GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (36): GNOSI E TRADIZIONE -2-

Gnosi e “tradizione-2-

[Elaborazione da: É. Couvert, La gnose contre la foi, Ed. De Chiré, 1989]

Le grandi tesi di questa filosofia “Tradizionale”.

1. Il disprezzo della ragione: da Lutero a Lamennais.

Conosciamo già le violente diatribe che Lutero portava contro la ragione umana. Fedele al suo errore fondamentale sulla corruzione assoluta della natura umana, frutto del peccato originale, Lutero insegnava « … che la ragione umana è nemica della fede ed è la “fidanzata” (egli impiegava in verità una parola molto più scurrile … degna di lui!) del demonio »; « … tra tutti i pericoli dei quali l’uomo è circondato sulla terra – aggiungeva – il più grande è la propria ragione, quando si mescola il parlare di Dio e dell’anima. Tutto ciò che essa dice, è onta e blasfemia. » – « … È più facile che un asino possa parlare, che l’intelligenza possa conoscere la verità! » – Se il linguaggio dei nostri filosofi “tradizionali” è quantomeno, non così grossolano e certo meno violento, non è men vero che però, attraverso i loro scritti, scorra un disprezzo della ragione che costituisce il punto di partenza sempre sottogiacente a tutte le loro considerazioni metafisiche. Se ne ritrovano le formule più o meno vive negli scritti di de Maistre, di Bonald, di Lamennais. Così, nel corso delle pagine dei suoi scritti, Maistre esalta il “sentimento interiore” e “l’intuizione”, come fonti di verità, e denuncia nel contempo la ragione ragionante (come se potesse esistere una ragione non ragionante!). – Lamennais ha delle formule ancor più incisive: « L’uomo non può con le sue forze darsi, né conservarsi l’essere … » Ed ancora altrove: « … Quando la verità si concede, l’uomo la riceve; ecco tutto ciò che essa può; ma occorre ancora che la riceva con fiducia e senza esigere che mostri i suoi titoli … perché essa non è in grado di verificarli … », e si potrebbe continuare ancora a lungo così. Qual è il punto? – Il visconte di Bonald pubblica nel 1802: « La Legislazione primitiva considerata negli ultimi tempi con le sole luci della ragione ». In questo libro, il nostro visconte spiega al suo lettore che egli deve comprendere « con i soli lumi della sua ragione »,  che cioè la ragione personale sia incapace di giungere a qualsiasi verità, e pertanto essa debba sottomettersi al sentimento generale dell’umanità che, esso solo, è infallibile. Qual ironia! Non si può senza ridere far comparire la ragione davanti al tribunale della sua sola ragione personale, per poterla condannare! E qual incoerenza! Se le sole luci della ragione sono capaci di dimostrarmi che la ragione è inefficace, io sono condannato allo scetticismo più assoluto e più deludente!!! Verso la fine della sua vita tuttavia, Joseph de Maistre ebbe timore e scrisse questa lettera, sul letto di agonia, all’abate Lamennais: «Io vorrei, Monsignore abate, dirvi una parola essenziale: voi volete trarre la ragione dal suo trono e forzarla a fare una bella riverenza; ma con quale mano commetteremo questa insolenza? Con quella di Aristotele, senza dubbio, non ne conosco altre da poter impiegare! Eccoci dunque a Roma ridotti al sistema romano e a questi stessi argomenti che non vi sembrano più niente, e le dimostrazioni di Euclide sono assai inconcludenti ai nostri giorni, come lo erano già ai suoi tempi. Ma se Abadie, Pascal, Ditton, Sherlock, Bergier e compagnia possono fare oggi degli increduli, cosa dobbiamo concluderne? Fate attenzione  monsignor abate, procediamo dolcemente, io ho paura ed è tutto ciò che posso dire. » Questo atto supremo del pensiero religioso di de Maistre costituì uno slancio preoccupato sul soggetto del tradizionalismo di Lamennais che, tredici anni dopo, Roma condannerà. È Auguste Compte che mette il dito nella piaga in questa pagina del suo “Corso di Filosofia positiva”: « Quando si analizzano i vari tentativi tanto frequentemente rinnovati da due secoli da intelligenze distinte e talvolta superiori, per subordinare, secondo la forma teologica, la ragione alla fede, sarà difficile riconoscere la costituzione radicalmente contraddittoria, che stabilisce la ragione stessa essere giudice supremo di questa sottomissione, di cui l’intensità e la durata dipendono unicamente da queste decisioni verbali, non raramente troppo severe. – Il più eminente pensatore della scuola cattolica attuale, l’illustre de Maistre, ha reso egli stesso una testimonianza chiarificatrice, benché involontaria, a questa inevitabile necessità della filosofia quando, rinunciando ad ogni apparato teologico, si sforza, nella sua opera principale, di fondere il ristabilimento della supremazia papale su semplici ragionamento storici e politici, altrove su certi sguardi mirabili, in luogo di limitarsi a comandarlo direttamente di “diritto divino”, il solo modo pienamente in armonia con la natura di una simile dottrina e che un tale spirito, nella nostra epoca, non avrebbe esitato senza dubbio a seguire esclusivamente, se lo stato generale dell’intelligenza non ne avesse impedito, anche in lui, l’intera preponderanza. » – Certo è evidente: non ci si può richiamare alla ragione contro se stessa, senza cadere nell’assurdità. Ma se Auguste Compte avesse conosciuto la filosofia scolastica, avrebbe saputo che mai la Chiesa aveva proposto alcun dogma senza produrre nello stesso tempo i suoi titoli di credibilità al giudizio della ragione! – Ma allora: da dove viene questo disprezzo della ragione nei nostri filosofi cristiani? Paradossalmente dalla filosofia di Cartesio, come reazione contro il razionalismo rivoluzionario che ne era scaturito. – Con il suo dubbio metodico, Cartesio ha gettato fuori dal nostro spirito tutte le nostre conoscenze oggettive. Egli ha tagliato il nostro spirito dal reale, lo ha dichiarato incapace di giungere all’essere stesso delle cose conosciute. Egli ha insegnato le idee innate, al modo di Platone. – Se le idee sono in me l’opera stessa del mio pensiero, se esse non sono in me la forma stessa delle cose conosciute, la mia ragione non può più operare sul mondo reale. Essa si ritrova condannata ad operare su delle forme costruite dal mio pensiero, all’interno di esso. Di colpo eccomi divenuto cieco! Il mio pensiero non può dirmi niente sul mondo esteriore. – Dove trovare allora la certezza? Se la verità non è l’accordo del mio pensiero con le cose, la mia ragione non può più dunque che danzare con i concetti. Essa gira a vuoto ed io posso dunque pensare dunque non importa cosa, perché non ho più contatto con le cose che devono mettere un freno alle mie costruzioni razionali. Ecco la ragione divinizzata, ma … svuotata: io posso pensare un mondo fantastico inventato da me stesso. – Un giorno io vorrei creare un mondo con il mio pensiero, e siccome il mondo reale si presenta davanti a me con i suoi vincoli e le sue resistenze, occorrerà distruggerlo: questo sarà la rivoluzione, questo odio feroce e devastante contro un mondo creato dall’altro che non corrisponde al mio desiderio di perfezione tale come lo concepisco nel mio spirito. Per distruggere, bisognerà alzare questa dea-ragione su un altare al posto di Dio ed adorarla. – Noi comprendiamo allora perché i nostri filosofi cristiani hanno preso in disgusto questa “Ragione”. Questa fu una reazione di buon senso, ma ahimè senza prudenza! Denunciando questa ragione divinizzata, essi hanno attaccato la vera ragione, quella che Dio ci ha dato, per conoscere, giudicare ed amare. Essi hanno abbassato l’uomo, lo hanno dichiarato incapace di giungere con certezza alla verità. Facendo questo, essi sono caduti in un errore fondamentale che avrebbe potuto essere evitato grazie a qualche necessaria distinzione concettuale. La teologia cattolica ha sempre insegnato che la nostra ragione ha il potere assoluto di conoscere, con i propri lumi, tutte le verità religiose e morali di ordine naturale. Ahimè, noi possiamo ingannarci e cadere nell’errore. La storia dell’umanità ce lo insegna ampiamente. Come ridurre questa antinomia? Semplicemente distinguendo la facoltà del suo esercizio. Dio non ha voluto ingannare gli uomini. Cartesio stesso in un eccesso provvisorio di franchezza, ha scritto: « Perché Dio, non potendo essere ingannatore, non potendo volere che le sue creature si ingannino, non ha potuto dare all’uomo la ragione ed i sensi come mezzi di errore. » – Senza dubbio Dio ci ha dotato di intelligenza e di ragione per conoscere e comprendere il mondo creato che ci circonda. Quando usiamo di questi mezzi nel loro ordine naturale e nella loro finalità, non possiamo ingannarci. Ma noi possiamo non usare la nostra ragione o anche misurarne. Allora cadiamo nell’errore: è il privilegio della nostra libertà. Noi possiamo rifiutare di pensare, perché la riflessione, la meditazione sono atti difficili e che richiedono uno sforzo. Noi preferiamo sognare, dormire o gioire. La sbornia inveterata gode di una ragione naturale. Ahimè! Non se ne serve! L’ambizioso, il vanitoso utilizzano la loro ragione per giustificare i loro eccessi! Essi la distolgono dalla sua finalità. Come volete che così non vi inganni? Il Papa Pio IX, nella sua enciclica del  9 novembre 1846 (Qui pluribus) ha condannato le dottrine degli Annali di filosofia cristiana, nei quali Augustin Bonnetty insegnava che « l’uomo in qualunque stato si trovi, non possiede in realtà che un principio di conoscenza per le verità della religione naturale, tali quali l’esistenza di Dio, l’esistenza della legge naturale, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di un’altra vita. » Questo principio della conoscenza non è altro che la rivelazione divina manifestata all’uomo con la tradizione. Sprovvista del soccorso di questa tradizione, la ragione, lasciata interamente a se stessa, è assolutamente incapace di scoprire queste verità. Da qui l’atto. Si pone qui il problema della Fede. Quando Dio propone alla nostra intelligenza una verità di ordine soprannaturale, che oltrepassa infinitamente le capacità di comprensione del nostro spirito, non pretende di fare appello ad altra facoltà che non sia la ragione, alla quale sovrapporrebbe una sorta di ragione divina allogata nella nostra anima. Esso non pretende di ritirarsi per sostituirvi un altro modo di conoscenza che non sarebbe più umano, bensì divino. Assolutamente. Egli domanda alla nostra ragione di aprirsi ad una verità più perfetta, più alta. Chiede uno sforzo di perfezione e siccome questo ordine soprannaturale oltrepassa le facoltà native della nostra ragione, occorre aggiungere una grazia particolare che non distrugge la ragione, ma la completi e la rifinisca. – Uno dei rari pensatori cattolici che conserva, in questa epoca, la vera dottrina della Chiesa, senza cadere nel tradizionalismo, né nel liberalismo dottrinale che allora facevano furore, è dom Guéranger. Egli ha esposto molto bene la questione in un notevole articolo dell’Univers del 3 giugno 1858. – Egli comincia col rigettare il Tradizionalismo, sistema propaggine del Bajanesimo, fortunatamente in declino e destinato a sparire; poi spiega l’uso legittimo della ragione che si esercita sotto il controllo della fede. Egli mostra così che l’atto di fede è mirabilmente volontario, che esso è il coronamento della ragione, come ne è la prova che germoglia sotto la grazia nell’anima dell’uomo e non declina mai da « questa gloriosa umiltà che ci inchina davanti al pensiero di Dio ». Come potrebbe Dio far germogliare la fede in un’anima priva di ragione?

2. L’inneismo delle idee: Da Platone a Cartesio a Joseph de Maistre.

Se la nostra intelligenza dotata di ragione non è capace di produrre in noi le idee estratte dalle cose che ci circondano, donde possono dunque provenire le nostre idee? Per i filosofi platoniani, esse erano già in noi fin da prima della nascita. È l’inneismo che suppone quindi la preesistenza delle anime prima della loro caduta nei corpi, concetto sovranamente gnostico. – Joseph de Maistre, fu contemporaneo della filosofia del Sensualismo che insegnava che le idee erano il prodotto delle sensazioni; di là, ad estrarle dalla materia, non c’era che un passo, … presto raggiunto. Fu il caso di Condillac e di Locke. Reagendo a questa concezione, fonte di materialismo, e citando questa formula di Aristotele: « che l’uomo non può apprendere nulla se non in virtù di quanto già non sappia », Maistre ne trae la  conclusione che: ciò suppone necessariamente qualcosa di simile alla teoria delle idee innate già sostenuta da Platone. – Maistre cita pure più volte San Tommaso d’Aquino senza comprenderlo: quest’ultimo dice che « niente può entrare nello spirito se non per l’intermediario dei sensi » (Nihil est in intellectu quod prius non fuerit sub sensu), perchè – egli afferma ancora – « l’intelligenza, nel nostro stato di degradazione non comprende nulla senza immagini » (intellectus noster secundum statum præsentem nihil intellegit sine phantasmata), e Maistre ne conclude: « che non può esserci rapporto alcuno, alcuna ideologia, alcuna equazione tra la cosa compresa e l’operazione che comprende » e « … che i più mobili ed i più virtuosi geni dell’universo si sono accordati nel rigettare le origini sensibili delle idee » (Serate di San Pietroburgo). Ora, San Tommaso non dice che le idee siano prodotte dai sensi, ma che esse abbiano bisogno dei sensi per fissarsi nello spirito. – In un altro passaggio, Maistre continua: « Guardate bene in tutti i libri filosofici del XVIII secolo, non si diceva francamente che Dio non c’è, ma si diceva: Dio non sta là. Egli non è nelle nostre idee, e poiché esse vengono dai sensi, Egli non è nei nostri pensieri che non sono che sensazioni trasformate, etc. » Certamente, egli ha ragione nel negare che le sensazioni possano produrre le idee, ma ha torto nel concluderne che le nostre idee non vengano da cose percepite dai sensi. Il cartesianesimo ed il platonismo che impregnano il suo spirito, dopo averlo reso inadatto a percepire ciò che vi è di intellegibile nelle cose, lo costringono a cercare, fuori dal reale conosciuto, la fonte delle idee. Cosa gli resta? Una rivelazione divina o ancora un’attività propriamente divina operante nel nostro spirito. – Egli pertanto continua: « Ogni idea che non provenga né dal commercio dello spirito con gli oggetti esteriori, né dal lavoro dello spirito su se stesso, appartiene alla sostanza dello spirito. Ci sono dunque delle idee innate, o anteriori alla nostra esperienza. Io non vedo conseguenza più inevitabile; ma questo non deve stupire. Tutti gli scrittori che si sono esercitati contro le idee innate si son trovati ad essere portati dalla sola forza della verità a riconoscersi più o meno favorevoli a questo sistema » (In “Serate” …). Questo inneismo è stato insegnato da Platone, da Sant’Agostino anche, pur avendolo rigettato nelle “Ritrattazioni” (Libro I, cap. 2). Giunto ai suoi 75 anni, il Vescovo di Ippona, ha detto: « Io sono per questo motivo desolato nell’aver fatto un grande elogio a Platone ed ai platoniani. Questi erano degli uomini empi che non bisognava lodare a causa dei grandi errori nei quali erano sprofondati ». (« quorum contra errores magnos defendenda sit christiana doctrina ») Seguendo questa scuola cartesiana, de Maistre e Bonald al suo seguito, negano che l’uomo abbia facoltà propria di formarsi delle idee. Essi suppongono che è con la luce divina che noi vediamo in noi le idee. Supposizione assurda e che disprezza Dio Creatore! È estrapolando delle immagini ricevute dalle cose la loro forma intellegibile, che lo spirito con la sua attività propria comprende il reale e conosce l’idea che la cosa realizza. Per comprendere questo, bisogna che gli esseri che ci inviano la loro forma, sono già la realizzazione di un’idea creatrice e che possiede in sé questo carattere immateriale già preadattato alla natura immateriale della nostra anima. – Ma se, come affermano gli inneisti, è Dio che con la sua luce infinita incide direttamente queste idee nello spirito di tutti gli uomini, non c’è in fatto di idee che un unico e solo agente, operante con l’aiuto di un solo strumento, la comprensione divina, che distribuisce direttamente le idee in ogni spirito. – Se lo spirito umano non ha facoltà né operazione che gli sia propria, non ha l’essere proprio in sé: Dio sarebbe tutto in tutti gli spiriti. Ma noi qui siamo in pieno Panteismo! – Il “Me universale” di Fichte, l’Assoluto di Schelling, la “sostanza essenziale”, “la Ragione Generale” dell’umanità, non sarebbero altro che lo spirito di Dio inglobante gli spiriti di tutti gli uomini. È questa la conseguenza necessaria e rigorosa dell’insegnamento di Platone e di Cartesio. – Ahimè! Joseph de Maistre e Bonald lo hanno a loro volta ripreso. Nella loro opera c’è un certo Panteismo implicito.

3. Dalla rivelazione primitiva alla divinizzazione del popolo: da Maistre e Bonald a Lamennais.

Il visconte de Bonald ha dato l’esposizione più completa di questa rivelazione primitiva. La sua formazione intellettuale è interamente autodidatta. Egli si lega al padre Mandar, un professore ed amico di J. J. Rousseau. Egli ha letto Claude de Saint-Martin, il « filosofo sconosciuto », fondatore delle logge massoniche dette martiniste. Secondo Auguste Viatte, questi gli avrebbe imprestato l’essenziale delle sue tesi su: i numeri, la struttura dell’anima, l’origine del linguaggio. Durante la sua emigrazione egli ha letto il catechismo, ma anche Platone, Cartesio e Leibnitz. Si riferisce sovente a “Lo spirito delle leggi” di Montesquieu e al “Contratto sociale di Rousseau”, cercando di rifiutarli, o almeno correggerli. L’idea madre del suo sistema è che « l’uomo pensa la sua parola prima di esprimere il suo pensiero ». il linguaggio è dunque lo strumento necessario ad ogni operazione intellettuale ed il mezzo di ogni esistenza morale (in “Recherches philosophiques”). Incapace di inventare un linguaggio, l’uomo ha dovuto necessariamente riceverlo da Dio e con questo pure le principali verità morali e religiose. Questa è la « Rivelazione primitiva » che ci fa conoscere queste verità che il linguaggio trasmette di generazione in generazione ed è nell’infallibilità di Dio rivelatore che si trova la sola garanzia che ne ristabilisce la certezza. – Il Verbo crea e genera il pensiero che esso vuol significare. Le formule di Bonald, ci dice Albert Garreau, nel suo libro “Les Voix dans le désert. Prophètes du XIX siècle” prendono una svolta inquietante. – « Nei primi tempi dell’umanità, dice il nostro visconte, quando le leggi della natura non erano conosciute, il pensiero li attraversava ed in qualche modo risaliva a Dio stesso, Autore di tutte queste leggi. Questa presenza generale della divinità, che è dogma per una ragione illuminata, era, per la loro ragione nascente, una presenza locale. » – Questa « presenza locale » designa verosimilmente la presenza sensibile ed evidente di Dio manifestata ai nostri primi genitori nel paradiso terrestre. A partire di là, il Bonald si azzarda pericolosamente pretendendo di fondare sulla Tradizione universale, e contro la ragione, una criteriologia della Verità. – « Il genere umano, cioè le società di tutti i tempi e di tutti i luoghi, ebbe il sentimento dell’esistenza della Divinità. Dunque la Divinità esiste, perché il sentimento generale del genere umano è infallibile. » (sembra di leggere J. J. Rousseau). E: « Gli uomini nominano Dio, quindi Egli c’è; perché se non ci fosse non sarebbe nominato. » Si crederebbe che secondo Bonald sono le parole che creano le cose! Noi riconosciamo qui la prova ontologica, ricopiata direttamente da Cartesio. –  Questo sistema è pericoloso, non solo perché condurrà certi discepoli del Bonald – Lamennais e Bautain – a negare le capacità della ragione individuale, ciò che varrà loro la condanna della Chiesa, ma ancor più perché gli occultisti del XIX e XX secolo ne profitteranno per fare accettare la loro dottrina della grande tradizione universale – tradizione di cui il Cristianesimo, non sarebbe che semplicemente un ramo. – Quanto alla teoria dell’origine divina del linguaggio – che notiamolo, non è stata inventata dal Bonald perché la si trova già esposta e discussa ampiamente nell’Encyclopédie (art. “lingua”), in J. J. Rousseau (Discorso sull’origine … dell’ineguaglianza …) o in Claude de Saint Martin – si può trovarne la fonte nella kabbala. – La kabbala ci spiega che la parola è la creatrice degli esseri. Ad ogni lettera dell’alfabeto, la kabbala fa corrispondere una cifra mistica. Dunque le lettere ebraiche sono sacre e di origine divina. Il Verbo è un essere intermediario tra il Creatore e la creatura. Egli porta in sé l’essere stesso delle cose che designa. Esso non è dunque un segno convenzionale inventato dall’uomo per trasmettere il suo pensiero: è un vero ritorno al “Nominalismo”. È la parola che apporta al pensiero i suoi oggetti di conoscenza. Noi designiamo con il pensiero il linguaggio e non gli oggetti che esso designa. – Sistema doppiamente erroneo, perché esso presuppone esservi alla radice dei nostri pensieri una rivelazione: è dunque Dio che pensa in noi! L’ordine naturale e l’ordine soprannaturale sono confusi. Tutte le tradizioni di tutti i paesi sono i resti di una grande rivelazione primitiva; esse sono dunque sacre. Ed i popoli detengono in se stessi l’infallibilità divina. – A tali assurdità occorre rispondere con qualche domanda di buon senso. Se il nostro pensiero è il prodotto di un linguaggio divino, come si spiegano gli errori? Dio potrebbe ingannarsi nella sua rivelazione? Come l’uomo potrebbe inventare delle moltitudini di dei? In altre parole, il politeismo sarebbe impossibile. – Ma ancora, la prima conoscenza degli uomini è un atto di fede. La filosofia non è dunque che uno sviluppo di questo atto di fede primitivo. Essa è dunque una teologia. Ecco cosa rovina la Fede e la Teologia. – Credere in Dio, rivelatore del linguaggio e creatore del pensiero umano, senza aver prima portato una prova della sua esistenza, è un atto irragionevole, una dismissione della nostra intelligenza. L’uomo condannato ad un atto di fede ancor prima di aver fatto uso della sua ragione (poiché essa è detta “nascente”), qual follia! Dio, dandoci un’anima spirituale dotata di intelligenza e rendendoci incapaci di servircene, si sarebbe preso così gioco di noi! – In realtà, il linguaggio non è lo strumento del pensiero, ma lo strumento che l’uomo si è forgiato per trasmettere il suo pensiero. Non c’è rapporto necessario tra le parole e le cose che esse significano: le parole sono simboli, cioè segni convenzionali. Da una lingua all’altra la parola può cambiare, ma l’idea che rappresenta, è sempre la medesima, perché essa è in relazione non necessaria con l’oggetto, essendone la forma intellegibile. Con la parola il nostro spirito perviene all’oggetto stesso. Il nominalismo è impensabile! – L’abate de Lamennais non ha fatto che portare le idee che esponiamo alle loro conseguenze ultime,k o meglio, egli ha spiegato il loro contenuto reale e gli ammiratori di de Maistre e di Bonald si vanno affollando. Finalmente la Chiesa li condannerà. – Quando il suo secondo volume di « L’Essai sur l’indifférence en matière de religion » appare nel 1820, qualche spirito più riflessivo cominciò a notare delle reticenze. – Lamennais vi insegnava che la ragione individuale è capace di darci solamente delle certezze istintive o del fatto, e che solo la ragione collettiva dell’umanità, il consenso universale, il “senso comune” danno la certezza assoluta o di diritto, appoggiata su Dio, di cui conservano e trasmettono gli insegnamenti. – Il criterio del vero non è l’evidenza della proposizione che lo enuncia, ma l’autorità della ragione generale che afferma: « è vero ciò che gli uomini credono che sia vero. » Bisogna rigettare la ragione dell’uomo separato dalla ragione umana e dalla ragione di Dio, esprimendosi con la ragione umana generale legata all’uso della parola. La conoscenza non è innata nell’uomo, né acquisita, ma innata nella società. Bisogna rigettare, estirpare dalla filosofia cristiana l’idea che in ognuno la ragione sia dotata della potenza di raggiungere il vero. – Di tal modo che per Lamennais, sotto le religioni dette “primitive” ed i culti dell’antichità, sotto l’alterazione dei paganesimi si riconoscono delle credenze universali, identiche alle idee essenziali del Cristianesimo. La vera religione si trova presso tutti i popoli. Il Cristianesimo non ne è che la spiegazione più completa. – Maine de Biran reagisce ben presto con molto buon senso: « Ecco un altro bel mistero. La sede delle verità di cui si tratta, è la società che, dotata di una sorta di intelligenza collettiva, differente da quella degli individui, ne è stata imbevuta dalle origini dal dono del linguaggio ed in virtù di un’influenza miracolosa esercitata sulla massa solo indipendentemente dalle parti. L’uomo non è nulla, la società solo esiste, essa è l’anima del mondo morale. Essa sola resta, mentre le persone individuali non sono che fenomeni … ascolta che potrà questa metafisica sociale!!! … »  – Dom Guéranger era allora al seminario di Mans. Il suo professore di filosofia, M. Arcanger, il suo ripetitore, M. Nourry erano menesiani. Egli fece come loro, prese parti per il senso comune. « Il senso comune – diceva egli più tardi, noi non lo avremo mai veramente, ma credo che i nostri compagni cartesiani fossero ancora più assurdi che noi. » E aggiungeva: « io non avevo al tempo compreso queste questioni, come tanti altri, se non dopo essere uscito dal seminario. » – È una delle glorie di Dom Guéranger essersi sempre levato contro un divorzio così pregiudiziale alla ragione e alla fede ed essere stato il precursore di un movimento filosofico che, per sostenersi e difendere la ragione contro l’agnosticismo o il tradizionalismo, non aveva che da ritornare alle origini scolastiche e a San Tommasa d’Aquino. Dal 1862, il padre Ramière, S. J. pubblicava: “De l’unité de l’insegnament de la Philosophie au sein des écoles catholiques”, primo tentativo di restaurare il Tomismo nella Chiesa francese. – Lamennais tenta di difendersi dall’avere innovato ed ha ragione. Tutto il suo insegnamento proveniva da Bonald, « questa quercia vigorosa – dice – che cerca la sua linfa attraverso le rocce primitive fino alle viscere della terra. » – « Questo povero libro – scrive a Saint-Brieue, il 3 agosto 1820, è stato poco compreso fino ad oggi, soprattutto dal clero di Parigi. Si fa di me uno scettico, perché ho rovinato lo scetticismo e dato, almeno mi sembra, una vera base alla ragione. Persone che hanno dello spirito pertanto mi hanno scritto su questo cose strane … M. de Bonald pensa come me e sosterrà la mia dottrina. Io la credo sinceramente di estrema importanza per la religione ed è questo che mi tranquillizza sulla mia sorte. » – « Per quel che è delle mie idee – scrive ancora il 10 febbraio del 1837 a Mme Cottu, esse si sono sviluppate, non mi hanno cambiato. Il germoglio è diventato foglia, ecco tutto … Le mie idee, sempre le stesse nel fondo, si sono rettificate, estese, sviluppate, ecco tutto. Non si è uniti a Dio finché non si è uniti all’umanità, senza distinzione di luoghi, di tempi, di opinione, di credenza … ». È  meraviglioso! È fondando il proprio pensiero nel pensiero collettivo dell’umanità, che si può pervenire alla verità. Marx ed Hegel non hanno detto diversamente. L’umanità divinizzata, il mondo detentore della Verità infallibile! … tutte le religioni non essendo che espressioni variate di una stessa religione universale! Non siamo forse qui in piena gnosi massonica? Ed infatti, è esattamente quanto gli infiltrati gnostico-massonici hanno inserito nel vergognoso anticattolico documento “Nostra Ætate” (28 ottobre 1963, … che coincidenza … a 5 anni esatti dall’usurpazione della Sede Apostolica), VI sessione del conciliabolo cosiddetto Vaticano II, presieduto appunto dall’illuminato patriarca giudeo-kazaro G.  B. Montini [l’anti-Papa Paolo VI]. E non è finita, vedremo come queste idee siano in germe nelle famigerate “Serate di San Pitroburgo”, di Joseph de Maistre.