere con un sì o con un no reciso. Se rispondeva si, è dovere pagare il censo, in faccia agli Ebrei appariva nemico della indipendenza nazionale, partigiano e fautore degli stranieri, e per poco empio, perché si metteva dal lato dei pagani e perdeva necessariamente il favore del popolo; se rispondeva no, non è lecito pagare il censo a Cesare, lo accusavano presso il governatore romano, che risiedeva in Gerusalemme, e ne provocavano la condanna come di un ribelle all’autorità costituita (Sappiamo dal Vangelo che tra le altre accuse mosse a Gesù, d’innanzi a Pilato c’era pur questa: Egli vieta di pagare il tributo a Cesare. Era una calunnia, ma gli accusatori sapevano troppo bene la forza di questa accusa sull’animo del governatore romano. E dire ch’essi stessi tenevano  illecito pagare il tributo e ne facevano accusa a Gesù!); non poteva sfuggire al laccio, così pensavano quei miserabili: Egli deve chiarirsi o nemico della patria, o nemico dei Romani; nell’uno e nell’altro caso è perduto. Dal tutto insieme si fa manifesto che si aspettava da Gesù una risposta favorevole al partito nazionale: egli era galileo, e i Galilei non a torto passavano per ardenti patrioti: egli era l’amico del popolo, dei deboli, dei sofferenti: Egli si atteggiava a Messia, predicava un regno novello; pareva dunque cosa certa che avrebbe condannato il tributo, simbolo del servaggio allo straniero. Ma con poche parole fece cadere la maschera agli ipocriti, sfatò l’insidia, e stabilì per la prima volta la più stupenda dottrina sui rapporti tra le autorità civili e le sacre o religiose. – “Gesù, conoscendo la malvagità di coloro, disse: A che mi tentate, o ipocriti? „  Era un aspro ma troppo meritato rimprovero. Voi, fìngendovi uomini di coscienza delicata, pieni di timore di offendere Dio, di violare le leggi della religione, vorreste strapparmi di bocca tanto d’aver modo di accusarmi: col pretesto della religione voi mi tendete agguato: ipocriti e tentatori! Anzi tutto mostrò di leggere loro in cuore, e questo stesso rimprovero era un richiamarli a miglior consiglio. Poi disse loro: “Mostratemi la moneta del censo: essi gliela porsero. „ – Presso gli Ebrei due sorta di monete avevano corso, le une profane e romane, le altre sacre ed ebraiche. Le prime portavano l’immagine di Cesare o di qualche divinità pagana; le seconde non portavano figura alcuna, perché ciò era severamente proibito dalla legge mosaica (Deuter. IV, 16). Gli Ebrei, specialmente nel pagare il tributo per il tempio, e in tutti gli usi sacri, doveano usare le loro monete: nelle cose profane, e particolarmente nel pagare il tributo all’imperatore, dovevano usare le monete pagane, portanti l’immagine dei Cesari, come dissi, o dei Numi. Ecco perché Gesù disse: “Mostratemi la moneta del censo, „ cioè quella moneta con cui pagate il censo a Cesare. Probabilmente farisei non ne avevano addosso, perché anche il solo portare quelle monete doveva sembrare alle tenere loro coscienze una brutta idolatria; ma ne dovevano portar seco gli Erodiani, che non pativano siffatti scrupoli, o certo la si poté avere lì vicino nel cortile dei Gentili, dove per comodo dei devoti sedevano a banco i cambiavalute per cambiare le monete giudaiche in romane. Fu dunque portata a Gesù la moneta del censo: Egli, avutala in mano, si rivolse a’ suoi interrogatori, e tenendola, com’è naturale, nella palma della mano sinistra, e con l’indice nella destra segnandola, disse: “Di chi è questa immagine e questa scritta (L’immagine doveva essere quella di Cesare Augusto o di Tiberio, e la scritta intorno doveva essere la solita: Divo Tiberio Cæsari, ecc.)? Gli rispondono: Di Cesare. Ebbene, riprese Gesù: Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. „ Badate che Gesù non disse: “Date a Cesare ciò che è di Cesare. E a Dio ciò che è di Dio, „ ma disse: Rendete, ossia restituite a Cesare ciò che avete ricevuto da Cesare, e a Dio ciò che avete ricevuto da Dio. Questa moneta l’avete da Cesare; è dunque giusto che, in parte almeno, la rendiate a lui stesso per i bisogni comuni e per i servigi che presta. Eccoci a quella famosa sentenza del Salvatore, che non può essere più chiara e più profonda, e che nondimeno fu citata e si cita tuttora in vari sensi dai propugnatori dei diritti della Chiesa e dei diritti dello Stato. Prima di entrare nella spiegazione di questa sentenza non vi sia grave por mente ad una osservazione, che reputo importante al giorno d’oggi. I Romani imperavano nella Giudea; erano stranieri, e il loro diritto era quello dei conquistatori. Il loro potere sovrano era esso legittimo? Era solo di fatto, e per consefuenza illegittimo ed usurpatore? Gesù non entra nella spinosa questione, né mai vi entrò in tutta la sua predicazione; e sì che non gli mancarono le occasioni di parlarne, e con una parola poteva troncare ogni litigio. Egli costantemente, con le parole e con le opere, si restrinse a stabilire ed inculcare il rispetto e l’ubbidienza alle autorità costituite, senza toccare neppure da lungi, la legittimità o illegittimità della loro origine. Grande esempio da imitare, lasciatoci dal divino Maestro, che non dovremmo mai dimenticare, e che, seguito fedelmente, cesserebbe ogni confusione. Per i pagani ed anche, fino ad un certo punto, per gli Erodiani, ogni potere si concentrava in Cesare e nel loro re: Cesare era l’imperatore ed il pontefice: il potere sommo, assoluto, civile, e il poter sommo, assoluto, religioso erano raccolti entrambi nelle sue mani, e non era tenuto renderne conto a chicchessia. Di questo mostruoso concentramento del potere assoluto religioso in chi ha il potere civile, ce ne rimane un’idea nel musulmanismo, dove il sultano è tutto. Gesù Cristo, nella sua risposta, implicitamente ma chiaramente, afferma che non è tutto di Cesare, come non vi è solo il poter di Cesare; che vi è la parte di Dio, come vi è anche il poter di Dio, e che l’uomo deve rendere a Cesare ciò che spetta a Cesare, e a Dio ciò che spetta a Dio. Vi sono adunque due poteri tra loro distinti, sebbene subordinati, che hanno diritti distinti, e verso dei quali abbiamo doveri distinti, e che si vogliono riconoscere e osservare, e ciò per volontà espressa di Gesù Cristo, il potere di Cesare e il potere di Dio. L’uno e l’altro vengono da Dio, come da Dio vengono il corpo e l’anima nostra, ma in modo diverso, e diversa è la loro natura e la loro eccellenza, e diverso il loro fine. Per ragione del corpo, dei suoi bisogni, della sua vita esterna, del suo benessere, della sua sicurezza, l’uomo prima di tutto dipendente da Dio, necessariamente si lega anche al suo paese, al potere di Cesare, all’autorità civile; per ragione dell’anima, della sua coscienza, dei bisogni dello spirito e delle sue aspirazioni, si lega ad un altro paese, al cielo, al potere di Dio, all’autorità della  Chiesa, che quaggiù lo rappresenta. Ciascuno di noi, entrando in questo mondo, cade necessariamente sotto questi due poteri, che non si potranno mai confondere tra loro, come non si confondono tra loro l’anima ed il corpo, e nemmeno opporsi tra loro, se non per ignoranza o malizia degli uomini. Qual è il campo, in cui si svolge il potere di Cesare, o l’autorità civile? Suo fine ed ufficio è quello di concorrere a conservare, difendere, sviluppare la vita del corpo: è quello di tutelare i diritti di ciascuno nella famiglia e nella società, i diritti sulle persone e sulle sostanze; di raffrenare e rendere impotenti i tristi, di assicurare i deboli, di far sì che ciascun cittadino si mantenga entro i limiti dei suoi diritti e non invada quelli degli altri: suo fine ed ufficio è quello di concorrere a sviluppare le ricchezze del paese, sia col proteggere e favorire l’agricoltura, prima base d’ogni ricchezza, sia con lo svolgere le forze dell’industria e del commercio, agevolando le vie di terra e di mare; suo fine ed ufficio è quello di difendere il Paese contro i nemici interni ed esterni, mantenendo la pace e la giustizia; in breve, suo fine ed ufficio è quello di procurare a tutti i cittadini la felicità temporale quaggiù possibile, felicità che è inseparabile dal conoscimento della verità, dall’osservanza della giustizia, dalla pratica della virtù e dalla guerra all’errore, all’ingiustizia ed al vizio. Ora, per raggiungere questo fine altissimo e sì svariato, il potere civile ha bisogno di mezzi, che sono la forza pubblica e il danaro necessario, e perciò ha diritto e dovere di aver quella e questo nella giusta misura. Ecco perché Cristo, tenendo in mano la moneta del censo dovuto, disse: “Rendete a Cesare ciò che è dovuto a Cesare, „ cioè, pagate il tributo, senza del quale egli non potrebbe adempire il suo ufficio e mantenere l’ordine pubblico, e la società andrebbe tutta sossopra. Qual è il campo, in cui si svolge il potere sacro e religioso che risiede nella Chiesa e nel suo Capo supremo? Suo fine ed ufficio primario è quello di deporre in ogni anima il germe della vita divina, di conservarlo, difenderlo e svilupparlo nell’individuo, nella famiglia e nella società; il che essa ottiene con la istruzione, che risponde ai bisogni di ciascuno e di tutti; con la amministrazione dei Sacramenti, con l’azione del suo governo e delle sue leggi, che dal Capo supremo si spande nei capi subalterni, i Vescovi, i parroci, i sacerdoti , e giù giù sino ai semplici fedeli. Suo fine ed ufficio è di tener lontani dai suoi figli l’errore ed il vizio, di mantenere i diritti della verità e della virtù, e di condurli alla felicità eterna. Fine poi secondario della Chiesa è di sorvegliare ed impedire che Cesare venga meno, e peggio abusi del potere che ha in ordine al corpo. Ora, per conseguire questo fine nobilissimo e santissimo, il potere sacro e religioso ha bisogno di avere gli strumenti necessari che sono il sacerdozio secolare e regolare, le istituzioni svariatissime per l’istruzione, per il culto pubblico, i templi, mezzi materiali per procurarsi questi strumenti necessari; ha bisogno sopratutto di libertà stabile ed ampia per esplicare tutte le sue forze a santificazione degli uomini. Ecco ciò che Gesù Cristo intese dire nella seconda parte della sua sentenza: “Rendete a Dio ciò che spetta a Dio. „ Due sorta di monete, come dissi, avevano corso presso gli Ebrei, l’una profana, l’altra sacra; l’una simboleggiava il diritto terreno e politico, l’altra rappresentava il diritto celeste e divino; quella, il tributo che si doveva a Cesare, l’altra il tributo che si pagava al tempio, a Dio. Paghiamo fedelmente l’uno e l’altro tributo, ed avremo adempito ogni nostro dovere. Coloro che esercitano questi due poteri, dai quali dipendono la pace, la prosperità, la felicità del tempo e della eternità, devono porre ogni studio in cessare qualunque urto tra loro e nell’armonizzare le loro leggi e la loro azione, per guisa che scambievolmente si aiutino. E poiché il poter sacro e religioso, per ragione del fine e dei mezzi, di gran lunga sovrasta al poter civile, e dall’appoggio di quello il civile riceve grandissimo vantaggio, così è del suo interesse non solo non attraversarne l’opera ma, almeno indirettamente, aiutarla. Il potere civile non ha nulla a temere dal potere sacro e religioso, dal quale non può ricevere che benefizi e guarentigie più sicure di progresso e di tranquillità, intimando questo a tutti in nome di Dio e per dovere di coscienza quelle parole: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare. „ La Chiesa, o cari, non bada a chi regge questo o quello Stato, né alla forma di governo che assume, se il potere sia in mano d’un solo o di molti, se sia dato a vita o a tempo, se sia assoluto o temperato, se sia elettivo od ereditario, se sia monarchico o repubblicano, se appartenga a questa o quella dinastia. La Chiesa non è di questo o quel secolo, non è di questo o quel popolo, di questa o quella nazione; essa è di tutti i secoli, di tutti i popoli, di tutte le nazioni, perché deve durare fino al termine dei tempi, deve raccogliere sotto le sue tende tutte le genti, anche tra loro diversissime di lingua, di usi, di carattere, di tendenze, di cultura. Essa pertanto non può legarsi né a monarchie, né a costituzioni, né a repubbliche, né a re, né ad imperatori come tali; essa tien fisso lo sguardo in alto, in cielo, meta suprema del suo cammino attraverso alle vicende della terra, non respinge nessuna mano che le si offra, accetta il concorso di tutti gli uomini di buona volontà, non impone nessuna forma di governo, non domanda, per sé parlando, a nessun principe, a nessuna repubblica, l’atto autentico di sua origine legittima e rispetta tutti i diritti. Una cosa sovra tutte le altre esige, d’avere libero il cammino, grata a tutti quelli che l’aiutano, quand’anche non avessero la fede ch’essa annuncia e custodisce inviolata a costo del suo sangue. – E se un potere qualunque si leva sul suo cammino, cerca di impedirle il passaggio, la molestia, la insidia? Essa allora, a nome di Dio e delle coscienze offese, protesta, mette in salvo i suoi diritti, aspetta paziente, ed usa dei mezzi che sono in sua mano e che reputa utili e necessari per difendersi, e i suoi figli la seguono, ricordevoli che vi sono casi nei quali bisogna ubbidire a Dio più che agli uomini, e ripongono ogni loro fiducia in quella Provvidenza che veglia amorosa su tutti, e particolarmente sulla Chiesa. Questa non la si vide, né la si vedrà mai gettarsi sulle vie e sulle piazze e agitare le turbe contro i poteri costituiti, ancorché abusanti dei loro diritti; non si udrà mai dalle sue labbra una parola, che accenni a passionata rivolta contro l’autorità. Essa batte la via, sulla quale l’ha preceduta il suo capo e sposo divino Gesù Cristo. Egli, salvi i diritti del suo Eterno Padre, volle sottoporsi alle leggi del suo paese ed a quelle dell’Autorità romana; se i capi religiosi della sua patria lo insidiano e perseguitano, risponde o tace, o si ritira contristato; Egli paga il tributo per sé e per Pietro; Egli non si mischiò mai una sola volta in questioni politiche; se le turbe a forza lo vogliono rapire e proclamar re quando ed in modo che non si doveva, destramente si sottrae e fugge; se è condotto dinanzi a Pilato, riconosce in lui l’autorità che viene dall’alto. Gli Apostoli, proclamando però che si deve ubbidire a Dio più che agli uomini, continuano sulla stessa via, e affermano che ogni potere viene da Dio, che bisogna ubbidire non solo per timore, ma per dovere di coscienza, e che chi resiste al potere, resiste a Dio stesso; che bisogna rendere onore al re, pagare i tributi; anzi, che bisogna pregare per i re, affinché abbiamo quieto e tranquillo vivere, e questi re, per i quali bisogna pregare, sono gli imperatori romani, sono Claudio e Nerone, sotto il ferro del quale cadranno Pietro e Paolo, i principi degli Apostoli. È questa la regia via, sulla quale la Chiesa, dopo Gesù Cristo e gli Apostoli, cammina e camminerà mai sempre nei suoi rapporti con le podestà della terra. Vi domando, o cari, vi può essere dottrina di questa più semplice, più conforme ai principi di onesta libertà, di autorità, di pubblico bene e di ordine sociale? Le podestà della terra, allorché l’avranno debitamente conosciuta, potranno ancora ragionevolmente diffidare della Chiesa, sorvegliarla, crearle impacci e combatterla come nemica? Sarebbe un diffidare della madre comune, un sorvegliare e creare impacci ad una fedele amica, sarebbe un combattere la migliore alleata. Ancora alcune riflessioni sull’ultima parte della sentenza di Cristo: “Rendete a Dio ciò che è di Dio, „ e chiuderemo la nostra omelia. – Debbiamo rendere a Dio ciò che è di Dio; ebbene, che è ciò che è di Dio? Non ho che una risposta da dare, ed è questa: Tutto quel che siamo noi, nell’anima e nel corpo: tutto quel che abbiamo fuori di noi, o possiamo avere, tutto è di Dio. V’è, o cari, una sola cosa sulla terra od in cielo, dentro o fuori di noi, nell’anima o nel corpo, al presente o nell’avvenire, che non sia creata e conservata da Dio? No; tutto è da Lui, grida il grande Apostolo, tutto è per Lui, tutto è in Lui; tutto adunque deve essere reso a Dio, che ne è unico e perfetto padrone, e se noi ci riteniamo un solo atomo come nostro, noi siamo servi infedeli, noi siamo usurpatori e ladri di ciò che spetta a Dio. Ma direte: se tutto è di Dio, e tutto a Lui deve essere fedelmente restituito, come mai Gesù Cristo disse che vi sono cose, che dobbiamo rendere anche a Cesare, ed io aggiungo, che dobbiamo rendere ad ogni autorità, ai genitori, agli amici, ai benefattori, ai figli, ai ricchi, ai poveri, a tutti, a noi stessi ? La risposta è facilissima: Tutto ciò che noi rendiamo a Cesare, ad ogni autorità, ai genitori, agli amici, ai benefattori, ai figli, ai ricchi e ai poveri, a noi stessi, a tutti, se è secondo verità e giustizia, è reso a Dio stesso, che così vuole e comanda. E qui ammirate sapienza e bontà di Dio, il Quale ha per reso a sé, quello che facciamo per gli altri, allorché Egli con le leggi sue di natura o di grazia così dispone: per tal modo tutto si e leva e si nobilita, e l’opera fatta per gli uomini e per le creature, apparisce fatta per Iddio e per il Creatore, principio e fine d’ogni cosa. Tutte le creature, le massime come le minime, sono opere di Dio; sono figlie della sua mente, lavoro della sua mano onnipotente, e perciò tutte e ciascuna, senza eccezione, portano scolpita in se stesse l’immagine di Dio: per non averla o distruggerla esse dovrebbero cessare di esistere, e Dio dovrebbe cessare di crearle e conservarle. Quanto più codeste creature si elevano per natura, più bella risplende in esse l’immagine divina, e perciò nell’uomo e nell’Angelo, essa rifulge senza confronto più splendida e gloriosa che nell’albero, nell’uccello e nell’animale. Nell’uomo poi e nell’Angelo Iddio, oltre l’immagine naturale che ha impresso come Creatore, vi ha aggiunto un’altra immagine incomparabilmente più luminosa, che riflette più viva la bellezza divina, mediante la grazia. Come la moneta del censo mostrava scolpita l’immagine di Cesare, onde Cristo, additandola, disse: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, „ così ogni creatura che ne circonda, e sopra tutto l’anima nostra, creata da Dio, e da Gesù Cristo rifatta ed ineffabilmente abbellita, riverbera l’immagine di Dio, e nel suo linguaggio dice: Sono di Dio, appartengo a Gesù Cristo. — Su dunque, siamo giusti e paghiamo a Dio e a Gesù Cristo il tributo dovutogli, rendiamogli ciò che è suo. Ma badate bene: l’immagine di Dio e di Gesù Cristo non alterata o svisata; fate che sia intatta, affinché Egli la riconosca per sua e ne venga gloria a Lui e a noi. “Rendete, così Tertulliano, rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e ciò che è di Dio, a Dio: cioè rendete a Cesare l’immagine di Cesare, che è effigiata sulla moneta, e l’immagine di Dio a Dio che è nell’uomo, in guisa, che tu renda il danaro a Cesare, a Dio te stesso. „ [De Idololat. C. 15] Sventura a voi, fratelli miei, se alteraste in voi stessi l’immagine di Dio! Sareste rei di lesa Maestà divina!

Credo…

Offertorium
Orémus
Esth XIV:12; 14:13
Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis.
[Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta
Da, miséricors Deus: ut hæc salutáris oblátio et a própriis nos reátibus indesinénter expédiat, et ab ómnibus tueátur advérsis. [offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia. ]

Communio
Ps XVI:6
Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.
[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole. ]

Postcommunio
Orémus.
Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium:
[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXIII)

 

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXXIII.

IL BATTESIMO E LA CRESIMA.

Perché amministrare il Battesimo ai bambini? — Non sarebbe meglio lasciar libero ognuno da qualsiasi religione tino ad un’età discreta? — Per lo meno non si dovrebbe interrogare ad una certa età il battezzato, se intende ratificare il suo battesimo — Perché non amministrarlo ai bambini degl’infedeli all’insaputa dei loro parenti? — La Cresima.

— Ed ora avrei da farle alcune domande riguardo ad alcuni sacramenti in particolare. – Ma le dirò senz’altro, che le farò soltanto quelle, per le quali mi interessa avere una risposta o sciolta qualche difficoltà. Ad esempio riguardo al Battesimo so benissimo che oltre al sacerdote lo può amministrare in caso di necessità qualunque persona, anche un eretico od un infedele, e so che si amministra versando l’acqua sopra il capo, e se non si può sul capo, su qualche altra parte principale del corpo di chi si deve battezzare, dicendo nel medesimo tempo queste parole : « io TI BATTEZZO N EL NOME DEL PADRE, E DEL FIGLIUOLO E DELLO SPIRITO SANTO »: e avendo l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa nel battezzare. So che il Battesimo qualora non si possa ricevere può essere supplito dal martirio, oppure da un atto perfetto d’amor di Dio o di contrizione, congiunto col desiderio del Sacramento. Bicordo che m’ha insegnato che i bambini, che muoiono dopo aver ricevuto il Battesimo e prima di arrivare all’uso della ragione, se ne vanno diritti in paradiso, eccetera, eccetera. Ma ciò che non posso capire si è ciò appunto, che si facciano battezzare i bambini, che sono inconsci di ciò che ricevono e delle obbligazioni che per tal Sacramento contraggono. A me pare, che sarebbe meglio assai lasciarli crescere sino ai sedici o diciassette anni, affinché possano allora scegliere da sé la religione, che loro più piace.

Ascolta, caro amico. Se essendo tu bambino ci fosse chi avesse fatto testamento di lasciarti una grande eredità, ti parrebbe bene che i tuoi genitori a nome tuo l’accettassero senza punto aspettare che tu sia arrivato all’età di sedici o diciassette anni, perché temerebbero che, non accettandola tosto, tu l’avessi a perdere?

— Senza alcun dubbio farebbero benissimo; e se io sapessi che, essendovi alcuno che me l’avesse lasciata, essi non l’avessero accettata con tale pretesto di aspettare il mio beneplacito, io mi lamenterei di loro,

Benissimo. Ecco dunque quello che succede nel far amministrare il Battesimo ai bambini, ancorché siano inconsci: si procaccia loro il massimo dei benefizi, che è quello di farli entrare nel novero dei figli di Dio e della Chiesa, dei fratelli di Gesù Cristo e degli eredi del paradiso.

— Ciò è verissimo. Ma tuttavia per tal modo si sottopongono altresì, a loro insaputa, alle leggi del Cristianesimo.

Sì, senza dubbio. Ma a queste leggi non è forse tenuto ogni uomo che venga al mondo? Forse che coloro, che non sono Cristiani, sono perciò irresponsabili del male, che essi commettono per lo meno contro a quelle leggi di natura, che impongono a tutti, alla fin fine, di vivere in conformità alla legge divina? Ed anche non accettando tali leggi a nome del bambino che si battezza, ne resterà, egli forse in seguito dispensato?

— Veramente io non avevo mai fatte queste considerazioni. Eppure quante volte ho inteso a dire che sarebbe meglio lasciar libero ogni individuo da ogni religione fino a quella età dei sedici o diciassette anni, affinché a quell’età si decida egli di essere o cattolico, o protestante, o ebreo, o buddista od anche senza religione. Ho inteso persino dei padri di famiglia a vantarsi, che essi fanno così coi figli loro!

Purtroppo è vero, che vi hanno di coloro che tengono queste idee (che furono messe in mostra attraente da quel sofista che è Gian Giacomo Rousseau), e si regolano in conformità alle medesime. Intanto che succede? Che fino a quell’età il giovane mena la vita dell’animale che mangia l’erba del prato, senza sapere né chi egli sia, né donde venga, né a che fare sia posto su questa terra. Succede che il giovane comincia a prendere una cattiva piega, massime tra gl’incentivi delle passioni e gli ammaestramenti del mondo, e a quell’età anziché abbracciare la fede cattolica risolverà di continuare a vivere nella incredulità e a camminare per la strada della perdizione. Succede che se egli muore prima di essersi deciso a ricevere il Battesimo e a vivere in conformità al medesimo, se ne andrà irreparabilmente perduto. Ecco a che giovano i sistemi dei liberi pensatori, a creare una razza malsana e perversa o a far dei dannati all’inferno!

— Ma pure la Chiesa in qualcuno dei secoli non differiva il Battesimo ad età avanzata?

Pur troppo vi fu in qualche secolo, specialmente nel IV e nel V, questo abuso famiglie di aspettare a far amministrare il Battesimo ai figliuoli quando fossero già adulti, ma questo abuso la Chiesa non lo ha mai voluto, lo ha sempre riprovato e combattuto fino a farlo scomparire.

— Ad ogni modo non andrebbe bene che ad ogni bambino battezzato, giunto che sia all’uso della ragione, si domandasse se intende, sì o no, ratificare le promesse fatte per lui al Battesimo dai suoi padrini?

Mente affatto. E prima di tutto perché è contrario all’insegnamento della Chiesa, che nel concilio di Trento pronuncia l’anatema contro chi così asserisse. E poi perché ciò è contro allo stesso buon senso comune. Chiunque entra in una società per godere dei benefìci d’esserne membro, deve pure assumerne i pesi. Dimmi un po’, si domanda forse al bambino, giunto all’uso di ragione, se vuole sottoporsi alle leggi della società civile, nella quale nascendo, egli entrò? No, mai più, perché egli è obbligato queste leggi dal momento stesso che prese a far parte della società. Così deve essere per il battezzato: dal momento che egli per il Battesimo ha ricevuto la fede ed è entrato nella società religiosa della Chiesa, come ha acquistato il diritto a’ suoi benefizi, così ha contratto l’obbligo delle sue leggi, epperò non potendo egli ricusarlo senza venir meno al suo dovere, non è neppure da domandargli se intenda di tenerlo o no.

— Se è così non andrebbe bene battezzare più che sia possibile i bambini degli ebrei, dei turchi, degli infedeli anche all’insaputa e contro la volontà dei loro genitori.

Ah! questo no. La Chiesa come non battezza gli adulti infedeli, che non vogliono saperne del Battesimo, così rispetta la loro volontà sopra i loro bambini. « Il diritto naturale, dice S. Tommaso, colloca questi bambini sotto la tutela dei loro genitori fino a che essi possano essere padroni di sé. Il battezzarli contro loro volontà è un offendere la giustizia, come il battezzare un adulto suo malgrado. Di più: è un esporre la loro fede a cadere nelle terribili tentazioni dell’amor figliale, che un giorno deve svegliarsi nel loro cuore. Perciò è uso della Chiesa di non opporsi in questo alla volontà dei genitori ».

— E se qualche bambino infedele o giudeo fosse battezzato all’insaputa e contro la volontà dei genitori, il Battesimo allora sarebbe valido?

In questo caso sì, benché il Battesimo sia stato amministrato illecitamente. E allora la Chiesa può far valere, quanto le è possibile, i suoi diritti, perché quel battezzato eviti il pericolo dell’apostasia. Vi sono anzi dei casi, in cui il Battesimo non solo è valido, ma anche lecito. Quando uno dei parenti si converte alla fede e domanda che si battezzino i suoi figli, il suo diritto prevale su quello del suo consorte, e si può non tener conto della opposizione di quest’ultimo, purché questa opposizione non minacci di rovesciare l’ordine della famiglia. Così pure i parenti, che abbandonano i loro figli, perdono su di essi il loro diritto, e non si fa ad essi ingiuria provvedendo alla salute dei loro figli abbandonati. Infine è certo che un bambino infedele, in pericolo di morte, può essere battezzato anche all’insaputa de’ suoi genitori, perché in tal caso non vi è pericolo per la fede, né ingiuria all’autorità dei parenti, che cessa col cessare della vita del bambino.

— Intorno al Battesimo non ho più nulla da domandarle. Passo perciò al Sacramento della Cresima pregandola di dirmi soltanto quando fu istituito da Gesù Cristo?

Il Vangelo non lo dice: ma la Chiesa, appoggiata alla tradizione, ha sempre creduto a questo Sacramento come istituito al pari degli altri da Gesù Cristo. Di esso negli Atti Apostolici si legge che gli Apostoli imponevano le mani ai battezzati, pregavano sopra di loro e questi ricevevano lo Spirito Santo.

— È vero che oltre il Vescovo può amministrare la Cresima anche un semplice sacerdote?

Sì, ma con la delegazione esplicita della Santa Sede, la quale fin dalla più remota antichità ha usato di conferire tale delegazione per speciali ragioni e necessità. Tuttavia senza la delegazione della Santa Sede la Cresima data da un semplice sacerdote non sarebbe né lecita, né valida.

— Ma mi pare che i preti greci, anche quelli uniti alla Chiesa Cattolica, diano subito

la Cresima ai bambini dopo il Battesimo; e questa è valida?

Sì, perché così fanno colla facoltà esplicita della Santa Sede, o almeno col tacito riconoscimento che Essa fa di tale facoltà.

— E per ora basta, e la ringrazio.

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (34): GNOSI ED UMANESIMO – 3 –

GNOSI, TEOLOGIA DI Satana (34)

Gnosi ed UMANESIMO -3-

[Elaborato da: É Couvert: La gnose contre la foi, Ed. de Chiré, 1989]

ALCUNI UMANISTI:

A) Cornelio Agrippa

Cornelio Agrippa di Mettersheim (nato a Colonia nel 1486, morto a Grenoble nel 1533), è un buon esempio di umanista. Egli fu iniziato alla kabbala e all’occultismo dall’abate Giovanni Tritemio (Johann Trithémius). Quest’ultimo a sua volta è il tipo perfetto del prete “modernista” novus-ordo ante litteram. Egli aveva raggruppato attorno a lui i suoi discepoli a Wuzburg, fu il maestro di Paracelso, che era stato anch’egli iniziato alla magia. Cornelio Agrippa compone già all’età di 25 anni un libro sulla filosofia occulta, impregnata di kabbala giudaica; insegna l’alta teologia annunciando agli “eletti” i segreti del Vangelo. Sull’esempio di Tritemio, attacca violentemente i monaci. Nel 1509 si reca a Dole, ove viene aggregato come membro dell’Accademia e da inizio a delle lezioni pubbliche sul trattato di Reuchlin “De Verbo Mirifico”, in cui Reuchlin riuniva le dottrine della Kabbala e di Pitagora. Recandosi a Dole, nella contea di Bourgogne, spera di guadagnarsi la benevolenza di Marherita d’Austria. Scrive a questo scopo un discorso sul « La nobiltà ed eccellenza del sesso femminile » e glielo dedica, dandolo alla stampa nel 1529: « L’uomo, scrive, è Adamo, è la natura, la carne, la materia. La donna è Eva, la vita, l’anima, il misterioso tetragramma dell’ineffabile onnipotenza divina. La donna ebbe per culla il Paradiso, l’uomo vide il giorno in mezzo ai bruti. La donna è superiore all’uomo, sia per spirito che per bellezza, questo riflesso della divinità, questo raggio di luce celeste, ancor più la donna è Dio stesso… » Si riconoscono, sotto queste enormi ed assurde adulazioni, delle nozioni certamente gnostiche, il « tetragramma sacro » in particolare, e l’idea della “Sophia”, la saggezza femminile del divino, l’idea anche dell’« eterno femminino », ben conosciuto dai Teilhardiani. – Questo discorso non piace però a Margherita d’Austria, perché il provinciale dei francescani, Jean Catelinet, predicando la Quaresima nel 1510, davanti al governatore dei Paesi Bassi, denuncia Cornelio Agrippa come « eretico giudaizzante ». – Ma sempre spinto da Tritemio, l’Agrippa spiega che tutte le dottrine sulla magia, l’Astrologia e l’Alchimia, devono essere comprese secondo un senso mistico. Nel 1512 diviene consigliere imperiale  dell’imperatore Massimiliano, nel 1515 dà delle lezioni a Pavia su Hermete Trismegisto, vi si sposa ed è ricevuto come dottore in diritto e medicina. Diviene così rispettato, onorato, coccolato. Poi nel 1529 Margherita d’Austria lo nomina suo consigliere, fiduciario e storico: risultato di un’abile scalata progressiva, frutto di una lunga pazienza, a coronamento di una ambiziosa carriera:  ormai, potrà scrivere in tutta sicurezza, protetto da personaggi così eminenti dai tribunali ecclesiastici. – Vediamo il suo insegnamento. Nel suo trattato:  “De incertitude et vanitate scientium”, parte con una guerra alla ragione umana, professa uno scetticismo generalizzato sul quale costruisce la sua mistica; insegna l’unione mistica del nostro spirito con la natura e con Dio. Attacca Aristotele e la sua logica, ovviamente. Trova ridicolo quel che ci vuole portare a concludere: «  Si pensa – egli scrive – che le nostre conoscenze debbano uscire dai sensi, ma i sensi sono ingannevoli, essi non possono conoscere le cose donde tuttavia bisogna estrarre tutte le nostre conoscenze. » Da qui la conclusione che ogni uomo debba convincersi che la verità non possa essere conosciuta se non con la libera adesione alla fede: « La bontà dell’uomo non si fonda che sul libero arbitrio, che si prova con la fede, nella quale tutti ci volgiamo verso Dio, fonte di ogni verità. Non è la lingua, ma il cuore, la sede di ogni verità. Non è la ragione, ma la volontà che ci unisce a Dio. » Ecco una bella definizione del fideismo, con un culto della volontà, privata della sua norma, la ragione, posta alla sorgente della conoscenza. È il Modernismo… Cornelio edifica la Teologia sulla santa Scrittura, ed imputa ai teologi l’aver privato il popolo di questa unica fonte di religione, ma … non bisogna comprendere la scrittura alla lettera. Essa non rivela il suo vero senso se non con l’illuminazione divina dello Spirito-Santo. Dio solo è verace, gli uomini sono tutti mentitori. Con la nostra ragione, che specula a torto e a traverso, noi non possiamo comprendere il senso mistico della Parola rivelata. « La nostra fede – egli dice – deve essere diretta da Dio. Dio solo è verace, ed è  a lui che siamo connessi mediante la Fede, Egli ci rivela tutto, ci fa vedere tutto in Lui. » Evidentemente, se l’anima umana è una particella divina, scintilla luminosa piombata in un corpo, non ha bisogno di un ausilio naturale, come è la ragione, per raggiungere penosamente, con tanto sforzo e rischio di errori, una Verità che possediamo già in noi stessi, poiché la nostra anima è già piena di ogni conoscenza, essa che è la sorgente stessa di tutte le idee, in connessione con la Natura di Dio. Da qui questo disprezzo della ragione che è comune a tutta la gnosi da sempre. disprezzo che ritroviamo in Lutero, come nel Romanticismo ed nel “Tradizionalismo” del secolo scorso. – Nella sua opera De occulta philosophia, Cornelio Agrippa riprende l’insegnamento dei neo-platonici. Alla maniera degli umanisti del XVI secolo, come abbiamo in precedenza esposto, egli parla degli dei, afferma che i peccatori ed i pagani sono stati presi dallo Spirito angelico o divino; « Inoltre – egli dice – tutte le religioni sono buone, benché la cristiana sia la migliore. » – « La religione – ancora scrive – purifica lo spirito e lo rende divino; con questo aumenta le forze della natura … » – « … Una forza universale anima il mondo e vi si rivela, ma tutto deve essere ricondotto alle idee di Dio, le quali sono “uno” in Lui, ma multiple nell’anima del mondo; questo le infonde nelle cose inferiori per mezzo degli astri, cioè nella materia, esse non esistono se non come ombre. Esse sono anche nel nostro spirito, sono innate, come insegna Platone … le cose materiali sono occupate da forze occulte. Gli elementi sono pieni di vita e di anima. Uno spirito li mette in movimento. Da qui la necessità di una sorgente universale di vita, vale a dire dell’anima del mondo, seguendo Platone. » Da questi estratti  dalla sua “Philosophia Occulta”, si vede come Cornelio Agrippa fosse profondamente panteista. Tutti questi temi sono comuni in effetti a Platone e alla gnosi. Non ci si domanda più come sia potuto sfuggire ai fulmini della Chiesa, conoscendo ora i suoi potenti protettori.

B) L’ecumenismo secondo Tommaso Moro.

Tommaso Moro o Morus (1485-1535), gran cancelliere di Inghilterra sotto il Re Enrico VII, fu decapitato su ordine del Re, il 6 luglio 1535, per aver rifiutato di rinnegare la sua fede cattolica. Egli fu dunque realmente martire. La recita della sua prigionia e della sua morte è ammirevole. La Chiesa romana lo ha canonizzato giustamente nel 1935. Ma questa non deve ingannarci, intanto perché egli fu, in tutta la sua vita, un umanista profondamente paganizzato ed un amico intimo di Erasmo, di cui parleremo a breve. La sua conversione finale resta così il frutto della grazia divina e della libertà umana. Non si può trovare una spiegazione semplicemente umana, e niente nella sua vita passata, né nella sua attività intellettuale, poteva lasciar prevedere una tale conversione. – Il suo celebre libro l’Utopia, ispirato alla Repubblica di Platone, è un’opera veramente sovversiva della fede cristiana. Noi abbiamo già mostrato che l’ideale di vita espressa in tutte le pagine del libro, è totalmente pagano, che non c’è posto in Utopia per qualunque religione, perché gli “utopisti” sono belli, buoni, perfetti, pienamente felici nella soddisfazione di tutti i loro istinti e nell’esaltazione dei loro piaceri. – L’isola di Utopia ha una forma ovale: è una terra ben protetta da rocce circondate da acque tiepide e tranquille, è fertile ed accogliente. La sua capitale Amorante, alla foce del fiume, ha la posizione esatta dell’embrione nel seno materno. L’Utopia è previdente, nutrice, materna. Essa è l’uovo primitivo da cui sono usciti tutti i mondi che popolano l’universo, essa è la cellula originale, la matrice del mondo, di più: essa è Dio diffusa per emanazione in tutti gli esseri. L’ispirazione del libro è nettamente panteista. – Ma continuiamo la nostra esplorazione attraverso l’isola di Utopia. Come nella Repubblica di Platone, così come nello Stato sovietico, tutto vi è regolato con una precisione tipica di un orologiaio. Tutte le attività, private e pubbliche, sono minuziosamente regolate. Non c’è lo spazio per la minima spontaneità, per un equilibrio personale e sociale lasciato al libero gioco delle iniziative personali. Una sola libertà è stata proclamata dall’inizio dal re Utopus: la libertà religiosa. Questo potrebbe costituire la confessione che la religione sia senza importanza nella vita della città, mentre tutte le altre attività sono regolate in quanto necessarie e fondamentali. – ma il motivo addotto dal re Utopus è veramente notevole, singolare, perché egli pensa ancora che l’interesse della religione esiga questa misura. Egli non osa nulla stabilire in materia di fede, non sapendo se Dio non ispirasse Egli stesso agli uomini delle credenze diverse, al fine di saggiare una moltitudine di culti. Del resto una intuizione provvidenziale lo portava a credere che tutte le religioni fossero false, ad eccezione di una sola, e che sarebbe giunto un tempo in cui, con l’aiuto della dolcezza e della ragione, la verità si sarebbe manifestata da se stessa, come un cammino luminoso nella notte di errori inestricabili. Ma nell’attesa, chi avrebbe potuto dire se Dio non si compiacesse di questa molteplicità variopinta di omaggi, in questo gioco sincero ed multiforme di bambini che vanno alla sua ricerca? Questo è veramente notevole: la molteplicità delle religioni sarebbe dunque un omaggio variopinto di un gioco sincero, e perciò essa sarebbe ispirata da Dio. La verità si manifesta da se stessa con il pensiero libero degli uomini. Ma certamente, poiché l’anima è una “scintilla divina” essa possiede in se stessa la verità che fa scaturire dal proprio fondo. Essa non ha bisogno di un sostegno esterno, come una rivelazione. Siamo qui, come si capisce facilmente, nella logica della gnosi. – Come dunque spiegare questa molteplicità che appare a noi, poveri umani ordinari, una contraddizione insolubile? La risposta è molto semplice: tutte le religioni sono vere, ma di una verità particolare e complementare, essendo esse tutte forme particolari e rispettabili di una unica religione universale, quella cioè che fu insegnata dal serpente ai nostri progenitori: è questa l’ecumenismo, una rivelazione satanica: « Eritis sicut dei ». – Quando il re Utopus ci dice: « se tutte le religioni fossero false », abbiamo ben compreso che questa condizione sia irreale, perché è Dio stesso che avrebbe ispirato questa diversità di credenze. – Ora noi sappiamo che la nostra anima non è divina, e che la nostra ragione è semplicemente naturale; essa è orientata da sé verso la Verità, ma dopo la caduta originale non può più raggiungerla se non con una sforzo sostenuto e difficile. I rischi di errore sono molteplici. È per questo che l’uomo ha bisogno di autorità naturali, come quella del padre, quella del principe, quella del sacerdote. Ora gli umanisti hanno proclamato il rigetto di ogni autorità. Nel suo Momus, scritto nel 1443, Leon Battista Alberti si erge contro il principio di autorità in materia di pensiero terminando con questo aforisma dal quale si possono trarre le conseguenze le più gravi: « Nulla getta la verità nell’ombra più dell’autorità. » – Ad ogni modo, in Utopia la felicità è già istallata; un giorno tuttavia, uno dei discepoli di Hythlodeo è venuto ad Amorante, la capitale. Egli esalta subito la religione cristiana, l’esistenza di un Salvatore, in qualche luogo, ma per salvare chi, mio Dio ? … perché tutto va bene qui, nel regno di Utopia. Questi spinge poi la sua audacia fino ad esprimersi contro i seguaci dei misteri pagani, trattandoli da empi e da dannati. Evidentemente viene immediatamente espulso.  In Utopia, come nel regime sovietico, e come si prospetta nel satanico Nuovo Ordine Mondiale, sono autorizzate tutte le religioni, … salvo quella di Gesù-Cristo. Si è proclamata, come anzidetto, innanzitutto la libertà religiosa, poi la libertà di propaganda anti-religiosa, ma non di propaganda religiosa, ciò che è logico. Perché reclamare la libertà religiosa in uno stato cristiano in cui l’insieme della popolazione è rimasta fedele alla sua fede? Non si vuol rivendicare il diritto di adorare il vero Dio, perché questo è già assicurato. Non si può dunque rivendicare che il diritto di rifiutare questa adorazione. – Ed il prosieguo della storia dell’Inghilterra ce lo dimostra. Una volta padrone del potere politico, il serpente manda a spasso « l’aiuto della dolcezza e della ragione » ed organizza la persecuzione più violenta contro tutto ciò che si vede di Cattolico, il saccheggio e la distruzione dei monasteri, il massacro in grande stile delle popolazioni rivoltate, due secoli di violenze sanguinarie in Inghilterra ed in Irlanda contro i preti della Chiesa Cattolica e contro i loro fedeli. Queste sono pagine di storia che i nostri scrittori protestanti hanno ben curato di mettere tra parentesi occultandole. – Tuttavia, siamo in piena ipocrisia. Proclamare un rispetto uguale per tutte le religioni, è mostrare che le si disprezza tutte allo stesso modo. Perché di fatto, nella città di Utopia, esiste una religione ufficiale ed obbligatoria: si è costruito un tempio al centro della città ove tutto è calcolato per favorire il raccoglimento. Tutti gli utopisti vi si recano regolarmente e rivolgono un culto “ecumenico” ad una sola divinità « eterna, immensa, incomprensibile » che si chiama Mithra (1), la cui natura si spande per tutto l’universo. Così gli utopisti adorano se stessi nello specchio del loro Mithra. Non si può essere più panteista di così.

(1) Mithra « Noi sappiamo che il culto di Mithra è stato opposto, nei primi secoli cristiani, a quello di Gesù Cristo. Mithra è il sole invitto, imbattuto, (sol invictus). Esso finì per essere il culto ufficiale dell’Impero Romano sotto Aureliano. Ecco che gli Umanisti del Rinascimento, nel loro furore anticattolico, hanno ripreso questo culto, ma in segreto, secondo gli usi dei marrani, nelle loro conventicole intime, i cosiddetti mitrei. Il sistema eliocentrico, insegnato da Copernico e ripreso da Galileo è effettivamente una manifestazione dell’adorazione del sole, pura idolatria e becero paganesimo. Copernico scrive nel “De revolutionibus orbium cœlestium”: “ in mundo vero omnium residet Sol. Quis enim in hoc pulcherrimo templo lampadem hanc in alio vel meliori loco poneret, quam unde totum simul possit illuminare, si quidem non inepte quidam lucernam mundi, alii mentem, alii rectorem invocant, Trismegistum visibilem deum”. Il sole è dunque, per Copernico lo spirito del mondo, il reggitore del mondo, un dio visibile. Il riferimento ad Ermete Trismegisto è significativo. Il sole ha la sua sede di soggiorno in tutte le cose del mondo ed il mondo è il suo tempio: non è questa forse una definizione di Panteismo? Galilei ulteriormente precisa: “Mi sembra che in natura si trovi una sostanza molto volatile, molto tenue, rapidissima che, nel suo espandersi nell’universo, penetra tutto senza ostacolo, riscalda, dà vita e rende feconde tutte le creature animate. Sembra che i sensi stessi ci mostrino che il corpo del sole sia il ricettacolo di questo “spirito”, fuori dal quale si spande su tutto l’universo una immensa luce accompagnata da questo “spirito calorifico”, penetrante tutti i corpi capaci di essere animati, dando loro vita e fecondità.” – “Il sole è un dio visibile al centro dell’universo; immobile esso penetra tutte le creature, è sorgente di vita, anima tutto. Certamente è questo il “culto solare”, tipicamente pagano, che Copernico e Galilei praticavano, come già Persiani, gli Esseni, ed ancora oggi diverse obbedienze massoniche. Ed è alla luce di questi testi che i giudici del Santo Uffizio, quelli che facevano bene il loro lavoro di guardia dell’ortodossia, hanno condannato Galilei. Da questa chiara angolazione si aprono prospettive nuove sul “complesso Galilei”! [cf.: “La verità su Galilei”, in www. exsurgatdeus. Org.]. Si può ben comprendere allora che le considerazioni sui movimenti della terra e del sole, non sono altro che un pretesto per sviluppare un insegnamento fondamentalmente panteistico, un “cavallo di Troia” che in una certa misura si insinuò tra le autorità romane. Ma il 24 febbraio 1616, l’Eliocentrismo di Copernico, come decodificato sopra, venne condannato dal Santo-Uffizio ed a giusto titolo come abbiamo visto! E per manifestare che i censori non erano incappati nelle trappole tese, essi hanno precisato con cura che le formule condannate “erano assurde in filosofia e formalmente eretiche”, ma che non pregiudicavano considerazioni puramente astronomiche o fisiche. L’affare a questo punto avrebbe dovuto essere chiuso, lo si doveva arrestare là, ma si era di fronte ad una vera “setta” molto ben organizzata, una proto-ragnatela gnostico-cabalista, archetipo degli interessi ed intrallazzi kazaro-massonici oggi visibilmente e spudoratamente operanti in chiaro, ben al di fuori delle tenebre delle conventicole, addirittura all’opera con le cosiddette Agenzie spaziali internazionali, in primis la Nasa – “il serpente” in ebraico –  che gestisce studi televisivi e cinematografici con sceneggiate di grande livello per mostrarci “palle che girano” – pianeti tutti perfettamente sferici, oh che meraviglia della tecnica! – guerre stellari, pupazzi umani – gli astronauti – ridicolmente goffi, “galleggianti”, danzanti nell’aria senza la supposta gravità prodigiosamente eliminata da trucchi tecnologici, sbarchi lunari strampalati ed improbabili, degni dei momenti migliori di Charlot, e fantasmagoriche scenografie con foto ritoccate e taroccate].

– Tommaso Moro non si è accontentato di esporre solo il suo pensiero sulla società ideale, nell’Utopia, perché ha tentato, come cancelliere di Inghilterra, di mettere in pratica il suo insegnamento. « Se i turchi, i saraceni ed i pagani – spiega il suo portavoce nell’Utopia, soffrono che la fede Cattolica sia predicata pacificamente tra noi, e se noi Cristiani accettiamo che nella nostra città, tutte le sette predichino tra di noi,  messa da parte ogni violenza di comune accordo, io non ho alcun dubbio che la fede di Cristo, lungi dal subirne una diminuzione, ne trarrebbe un immenso profitto.  » E per mettere d’accordo il suo pensiero con i suoi atti, si fa complice attivo degli eretici. Egli ce lo ha spiegato, verso la fine della sua carriera di cancelliere. « Per l’eretico, io odio il suo errore e non la sua persona, vorrei di cuore che l’uno fosse sterminato e l’altro salvato. Questi “fratelli” benedetti, professori e predicatori di eresie, hanno proclamato ad alta voce le loro menzogne, ed io non ho altra condotta nei loro riguardi. E se si sapesse di quale indulgenza e di quale pietà ne avessi fatto prova, vi giuro che nessuno mi contraddirebbe. » Ecco ciò che definisce lo stato d’animo di un umanista. Quando Moro fu nominato cancelliere, l’Inghilterra praticava una stessa regola di fede. Ora, nello stesso tempo, l’eresia è in piena espansione, gli eretici luterani moltiplicano le loro satire in tutti i paesi, ma la polizia del cancelliere chiude gli occhi. Nessun interesse da parte del tribunale, né del rogo a Smithfield. Quando riceve degli istigatori, egli li ascolta, li interroga, tenta di suscitare in essi un moto di conversione o di rimorso. Chiede loro di rinunciare a diffondere le loro dottrine. Infine si mostra pieno di pietà e di indulgenza nei loro riguardi come dice egli stesso: Punto, tutto qui! Erasmo, suo amico intimo, ha potuto scrivere al Vescovo di Vienne che durante il passaggio di Moro alla cancelleria non aveva avuto luogo nessuna esecuzione. Di questi avvenimenti buonisti, si conosce il seguito e di come la “fede in Cristo ne abbia avuto un immensi profitto!”

C) Un prete “modernista”: Erasmo.

Erasmo è nato il 28 ottobre 1467 a Rotterdam. Suo padre, Geart Praet, era ecclesiastico e non poté pertanto legittimare suo figlio. Egli si chiamava “Geert Geerts, cioè Gerard, figlio di Gérard” e, come scrittore, assume lo pseudonimo di Desiderius erasmus (dal greco ερασμιος = amabile). Viene ordinato sacerdote il 25 febbraio 1492 dal Vescovo di Cambrai, Henri de Berques, che diviene per lui un fedele protettore. Vive per molto tempo a Londra, presso Tommaso Moro, poi nel 1521, si stabilisce a Bâle. L’ultima parola di tutta la sua filosofia è: la libertà. Egli sostiene efficacemente gli sforzi di Lutero per riformare la Chiesa. Nel 1519, in risposta ad una lettera affettuosa di quest’ultimo, gli precisa: « La vostra lettera respira un’anima cristiana … mi sembra che si avanzi mediante una dolce moderazione, piuttosto che per importunità; non è così che il Cristo condusse il mondo sotto la sua legge?» Ecco un consiglio che non poteva moderare l’ardore focoso e violento del riformatore. Erasmo vuol mostrare ai suoi amici protestanti che i libelli e le caricature sparse da essi in Europa, non possono che far torto alla loro causa: « Credete voi che con tali mezzi di ostacolare le vie del Vangelo? Io credo piuttosto che la stolta malizia e la maliziosa stupidità, non possa abbattere uomini letterati e lo stesso Vangelo se si potesse fare, e vi facciano cadere in discredito. » Poi egli si rivolge alla corte di Roma, supplica il Papa Adriano IV di mostrarsi tollerante: « Il male è troppo profondo – egli spiega – per poter essere guarito con il ferro ed il fuoco. Sono necessarie delle mutue concessioni, la dottrina sulla quale poggia la fede, resta intatta … inoltre bisognerebbe offrire al mondo la speranza di veder cambiare certe cose che danno luogo a legittime lamentele. Alla dolce parola di libertà, i cuori rifioriranno. » – « … nel cuore di Lutero – aggiunge – brillano delle fiammelle della vera dottrina evangelica, ma invece di metterlo in guardia, di presentargli la verità con dolcezza e bontà, teologi che non lo comprendono e che spesso non lo hanno nemmeno letto, lo denunciano al popolo con clamori insensati, lo colpiscono con violenti attacchi, non hanno sulle labbra che le parole … eresia, eresiarca, scisma ed anticristo. Si condanna in Lutero, come eresia, ciò che si trova ortodosso in san Bernardo ed in sant’Agostino. Molti di quelli che si effondono in ingiurie contro Lutero non credono essi stessi all’immortalità dell’anima. » Egli scrive, il 1 novembre 1519 all’Arcivescovo di Magonza: « Dei teologi ai quali converrebbe soprattutto la mansuetudine, sembrano non respirare che sangue umano, tanto aspirano agli arresti di Lutero ed alla sua eliminazione. » Infine, quando viene pubblicata la bolla di scomunica: « … questa bolla risente di crudeltà, piuttosto che del pensiero dolce e benevolo del nostro Leone X. » – Ma vediamo le “ … cose che bisogna cambiare perché danno luogo a legittime lamentele”. Erasmo critica il digiuno, le indulgenze, i giorni di festa, il culto delle immagini, i voti monastici e la confessione auricolare. Si pronuncia per la dissoluzione del matrimonio. Si burla dell’Immacolata Concezione della Vergine, difende la causa dell’Arianesimo; e mette dei dubbi sulla divinità di Cristo, sulla Santissima Trinità. Nega l’eternità delle pene. Vuole che i bambini, giunti all’età della ragione ratifichino gli impegni del Battesimo. Chiede al Papa di accordare il calice ai laici ed il matrimonio ai preti .. è tutto? È più o meno il programma messo in opera dalla riforma luterana. Molte rivendicazioni hanno dovuto attendere l’apostasia del conciliabolo cosiddetto Vaticano II, ove si vede oggi l’accanimento con cui i nostri moderni riformatori, oramai veri e propri apostati della fede, si sforzano di demolire ciò che resta della fede cristiana, mettendo in opera le reclamazioni di Erasmo. Il Modernismo è rimasto lo stesso da dopo il Rinascimento. – Un controversista dei più celebri, Josse Clichtove di Nieuport [Judocus Clichtoveus Neoportuensis], pubblica nel 1519 uno scritto intitolato Propugnaculum fidei, ove rimprovera ad Erasmo di rigettare la legge canonica che impone la continenza del clero. Erasmo gli manda una breve e pronta risposta in cui sostiene che la Chiesa può permettere il matrimonio a quelli tra gli ecclesiastici ai quali non è possibile vivere nel celibato. I teologi di Lovanio considerano il portabandiera della fazione luterana, trattandolo come … libero pensatore che faceva lo stesso del saio di un monaco e del mantello di un briccone, che avrebbe dato tutta la scolastica per un solo trattato di Cicerone e che non ha ritegno nel dire: « san Socrate, prega per noi »! Erasmo si spegne a Bâle la notte tra l’11 ed il 12 luglio 1536, all’età di sessantanove anni. Muore senza l’assistenza di un prete e rifiutando gli ultimi Sacramenti, nell’impenitenza finale: conclusione logica di una vita consacrata alla demolizione della fede cristiana.

DALL’UMANESIMO ALLA RIFORMA.

Si sa dell’odio ferocissimo nei riguardi della filosofia Scolastica. Gli umanisti le rimproveravano soprattutto il suo richiamo alla ragione naturale per porre le verità della Fede su delle basi indistruttibili.  Erasmo è partito in guerra contro i teologi del Medio Evo. « Tutto il loro sforzo, scrive nell’Elogio della Follia, consiste nell’interrogare, dividere, distinguere definire. Una parte è divisa in tre, la prima delle tre in quattro ed ognuna delle quattro di nuovo in tre. Cosa è più distante dallo stile dei profeti, del Cristo o degli Apostoli? » Ma la sua ironia è fuori luogo e malintesa. Ciò che denunzia con tanta veemenza in realtà è l’uso naturale della nostra intelligenza. Essa è comune a tutti coloro che non vogliono prendersi cura nel riflettere. La Scolastica non pretende di sostituirsi alla parola o allo stile di Gesù o dei Profeti, essa cerca solo di comprendere e definire il buon fondamento della ragion d’essere. –  I protestanti appunto accentuano questo odio della ragione e del suo uso nella filosofia scolastica, odio ricevuto in consegna dagli umanisti. Essi hanno proclamato la necessità di leggere la Bibbia nel testo, senza alcun commento, poiché l’anima del lettore è a contatto diretto con la Divinità che l’ispira. Occorre dunque sviluppare gli studi linguistici, studiare l’ebraico ed il greco, ma respingere la Teologia. Da qui il disprezzo manifesto nei confronti della Sorbona, “maestra di errore” e l’infatuazione per i collegi reali ove potevano darsi allo sfogo le nuove mode intellettuali senza rischio di condanne, poiché questo collegi erano protetti dai re. – Nel 1535, in una “Lettera al re del tempo, dal suo esilio a Ferrara”, indirizzata a Francesco I, Clement Marot, scrive:  « Tanto come loro, senza causa che sia buona, mi vuol male l’ignorante Sorbona, essa è ignorante e nemica della trilingue e nobile Accademia che si è eretta. È infatti manifesto che là dentro, contro la tua voglia celeste, è proibito dar voce pronunziante l’ebraico, il greco, né il latino elegante, dicendo che è lingua di eretici. O povera gente dal sapere tutto etico ben fa veder questo proverbio corrente: la scienza non è in odio che all’ignorante. » – L’umanista Ramus, professore al Collegio reale, il futuro Collegio di Francia, rimprovera all’università il suo immobilismo, lo statu quo dei suoi metodi. Egli è dalla parte degli umanisti, per il greco, per l’ebraico e pertanto per il protestantesimo, contro la Sorbona, contro la Scolastica, in fondo alla quale si trovava pertanto l’ortodossia. – Il Rinascimento umanista ha preparato la via al protestantesimo, permettendone l’esercizio del libero esame nella lettura dei testi biblici, senza riferimenti autorizzati dalla Teologia. Nel suo “Præmium reformandæ academiæ parisiensis”, Ramus pretende di imporre l’ebraico come base necessaria di ogni teologia. Egli diventa anche l’anima del Collegio reale, di cui la maggior parte dei professori passano al protestantesimo: Ramus stesso, Vatable, Mercier, Palma-Gayet, che tiene la cattedra di ebraico. – Quando Ignazio di Loyola giunge a Parigi con i suoi futuri compagni, per prepararsi alla Teologia, si reca alla Sorbona; egli sconsiglia ai suoi amici di seguire i corsi di lingue antiche, tenuti dai real lettori, origine del Collegio di France, che il Re stava istituendo nel 1530. Il suo amico Bobadilla, scrive che « L’eresia luterana cominciava a diffondersi a Parigi; a quei tempi se ne bruciava molto sulla piazza Maubert e coloro che grecizzavano, luteranizzavano » (“qui græcisabant lutheranisabant”). Un altro suo compagno, Saverio, in una lettera a suo fratello, nel 1535, dice che è molto riconoscente ad Ignazio, a lui deve di essersi distaccato dalle “cattive frequentazioni” che la sua scarsa esperienza non gli permetteva di riconoscere come tali. « … ora che le eresie si sono scatenate a Parigi, io non vorrei a nessun costo avere relazioni con questa gente. » e più oltre aggiunge che questi uomini dai quali Ignazio lo ha staccato « … esteriormente sembrano buoni, ma interiormente erano pieni di errori, come il prosieguo ha fatto vedere chiaramente ». – Sui pensieri e sulle parole degli umanisti e soprattutto di Erasmo, si è continuato a sostenere, in tutti i manuali di storia, che la Sorbona era in piena decadenza, che la Scolastica era obsoleta, che occorreva una grande riforma dell’insegnamento. Questo non era l’opinione di Ignazio che ha trovato, al contrario, in questa vecchia Sorbona, così criticata dagli umanisti, il punto di appoggio fondamentale di tutta la sua formazione intellettuale e spirituale. – Egli ha fatto della Scolastica aristotelica e tomistica la base di tutto l’insegnamento dei Gesuiti. Nelle sue “Costitutioni della Compagnia di Gesù”, raccomanda la dottrina di San Tommaso d’Aquino, finché non appaia « un’altra teologia più adatta ai tempi moderni » e più utile, ma sempre sulla scia di quella di San Tommaso. Nella sua Ratio Studiorum, egli precisa che bisogna insegnare la filosofia e la fisica « non solamente in conformità alla verità, ma anche nel senso di Aristotele e del suo spirito », con la proibizione di « non allontanarsi mai da Aristotele quando si tratti di punti di qualche importanza ». Non ci si deve mai servire che con estrema prudenza di commentari non cristiani e « se si trova qualcosa di buono da ritenersi dalle loro opere », bisogna almeno citarli « senza farne l’elogio. » Nell’appendice agli “Esercizi spirituali”, Ignazio raccomanda di « tenere in grande stima la teologia positiva e la teologia scolastica », perché « … è dovere dei teologi scolastici di denunciare, combattere e rifiutare gli errori religiosi, i falsi ragionamenti e le opinioni pericolose della loro epoca ». Giudizio netto! Sant’Ignazio di Loyola  ha ben compreso che l’Umanesimo platonizzante del suo tempo conduceva necessariamente all’eresia protestante ed ha lottato tutta la sua vita contro questo movimento verso l’eresia con la Compagnia di Gesù, alla sua sequela. Come si opera questo passaggio dal platonismo degli umanisti all’eresia protestante? È quanto ci resta da dimostrare. – Gli gnostici hanno sempre affermato che l’anima umana era una “scintilla divina”, particella dell’Anima del mondo, che altro non è che Dio immanente nell’universo. Questa dottrina è stata ripresa dai mistici tedeschi dal XV secolo, passando da Mastro Eckart nel pensiero dei riformatori. Essi hanno visto la prova che la nostra anima era in contatto immediato e permanente con Dio, pretendendo che in ogni coscienza risiedesse una certezza, che la voce della coscienza fosse la voce di Dio che risiede in se stessi. – La nostra anima dunque in noi, non è altro che uno strumento passivo nelle mani di Dio, da cui, per irresistibile influenza vien porta in ogni direzione. L’uomo è certamente, secondo l’espressione dei riformatori, « un blocco di legno o di pietra »; egli subisce una forza universale ed unica che si sostituisce alla sua azione propria. L’individualità è fusa in una totalità di anime dal movimento perpetuo e divino: è Dio che, in noi, è il principio di causalità in tutti i nostri atti, è Dio che opera in noi il bene ed il male. – Zwingli, più ardito e più logico di Lutero, ne trae le conclusioni, nel 1530, nel suo trattato sulla Provvidenza: « Una forza creata, egli scrive, non è altra cosa che la forza universale che si manifesta in un nuovo soggetto e sotto una forma nuova. » – « essere di Dio, aggiunge, è l’essere stesso di tutte le cose, etc. » Ecco le formule in latino: « Omnium esse numinis Esse. – Certum est quod, quantum ad esse et Exsistere attinet, nihil sit quod numen est, id enim est verum universarum Esse. – Jam constat, extra infinitum hoc Esse nullum Esse posse. – Creata virtus dicitur, eo quod in novo subjecto et nova specieuniversalis aut generalis ista virtus exhibitur. » Si trova in queste espressioni tutto Spinoza e tutto Hegel, in un colpo solo la riforma sfocia nel panteismo con l’assorbimento dell’attività umana nell’operazione divina e la negazione del libero arbitrio. – Kant è il filosofo dei riformatori. Per lui precisamente, come per Platone, come per Maestro Eckart, la coscienza è la “Partecipazione” immediata dell’uomo dell’idea del bene e per questo la garanzia della sua autonomia morale. È per questo che nella sua “Religione nei limiti della semplice ragione”, si legge nel capitolo intitolato: « del filo conduttore della coscienza negli affari della fede »: « La questione di sapere come la coscienza debba essere diretta, perché essa non vuole filo conduttore; è abbastanza già avere una coscienza. La coscienza morale morale, è una coscienza psicologica, che si obbliga da sé … Dunque, se la coscienza psicologica mi dice che un’azione che io voglio intraprendere è giusta, la sua parola è un imperativo assoluto … ». In altre parole, la mia coscienza essendo la voce stessa dell’Assoluto che risiede in me, è totalmente autonoma e non ha da ricevere da nessuno la direzione di una regola di moralità eteronoma, vale a dire da una legge divina impostami dall’esterno. È la coscienza divinizzata, perché partecipe di un’unica coscienza universale. Non c’è più posto per il libero arbitrio, rispetto ad una regola ricevuta. Non c’è dunque né bene, né male, perché è giusto tutto ciò che la mia coscienza mi dice di intraprendere.

CONCLUSIONE

Con un movimento continuo di andirivieni, abbiamo percorso la gnosi, la kabbala, l’umanesimo ed il protestantesimo, ed abbiamo incontrato degli uomini appassionati, tesi verso la loro deificazione. Si può tuttavia sentire in questa ricerca di una perfetta felicità, come un’inquietudine sottogiacente opposto allo scopo ricercato …! L’uomo che accetta la sua condizione naturale di creatura, che adora il suo Dio, gli rende omaggio e si sottomette alla sua legge, possiede una felicità, imperfetta senza dubbio,  ma possibile. Egli è libero, di una libertà di figlio di Dio. Egli può scegliere tra i molteplici beni che il Creatore ha messo a sua disposizione. È il libero arbitrio. Egli può anche, senza dubbio, usarne ragionevolmente o irragionevolmente, cioè abusarne: è la scelta possibile tra un bene ed un male. È anche una responsabilità. – L’uomo ribelle che rigetta Dio rifiuta questa responsabilità. Di colpo, perde il suo libero arbitrio. Non gli resta che ergersi un piedistallo, come un dio Panteo ed adorarsi. Eccolo dissolto in una divinità “totale” , perso nel gran tutto “Pleroma”, di cui non è però più che una particella, indeterminata, intercambiabile. Egli ha perso la sua volontà libera. Non c’è per lui né bene né male, perché tutto viene determinato è necessario. La Città di Utopia, come la Repubblica di Platone, come lo Stato Sovietico, come il Nuovo Ordine Mondiale, è un mondo chiuso delimitante una umanità deificata.  L’uomo, “scintilla divina” è interamente prigioniero della città fino alla soddisfazione dei suoi minimi piaceri. La libertà religiosa, proclamata all’inizio, è infine realizzata, perché non c’è più religione … l’uomo si è definitivamente “liberato” di Dio! – Tale è la rivelazione del serpente. Egli aveva detto ai nostri progenitori: “voi sarete come dei”, ma non aveva aggiunto, « così diventerete miei schiavi, poiché sono io il padrone del mondo ». Un attimo, Adamo ed Eva si sono lasciati convincere. Ma la divinizzazione non ha avuto luogo. La schiavitù, invece, è diventata la realtà quotidiana ed è l’INFERNO.

[Fine]

 

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (33): GNOSI ED UMANESIMO -2 –

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA –

Gnosi ed UMANESIMO (2)

[Elaborato da: E Couvert: La gnose contre la foi, Ed. de Chiré, 1989]

IL CULTO DI PLATONE

Secondo Platone, gli oggetti che noi chiamiamo “reali” non sono in realtà che riflessi del mondo eterno delle Idee ove si trovano, dotate esse sole di una vita reale, i modelli di questi oggetti. Le nostre sensazioni, legate al corpo peribile, non ci fanno conoscere che delle apparenze, ed è solamente attraverso la conoscenza (la “Gnosi”) che la nostra anima può elevarsi gradualmente fino alla contemplazione delle Idee pure. Questa anima eterna ha vissuto precedentemente nel mondo superiore delle Idee, e vi ritornerà quando sarà liberata dalla prigione del corpo. Essa ne ha conservato una reminiscenza confusa che le permette di accedere alla contemplazione delle idee senza ricorrere al ragionamento… Non si vede come Dio potrebbe collocarsi in questa filosofia, se non come Demiurgo, cioè fabbricatore della materia. Ecco pertanto che le grandi tesi platoniche, sono in contraddizione manifesta con la Fede cristiana. La Chiesa ha sempre condannato la natura divina dell’anima, la sua preesistenza e le sue trasmigrazioni; Essa afferma che Dio sia l’unico Creatore di tutto e dunque: che il « mondo delle Idee » non esista. Noi comprendiamo così che queste tesi condannate dalla Chiesa, siano parimenti comuni a Platone, alla Gnosi classica ed alla Cabala giudaica. Ogni qual volta che nella storia del pensiero cristiano, ci si imbatta in una “folata” gnostica, essa si realizza sempre sotto la forma di una invasione del Platonismo. Fu questo infatti il caso eminente dell’Umanesimo, apparso all’epoca del cosiddetto Rinascimento. – Già Petrarca, nel XIV secolo, ha letto diversi dialoghi di Platone, nel testo originale portato da Costantinopoli, e si è appassionato a questa filosofia che egli contrappone a più riprese a quella di Aristotele. È lui ad aprire le strade a Bessarion e a Marsilio Ficino, e burlandosi dell’insegnamento della Scolastica, dichiara che i dottori di sillogismo sono degli affabulatori « rigonfi di nulla, che lavorano incessantemente nel vuoto e si esercitano con delle futilità”.» Egli è irritato dal rispetto “superstizioso” di cui la Scuola circonda Aristotele. Si sente, nei suoi attacchi violenti, il veleno della libertà di esame e ciò nonostante rimane alla corte del Papa in Avignone che, da parte sua non comprende le conseguenze di una tale demolizione. – Ma sono soprattutto le opere del Cardinal Bessarion che esercitano un’influenza capitale sul movimento degli spiriti: dopo il suo ritorno da Costantinopoli, egli si fa mentore degli umanisti, sostiene la causa di Platone contro i suoi detrattori in diversi trattati: « De natura arte », « In Calumniatorum Platonis ». – « Preferire Aristotele a Platone, egli dice, è cosa permessa, ma accusare quest’ultimo di ignoranza in ogni cosa, è fare un’accusa, non un parallelo. » Con una difesa erudita e calorosa di Platone, egli vuol dimostrare che le ardite speculazioni dell’Accademia, non meritano le diffidenze mostrate nel Medio Evo e che, secondo i Padri più illustri, si poteva elevare la filosofia platonica alle verità della Religione. Egli insegnò con il suo esempio che, nell’ambito della ragione, bisogna evitare ogni esclusivismo e che l’amore che si prova per un grande spirito, non debba chiudere gli occhi sui meriti di qualcun altro: « Io onoro e venero Aristotele, scrive agli stesso, e però amo Platone. » Si vede bene ove pende il suo cuore. Il rispetto apparente per Aristotele, non è che il mezzo per attirare gli spiriti verso Platone, e tutti gli umanisti, che lo hanno ben compreso, non temeranno più di rigettare con disprezzo e violenza tutta la Scolastica. È Bessarion che ha lanciato il movimento. È Infine a Firenze, sotto la protezione dei Medici, che il culto di Platone assume tutta la sua ampiezza. Nel corso del suo esilio provvisorio, Cosimo de’ Medici, raccoglie i sapienti greci che i turchi hanno cacciato dalle loro terre: Giovanni  Argyropoulos. Demetrio Calcondila, Giovanni Lascaris, il Cardinal Bessarion, il vecchio Giorgio Gemisto Platone ed altri. Al suo ritorno a Firenze, egli fonda l’« accademia platonica » e ne affida la presidenza al figlio del suo medico personale: Marsilio Ficino. Nato il 15 ottobre 1433 a Firenze, divenuto canonico della chiesa di San Lorenzo, viene ricevuto da Cosimo che gli apre le sue ville più belle e i suoi giardini fioriti all’ombra dei pini, dei cipressi e dei larici. « Qui ancora, scrive Cosimo a Marsilio, arrivai alla mia villa di Careggi con il desiderio di migliorare le mie terre e di migliorare me stesso. Venitemi a vedere, Marsilio, quando potrete, e non dimenticate di portare con voi il libro del vostro divino Platone sul bene sovrano. Non c’è sforzo che io non faccia per scoprire la vera felicità. Venite e non mancate di portare con voi la lira di Orfeo. » – Il primo lavoro dell’Accademia di Firenze è di contrastare Aristotele, questo colosso eretto sul formidabile piedistallo della “Summa Theologica”. La stella di Platone, spentasi con la fine della scuola di Alessandria, rispunta all’orizzonte, e da questo momento  pertanto l’umanità sarà divisa in due campi, quello Aristotelico e quello platonico. Più che una scuola, l’Accademia è una religione, un ardente e puro fervore che raggruppa in un culto pubblico tutti i fedeli di Platone e Marsilio Ficino ne è l’anima, la vita. – Platone è morto, seduto ad un banchetto ad 81 anni, un numero perfetto che si ottiene moltiplicando 9 per 9. Si riprende allora l’usanza di celebrare la sua morte il 7 novembre, uso che si era perso dopo Plotino e Porfirio. – Platone è la verità corroborata da S. Agostino che ebbe a  dire [ritrattando poi]: « varie cose presso i platonici, sono cristiane ». Si studiano pertanto le grandi questioni poste dal maestro: l’uomo è libero o no? La natura agisce secondo un disegno o no? È essa cosciente dello scopo a cui tende o no? Possiede  essa una essenza divina? La riflessione è immanente alla Natura? Appartiene essa proprio allo Spirito divino che governa la natura? L’anima non è il corpo, dice ancora Ficino, è l’anima che sente e non il corpo; l’anima ripugna al corpo. Essa non abita la terra, non è che un “ospite divino” che deve raggiungere la sua patria celeste.  Essa è sprofondata in seguito ad una caduta, deve trasmigrare per tornare nel mondo perfetto da cui è venuta. Platone che, di fatto, non è che un abile scenografo di dottrine orientali insegnate da Pitagora, diviene, nelle parole della sua bocca, una specie di Messia; i suoi discepoli sono degli apostoli. Marsilio si prosterna davanti a tutti i platonici, a Giustino, ad Origene, a Clemente, a Filone i quali tutti cercano di conciliare la Genesi con il Timeo, davanti a Numenio che afferma che tutta la teologia è racchiusa nei dialoghi di Platone. Egli circonda di un’aureola gloriosa  Platone. Platone è il precursore. «Il nostro Platone – egli scrive – con ragioni pitagoriche e socratiche, segue la legge di Mosè e anticipa la legge di Cristo. » – « Anzi, cosa dico?, Platone è Dio stesso ed i suoi misteri sono divini ». Marsilio, si dice, tiene acceso un cero giorno e notte davanti al busto di Platone, lo prega nella chiesa degli Angeli a Firenze: « In questa chiesa, noi vogliamo esporre la filosofia religiosa del nostro Platone, vogliamo contemplare la verità divina in questo soggiorno degli Angeli. Entriamo, cari fratelli, con spirito puro … » Egli aggiunge poi: « Io ho trovato con certezza come Numerio, Filone, Plotino, Giambico, Proco abbiano attinto i loro principali misteri da Giovanni, Paolo, Dionigi l’Aeropagita, perché tutto ciò che i platonici dicono dello spirito divino degli angeli ed altre cose teologiche, le presero da loro … » – Nel 1460, Cosimo compra il « Corpus hermeticum », e si affretta a farlo tradurre da Marsilio. Entrambi vengono elettrizzati dalla scoperta di questa rivelazione primordiale; i testi ermetici erano allora supposti premosaici e si pensava addiruttra che essi avessero ispirato Mosè, Pitagora e Platone.  Soltanto nel 1624 Isaac Casaubon ridimensionò questi testi e dimostrò che essi in realtà non erano anteriori al III secolo della nostra era. Nella stessa epoca, il Papa Alessandro VI (1492-1503) aveva fatto dipingere in Vaticano un affresco, in seguito distrutto, ricco di simboli ermetici ed egiziani. È attraverso il « Corpus hermeticum » che la Gnosi più classica può agevolmente penetrare nell’umanesimo rinascimentale. Come suo nonno Cosimo, Lorenzo il Magnifico coltiva la filosofia platonica da vero discepolo di Ficino. « Senza Platone – amava dire – io mi sentirei incapace di essere un buon cittadino ed un buon Cristiano. » Pico della Mirandola è il suo intimo consigliere. Lorenzo scrive degli inni, il canto “Oratione magno Deo”, l’inno “Oda il sacro inno tutta la natura”, lode al sacro contenuto in tutta la natura. In essi si trova l’idea che il mondo è strutturato come un grande cosmo fisico e morale, riproduzione di un modello preesistente; vi si trova ancora il concetto che l’anima può, per mezzo della conoscenza (la Gnosi), fare entrare l’Essere infinito nel cerchio stretto che essa abbraccia, estendendosi poi indefinitamente, grazie all’amore divino. Tale è la vera felicità della terra! – Questo culto di Platone è completato da un’attitudine curiosa nei confronti di Aristotele. Marsilio Ficino lo considera un percorso che conduce a Platone: « Si  ingannano completamente coloro che pensano che la disciplina peripatetica e platonica siano opposte, perché il cammino non può essere contrario al fine da raggiungere. » Pico della Mirandola aggiunge che « non vi è questione naturale o divina in cui Aristotele e Platone non siano d’accordo sul senso della cosa, benché sembrino divergere con le parole », cosa che evidentemente  è una manifesta contro-verità. Pico prepara un’opera: “Concordia Platonis ed Aristotelis”, che la morte gli impedisce di terminare. Ma intanto è dichiarata la guerra all’Aristotele del Medio Evo, al “filosofo” per eccellenza di San Tommaso d’Aquino, e non si riconosce più che l’Aristotele pagano interpretato in maniera panteista da Averroè. – E questa evoluzione nel pensiero cristiano si ritrova pure nella storia dell’arte di questa epoca. Mentre i vecchi pittori, come Francesco Traini, Benozzo Gozzoli e Taddeo Gaddi rappresentano San Tommaso, l’Angelo della Scuola, Aristotele dominante, e con Averroè, l’“anticristo”, calpestato, Raffaello, nella Scuole di Atene, oppone ai dottori cristiani, i maestri della saggezza greca, fianco a fianco, la filosofia pagana di fronte alla Teologia.

Il culto dell’uomo divinizzato

L’uomo, questa scintilla divina caduta nel mondo, è di natura ed origine divina. Egli è « imago mundi », microcosmo nel macrocosmo, vale a dire è la riproduzione quaggiù del mondo divino. Egli solo è Dio, ed è pure l’adempimento di tutta la natura nella sua perfezione. Gli umanisti lo hanno ripetuto sotto ogni forma. « L’uomo – ci dice Leone Battista Alberti – può ottenere da se stesso, tutto ciò che vuole. » – « La natura del nostro spirito è universale », dice Matteo Palmieri. « Noi siamo nati in questa condizione – dice Pico della Mirandola – noi siamo ciò che vogliamo essere. » – « L’uomo – dice Marsilio Ficino – si sforza di restare sulla bocca dell’uomo per tutto l’avvenire … egli soffre per essere stato celebrato in tutto il passato, da tutti i paesi, da tutti gli animali … egli misura la terra ed il cielo, scruta le profondità del Tartaro, il cielo non gli sembra troppo alto, né certo il centro della terra troppo profondo … e poiché ha conosciuto l’ordine dei cieli, muove verso questi cieli e dove essi vanno, e le loro misure e i loro prodotti, chi negherà che egli abbia quasi lo stesso genio dell’autore di questi cieli e che in un certo modo potrebbe crearli egli stesso? … L’uomo non vuole dunque né uguali né superiori, egli non tollera che ci sia sopra di lui qualche dominio dal quale sia escluso.  È solamente lo stato di Dio … egli si sforza di essere dappertutto come Dio, come Dio egli si sforza di essere sempre … » Queste formule estratte dalla sua “Theologia platonica”, sono dei commentari dell’ « Eritis sicut dei », promessa del serpente ad Adamo. Si sente tuttavia in questi testi una collera assurda contro Dio. L’uomo vorrebbe essere divino; ma è questo in lui uno sforzo portato per l’avvenire e non una realtà attuale. Questo culto dell’uomo è “in divenire”. Pico della Mirandola pubblica un discorso sulla dignità dell’uomo. Per terminare l’opera della creazione, Dio ha fatto l’uomo affinché conosca le leggi che reggono l’universo, ne esalti la bellezza, ne ammiri la grandezza. Egli non lo ha condannato a vivere nello stesso posto, come le piante, non ha incatenato la sua azione e la sua volontà, come per gli animali, ma gli ha dato la libertà di agire a suo piacere, di andare, di venire: « Io ti ho posto in mezzo al mondo – dice il Creatore ad Adamo – affinché tu possa più facilmente allungare il tuo sguardo intorno a te e meglio vedere ciò che ivi è racchiuso. E facendo di te un essere che non è né celeste, né mortale, né immortale, Io ho voluto darti il potere di formarti e di vincere te stesso. Tu puoi scendere fino al livello della bestia, e puoi elevarti fono a diventare un essere divino. Venendo al mondo, gli animali hanno tutto ciò che devono avere, ma gli spiriti di ordine superiore sono dal principio, o almeno subito dopo la loro formazione [allusione al culto di lucifero e dei suoi partigiani], ciò che essi devono essere e restare per l’eternità. Tu solo puoi ingrandirti e svilupparti come vuoi, tu hai in te i germi della vita sotto ogni forma. » – A partire da un giustissimo pensiero, che l’uomo sia stato posto  da Dio ai confini del mondo materiale e del mondo spirituale, Pico della Mirandola falsifica tutto il piano divino. Mai Dio infatti ha rivelato ad Adamo che potrebbe un giorno divenire divino. Egli gli ha solamente chiesto di regnare sulla creazione a patto che l’uomo rendesse omaggio al suo Creatore rispettandone l’ordine da Lui voluto, cioè l’ordine della vita, e la distinzione del Bene e del Male, i due alberi sacri del Paradiso. Ora, Pico della Mirandola pretende che Dio abbia dato all’uomo la facoltà di auto-divinizzarsi a suo piacimento. Come quest’ultimo potrebbe acquisire, secondo Pico, questa facoltà se la possedeva già per natura propria? Questo discorso è stato inviato a Roma, esaminato da un collegio di sapienti apostolici ed autorizzato ad essere pubblicato nel 1486. Poi si fanno delle obiezioni  contro « questo mago empio, nuovo eresiarca », il Papa Innocenzo VIII sospetta delle tesi del giovanotto, « … avvolte da vocaboli nuovi ed insoliti ». Punto, è tutto. Rispetto all’invasione della gnosi, proveniente dalla Kabbala, l’Autorità suprema è mostrato una sconcertante indulgenza. – Tale è l’ideale di tutti gli umanisti dall’inizio del XVI secolo; ad esempio Coluccio Salutati scrive i “Lavori di Ercole”. « Il cielo – egli dice – appartiene di diritto agli uomini energici che hanno sostenuto grandi lotte e compiuti straordinarie opere sulla terra. » Si tratta dunque di una conquista in pieno diritto. L’uomo prende dalle sole sue forze il suo fine ultimo e la sua perfezione. L’uomo è un Dio in divenire. Coluccio Salutati era maestro di Poggio, i suoi discepoli hanno popolato il collegio dei segretari apostolici, gli « abbreviatori » di cui abbiamo già parlato, istallati a Roma, al centro della Cristianità. – Nella sua Utopia, Tommaso Moro propone, come esempio, la ricerca sfrenata dei piaceri naturali che costituiscono il « condimento e il fascino della vita ». Egli rifugge « ogni voluttà che impedirebbe di gioire di una voluttà ancora maggiore o che sarebbe seguita da qualche sofferenza ». Egli esalta la santità ma rifiuta di sacrificarsi, con il digiuno e l’astinenza, ad un « vano fantasma di virtù ». Egli è avido di felicità e non dimentica nulla per ottenerla. In “Utopia” ci si sposa: « gli sposalizi sono preceduti da un esame nunziale, » una dama onesta e seria, presenterà al suo futuro fidanzato, la giovane o vedova, nello stato di perfetta nudità, e dall’altra parte, un uomo di provata probità, mostrerà alla giovane il suo fidanzato, nel medesimo stato di semplicità … « L’onore della città vuole dei cittadini di nobile razza, prestanti, vigorosi, amanti della salute, dei divertimenti, delle gioie della vita. La bellezza e la robustezza del corpo sono i segni di questa esaltazione dell’uomo divinizzato. L’Utopia appare nel novembre del 1516 a Lovanio,. L’opera ottiene subito la stima di tutti i grandi umanisti: al primo posto Guglielmo Budé ed Erasmo. Essa non fu tradotta in francese che nel 1550 da Jean Le Bond, ma dal 1532, la stessa parola “utopia”, fa la sua comparsa nel vocabolario francese. Rabelais, nel suo Pantagruel, si ispira all’Utopia di Tommaso Moro, ma con maggiore impudenza ancora: l’abbazia di Thélèma (in greco, libera volontà) è costruita sulle rive della Loira « al contrario di tutte le altre ». Qui non ci sono mura esterne, né orologio; uomini e donne vi praticano un triplo voto di “matrimonio, ricchezza e libertà”; si tratta dell’inversione della perfezione cristiana: “castità, povertà e obbedienza”. « … Fu ordinato che non vi venisse ammesso nessuno se non i ben conformati, perfetti e le donne belle ed attraenti … fu stabilito che si potessero maritare coloro che erano ricchi e vissuti in libertà. » Un gran cartello vien posto sulla porta di Thélèma che proibisce l’ingresso agli « ipocriti, ai bigotti », agli agenti di giustizia ed agli usurai; sono ammessi solo  « nobili cavalieri, le dame di alto lignaggio, fior di bellezza, dal viso celestiale, dal contegno riservato e saggio » ed i Cristiani evangelici. « Entrate, ché qui ci si basa su di una fede profonda! Poiché i nemici della santa parola, confondono con la voce e con il ruolo! » Si tratta di conciliare l’abbrutimento totale della natura umana con un sé dicente Cristianesimo tornato alle origini, – Ma siamo come si nota, agli antipodi della fede cristiana. « Come regola non avevano che questa clausola: fate ciò che volete, perché persone ben nate, bene istruite, conversanti in compagnia onesta, hanno per natura un istinto ed un acume che li spinge sempre ad essere virtuosi. » Li si spinge, in vero, in maniera più imperiosa verso una morale che qui consiste nella soddisfazione di tutti gli istinti. Elevare al più alto grado d’intensità l’umanità che si porta in sé, la [pseudo] “virtù”, questa è la legge morale! L’« uomo universale » deve svilupparsi armoniosamente in tutte le felici disposizioni del corpo, in tutte le facoltà della propria intelligenza. Là dove la Chiesa afferma che la curiosità di Eva ha perso l’intera l’umanità, gli umanisti fanno della curiosità insaziabile e ovunque diretta, la principale delle virtù: là dove la Chiesa insegnava l’umiltà in una ignoranza rispettosa del mistero, essi hanno posto il loro ideale nella conoscenza (la gnosi!). – Infine a Thélèma non c’è una chiesa. Ognuno delle 9332 camere dispone di una cappella particolare; la religione ridotta alla soddisfazione di un sentimento individuale, di una fantasia infinitamente modificabile a proprio piacimento. Ed infatti che bisogno ha l’uomo divinizzato di un Dio? Egli si crea da sé, rigetta ogni intervento di una volontà divina che pretende di  regolare l’esistenza quaggiù. La società utopica è vuota di Dio, perché dispone da se stessa degli attributi della divinità. Essa ha rinnegato Dio per darsi all’adorazione degli uomini. Come dice bene Jean-Philippe Delsol, gli umanisti «non reclamano ancora la morte di Dio, ma preparano involontariamente (?) la lettiga sulla quale i secoli successivi lo sdraieranno prima di sotterrarlo ». – E questo culto dell’uomo si manifesta finanche nell’arte dell’epoca. Tutto il pensiero di Leonardo da Vinci, ad esempio, è inebriato di paganesimo, esaltato da costumi voluttuosi e violenti, con la pretesa di ritrovare la bellezza originale ed inventare la scienza. Il suo San Giovanni, posto in una splendida solitudine, appare come un dio di voluttà. Nel suo sguardo balenano gli ardori della passione e di tutte le audacie dello spirito. Dalla sua bocca si si sente l’antico grido pagano di èvoé (grido che baccanti ebbre, in stato di esaltazione, rivolgevano a Bacco) La celebre Gioconda si pone all’entrata di un labirinto strano formato da rocce bizzarre e ruscelli sinuosi che si perdono nei vapori dell’orizzonte. Tranquilla e sorridente, la sirena attende con un bagliore negli occhi e con sulle labbra fini e serrate, il fascino mortale della menzogna. –  Che resta di veramente cristiano in questo “San Sebastiano”, simile e pari ad Adone, o nelle sue Madonne che sono delle Veneri travestite? Finanche nell’arte funeraria si sente questa esaltazione della vita divinizzata; infatti l’apparato di morte si circonda di un elogio della vita e glorifica la maestà e le bellezza del vivente: diversi “piangenti”  circondano il “giacente”, il morto è come per miracolo, resuscitato. Si eleva dalla bara, solleva il coperchio, si siede sul bordo della tomba e sembra conversare con i suoi, venuti a fargli visita. Ben presto camminerà, argomenterà …

Il culto del serpente: verso l’ecumenismo.

Nel XVI secolo, il serpente si tiene modesto e non canta ancora vittoria, come farà nel XIX secolo nella furia romantica. Ma esso sa comunque rendersi insinuante. Mormora discretamente alle orecchie degli umanisti, ascoltiamolo! Il suo leitmotiv, è l’ecumenismo. Tutte le religioni si equivalgono, esse sono tutte eccellenti nel loro ambito, ma seguitemi e vi insegnerò la vera religione, quella della felicità e della libertà. – Gemisto Pletone ha suscitato una triplice rivoluzione religiosa. Egli adora un Dio iperboreano, annuncia una nuova religione che non sarà « né del Cristo, né di Maometto, ma non differisce essenzialmente dal paganesimo » ; pubblica il suo opuscolo nel 1489 a Firenze. – Luigi Pulci pubblica il suo Morgante maggiore, confessa di credere alla bontà relativa di tutte le religioni. È il demonio Astaroth che lo dice nel capitolo 25 del suo poema. In precedenza si pensava che bisognasse essere ortodosso o eretico, o cristiano o musulmano. Pucci crea la figura del gigante Margotte, che si burla di tutte le religioni, professa l’egoismo più materiale, si dà a tutti i vizi. Nel capitolo 16 egli completa l’insegnamento di Astaroth con un discorso deista della bella pagana Antea, che è l’espressione più netta delle opinioni che circolavano tra i compagni di Lorenzo dei Medici. – Il demonio Astaroth ha frequentato l’accademia platonica, letto tutta l’opera di Marsilio Ficino, ascoltato l’astronomo Buonincontri, commentato l’Astronomicon di Manilius. Egli ha la sua opinione su Dio, la Trinità, il libero arbitrio, la caduta e l’eterna dannazione degli angeli. Il negromante Malagigi lo evoca per aver notizie di Rinaldo. Egli stesso, Astaroth, è entrato nel cavallo di Rinaldo che conduce dall’Egitto, gli rivela con la bocca del suo destriero che al di là delle colonne di Ercole ci sono delle città ed un popolo chiamato “Antipode”, ove si adora il sole, Giove e Marte.  Ogni religione, egli dice, è gradita a Dio, purché sia sincera. Solo la fede cristiana è vera, certamente, e i giudei ed i maomettani saranno dannati. Ma essi … non perderanno nulla, perché fin nell’inferno si trova « gentilezza, amicizia, cortesia ». In tutti gli umanisti serpeggia una ammirazione discreta per l’islam. Gli viene attribuito un ideale di generosità, i dignità, di fierezza. Si esalta questo o quel sultano, soprattutto Saladino, come Boccaccio nel Decamerone,  o nella Commedia di Dante. In Masiccio si esaltano dei sultani, il re di Fez, il re di Tunisi. Fazio degli Uberti esalta “il buon Saladino” nel suo “il Dittamento”. Bisogna pure ascoltare le declamazioni furibonde contro il Papa Pio II, quando chiama alla crociata contro i turchi, proprio un Piccolomini, il grande amico degli umanisti. L’Astrologia viene pure opportunamente in soccorso dell’ecumenismo. Sono autori arabi e giudei che diffondono questa teoria, che ogni religione dipenda dagli astri. Battista Mantovano, nel suo “De Sapientia” spiega che la congiuntura di Giove con Saturno aveva prodotto la dottrina ebraica, quella di Giove con Marte aveva dato origine alla religione caldea, la religione egiziana era il frutto della congiunzione di Giove con il sole; Giove in congiuntura con Venere aveva creato il maomettanesimo, in congiuntura con Mercurio, aveva prodotto il Cristianesimo. Come si vede le religioni sono sotto la dipendenza diretta degli Arconti dei nostri gnostici, degli Zephiroths dei cabalisti, che sono le vere divinità reggitrici degli astri. Si noti anche che l’Arconte, maestro del Cristianesimo, è mercurio, cioè Hermès, il tre volte grande, il “Trismegista”: è lui che è stato formato dal “Pastore” il pimandro, cioè il Cristo, l’ultimo dei grandi iniziati. – Più insinuante ancora, il demone ispira ai poeti del Rinascimento gli argomenti che i nostri modernisti si sono fatti un maligno piacere di sviluppare dopo l’ultimo secolo e che sono oggi ripresi dai nostri moderni gnostici. – Un certo Theodolus o Theudulus (il suo nome familiare è Teodolo) pubblica un’ecloga nella quale oppone Pseustis, la menzogna, e Alitea, la verità. Due pastori che sulla moda di Virgilio, ingaggiano una lotta poetica. Phronisis, la Saggezza, è designata come arbitro e, come Pseustis racconta le favole dell’antica Grecia, Alitea gli oppone la meravigliosa recita della Bibbia. Si capisce che la verità rimane vittoriosa, ma qual demolizione intanto: Se Alitea parla di paradiso terrestre, è perché Pseustis ha cantato l’età d’oro, il regno di Saturno. Se racconta la storia di Adamo cacciato dal Paradiso, il suo avversario ha mostrato Saturno detronizzato da Giove, l’età dell’oro sostituita dall’età dell’argento. Si vede così da un lato Cecrops istituire il culto idolatrico, dall’altro Abele e Caino offrire sacrifici. Poi viene Licaone con Henoch, il diluvio di Deucalione con il diluvio di Noé. Hebé è soppiantato da Ganimede ed il corvo maledetto dagli animali perché non ha portato nell’arca la notizia della salvezza. Qui i Titani fanno la guerra all’Olimpio e là, Babele si volta contro il cielo; Dedalo causa la perdita di suo figlio Icaro mentre Abramo sacrifica Isacco, etc. si potrebbero ancora riferire parecchie concordanze, degli avvenimenti che l’umanità primitiva si era trasmessa oralmente deformati nel corso dei secoli, ai quali si era aggiunta molta fantasia, ma la Genesi aveva conservato la tradizione più autentica. Gli umanisti ne traggono invece un’altra conclusione, che cioè tutte le religioni, la cristiana come la pagana, erano la deformazione di una Tradizione primitiva perduta ed il serpente era là, vicino alle loro orecchie per sussurrare loro che egli era il solo a conoscerla veramente, e che se essi volevano esserne iniziati, avrebbero dovuto passare per la Conoscenza (la gnosi). Gli umanisti praticano abitualmente la mescolanza delle due ispirazioni, la cristiana e la pagana. Pio II scrive al sultano di Costantinopoli che “il Cristianesimo non è che una nuova lezione più completa del sovrano bene egli antichi”. – Leone Battista Alberti, già citato, commenta secondo un metodo simile, i sei primi libri dell’Eneide di Virgilio. I viaggi che porteranno fino in Italia Enea, che rappresenta la saggezza (la “sofia” degli gnostici), simbolizzano l’ascensione graduale dell’anima terrestre verso la contemplazione della pura divinità. Idea tutta di matrice gnostica. Pico della Mirandola nell’Eptaplus, interpreta la recita della Genesi, come il contenuto dei segreti della Natura e la storia dello “spirito divino”. L’ecumenismo contiene necessariamente il Panteismo ed il “culto dell’uomo” sostituito al culto di Dio. È la religione del serpente. [Da queste considerazioni si comprende come effettivamente l’ecumenismo del novus ordo, sia la religione dell’uomo divinizzato, del Dio immanente vivente nell’uomo e nella natura, nel cosmo in evoluzione; l’uomo pertanto non ha bisogno di redenzione, né di culto, né di sacramenti, ma semplicemente della conoscenza di sé come uomo-dio, cioè la gnosi; è il medesimo sibilo serpentino delle conventicole massoniche ormai trapiantate in quelli che erano  un tempo i sacri palazzi … dell’urbe e dell’orbe. Il serpente si fa adorare nelle logge come baphomet-lucifero, e nella falsa chiesa dell’uomo, come il “signore dell’universo” …, ma la lingua biforcuta è la stessa.]

I TEMI GNOSTICI NELLA LETTERATURA.

Infine gli gnostici hanno ben compreso che, per penetrare la società cristiana e capovolgerne la mentalità, non si poteva fare a meno dei letterati, e soprattutto dei poeti. Essi hanno assediato questi ultimi, li hanno educati, istruiti in tutte le scienze occulte, l’alchimia, la kabbala, e soprattutto la filosofia platonica. Poi hanno spiegato loro che essi erano i veri sacerdoti di una nuova religione, che la loro poesia dovesse sembrare come una rivelazione divina, poiché l’ispirazione viene direttamente dalla divinità. Non si rimarrà allora sorpresi dal ritrovare nei poemi del Rinascimento tutte le idee sviluppate nelle pagine precedenti. Joachim du Bellay ha lasciato dei sonetti tutti impregnati da idealismo platonico, adagiati su una concezione nuova dell’amore e della bellezza. L’amore per la bellezza terrestre, egli dice, traduce l’aspirazione sublime dell’anima, prigioniera quaggiù, verso la bellezza divina ideale. Questo deve essere pertanto un amore casto e puro, nei fatti un amore sterile, stornato dalla sua propria finalità, che è la procreazione. È pure un amore che esalta la morte, che la chiama, la provoca finanche. Già prima di lui, Clemente Marot aveva presentato questo amore della bellezza come un richiamo al suicidio:

« L’anima è il fuoco, il corpo un tizzone,

l’anima vien dall’alto, il corpo è inutile.

Altro non è che bassa prigione,

in cui langue l’alma nobile e gentile.

Di tal prigione ho la sottile chiave;

è il mio dardo all’anima graziosa,

perché la trae fuor dalla vil prigione,

per rinviarla da quaggiù al cielo ».

La morte è buona, bisogna averne desiderio, è facile darsela, perché è liberatoria. Si ritrova la stessa concezione della morte liberatrice in questo poema di Joachim du Ballay, intitolato:  l’Idea

« Se la nostra vita è men che una giornata nell’eterno,

se l’anno che fa il giro,

discaccia i nostri giorni senza spirto di ritorno;

se peritura è ogni cosa nata,

cosa sogni tu, anima prigioniera?

Perché ti piace l’oscur dei nostri giorni,

se per volare in più soggiorno chiaro,

tu hai al dorso ali ben piumate?

Là c’è il bene che desia ogni spirto

Là il riposo a cui tutto il mondo aspira,

là è l’amore, là è il piacer ancora.

Là, all’alto ciel, anima mia guidata,

potrai conoscervi l’Idea

della beltà che in questi mondo adoro. »

Si noti, al termine, che la bellezza ha preso il posto di Dio, l’amore è sinonimo di piacere e di libertà, che l’anima portata dall’aquila piumata è angelica. Infine come involarsi verso il soggiorno più chiaro, senza darsi la morte? Questo poema è dunque anch’esso un netto richiamo al suicidio. Non bisogna poi egualmente illudersi sulla qualità cristiana di un tale amore. Mai il Cristianesimo ha insegnato che l’amore debba essere sterile, conseguenza del cosiddetto amore “casto e puro”; è una invenzione del serpente, omicida e menzognero . lo ritroveremo tutto nella poesia romantica. Questa impazienza di scappare alla “prigione” terrena, questa aspirazione verso l’assoluto della bellezza, che non è Dio, annunzia tutte le stravaganze romantiche.

Ma ascoltiamo Ronsard.

« Dio è in noi, e per noi fa miracoli,

sì come i versi di un poeta scrivente,

son degli dei gli oracoli e i segreti

che innanzi spingon con la bocca. »

« Perché dunque fate sacerdoti? » domanderà più tardi Victor Hugo. Il poeta è il vero sacerdote della religione gnostica. Ronsard si vanta e si dice cristiano, ma tutto il pensiero è panteista. Dio stesso – secondo lui – è l’energia vitale che circola nell’universo e generatrice degli esseri che lo popolano. Egli è il viscere centrale, il focolaio dell’ardore del mondo, l’Anima del mondo che lo avvolge e di cui tutte le creature sono degli accidenti. Ascoltiamo questa gnosi:

« Perché dappertutto si mescola Dio,

inizio, intermezzo e fine

di ciò che vive ed in cui l’anima è chiusa

dappertutto rinvigorisce ogni cosa

dagli elementi di questa anima infusa

noi siam nati. Il corpo mortale utilizzato al tempo,

dagli elementi è fatto;

da Dio vene l’anima, l’anima perfetta,

l’anima perfetta, intoccabile, immortale,

come da un’essenza eterna:

l’anima non ha inizio né fine,

perché la parte segue il tutto,

con la virtù di questa anima mistata

gira il ciel e la stellata volta,

il mare ondeggia, la terra produce,

con le stagioni, erbe, foglie e frutti …

perle, zaffiri, han da questo lor essenza,

e per tal anima han forza e potenza.

Che più, che meno secondo la pienezza,

così ne è di noi, poveri umani … »

Ecco un buon compendio di cosmologia gnostica: Dio è identificato con l’anima del mondo che dà vita e forza a tutti gli esseri. Egli è inizio, intermedio, e fine! [Dio certamente è l’inizio, essendo il Creatore del mondo, e ne è fine, perché l’Universo è creato a sua gloria, ma non ne è l’intermedio, perché l’universo non è Dio].  Questa espressione è tratta da Hermete Trismegisto. L’anima umana è un elemento dell’anima divina infusa nella natura. Si tratta qui di un’emanazione. Essa è eterna, non ha avuto mai inizio, come Dio, poiché … “la parte segue il tutto”. L’anima divina percorre il mondo e passa da un essere all’altro come lo slancio vitale di Bergson [filosofo gnostico moderno]. Essa è il principio che anima il tutto, anche gli esseri non animati, come le perle e gli zaffiri, così tutti i regni, vegetale, animale, minerale, sono animati dal medesimo soffio. – Questo “animismo universale” è comune a tutti i poeti del Rinascimento. Perfino l’austero calvinista, Agrippa d’Aubigné, parafrasa in anticipo il “tutto vive, tutto è pieno di anime …” di Victor Hugo. Egli così descrive la resurrezione:

« Qui un albero sente dalle braccia della sua radice,

sciame di un capo vivente, uscire un petto.

Là, l’acqua torbida ribolle e poi disperdendosi

Sente in sé dei capelli ed un capo si scuote … »

Ronsard, in una delle sue più celebri “Elegie”, riassume il problema molto bene:

« O dei, quanto vera è la filosofia che dice ch’ogni cosa alla fine perirà,

e cambiando forma in altro vestirà!

… la materia resta, la forma svanirà.

La materia qui, nel pensiero del poeta, è divinizzata, poiché porta in se stessa in potenza tutte le forme possibili e ne produce la varietà. Questa materia è certamente dunque l’anima del mondo. Gli esseri non sono che manifestazioni provvisorie e successive di uno stesso principio vitale « incluso, infuso » nella natura. – Infine Rostand, come ogni buon gnostico pratica il culto del demonio. Egli ne eredita la storia dai sogni neo-platonici di Giamblico, dal cronicario bizantino Psellos, ai tomi degli occultisti. – Egli ha pubblicato « L’inno dei demoni », dedicato al vescovo di Riez, Lancelot Carle, grande estimatore dei filosofi segreti, con l’intenzione di sfuggire ai fulmini dell’Inquisizione riparandosi dietro un prelato. Questo poema si ricollega alle tradizioni più esatte delle scienze occulte dell’epoca. In questo poema, Rostand ci racconta che i demoni sono stati concepiti dalle donne della terra per mezzo di Angeli (guadate che potenza viene attribuita alla bellezza femminile) e che Dio, avendo punito i colpevoli, perdonò ai figli innocenti, « che, non essendo colpevoli dei misfatti dei loro genitori, tenendosi più dalla parte del padre che della madre, si involeranno in aria come cosa leggera ».

Ecco uno stravolgimento un po’ forte del dogma del peccato originale. Questi demoni hanno animato i diversi pianeti che governano, attraverso loro, gli atti ed i caratteri dei mortali:

« Secondo l’astro del cielo sotto il quale essi sono nati,

quelli di Saturno fan l’amore malinconico,

quei di Marte, il collerico, quei di Venere, lubrico;

quei del sole amati, felici, di Giove … »

Da ciò si vede ancora che l’Astrologia è certo una scienza demoniaca, perché pretende di determinare gli atti umani con una influenza astrale che toglie loro ogni libertà. –  Si comprende bene pure che questi “demoni” non sono altro che gli arconti degli gnostici o gli zephiroth dei kabbalisti; sono le perfette emanazioni del “gran tutto” che comandano il cammino dell’universo e governano le umane volontà. Si vede ancora apparire in filigrana attraverso questo poema, la riabilitazione di satana, ridivenuto lucifero e padrone del cielo, che i romantici fra non molto esalteranno.

[2 – Continua …]