CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (VI)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO V.

Conseguenze di questa Divisione.

Espulsione degli angeli ribelli — Loro dimora: l’inferno e l’aria — Passi di san Pietro e di san Paolo — di Porfirio — di Eusebio — Di Beda — di Viguiero — di san Tommaso — Ragione di questa doppia dimora — Dal Cielo discende la lotta sulla terra — L’odio contro il domina dell’Incarnazione, ultima parola di tutte le eresie e di tutte le rivoluzioni, innanzi e dopo la predicazione del Vangelo — Odio particolare di Satana contro la donna — Prove e ragioni.

E il Dragone, aggiunge l’Apostolo, venne precipitato sulla terra, projectus in terram. [Et postquam vidit Draco quod projectus esset in terram, etc. Apoc., XII, 18]. – Qual è questa terra? Parlando della caduta di Lucifero e de’ suoi complici, san Pietro dice che Dio gli ha precipitati nell’inferno, dove sono tormentati e tenuti in riserva sino al dì del giudicio. [Rudentibus inferni detractos in tartarum tradidit cruciandos, in judicium reservari, II Petr. II, 4]. Altrove egli ci esorta alla vigilanza prevenendoci che il demonio, simile ad un leone che ruggisce, gira di continuo a noi d’intorno per divorarci. [Vigilate quia adversarius vester diabolus tanquam leo rugiens, Circuit quaerens quem devoret. I Petr., V, 8]. – San Paolo dal canto suo, chiama Satana il principe delle potenze dell’aria, ed avvisa l’uman genere di porsi indosso la sua divina armatura a fine di poter resistere agli assalti del demonio. « Per noi, dice egli, la lotta non è contro i nemici di carne e di sangue, ma contro i principi e le potenze, contro i governatori di questo mondo di tenebre, gli spiriti maligni, che abitano nell’aria. » [Secundum principem potestatis aeris hujus. Ad Ephes. II, 2. — Induite vos armaturam Dei, ut possitis stare adversus insidias diaboli. Quoniam non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem; sed adversus principes et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum, cantra spiritualia nequitiæ, in cœlestibus. Id., VI, 11 et 12].  A questo modo, i due organi più illustri della verità, san Pietro e san Paolo, danno a vicenda per abitazione agli angeli caduti, l’inferno e 1’aria che ci circondano. Malgrado un’apparente contradizione, il loro linguaggio è esatto: è l’eco rimbombante della tradizione universale. Sotto il nome di Plutone o di Serapide, gli antichi popoli non hanno eglino forse ammesso un re dell’inferno, che abita le tenebrose regioni del Tartaro, e circondato da dii infernali satelliti suoi e suoi cortigiani Non hanno essi nel tempo stesso proclamato con mille sacrifici, con mille suppliche, mille differenti riti, la presenza di quelli dèi infernali negli strati inferiori della nostra atmosfera, insieme alla loro malefica azione sull’uomo e sul mondo? Dice Porfirio: « Non è invano che noi crediamo soggetti i demoni malvagi a Serapide, che è lo stesso dio di Plutone. E poiché questo genere di demoni abita i luoghi più prossimi alla terra, all’ oggetto di saziare più liberamente e più di sovente le loro abominevoli inclinazioni, non v’è sorta di delitti ch’essi non abbiano costume di tentare e di far commettere. » [Improbos dæmones Serapi subditos esse haud temere suspicamux…. atque idem prorsus qui Fiuto deus iste est. Porphyr., apud Eìiseb., Præp, Evang., ibid. IV, cap. XXIII, etc. — Hoc genus dæmonum, ut in locis terræ vicinioribus cupiditatis explendæ causa libentius frequentiusque versatur, nihil piane, sceleris est, quod moliri non soleat. Ibid., lib. IV, cap. XXII]. – Sotto questo rapporto il linguaggio dell’ umanità cristiana è simile a quello dell’umanità pagana. I Padri della Chiesa parlano come i filosofi. Ecco quel che dice il Signore rivolgendosi a Lucifero: « Tu fosti generato sul monte santo di Dio; tu nascesti in mezzo a pietre rilucenti di fuoco. Tu le sorpassavi per splendore sino al dì in cui l’iniquità penetrò nel cuor tuo. La tua scienza si è corrotta con la tua beltà, e ti ho precipitato sulla terra. » [Ezech. XXVIII, 14 e seg.]. – « Da queste parole e da altre ancora, noi veniamo chiaramente a conoscere, dice Eusebio, il primo stato di Lucifero fra le più divine potenze e la sua caduta dal più alto grado, a motivo del suo orgoglio segreto e della sua rivolta contro Dio. Ma sotto di lui troviamo miriadi di spiriti dello stesso genere, inclinati alle stesse prevaricazioni, ed a causa della loro empietà espulsi dal beato soggiorno. Invece di quello splendido cerchio di luce, soggiorno della Divinità, invece di quella gloria che brilla nella celeste magione, invece della società dei cori angelici, essi abitano la dimora preparata per gli empii, per la giusta sentenza di Dio onnipotente, il Tartaro, che i libri santi designano sotto il nome d’abisso e di tenebre. « A fine di esercitare gli atleti della virtù e di arricchirli di meriti, una parte di questi esseri maligni ha ricevuto da Dio il permesso di abitare intorno alla terra, nelle regioni inferiori dell’aria. Questa è divenuta la causa concomitante del politeismo, che non val meglio dell’ateismo; è quella che la Scrittura nomina coi nomi che le convengono: di spiriti malvagi, di demoni, di principati e di potenze, di principi del mondo, di re malefici dell’aria. Altre volte in vista di rassicurare gli uomini, suoi dilettissimi, Iddio gli designa sotto tanti simboli, per es. allorché dice: Voi camminerete sull’aspide e sul basilisco; voi calpesterete il leone e il dragone. » [Praep. Evang., lib. VII, cap. XVI.]. – Per omettere altri venti nomi, Beda il venerabile, nell’ottavo secolo, parlava in Occidente come Eusebio, al quarto secolo, aveva parlato in Oriente. Ecco le sue parole: « Sia che i demoni sorvolino nell’aria o ch’essi percorrano la terra, ossia che vaghino nel centro del globo, o che vi siano come incatenati, dappertutto e sempre portano seco le fiamme che gli tormentano: simili al febbricitante che stando in un letto d’avorio, o esposto al raggi del sole, non può evitare il calore o il freddo inerente alla sua infermità; cosi i demoni, ancorché siano onorati in splendidi templi, o che percorrano gli spazi immensi dell’ aria, non cessano per questo di ardere del fuoco dell’ inferno. » [Comment. in cap, in, epist. Jacob.]. – Più tardi un altro testimonio della fede universale si esprime in questi termini: « Una parte degli angeli cattivi, cacciati dal cielo, è rimasta nella oscura regione delle nuvole, vale a dire, negli strati mezzani e inferiori dell’atmosfera, portando seco l’inferno. Essi stanno ivi per una disposizione della Provvidenza, per tenere in esercizio gli nomini. Un’altra parte è stata precipitata  nell’inferno, spogliata di ogni nobiltà e di ogni dignità non però naturale, attesoché, come insegna san Dionigi, gli angeli caduti non hanno perduto i loro doni naturali, ma bensì i doni gratuiti, vale a dire l’amicizia di Dio, le virtù e i doni dello Spirito Santo, chiamati da Isaia le delizie del Paradiso. » [Viguier, c. m, § 2, v. 15, p. 97]. – San Tommaso col suo acume ordinario scopre la ragione di questo doppio soggiorno: « La Provvidenza, dice l’angelico dottore, conduce l’uomo al suo fine in due maniere: direttamente, portandolo al bene, che è il ministero degli Angeli buoni: indirettamente, esercitandolo alla lotta contro il male. Conveniva che questa seconda maniera di procurare il bene dell’uomo fosse affidata agli angeli cattivi, affinché essi non fossero del tutto inutili all’ordine generale. Da ciò deriva che vi sono per essi due luoghi di tormenti; uno per ragione della loro colpa, ed è l’inferno; l’altro per ragione dell’esercizio che essi debbono procurare all’uomo, ed è la tenebrosa atmosfera che ci circonda. « Ora, procurare la salute dell’uomo deve durare fino al giorno del giudizio: dunque durerà fino allora il ministero degli Angeli buoni e la tentazione dei cattivi. Cosi gli Angeli buoni, continueranno ad esserci mandati fino all’ultimo giorno del mondo, ed i cattivi seguiteranno ad abitare le regioni inferiori dell’aria. Per altro ve ne sono alcuni tra di loro che dimorano nell’inferno per tormentare quelli che vi sono trascinati; come pure una parte degli angeli buoni rimane nel cielo con le anime dei santi. Ma dopo il giudizio, tutti i cattivi, tanto uomini che angeli, saranno nell’inferno, e tutti i buoni nel cielo.1 » [Pars I, q. LXIV, art. 4, corp.]. – Il testo sacro continuala dire: Il Dragone precipitato che fu una volta sulla terra, si mise a perseguitare la Donna, persecutus est mulierem. Quale è questa persecuzione? Non è altro che la continuazione della gran battaglia di Lucifero e degli angeli suoi, contro il Verbo incarnato. Sulla terra come nel cielo, oggi come al principio e sino alla fine del mondo, sono gli stessi combattenti, le armi stesse, lo stesso fine. Qui sta tutta la filosofia dell’istoria passata, presente e futura. Ohi non capisce ciò, non capirà mai nulla del grande enimma, che si chiama la vita del genere umano sulla terra. Noi abbiamo visto, e pigliando ad imprestito le parole di Cornelio a Lapide, ripetiamo che: « Il peccato di Lucifero e dei suoi angeli fu un peccato di superbia. Essi avendo avuto conoscenza del mistero dell’Incarnazione, videro con gelosia preferita la natura umana all’angelica. Di qui l’odio loro contro il Figlio della Donna, vale a dire il Cristo. Di qui la loro guerra nel cielo, guerra a morte che essi continuano sulla terra.2 » (Apoc. XII, 4). – Lucifero e i suoi satelliti non essendosi potuti opporre al decreto dell’unione ipostatica della natura divina con l’umana, sono costantemente e unicamente occupati a deluderlo nei suoi effetti. Rendere impossibile o inutile la fede al dogma dell’Incarnazione; tale è l’ultima parola di tutti i loro sforzi. Apriamo la storia. Mercé la malizia del demonio, l’uomo che sopra ogni altro doveva profittare dell’Incarnazione, incomincia per divenire prevaricatore. Satana per ritenerlo eternamente lontano dal Verbo suo liberatore, aggrava il suo nobile schiavo di una triplice catena. Sino alla venuta del Messia, tre grandi errori dominano le nazioni: il Panteismo, il  Materialismo, il Razionalismo. Questi tre grandi errori si riassumono in un solo, che n’è il principio e la fine; il Satanismo.Queste mostruose eresie, madri di tutte le altre, tendono, come è facile vederlo, a rendere radicalmente impossibile la credenza al domma dell’Incarnazione.

1) Il Panteismo: se tutto è Dio, l’Incarnazione è inutile.

2) Il Materialismo: se tutto è materia, l’Incarnazione è assurda;

3) Il Razionalismo: se la suprema sapienza è credere alla sola ragione, l’Incarnazione é chimerica.

Questo in quanto alle nazioni pagane. – Quanto al popolo ebreo, incaricato di conservare la promessa del gran Mistero, tutti gli sforzi di satana hanno per fine di trascinarlo nell’idolatria. Diverse volte, almeno in parte, vi riuscì. Israele ai piè degli idoli perde persino la memoria del Verbo incarnato, futuro liberatore del mondo. Allora, satana regna in pace sull’uman genere vinto, e la storia dell’antichità non è che la storia del suo insolente trionfo. Che cosa vediamo noi allorché giunge la pienezza dei tempi? Da tutte le parti arrossiscono le infernali potenze. La guerra contro il dogma dell’Incarnazione ricomincia con un accanimento indicibile. Per impedire che si stabilisca, satana scatena le persecuzioni; e per rovinarlo nello spirito di coloro che l’hanno accettato egli scatena le eresie. Per otto secoli, dal tempo degli Apostoli sino ad Elipando ed a Felice di Urgel, passando per Ario, lo sforzo dell’Inferno si porta direttamente sul dogma dell’Incarnazione. Lo stesso assalto più o meno mascherato continua nei secoli susseguenti. – Per un ricorso troppo significativo, la divinità del nostro Signore, o il mistero della Incarnazione, chiave di volta del mondo soprannaturale, è ridiventata sotto i nostri occhi, ciò ch’essa fu al principio, il fine confessato, il punto capitale, l’ultima parola dell’eterno combattimento. Ario non è egli risuscitato ed abbellito in Strauss, in Renan e consorti, corifei della lotta presente? satana nell’aspettare la rovina quasi totale della fede verso il dogma riparatore, funesta vittoria che gli è annunziata per gli ultimi giorni del mondo, moltiplica i suoi sforzi, a fine di renderla inutile a coloro che la conservano ancora. Egli spinge oggi i Cristiani, come anticamente gli ebrei, a ogni sorta d’iniquità: che è ciò che san Paolo chiama l’idolatria spirituale, il cui effetto immediato è di annientare in tutto o in parte la salutare influenza dell’augusto mistero. (Quod est idolorum servitus. Gal., v. 20). – L’oggetto eterno dell’odio di satana, è dunque il Verbo incarnato; ecco l’ultima parola delle persecuzioni, degli scismi, delle eresie, degli scandali, delle tentazioni e delle rivoluzioni sociali: in altri termini, ecco la spiegazione della gran battaglia che, incominciata nel cielo, si perpetua sulla terra, per far capo all’eternità della felicità, ovvero all’eternità della infelicità. – Ma perché l’Incarnazione è stata, è tuttavia, e sarà sempre l’unico oggetto della lotta tra il cielo e l’inferno? Questa questione è fondamentale. Solamente la risposta può spiegare l’eterno accanimento di tal battaglia, come pure la natura e l’insieme dei mezzi adoperati dall’assalto e dalla difesa. L’Incarnazione è la base di tutto il Cristianesimo. Ma qual è il fine dell’Incarnazione? Già l’abbiamo indicato: è di deificare l ‘uomo. (Il lettore cattolico intende da se, quanto questa deificazione della quale parla l’autore, nel significato cattolico sia lontana dall’assurdità che avrebbe, intesa nel significato panteìstico. Del resto l’autore più sotto spiega anche con maggiore evidenza il suo pensiero. (V. d. Ed.). –  Iddio non se lo è nascosto. Le sue parole, ripetute venti volte, manifestano il suo consiglio. « Io l’ho detto: voi siete tanti Dei e tutti figli dell’Altissimo. Si chiameranno: Figli del Dio vivente. Siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste medesimo; imperocché voi partecipate della natura divina. Vi è stato dato il potere di diventare figli di Dio. Vedete dunque qual è la carità del Padre, egli vuole che non solo siamo chiamati, ma che siamo realmente figli di Dio.2 » (Ego dixi: Dii estis et filii Excelsi omnes. Ps LXXXI , 6. — Dicetur eis: Filii Dei viventis. Osee, I, 10. — Estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester coelestis perfectus est. Matth., V, 48. — Divinæ consortes naturæ. II Petr., i, 4. — Dedit eis potestatem filios Dei fieri. Joan., I, 12. — Videte qualem charitatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nommemur et simus. I Joan., III, 1). – L’uomo conosce il divino consiglio, e lo ha sempre conosciuto. Sa, ed ha sempre saputo, nel significato cattolico della parola, ch’egli deve diventare Dio. Egli vi aspira con tutte le potenze del suo essere. Satana pure lo sa, e prende l’uomo per questo verso. Mangiate di quel frutto e voi sarete come Dio, questa è la prima parola che egli gli indirizza. (Gen., III. 5). Tale n’è il significato: « Voi dovete essere tanti Dii, lo so e non lo contrasto. Soltanto vi propongo un mezzo breve e facile per divenirlo. Per essere Dii vi è stato detto: umiliatevi; obbedite; astenetevi; riconoscete la vostra dipendenza. Sottoporvi a simili condizioni, è volgere il tergo alfine. L’abbassarsi non può condurre all’innalzamento. Volete voi giungervi? rompete i vostri lacci, il primo passo verso la deificazione è la libertà. » – Avvi del vero in queste parole come in qualsisia eresia: il vero è che l’uomo dev’essere divinizzato. Il falso è ch’egli possa divenirlo seguendo la via indicata da satana. Perciò, notiamolo bene; comunque strana ella sia, questa promessa di deificazione non eccita nei padri dell’uman genere, né meraviglia, né indignazione, né sorriso di disprezzo. Essi l’accolgono; e, per averla presa nel significato del tentatore, si perdono accogliendola. Per conseguenza, san Tommaso nota con ragione che il principale peccato dei nostri primi padri non fu né la disobbedienza, né la gola, ma bensì il desiderio disordinato di diventare simili a Dio. La disobbedienza e la gola furono i mezzi; l’ambizione illegittima d’esserle come Dii, fu lo scopo finale della loro prevaricazione. – « Il primo uomo, dice il gran dottore, peccò principalmente pel desiderio di diventare simile a Dio quanto alla scienza del bene e del male, secondo la suggestione del serpente: in modo da potere, con le sole forze della sua natura stabilire da sé medesimo le regole del bene o del male; o conoscere anticipatamente e da se stesso la felicità o l’infelicità che poteva avvenirgli. In secondo luogo peccò pel desiderio di diventare simile a Dio, quanto alla potenza d’agire, in modo da giungere alla beatitudine con le proprie sue forze. » (2a 2ae, q. LXIII, art. 2, corp.). Qui san Tommaso non è altro che l’eco di sant’Agostino che dice chiaramente: « Adamo ed Èva vollero rapire la divinità, e persero la felicità. » (Adam et Èva rapere voluerunt divinitatem et perdiderunt felicitatem. Gloss. in Ps. LXIII). Che certi antropologi la cui audacia giunge persino a negare l’unità della specie umana, spieghino l’influenza di questa magica parola sopra tutti gli abitanti del globo: voi sarete come Dii. Questa parola vincitrice, or son mille anni, dei padri della nostra stirpe, satana la ripete costantemente alla posterità loro, e ne ottiene lo stesso successo: egli non ne conosce altre, ed infatti quella gli basta. La psicologia del male, studiata con attenzione, dimostra che un desiderio di divinità è nel fondo di tutte le tentazioni: le vittime di satana non sono sue vittime, tranne che per aver voluto essere come tanti Dii. In conclusione, tanto per parte dello Spirito di luce che per parte dello Spirito di tenebre, tutto si raggira intorno alla divinizzazione dell’uomo. Il primo vuole operarla con l’umiltà; il secondo con l’orgoglio. Uno dice all’uomo sulla terra, la parola apoteizzante che dice all’Angelo in cielo: Sottomissione. L’altro ripete all’uomo la parola corrompitrice, che egli stesso pronunziò in cielo: Indipendenza. Da questi due principii opposti scaturiscono, come due rivi dalle loro sorgenti, i mezzi contradittorii dell’apoteosi divina, e dell’apoteosi satanica. – È inutile aggiungere che la prima è la verità, la seconda, una contraffazione; che l’una rende l’uomo veramente figlio di Dio, immagine viva delle sue perfezioni, erede del suo regno, compagno della sua gloria; e l’altra, figlio di satana, complice della sua ribellione e compagno del suo castigo. Esiste per altro, tra questi opposti mezzi, un parallelismo completo, che noi faremo conoscere più tardi; imperocché non è il minor pericolo della grande persecuzione dell’angelo caduto. « Lucifero e i suoi ministri faranno grandi prodigi, e cose meravigliose in modo da sedurre, se fosse possibile, gli stessi eletti: (Matth. XXIV, 24) » tale è l’avvertimento troppo dimenticato del Divino maestro. Vero in tutti i tempi, sembra divenirlo oggi più che mai, e domani lo sarà ancor più d’oggidì. L’Apostolo termina la grande istoria del male, dicendo: E il Dragone perseguitò la donna che partorì il figliuolo: Persecutus est mulierem quæ peperit fìlium. – La persecuzione ci è nota; ma qual donna ne è l’oggetto? È la donna per eccellenza, madre del figlio per eccellenza. È la donna di cui fu detto allo stesso Dragone, subito dopo la sua prima vittoria: « Io decreterò la guerra tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua; essa ti schiaccerà il capo, e tu tenderai dell’insidie al suo calcagno. (Gen. III, 15) » Volete voi conoscerla? Porgete l’orecchio alla voce dei secoli passati e dei secoli presenti: tutti ripetono il nome di Maria. – Ma come mai Maria, il cui passaggio sulla terra si è compiuto in pochi anni, in un angolo oscuro della Palestina, può Ella essere l’oggetto di una persecuzione cosi durevole quanto i secoli, e così estesa quanto il mondo? Maria è la Donna immortale. Quaranta secoli avanti la sua nascita essa viveva in Eva; e satana lo sapeva. Dopo diciotto secoli, ella vive nella Chiesa, e satana neppure questo ignora. Ma viveva in Eva. Ella vi viveva come la figlia nella madre sua, o piuttosto come il tipo in un ritratto. Secondo i Padri, Adamo fu formato sul modello del Verbo incarnato, ed Eva su quello di Maria. Sin dall’origine, Maria fu in Eva la madre di tutti i viventi, perché Ella doveva partorire la vita: Mater cunctorum viventium. Questo mistero, noto a satana, spiega il di lui odio particolare contro la donna. Certo la donna colpevole è stata condannata alla dipendenza dell’uomo, e ai dolori propri al suo sesso. Ma questa condanna basta ella per spiegare la sua trista condizione in tutti i secoli e su tutti i punti del globo? Che cosa sono i patimenti dell’uomo paragonati alle umiliazioni, agli oltraggi, ai dolori della donna? Donde deriva questa differenza? Il credere che ella, abbia la sua causa unicamente nella colpabilità maggiore della donna primitiva, ci sembra una affermazione arrischiata, per non dire un errore. – È vero, che secondo san Tommaso, il peccato di Eva fu, sotto molti rapporti, più grande di quello di Adamo; ma è vero altresì che, secondo lo stesso dottore, il peccato d’Adamo relativamente alla persona, fu maggiore di quello di Eva. (2a 2æ, q. CLXIII, art. 4, corp.) Come fare a provare che agli occhi della giustizia divina non vi sia una sorta di compenso che riconduca i colpevoli all’eguaglianza? Se rimane una differenza sfavorevole alla donna, basta ella a giustificare l’enorme aggravio della sua pena? Basta a spiegare soprattutto la indubitabile preferenza che ha sempre avuta nell’odio di satana? In tutti i paesi dove egli ha regnato, e dove regna tuttora, essa è la più infelice creatura che sia sotto il cielo. Nata schiava, bestia da soma, battuta, venduta, oltraggiata in ogni maniera, oppressa dalle più dure fatiche, la sua istoria non può scriversi che con lacrime di sangue e di loto. Perché questa ferocia del Dragone contro l’essere il più debole, e da cui pare per conseguenza che si abbia meno da temere? Donde viene quella predilezione nello scegliere la donna, e soprattutto la giovinetta per medium, per organo delle sue menzogne, per istrumento delle sue ridicole o colpevoli manifestazioni? (La storia è piena di queste vergognose preferenze). – Noi non potremmo dubitare esser questa una vendetta del Dragone. Nella donna, e soprattutto nella vergine, egli vede Maria. Egli vede quella che gli deve schiacciare il capo; e perciò vuole ad ogni costo tormentare la donna, avvilirla, degradarla, sia per vendicarsi della sua disfatta, ossia per impedire al mondo di credere alla incomparabile dignità della donna, e scuotere cosi fino nelle sue fondamenta il dogma dell’Incarnazione: Persecutus est mulierem. (Questa preferenza dell’odio, dice Camerario, si osserva persino nell’ordine puramente fisico. L’opinione è che i serpenti, nemici crudeli dell’uomo, lo sono ancor più della donna; essi l’assalgono più spesso e più spesso la uccidono co’ loro morsi. Un fatto evidente lo conferma, ed e che se vi ha una sola donna in una gran quantità d’uomini, è quella che il serpente cerca di mordere. « Id enim in eo maxime perspicitur, quod etiam in turba frequentissima virorum, serpens unius mulieris, etiam si sola fuerit, calcibus insidiari consueverit. » Medit. Hist., par I, cap. IX, p. 81). – Ma calcolando bene, non parrebbe egli più giusto che dovesse l’uomo e non la donna avere la preferenza nell’odio di satana? Poiché alla fine non è la donna ma l’uomo-Dio che ha distrutto l’impero del demonio. Certo, il vincitor del Dragone è il Figlio della Donna; ma è vero altresi che senza la donna, senza Maria, questo vincitore non sarebbe esistito; e che satana continuerebbe ad essere pacificamente ciò che egli fu in antico, il dio ed il re di questo mondo. L’osservazione è tanto più giusta, in quanto che il vincitore di satana non è venuto dall’uomo, ma dalla donna, senza veruna partecipazione dell’uomo. A ragione dunque incolpò il Dragone non l’uomo ma la donna, della sua disfatta. Per questa stessa ragione dunque Iddio medesimo gli annunziò che la donna e non l’uomo, gli schiaccerebbe il capo: e così in fine la Chiesa fece omaggio a Maria delle sue vittorie, e fece ripetere a Lei da tutte le parti del globo: Rallegrati, o Maria; tu sola hai distrutto tutte le eresie da un capo all’altro della terra. (Gaude, Maria Virgo, cunctas haereses sola interemisti in universo mundo. Brev. Rom., offic. B. M. Virg.) A giusto titolo dunque la donna è l’oggetto preferito dall’odio di satana: Persecutus est mulierem. Insomma a tutti i trionfi di Maria corrispondono i ruggiti del Dragone, ed essi divengono tanto più spaventosi, quanto è più sorprendente il trionfo. Oh come queste idee così ragionevoli insieme e misteriose, cosi sublimi e così semplici, spiegano a meraviglia la lotta feroce, inaudita, della quale siamo noi oggidì i testimoni! Per sollevare tanti furori che cosa ha fatto la Chiesa? È inutile il domandarlo. Essa proclamando il dogma dell’Immacolata Concezione ha glorificato l’eterna nemica di satana di una gloria sin qui sconosciuta. Ora, con l’innalzare sino agli ultimi estremi il trionfo di Maria, ha fatto cadere sul Dragone l’ultimo scoppio della folgore da cui fu minacciato sei mila anni fa. È veramente oggi che il piede verginale della donna gravita con tutto il suo pondo sul capo del serpente. Che Pio IX soffra di angosce inaudite, egli le ha ben meritate. (L’acuto lettore non avrà mancato di osservare, che lo studio profondo dell’autore sui mali dei suoi tempi, e sulle vere cause di quelli, lo fa apparire, quasi diremmo, dotato di lume profetico. Anche dopoché l’autore dettava queste pagine stupende, quanto non è cresciuta la rabbia di satana, e dei suoi complici! Quanto maggiormente inaudite divennero le angosce di Pio IX, finché la Vergine glorificata da lui non lo chiamava al cielo, nel momento che i sacri bronzi invitavano i pii fedeli a benedire Colei che per la divina Maternità era stata l’oggetto costante dell’odio di Satana! – N. d. Ed.-). – Essendo Maria stata perseguitata in Eva sua madre, e in tutte le donne, sue sorelle, con una rabbia la cui storia può appena delinearne di nuovo il quadro, lo fu eziandio nella sua persona. Dal presepio alla croce qual fu la sua vita? Donna dei dolori, come suo figlio fu l’uomo dei dolori, ad Ella appartiene il diritto esclusivo di ripetere di generazione in generazione: « O voi tutti che passate per via, osservate e vedete se v’è un dolore da paragonarsi al mio! (O vos omnes, qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus. Thren., I, 12). » A nessun altro; e per conseguenza conviene come a Lei, il titolo di Regina dei Martiri. –  Muore Maria, e la persecuzione non si ferma dinanzi alla sua tomba. Infatti, come Maria aveva vissuto in Eva, sua madre e sua figura, così ella vive nella Chiesa, sua figlia e suo prolungamento. Diciamo la sua Figlia, poiché il sangue divino che ha partorito la Chiesa è il sangue di Maria. (Beata Virgo Maria, ait Ambrosius, mater est, imo avia Ecclesiæ; quia eum peperit, qui caput et parens est Ecclesiæ. – Apud Corn. a Lap. in Apoc., XII, 1). Noi diciamo il suo prolungamento; perché la Chiesa è come Maria, Vergine e Madre tutt’insieme: vergine, perché l’errore non l’ha mai macchiata; madre, perché essa partorisce -tanti Cristi quanti partorisce Cristiani: Chrìstianus alter Christus. Maria fu la sposa dello Spirito Santo; la Chiesa ha lo stesso privilegio. È desso che la protegge, che la nutrisce, che ne piglia cura e che la fa Madre d’innumerevoli figli.33 (Corn. a Lap. in Gen. III, et in Apoc., XIII, 1). – Così, la donna, oggetto dell’odio eterno del Dragone, è Eva, è Maria, è la Chiesa, o meglio è Maria sempre vivente in Eva e nella Chiesa. Donna per eccellenza, in cui un privilegio senza esempio riunisce le più incompatibili glorie della donna, l’integrità della vergine e la fecondità della madre: Donna della Genesi e dell’Apocalisse, posta al principio ed alla fine di tutte le cose; sii benedetta! La tua eccellenza ci dà l’ultima parola della grande lotta che senza di te nessuno saprebbe capire; come pure la tua missione, immortale come la tua esistenza, spiega l’immortalità dell’odio infernale del quale tu sei l’oggetto, e noi con te: Persecutus est mulierem quæ peperìt masculum.

CONOSCERE SAN PAOLO (24)

CONOSCERE SAN PAOLO (24)

LIBRO SESTO

L’Epistola agli Ebrei (4)

CAPO III.

Le due alleanze.

I. IL CONTRASTO DELLE DUE ALLEANZE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte Prima S. E. I. Ed- Torino, 1927 – impr.]

Dimostrare la superiorità del Nuovo Testamento sull’Antico, stabilire nel tempo stesso il carattere assoluto e definitivo del Vangelo, è, come abbiamo detto, lo scopo reale, benché nascosto, dell’Epistola. A questa tesi si collegano tre punti fondamentali: il contrasto delle due alleanze, le obbligazioni della nuova economia, la consumazione delle promesse. L’idea di una nuova alleanza, con Gesù come mediatore, non è una specialità dell’Epistola agli Ebrei: Paolo ha già citato il testo di Isaia, che l’annunzia (Rom. XI, 27-28; Is. LIX, 20); egli e San Luca mettono esplicitamente l’istituzione dell’eucaristia in relazione con una nuova alleanza conchiusa nel sangue di Gesù (I Cor. XI, 25; Luc. XXII, 20), e gli altri due sinottici esprimono lo stesso pensiero (Mat. XXIV, 28; Marc. XIV, 24). Quello che ha di originale la nostra Epistola, è che essa innesta la nuova alleanza sopra l’antica e fa uscire la Chiesa dalla Sinagoga, senza soluzione di continuità, come il frutto nasce dal flore o lo stelo dal germe. Sotto una forma paradossale che contiene un granello di verità, si è potuto dire che « l’autore dell’Epistola è un evoluzionista, e San Paolo un rivoluzionario… Uno abolisce la Legge, l’altro la trasfigura ». In fondo la differenza dei due punti di vista è assai piccola: Paolo dipinge meravigliosamente l’armonia e la connessione dei due Testamenti, e l’autore dell’Epistola non è meno radicale di Paolo riguardo l’imperfezione e l’abolizione della Legge mosaica: si direbbe anzi che è più radicale ancora, perché rifiuta alla Legge gli elogi che Paolo le dà a larga mano, ed insiste volentieri sopra i suoi vizi redibitori. – Era una Legge « carnale », intrinsecamente « invalida ed inutile » la quale doveva appunto per questo venire ripudiata a suo tempo. Incapace a « condurre nulla alla perfezione (Ebr. VII, 16) », non poteva dunque avere che un carattere relativo e passeggero: poiché l’autore suppone sempre l’esistenza di una economia soprannaturale che apre effettivamente all’uomo l’accesso a Dio. – L’Antico Testamento, rispetto al Nuovo, aveva tre svantaggi: era un contratto strettamente bilaterale e soggetto, per sua natura, ad essere annullato. — I mezzi stabiliti per stringerlo maggiormente erano insufficienti. — Finalmente portava in sé i caratteri di un semplice abbozzo e di una preparazione. L’antica Legge era una διαθήκη (=diateke); nel senso di alleanza (berith) ma non nel senso di testamento: la nuova invece è insieme l’una e l’altra cosa. Ora, dal momento che il testatore è morto, il testamento diventa irrevocabile. Qui troviamo un’idea comune a Paolo ed al redattore dell’Epistola. Un secondo punto di contatto è che la promessa fatta alla stirpe di Abramo, ha la natura di testamento — Paolo la chiama anche διαθήκη (=diateke) — in quanto è un contratto unilaterale col quale Dio si obbliga senza subordinare la sua obbligazione ad alcuna circostanza esteriore (Ebr. IX, 16-27). Il patto del Sinai invece era un contratto del genere do ut des, facio ut facias. Se il popolo violava i suoi impegni, Dio veniva sciolto dai suoi: così la storia sacra non è che una serie d’infedeltà da parte degli Ebrei, e di parziali abbandoni da parte di Dio, ben presto seguiti da riconciliazioni effimere. Geremia prediceva la fine di questo stato di cose la cui instabilità indicava abbastanza il carattere transitorio: « Io conchiuderò una nuova alleanza con la casa d’Israele e con la casa di Giuda, non un’alleanza come quella che ho fatto con i loro padri il giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra di Egitto. Poiché essi hanno lasciato la mia alleanza, io pure li ho abbandonati (Ebr. VIII, 8-12) ». – Il grave difetto dell’antico patto era la sua tendenza ad invecchiare ed a morire finalmente di vecchiaia (Ebr. VIII, 13), tendenza che non trovava nelle istituzioni mosaiche un rimedio sufficiente. Il sacrificio perpetuo aveva bensì lo scopo di simboleggiare l’alleanza e di ravvivarne il sentimento; d’altra parte i sacrifici per i peccati, che toccavano il loro punto culminante nel giorno dell’Espiazione, miravano a riconciliare le parti contraenti scancellando il ricordo delle infedeltà; ma tutto questo produceva soltanto una « giustificazione carnale », ed in virtù di una specie di finzione legale, poiché è evidente che il sangue degli animali non può lavare il peccato né purificare la coscienza (Ebr. IX, 9, 10). L’Antico Testamento non poteva dunque essere altro che un abbozzo. Per questo il Salmista predice un nuovo sacerdozio destinato a soppiantare il sacerdozio di Aronne; egli annunzia un nuovo sacrificio che renderà caduco il rituale levitico; Geremia profetizza una nuova alleanza che per forza si sostituirà alla prima (Sal. CIX, 4; Ger. XXXI, 31-34). Però questa nuova alleanza non è tanto la distruzione violenta, quanto la consumazione dell’antica. Le relazioni tra i due Testamenti sono espresse da queste quattro parole: ombra (skia), figura (upodeigma), antitipo (antitupos), similitudine (parabole) (X, 1). L’ombra è opposta al corpo, l’antitipo alla verità, la figura e la similitudine alla realtà. Si può notare qui che il linguaggio dell’Epistola differisce da quello degli altri scrittori sacri: essa chiama antitipo quello che Paolo chiamerebbe tipo, ed il tipo è per essa il modello presentato a Mosè sul Sinai con l’ingiunzione di riprodurlo: l’immagine (eikon), che essa oppone all’ombra, è il corpo (soma) della terminologia paolina. Ma il redattore dell’Epistola insiste più di tutti sul carattere figurativo dell’economia mosaica e lo esprime ordinariamente con antitesi tra la terra e il cielo, tra il presente ed il futuro, tra il materiale e l’immateriale, tra la copia e l’archetipo.

II. LE OBBLIGAZIONI DELLA NUOVA ALLEANZA.

1. NECESSITÀ DELLA FEDE. — 2. PERICOLI DELL’INFEDELTÀ.

1 . Due parole riassumono la morale della nostra Epistola: fede e perseveranza. « Avviciniamoci (a Dio) con un cuore sincero, nella pienezza della fede… Attacchiamoci incrollabilmente alla professione della speranza (Ebr. X, 22-23) »: questo è il ritornello che si ripete continuamente sotto forme diverse. Questa preoccupazione parenetica ci spiega già la parte diversa che la fede deve fare nell’Epistola agli Ebrei e nelle quattro Epistole maggiori di Paolo. In queste si trattava degli effetti della fede incipiente; nell’altra si tratta dei frutti della Fede perseverante. – Di questa fede l’autore dà una definizione che non è certamente alla maniera di Aristotele, per mezzo del genere e della differenza specifica, ma che tutta via le conviene perfettamente e la distingue da qualunque cosa che non è lei: « La fede è la realtà delle cose che noi speriamo, la prova di quelle che non vediamo (Ebr. XI, 1) ». – La parola greca (upostasis); ha tre significati ben determinati: fondamento, convinzione ferma e realtà. Fatta astrazione dal contesto, ciascuno di questi tre significati può entrare benissimo nella definizione della fede. La fede è infatti il fondamento della speranza ed in genere di tutta la nostra vita soprannaturale; essa è pure una persuasione ferma, tanto sicura, che non lascia nessun luogo al dubbio; finalmente è la realtà delle cose che speriamo, in quanto è una presa di possesso anticipata dei beni futuri ed impedisce alle nostre speranze di essere vane e fantastiche. San Tommaso si ferma al primo significato e v’introduce egli stesso la parola latina substantia: « L’oggetto della speranza, egli dice, è contenuto in germe nella fede, come l’oggetto della scienza è contenuto in germe nei principi; perciò la fede è il fondamento della speranza, come i principi sono il fondamento della scienza ». Tuttavia l’ultimo significato — quello di realtà — ci sembra preferibile, perché il primo o si riduce a questo (poiché il fondamento di una cosa non è altro che il suo substratum, la sua realtà) oppure scambia l’oggetto della speranza con la speranza: questo è inammissibile, perché il testo ha elpizoménon e non elpìdos Il secondo significato poi distruggerebbe il parallelismo tra i due membri della definizione, perché se upòstasis può significare persuasione, elegkos che ne è il correlativo, non vuol dire convinzione soggettiva. La fede è dunque non soltanto un pegno, ma anche un acconto dei beni sperati. Essa è, come dice San Tommaso, un cominciamento della vita eterna in noi; perché, secondo Sant’Agostino, il credere ciò che non si vede, è meritare di vedere ciò che si crede. L a fede è ancora la prova delle cose che non si vedono. Se fosse lecito tradurre elegkos, per convinzione, si darebbe ad upostasis  il significato di persuazione, e si potrebbe tradurre così tutto il versetto: La fede è una persuasione delle cose che si sperano, una convinzione delle cose che non si vedono. Ma disgraziatamente l’uso non permette questo senso: elegkos significa bensì argomento per confutare, confutazione, prova, azione del convincere se si vuole, ma non mai convinzione soggettiva. La traduzione della Volgata è dunque proprio esatta: argumentum non apparentium. Quelle cose che non si vedono, non sono soltanto le cose invisibili di loro natura, ma quelle che sfuggono allo sguardo della nostra mente. Senza averle vedute, noi sappiamo dalla fede che esse esistono: la fede per noi tiene il posto di prova. È evidente che questa parte della definizione è molto più estesa che la prima; essa abbraccia l’oggetto totale della fede, passato, presente e futuro, tutto ciò che crediamo su la testimonianza di Dio; mentre l’altra, confondendosi con l’oggetto della speranza, per questo appunto è ristretta alla realtà futura. I numerosi esempi di fede che riempiono tutto il capo XI, preciseranno ciò che può avere di indeterminato questa descrizione sommaria. In tutti gli esempi, senza eccezione, la fede indica l’adesione dell’intelletto alla testimonianza divina; ma siccome la verità da credere su la parola di Dio, non s’impone all’intelletto con la sua evidenza, vi è sempre un intervento della volontà che rende l’atto di fede libero e meritorio. Eccetto questi due punti comuni, i diversi atti di fede presentano una certa varietà, e se ne possono distinguere tre specie: « Dalla fede sappiamo che il mondo è stato fatto dalla parola di Dio, di modo che quello che si vede non è stato fatto da cose visibili ». Qui l’atto di fede si risolve in un atto dell’intelletto e comprende soltanto le sue parti essenziali: adesione della mente alla testimonianza della Scrittura ed intervento della volontà che piega l’intelletto ad ammettere, su la testimonianza di Dio, un fatto remoto che non si può verificare. Quando la testimonianza divina ha per oggetto una promessa, fede si unisce naturalmente con la speranza, e le due virtù, senza confondersi, si danno la mano. Tale è la fede di Sara, d’Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe e dei patriarchi in generale, la cui fede fu fiduciosa e la speranza fedele. Qualche volta la cosa promessa esige un miracolo subordinato alla fede dell’uomo: ci vuole allora quella fede viva che muove le montagne. Per la fede si divisero le acque del Mar Rosso, e caddero le mura di Gerico. Per lo più la testimonianza divina consiste in un precetto, o almeno porta con sé un obbligo diverso dalla fede stessa. La fede allora, se è sincera, dovrà essere operosa. Per la fede Noè costruì l’arca; Abramo abbandonò la patria, visse in esilio, stabilì di sacrificare suo figlio; Mosè affrontò l’ira di Faraone, disprezzò le delizie dell’Egitto, obbedì ai comandi divini; Rahab la meretrice accolse gli esploratori ebrei; i giudici, i profeti, i santi dell’Antico Testamento sfidarono tanti pericoli, sostennero persecuzioni, subirono la morte più crudele. « Per la fede » quei santi personaggi « hanno ricevuto testimonianza ». È vero che la Scrittura, la quale vanta la loro giustizia e racconta le loro grandi azioni, non sempre fa speciale menzione della loro fede; ma ciò non è necessario, poiché, secondo Abacuc, « il giusto vive per mezzo della fede ». La fede è la misura della giustizia, e la giustizia è la prova della fede: così si spiega la fede di Abele e di Enoc. La Scrittura non ne fa espressa menzione, ma dice di Abele, che offrì un’ostia più eccellente di quella del fratello, e che il suo sangue grida vendetta; di Enoc dice che egli piacque a Dio e meritò così di essere rapito in cielo. L’autore ne conchiude che fu per causa della loro fede: sia in virtù del testo di Abacuc che fa dipendere la giustizia dalla fede, sia, particolarmente per Enoc, per quel principio riflesso, che senza la fede è impossibile piacere a Dio. Come piacere a Dio, senza andare a Lui? E come andare a Lui, senza credere alla sua esistenza e alla sua provvidenza? Senza dubbio Dio, conosciuto con i soli lumi della ragione, può esercitare un’attrattiva su l’anima; ma questo sentimento filosofico non risponderebbe all’economia della nostra salute nello stato attuale di elevazione. Meno facile è il vedere perché non basterebbe la fede nell’esistenza di Dio. Non sarà perché l’anima non saprebbe portarsi verso Dio sicut oportet, se non lo considera come suo ultimo fine e, nello stato presente, come suo fine soprannaturale?

2. Quanto più necessaria è la fede, tanto più funesta è l’infedeltà. Per due volte sembra che l’autore presenti l’apostasia come un male irreparabile. Per apprezzare tutto il significato di questi passi, bisogna considerarli nel loro contesto: « Se noi pecchiamo deliberatamente dopo di aver ricevuto la piena conoscenza della verità, non vi resta più sacrificio per il peccato, ma l’attesa terribile del giudizio e l’ardore di un fuoco pronto a divorare i nemici. Chi violava la Legge di Mosè, era messo a morte su la deposizione di due o tre testimoni: di qual supplizio più terribile non sarà giudicato degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio, avrà tenuto come profano il sangue dell’alleanza, nel quale fu santificato, coprendo di obbrobrio lo Spirito di grazia? (Ebr. X, 26-29) ». Il peccato che ha qui di mira l’Apostolo, non è certamente un peccato qualunque, anche grave, ma è il peccato per eccellenza, l’apostasia. La tendenza generale della lettera che tutto fa convergere intorno alla fede, e la sfera di idee in cui si muove l’autore, già permettono di sospettarlo. – L’esortazione che precede e quella che segue immediatamente, in cui si tratta soltanto di fede sincera, di speranza incrollabile, di fedeltà alle assemblee religiose, confermano questa impressione, e l’allusione a Mosè che puniva di morte l’idolatria su la deposizione di due o tre testimonianze, viene ancora a confermarla. Il peccato stesso è descritto come un atto che calpesta il Figlio di Dio, che considera come profano o impuro il sangue dell’alleanza, che copre d’infamia lo Spirito Santo, che succede alla piena conoscenza della verità di cui non può essere altro che una negazione. Tutti questi caratteri sono d’accordo ad indicare l’apostasia deliberata, la bestemmia contro lo Spirito Santo. Questo peccato non sarà rimesso né in questo mondo né nell’altro, perché inaridisce la sorgente della grazia e chiude la via al pentimento. Senza la fede infatti è impossibile piacere a Dio e riconciliarsi con lui. Al cristiano che, con piena conoscenza della verità, ricadesse nel giudaismo, non rimarrebbe più ostia per il peccato; non nell’istituzione mosaica la quale non prevede sacrifici per certe specie di colpe, e neppure nel Cristianesimo il quale possiede un solo sacrificio, quello della nuova alleanza da cui l’apostata si è separato. Certamente Dio che risuscita i morti, può sempre rianimare il germe disseccato della grazia e riaccendere la fiaccola spenta della fede, ma l’autore non doveva accennare a tale miracolo ipotetico, proprio nel momento in cui dipingeva a colori così foschi le conseguenze dell’apostasia. – La sua intenzione appare ancora più manifesta nel secondo passo. Egli vuol dare agli Ebrei l’alimento degli adulti e non il latte dei bambini, benché la loro istruzione non sembri corrispondere alla loro età nella fede. Egli lascerà dunque da parte i dogmi elementari che s’insegnano ai catecumeni, perché, soggiunge, « è impossibile rinnovare con la penitenza coloro che, una volta illuminati e favoriti del dono celeste e divenuti partecipi dello Spirito Santo… vengono a cadere, crocifiggendo di nuovo per se stessi il Figlio di Dio ed esponendolo all’infamia ». Tocca agli esegeti il fissare il senso esatto di ciascun inciso. Essi converranno senza dubbio che non si tratta qui di una colpa qualunque, ma di una caduta profonda, (παραπεσόντας = parapesontas) la quale rimette i colpevoli nello stesso grado degli Ebrei infedeli. Per ricondurli al punto da cui sono caduti, bisognerebbe di nuovo farli passare per le tappe dell’iniziazione cristiana e disporli nuovamente alla penitenza; ma questa via non si fa due volte. L’autore non dice che la loro conversione sia impossibile a Dio, e che per loro non vi sia più speranza; ma dice che è « impossibile » ai banditori del Vangelo « rinnovarli con la penitenza », di prepararveli di nuovo. E per farci intendere in che cosa consiste questo rinnovamento e questa preparazione, avverte che si asterrà dal ripetere le istruzioni che si danno ai catecumeni per disporli al Battesimo. Qui non si fa questione affatto del potere che ha la Chiesa, di rimettere i peccati.

III. CONSUMAZIONE.

1 . RIPOSO IN DIO. — 2. INIZIAZIONI GRADUALI.

1. L’unione con Dio è il fine ultimo della nostra esistenza, l’ultimo termine delle aspirazioni dell’uomo, lo scopo istintivo, se non riflesso, di ogni culto. Questo fortunato scioglimento è espresso nella nostra Epistola in termini assai indovinati: « il riposo di Dio », cioè il riposo di cui Dio gode dopo l’opera della creazione e della redenzione, il riposo di cui Egli ci vuol far godere con Lui e in Lui, il riposo di cui egli è l’autore e l’oggetto, il riposo che propone alle nostre speranze, sia come dono gratuito, sia come eredità, sia come ricompensa. Lo scrittore sacro, fedele al suo metodo tipologico, ne vede la figura nella terra promessa alla .quale aspiravano gli Ebrei, non tanto come al termine delle loro peregrinazioni, quanto come al centro della teocrazia, dove sarebbero stati più vicini a Dio, nel suo dominio e sotto la sua egida (Ebr. III, 7; IV, 11). Per molto tempo l’infedeltà ne li tenne lontani, e quando vi entrarono, dopo di aver disseminato di cadaveri le sabbie del deserto, si accorsero di aver ricevuto soltanto un acconto delle divine promesse. Le prospettive si allontanarono, ed essi intravidero un altro « riposo di Dio », quello che essi, come li scongiura il Salmista, non si devono chiudere con il loro indurimento: « Vi è dunque un sabato ulteriore per il popolo di Dio. E colui che entrerà in questo riposo divino riposerà egli pare delle sue fatiche, come Dio delle sue. Sforziamoci dunque di entrare in quel riposo, e guardiamoci dalla disobbedienza (Ebr. IV, 11) » che ne chiude l’entrata agli Ebrei increduli. Questo riposo di Dio è Gesù, antitipo di Giosuè, che ce lo promette e ce lo assicura.

2. Ma per potervi entrare, bisogna subire una serie di iniziazioni che sono lo scopo del sacerdozio del Cristo e che si esprimono con le quattro parole: « espiare, purificare, santificare, consumare »: termini quasi sinonimi, con differenze degne di studio. La parola « espiare » (ilaskestaia) — corrispondente all’ebraico kipper — è essenzialmente sacerdotale. Essa indica l’azione del sacerdote che scancella il peccato o lava le macchie morali nel sangue delle vittime. – Il compito di Gesù pontefice è « di espiare i peccati del popolo (Ebr. II, 17) » col suo sangue e di rendergli così propizio Dio. Ecco perché San Giovanni lo chiama « propiziazione per i nostri peccati » e San Paolo « propiziatore » o « mezzo di propiziazione (I Giov. II, 4) »; poiché i due effetti sono correlativi, e Dio si placa nella misura in cui i nostri peccati ricevono un’espiazione proporzionata. « Purificare » (katarizein) dice quasi la stessa cosa. Il sangue è il gran mezzo di espiazione ed è pure il mezzo ordinario di purificazione. Il Figlio « compie la purificazione dei peccati (Ebr. I, 3) » col suo sangue (Ebr. IX, 14): poiché « quasi tutto, secondo la Legge, è purificato nel sangue, e senza effusione di sangue non vi è remissione » dei peccati (Ebr. IX, 22). Quello che ha di speciale la purificazione compiuta da Gesù, è che essa, all’opposto dei riti mosaici, è spirituale, è interiore, tocca la coscienza, è assoluta e definitiva (X, 2). – L’espiazione e la purificazione sono come il rovescio della santificazione e della consumazione: le prime distruggono il peccato, e le altre vi mettono al posto suo una perfezione positiva. « Santificare » è consacrare un essere a Dio, segregandolo dagli usi profani, è destinare una cosa al culto divino, rendere una persona atta a questo stesso culto. Ma mentre la santità prodotta dai riti antichi era soltanto legale, la santità propria del Nuovo Testamento trasforma le anime: una terminologia identica esprime così concetti affatto diversi. Non è più il sangue delle vittime che « santifica operando la purificazione secondo la carne (IX, 13) »; ma è « il sangue dell’alleanza (X, 29) » nuova, è l’atto spontaneo del vero pontefice (X, 10) che offre se stesso in sacrificio, che consuma e consacra per sempre, una volta per tutte, quelli che santifica (X, 14). – La « consumazione » è forse la parola più caratteristica dell’Epistola. Consumare (τελειοῦν = teleioun), è rendere perfetto (τέλειος = teleios), cioè condurre al termine ideale (τέλος = telos) che segna il punto di perfezione di un essere. La Legge mosaica è ripudiata perché non poté consumare nulla (VII, 19). I santi dell’Antico Testamento intravidero il termine senza raggiungerlo, perché non conveniva che fossero consumati prima di noi (XI, 40). Gesù Cristo fu consumato per il primo: « Conveniva che Dio, dal quale e per il quale tutto esiste, volendo far entrare nella gloria un’infinità di figli, consumasse col patimento il capo della loro salute (II, 16) ». Il capo (arkegos) precede i suoi soldati all’assalto e li introduce nella città espugnata dopo di esser ivi penetrato lui medesimo. Ecco perché, « benché fosse Figlio, imparò l’obbedienza con quello che ebbe da soffrire e, consumato, divenne per tutti quelli che gli obbediscono il principio della salute eterna. (V, 9) ». Dovunque egli cammina innanzi ed apre la strada. Egli è consumato per tutta l’eternità (VII, 28) » e noi siamo « consumati (X, 14) » con Lui. Qui notiamo alcune differenze, ma ben più numerose somiglianze, tra Paolo ed il redattore dell’Epistola. Questi ci salva al seguito del Cristo e con la mediazione di Gesù pontefice, quello invece ci salva nel Cristo Gesù ed in unione col Cristo mistico; l’uno accentua la distinzione tra l’autore della salute e coloro che la ricevono, l’altro invece mette in rilievo l’identità del capo e delle membra. Né l’uno né l’altro ignora che l’applicazione individuale della redenzione è tuttavia da farsi, e che il sangue di Gesù non purifica l’anima se non per mezzo del rito sacramentale; ma l’uno e l’altro considera la funzione del Cristo come compiuta con un solo atto, col suo sacrificio volontario; l’uno e l’altro considera il rialzamento dell’umanità come già compiuto, in principio, dall’obbedienza amorevole del Figlio. Per tutti e due, noi siamo salvi soltanto nella speranza, ma la nostra speranza è certa, e vi è un vincolo strettissimo tra il principio della salute e la sua consumazione. « Voi siete venuti al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, alle miriadi di Angeli, all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti in cielo (XII, 22-23) ». Così noi già ci moviamo nella sfera della realtà celeste; la fede è una presa di possesso anticipata dei beni che si sperano, la carità è un anticipo della gloria, e la Chiesa è il vestibolo del cielo.