DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (8) Modello di umiltà.

IL SACRO CUORE DI GESÙ MODELLO DI UMILTÀ

[A. Carmignola: il Sacro Cuore di Gesù; S.E.I. Ed. Torino, 1930]

DISCORSO VIII

II Sacro Cuore di Gesù modello di umiltà.

L’apostolo S. Giovanni ha detto, che tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita: Omne, quod est in mundo, concupiscientia carnis est, et concupiscentia oculorum, et superbia vitæ. (I Jo. II, 16) E con quanta giustezza quell’Apostolo abbia così sentenziato, non è difficile pur troppo il riconoscerlo. Gettando lo sguardo sul mondo, non ostante l’ipocrisia pomposa, con cui cerca ricoprire i suoi morali disordini e dar loro persino l’aspetto di virtù, tosto si scorge che l’amor dei piaceri lo domina ed avvilisce in tutte le sue età; che l’oro, il danaro fu sempre una divinità, dinanzi a cui si piegarono e l’uomo privato e l’uomo pubblico, e la sorgente funesta dei più gravi delitti; e che salire in alto, acquistarsi onori e gloria, essere superiori agli altri, non avere rivali fu in ogni tempo una comune aspirazione. Sì, l’amore dei sensuali piaceri, la cupidigia delle ricchezze, la sfrenatezza dell’orgoglio sono le tre furie, che signoreggiarono il mondo, orribilmente lo sconvolsero e tutto dì ne attentano la rovina. Ma sebbene queste tre furie abbiano fatto sempre insieme il loro cammino di strage e di desolazione, è certissimo tuttavia, che la superbia, benché da san Giovauni con ordine inverso nominata per l’ultima, ha sempre preceduto le altre, sia perché le prime colpe commesse nel mondo furono di superbia, sia perché non vi ha colpa alcuna, nella quale la superbia non entri e della quale non sia la causa fatale: Initium omnis peccati, superbia. (Eccli. x, 15). – Ora, poiché Gesù Cristo è venuto sulla terra a distruggere i1 regno della colpa, non poteva essere che Egli non prendesse particolarmente di mira l’orgoglio. Ed è ciò appunto che Egli fece e con la sua dottrina, e più ancora con il suo esempio per mezzo del suo Sacratissimo Cuore. Perciocché è dal suo Cuore divino, che fece uscir fuori la stupenda predicazione dell’umiltà, ed è nel suo Cuore, che Egli la praticò al sommo grado. Quindi è, che con quella sovrana autorità, con cui ci disse: Imparate da me che sono mansueto di cuore; ci dice pure: Imparate da me, che di cuore sono umile: Discite a me, quia… humilis sum corde. Pertanto a ben raggiungere il terzo fine della divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, che è l’imitazione delle sue speciali virtù, dopo di esserci animati alla pratica della mansuetudine, conviene che ci animiamo oggi alla pratica dell’umiltà. – A tal fine dopo d’aver considerato il gran male che è l’orgoglio rileveremo l’umiltà del Sacro Cuore e l’importanza di seguirne l’esempio.

I. — L’orgoglio, o miei cari, è un gran male, anzi la sorgente funesta di gravissimi mali, la causa fatale di disastrose rovine. Consideratelo nella sua natura, ne’ suoi caratteri, nelle sue conseguenze e non penerete a riconoscerlo per tale. Se io entro nel cuor dell’uomo vi incontro tosto l’amore di se stesso. E ciò non è male, perché dovrebbe forse odiarsi? Se l’uomo non si amasse, non comprenderebbe né il suo principio né il suo fine, non avrebbe alcun desiderio di corrispondervi, non ne adoprerebbe i mezzi, vivrebbe come il più stupido degli esseri. L’uomo adunque non solo non fa male ad amarsi, ma si deve amare. Ma ahimè! l’uomo si ama assai più di quello che debba amarsi, egli si ama senza giusta misura, egli si ama talora sino al delirio, vale a dire innanzi a tutto, più di tutti e in un modo esclusivo. Ecco l’orgoglio, la superbia: è l’amore di se stesso sino al punto da voler essere al di sopra di tutti gli altri e di non voler avere degli uguali. È il sentimento di Cesare, che passando per una bicocca delle Alpi, diceva, che avrebbe preferito ad essere là il primo, che secondo in Roma. È anzi il grido di Lucifero, che disse: Ascendam, voglio salire: il posto che occupo non mi appaga: in alto, in alto, fino a che non mi vegga curvato innanzi tutti coloro che mi circondano. Sì, o miei cari, la superbia è veramente l’impulso di satana sopra dell’uomo, è un movimento, che nella rabbia incessante, che lo agita, egli trasfonde nel nostro cuore, è il suo carattere, che vuol imprimere sopra di noi, per averci un dì partecipi della sua irreparabile sventura. – Ma d’onde mai questo amore così smodato di noi stessi, questo orgoglio così folle, che ne spinge a voler essere al di sopra di tutto e di tutti? Dalla falsa stima di noi stessi. Gettando lo sguardo sopra di noi, oltrecché non troviamo in noi alcun difetto, falsamente ancora troviamo in noi stessi tutte le belle qualità, e in un grado superiore. Qualunque sia il posto che noi occupiamo nella immensa scala della società, operai, o artisti, o maestri, o oratori, o scrittori, o capitani, o ministri, o re, noi ci reputiamo di tutti più abili, più capaci, più esperti, più valenti. E quel che è peggio, di tutto il gran bene che in noi scorgiamo, a nessuno ci riconosciamo debitori, neppure a Dio. Di tutto quello che noi siamo, e del molto più che crediamo di essere, di tutto quel molto che noi reputiamo di sapere e saper fare, tutto è merito nostro, merito esclusivo del nostro ingegno? della nostra intraprendenza, della nostra fatica! – Ed è naturale intanto, che da questa falsa stima di noi, per cui a tutti ci crediamo superiori, ne venga il disprezzo degli altri; disprezzo che si esplica nell’odio alla superiorità, nell’insofferenza dell’uguaglianza, nell’oppressione degli inferiori. Ed anzi tutto nell’odio alla superiorità, perché chi vuol essere il primo non vuol avere superiori; e siccome girando intorno lo sguardo vede, che la superiorità esiste in qualsiasi ordine di cose, e vede, che vi ha chi gli è superiore per autorità, chi gli è superiore per ingegno, chi gli è superiore per operosità, chi gli è superiore per beni di fortuna, chi gli è altrimenti superiore, perciò si adira contro tutto ciò che essendogli superiore, pone ostacolo al suo orgoglio, contro di ciò freme di secreta rabbia, e nutre un cocente odio. Oh se egli potesse liberarsi da quella superiorità, a cui egli è giocoforza sottostare, come si reputerebbe felice! Ed eccolo, il superbo, simile ad Aiace, che presso a morire faceva minacce col troncone della spada alla maestà degli dei, eccolo levarsi con tutta la sua forza a contrastare l’altrui superiorità e l’altrui primato. Eccolo, come artista, come scrittore, come applicato a qualsiasi professione, tentare di gettare nel fango chi lo supera e gli sta innanzi, adoperando perciò anche la calunnia; eccolo come operaio o come servo rifiutare l’obbedienza al suo padrone, eccolo come figliuolo pestar dei piedi e voler scuotere di dosso il giogo dell’autorità paterna, eccolo come moglie levarsi baldanzoso contro il diritto che ha il marito di comandare, eccolo come suddito mormorare del suo superiore e rifiutarsi di obbedirlo, eccolo come popolo insorgere e ribellarsi contro il pubblico potere, e quel che è peggio, eccolo come uomo e più ancora come cristiano rivoltarsi contro Dio e negargli la propria dipendenza e servitù. Ogni ribellione adunque, per quanto possa parere cagionata da altre molteplici cause, in fondo in fondo parte sempre dall’orgoglio. In secondo luogo il disprezzo per gli altri che vi ha nell’orgoglioso, si esplica nell’insofferenza degli eguali. E come li potrebbe soffrire egli, che vuol essere non solo il primo, ma vuol esserlo esclusivamente? Ecco perché se voi, quasi a fargli una lode, lo paragonate a qualcun altro o lo trattate da pari, agli s’offende. Di Maometto si dice, che un giorno esclamasse: Di eguali è da lungo tempo che io non ne debbo avere. E di Napoleone I si racconta, che ricevendo in Egitto una lettera da un membro dell’Istituto, intestata con le parole: Mio caro collega: « Come? si facesse a ripetere, lacerando quella lettera, mio Mio caro collega? È questo il modo di scrivermi? » Oggidì vi ha un partito che vuole ad ogni costo ottenere l’universale uguaglianza. Ma che si ha da credere di coloro, che se ne fanno caldi sostenitori e predicatori indefessi? Che vogliano veramente degli uguali? No, o miei cari; sono orgogliosi, che per la via del male tentano di salire in alto per avere dei sudditi. – In terzo luogo con l’odio alla superiorità e con l’insofferenza degli uguali, vi è nell’orgoglioso l’oppressione degl’inferiori. Il maggior contento, che prova il superbo, è quello di far sentire chi gli sta sotto il peso della sua superiorità; ed ecco il ricco, che guarda con disprezzo il povero e lo tratta mille volte peggio del cane; ecco l’aristocratico, che disdegna aver vicino a sé un misero figlio del popolo, e se ne schermisce come da una peste; ecco il marito, che tiranneggia la moglie, la tratta come misera schiava; ecco il potente, che opprime il debole, e gli fa versare lagrime di angoscia; ecco il padrone, che aggrava di comandi e di fatiche il servo e l’operaio, e lo defrauda della dovuta mercede; ecco il superiore mutato in un un despota, ed ecco l’ingiustizia regnare da per tutto. Ma strana cosa, o miei cari: mentre il superbo vuol sollevarsi sopra tutto e sopra tutti e disprezza perciò i superiori, gli eguali e gl’inferiori, egli per altra parte si avvilisce e non teme di avvilirsi nel modo più umiliante; perciocché, a raggiungere il suo scopo, non gli basta talora di strisciare cortigianescamente ai piedi della superiorità, ma in ogni guisa fa mercato di sé con gli eguali, e ricorrendo ad arti abbiette, a transazioni vigliacche ed a bugiarde promesse, va mendicando persino dagli inferiori quei suffragi, da cui spera essere innalzato. Che più? Poiché talora l’orgoglioso non arriva, non ostante i suoi supremi sforzi, ad acquistare alcuna celebrità nel bene, egli allora si butta disperatamente a ricercare in basso la celebrità del male. Ed ecco lo scrittore e il giornalista, che non potendo emergere nella bontà dello scrivere cerca di farsi un nome con la immoralità e con l’irreligione, di cui cosparge i suoi scritti; ecco l’artista, che non valendo a rendersi celebre con l’ingegno e con lo studio, cerca di farsi tale col

verismo e con le nudità più infami; ecco il ricco, che non avendo la generosità della beneficenza, si travaglia ad acquistarsi l’ammirazione in un lusso ridicolo, in una pompa imbecille di servi, di livree, di cocchi e di cavalli, di abiti, di feste, di palagi e di ville; ecco il capitano, che non potendo acquistar fama per vittorie sul nemico, si dà ad acquistarla per mezzo del tradimento; ecco il governante, che non riuscendo a farsi grande con la sapienza e con la rettitudine, si crea un nome con l’audacia e con la tirannia; ecco l’uomo stesso di Chiesa, che non attendendo a rendersi degno della lode di Dio e degli uomini per mezzo della virtù, ad essere grande in qualche modo si abbandona all’apostasia ed all’errore; ecco insomma Erostrato, che per crearsi un nome comunque, appicca il fuoco al tempio di Diana. – Ma anche allora, o miei cari, che l’orgoglio a soddisfarsi non si vale di questi delitti, o tardi o tosto non lascia di cagionarli. È questo, dice Cornelio a Lapide, il centro da cui partono i raggi di ogni iniquità; di qui l’incredulità e l’ateismo, di qui la sfrenata cupidigia del denaro, che uccide la giustizia, di qui la corruttela dei costumi, di qui la gelosia, la vendetta, di qui il delitto, sotto tutte le forme. Leggete la storia dell’orgoglio e vi troverete disastri spaventosi. È per superbia che Lucifero si ribellò a Dio volendo essere simile a Dio. È per superbia che Adamo ed Eva disobbedirono al precetto del Signore, desiderando di arrivare a conoscere come Dio il bene ed il male. È per superbia che Caino uccise Abele, vedendolo a sé superiore nell’estimazione di Dio. È per superbia che Esaù perseguitò Giacobbe, mal soffrendo di essere diventato inferiore a lui c on l’avergli venduto il diritto della primogenitura. È per superbia che Faraone oppresse gli Ebrei; per superbia che questi mormorarono contro Mosè, per superbia che Saul attentò più volte alla vita di Davide, per superbia che Davide cadde nella disonestà, per superbia che Nabucodonosor, Antioco, Erode si diedero a perseguitare gl’innocenti, per superbia che S. Pietro negò il Divin Redentore, per superbia che gli imperatori romani fecero tante vittime, per superbia che gli eresiarchi recarono tanto danno alla Chiesa, insomma fu ed è tuttora per la superbia che si commettono la maggior parte dei peccati, o più esattamente, tornerò a dire, non vi è peccato alcuno nel quale non vi entri la superbia: initium omnis peccati superbia., Né solamente è la superbia il principio di ogni peccato, ma essa è ancora la rovina di ogni virtù; poiché, come osserva s. Agostino, tende insidie a tutte le opere buone, affinché falliscano. E di fatti, dove va il merito delle limosine, delle preghiere, dei digiuni, dei sacramenti, delle pratiche di pietà, quandò siano fatte por superbia o dalla superbia siano contaminate? Colui che opera il bene per questo fine di comparire dinanzi agli uomini, si sentirà un giorno a ripetere da Dio medesimo: Iam recepisti mercedem tuam: hai già ricevuto la

tua mercede. Oh quanto grave danno arreca il peccato della superbia, senza nulla dire dei terribili castighi, con cui Iddio lo punisce, sottraendo al superbo la sua grazia, resistendogli anzi. abbandonandolo alle sue impure passioni, e lasciandolo ben anche in apparenza trionfare per colpirlo alfine con una terribile morte, svergognandolo poi nel dì del giudizio e gettarlo in preda alle eterne umiliazioni dell’inferno.

  1. II. — Tale adunque essendo il gran male della superbia, e così grandi le rovine, che esso cagiona, non poteva essere che Gesù Cristo venuto in sulla terra a combattere il male e ristorarne le rovine, non prendesse a combattere in special modo l’orgoglio, e sia con la dottrina, sia con l’esempio, non ci predicasse altamente l’umiltà; quell’umiltà che consiste nel riconoscere il niente che siamo rispetto a Dio e nell’indurre la volontà ad un sincero abbassamento di noi stessi; quell’umiltà che partendo dalla giusta cognizione delle nostre miserie, anziché al disprezzo degli altri, ne porta al disprezzo nostro; quell’umiltà, che ci fa rispettosi coi superiori, modesti con gli eguali, caritatevoli con gli inferiori; quell’umiltà che pure ci esalta dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, che ci fa trionfare delle umane passioni, che costituisce la base e il fondamento, a cui si appoggiano tutte le altre virtù, e che ci attira dal cielo l’abbondanza di ogni grazia e benedizione. E così fece. Gesù Cristo levò la sua voce di maestro delle genti e nell’umiltà parve compendiare tutta quanta la sua morale. « Se alcuno, Egli disse, vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Guardatevi bene dal fare le vostre buone opere per essere veduti e lodati dagli uomini, altrimenti non potrete pretendere verun premio dal Padre vostro, che è nei cieli. Se alcuno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo, il servo di tutti. Quando avrete fatto tutto bene, con esito felice, riconoscete da Dio ogni prospero evento e dite: Siamo servi inutili ed abbiam fatto il nostro dovere. Non vogliate i primi posti; chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. In verità, in verità vi dico: se non diventerete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. » Ecco la morale del divino Maestro. – E questa è la morale, cui volle sottostare egli stesso, senza esserne punto obbligato. L’apostolo S. Paolo, parlandoci dei grandi misteri della incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, li presenta alla nostra considerazione come misteri di impicciolimento e di umiliazione. Iddio, egli dice, si è esinanito, prendendo la forma di servo: exinanivit semetipsum formam servi accipiens. (Phil. n, 7) Gesù Cristo, soggiunge, si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte e morte di croce.

Humiliavit semetipsum factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Di fatti che altro mai furono questi misteri se non misteri della più profonda umiltà? Mistero di umiltà fu la sua incarnazione, non già perché incarnandosi abbia lasciato di essere Dio, ma perché, restando quello che era, cominciò, ad esistere in una natura creata, epperò tratta dal nulla, in cui sarebbe ricaduta, se l’atto che ne la fece uscire, fosse stato sospeso. Mistero di umiltà, perché sebbene, avendo stabilito di incarnarsi, avrebbe potuto prendere le forme dell’età adulta e comparire al mondo come vi fu introdotto Adamo, non di meno elesse di nascere bambino, e quel che è più, se non bambino peccatore, ciò che era impossibile, almeno bambino, come insegna S. Paolo, (Rom. VIII, 3) nella somiglianza della carne di peccato, umiliato e passibile. Mistero di umiltà perchè avendo presa la natura umana sotto la forma di bambino, poteva tuttavia con un tratto, con una parola, dare un saggio della sua potenza e della sua sapienza, ogniqualvolta lo avesse voluto; eppure nascose siffattamente le sue perfezioni divine, da non mostrar mai segno alcuno di qualità speciali sino all’età dei dodici anni. Mistero di umiltà, perché pur nascendo bambino avrebbe potuto cingersi di gloria e invece preferì di nascere a Betlemme, nella più piccola città del più piccolo regno, e nel luogo più vile di questa umile città, in una stalla, sulla paglia di un presepio. E come mistero di umiltà fu l’Incarnazione e la nascita, così mistero di umiltà fu tutta quanta la sua vita privata e pubblica. In quanto alla sua vita privata l’evangelista S. Luca la compendia tutta in azione continuata di umiltà, giacché di Lui non dice altro se non che era soggetto a Maria ed a Giuseppe: et erat subditus illis. (Luc. II, 51). Ed era loro soggetto, vale a dire lo era così nei dodici anni, come nei venti, come nei trenta, da giovanetto e da uomo fatto. Ed era a loro soggetto, cioè professava loro quella sudditanza, che si immedesima con la stessa umiltà. Ed era a loro soggetto, cioè, come osservano S. Agostino e S. Bernardo, Egli, Gesù Cristo, che

con tutta verità si dichiarò uguale a Dio, Dio egli stesso, colui che fabbricò il cielo e la terra era soggetto ai parenti, agli uomini, ad un povero fabbro; Et erat subditus illis. – Immaginatelo adunque quel caro Gesù sempre intento a fare umilmente la volontà di Maria e di Giuseppe, a prevenirla anzi ed aiutarli in tutte le loro faccende. È vero, tanto Maria come Giuseppe riconoscendo con vivissima fede che quel loro figliuolo era Dio, non avrebbero osato soprastargli e fargli alcun comando, ma nel tempo riconoscendo che era volere di Gesù, che si diportassero con Lui da superiori e lo comandassero, di tanto in tanto con tutta grazia e soavità lo chiamavano e gli impartivano degli ordini. E Gesù sorridente in volto, il cuore pieno di gioia, pronto subito ad eseguirli. Epperò eccolo talvolta per obbedire a Maria ed aiutarla nelle faccende più umili della casa, ora accendere il fuoco, ora lavare con le sue mani divine le povere stoviglie, ora prendere con dolce violenza la scopa di mano a Maria e mettersi Egli a pulir la casa, ora correre sollecito al pozzo, che ancor presentemente si fa vedere presso Nazaret, per attingere l’acqua. Eccolo per sottostare a Giuseppe ed aiutarlo ne’ suoi lavori ora segar qualche trave, ora piallar qualche tavola, ora verniciare qualche mobile, ora uscire a far delle compere, ora a prendere delle misure ed ora attendere ad altre cose somiglianti. Oh Dio! Che meraviglioso spettacolo non doveva essere quello per gli Angeli del Cielo: vedere quel Dio, che è Re dei re, dominatore del mondo, alla cui servitù essi sono dedicati; al cui cenno fumano i monti, trema la terra, fremono i mari, soggetto alle creature e lavorare umilmente sotto la loro direzione e comando! Oh esempio, che noi stessi non crederemmo possibile se il Vangelo non lo accertasse. E quanto alla vita pubblica? Egli la inaugurò con l’umiltà. Eccolo, Gesù, ai piedi di Giovanni Battista per riceverne il battesimo, quasi fosse un peccatore. Guardatelo in seguito nel corso di una predicazione tra le tante lodi e benedizioni ricevere pure molti biasimi, minacce e persecuzioni senza mai replicare una parola, che riveli un minimo sentimento di orgoglio offeso. Egli inoltre trova la sua delizia nel trattenersi con le persone di bassa condizione; elegge per compagni di sua predicazione dei poveri pescatori, ai quali nell’ultima cena, come fosse loro servo, lava i piedi; preferisce di evangelizzare i poveri; ai fanciulli fa le sue speciali carezze, e persino i peccatori formano l’oggetto della sua predilezione! Ma che dire poi dei misteri di umiliazione, cui volle assoggettarsi durante la sua passione, e ai tribunali, dove fu condannato, trattato come re da burla, schiaffeggiato, sputacchiato, insultato, con le più grandi villanie, e al Pretorio di Pilato, dove fu messo a confronto con un famigerato omicida, Barabba, e a lui sottoposto; ed al Calvario, dove fu conflitto nudo in croce fra due ladroni? Ah questi sono veramente abissi di umiltà imperscrutabile. – Eppure non pago di ciò, Gesù Cristo vuol continuare a mostrarsi modello di umiltà nel S. S. Sacramento dell’altare, dove se ne sta umiliato più ancora che durante la sua vita mortale. Ed invero durante la sua mortai carriera lanciò pure degli sprazzi di luce, che costringevano gli uomini ad ammirarlo. Ma nella S.S. Eucaristia dov’è lo splendore, non dico della sua divinità, ma persino della sua umanità sacrosanta? Tutto ivi è celato, tutto è nascosto. Sotto le specie di un po’ di pane se ne sta chiuso entro al tabernacolo, come un povero carcerato, ed anche allora che ne vien tratto fuori per essere esposto alla pubblica adorazione, o per essere portato trionfalmente in processione, anche allora non lascia trasparire alcun raggio della sua gloria, non dà sintomo alcuno per intimare ai nostri sensi che ivi Egli si trova, vero Dio e vero uomo. Oh umiltà! Oh esempio inesplicabile! Poteva forse nostro Signor Gesù Cristo contrastare più efficacemente all’umano orgoglio e predicarne con maggior forza l’umiltà? Poteva dirci con più ragione: Imparate da me, che sono umile di cuore? Discite a me, quia… humilis sum corde?

III. — Or ecco l’esempio che assolutamente dobbiamo seguire come Cristiani e come devoti del Sacro Cuore di Gesù. Io dico assolutamente, perchè l’umiltà non è una virtù di consiglio soltanto o dalla quale possiamo in certe circostanze e speciali ragioni esimerci, no; essa è doverosa a conseguire l’eterna vita ed è doverosa sempre. In cielo si possono trovare dei Santi, che non abbiano fatto elemosina, ve ne possono essere degli altri che non abbiano potuto praticare digiuni e macerazioni, vi possono regnare di coloro, che non mantennero la verginità, ma nessuno può trovarsi e nessuno può entrarvi senza che sia stato umile. Gesù Cristo ha parlato chiaro dicendo: Se non diventerete umili sino a parere semplici pargoletti, non entrerete nel regno dei cieli: nisi efficianimi sicut parvuli, non intrabitis in regnum cœlorum. (MATT. XVIII, 3) Anzi senza umiltà le più grandi virtù degenerano in vizio; la più grande austerità della vita diventa un’ipocrisia detestabile, la più alta contemplazione un’illusione vituperevole, l’estrema povertà una sciocca vanità. Senza l’umiltà i deserti degli anacoreti, le penitenze dei confessori, i tormenti dei martiri, lo zelo degli Apostoli non sono che un vano trastullo, che colpisce gli uomini e allieta i demonii; senza umiltà gli stessi doni di Dio riescono di nocumento. Come i venti quando soffiano nelle vele di un bastimento, benché sembrino favorevoli al suo corso, non fanno che precipitarne il naufragio, se il bastimento è spinto verso gli scogli nascosti sotto le onde, così pure l’abbondanza dei doni del Signore in un’anima, che si lasci dominare dalla superbia, può servire ad accrescergliela spaventosamente e farla miseramente perire. E così è accaduto che uomini eminenti per santità, già vicini o pel martirio o per le più belle virtù al porto dell’eterna salute, miseramente naufragarono per aver urtato nello scoglio fatale della superbia. – Quanto importa adunque, che ad imitazione del Sacratissimo Cuore di Gesù noi siamo umili, e siamo umili non di umiltà apparente, ipocrita, bugiarda, di sole parole: chi si umilia così, ha detto lo Spirito Santo, si umilia maliziosamente ed ha il cuore pieno di frode: est qui nequiter se humiliat, et interiora eius plena sunt dolo. (Eccli. XIX, 23) Ed in vero a che giova il protestare che fan taluni di essere il più gran peccatore, o la più gran peccatrice del mondo, di meritare anche mille inferni, se poi facendo gli altri vista di credere, oppure notando in esso qualche difetto e correggendoli, tosto si adirano e rispondono parole piene di superbia? Costoro non è già che abbiano l’umiltà, ma l’ipocrisia di tale virtù, perciocché se da se stessi si abbassano, non lo fanno che per essere dagli altri esaltati. Ora il cercar lode dall’umiliarsi, dice S. Bernardo, tutt’altro che umiltà, è distruzione della stessa. Il vero umile confessandosi peccatore, al dire di S. Gregorio, a chi glielo ripete, non lo nega, ma lo conferma. Il vero umile insomma non pretende di essere lodato per umile, ma vuole essere tenuto per vile, per difettoso, per degno di disprezzi, e si compiace nel vedersi trattato come egli si stima; non vuole comparir santo, ma attende con ogni studio a farsi tale. È di questa umiltà pertanto che noi dobbiamo essere umili; non dell’umiltà di bocca, ma dell’umiltà di cuore, essendo questo Cristo ci ha raccomandato, vale a dire quell’umiltà che ci persuade, che siamo veramente nulla, anzi peggio che nulla; perché pieni di miserie, che ci tiene pronti a schivare sempre e ad occultare con molta cura tutto ciò, che può ridondare a qualche nostra lode, eccetto che la gloria di Dio e il bene delle anime richiedano assolutamente il contrario, che ci ingenera sentimenti di confusione allorché siamo lodati, anziché far nascere in noi una vana compiacenza, che ci incoraggia ad accettare con rassegnazione, e persino con amore e con gioia, tutto ciò che in qualche modo ci può umiliare dinanzi al mondo, che di tutto il bene che possiamo fare noi a Dio solo ci fa rendere la gloria, e di tutto il bene che van facendo gli altri ci fa santamente esultare, che ci getta ai piedi di Dio, che ci rende affabili con gli eguali, e pieni di carità con gli stessi inferiori, che in una parola ci rende imitatori di Gesù Cristo. Questa è l’umiltà, che han pure praticato i santi; l’umiltà che ha indotto degli imperatori, dei re, delle regine, dei Pontefici a calare dal fastigio della loro grandezza e a farsi gli altrui servi; l’umiltà che ha spinto degli uomini illustri a nascondersi nelle caverne dei monti per sfuggire agli onori, cui si volevano sollevare; l’umiltà, che ha portato dei grandi sapienti a rendersi stolti in faccia agli uomini essere da loro scherniti e disprezzati; questa è l’umiltà che ha popolato e va popolando il cielo. – Animo adunque, o carissimi; dinanzi a noi stanno spiegate due bandiere, la bandiera di satana, su cui sta scritto: Ascendiamo; la bandiera di Gesù Cristo che ha per motto: Recumbe in novissimo loco: (Luc. XIV, 10) sta nell’ultimo posto. Quale bandiera seguiremo noi? Fortunato il Cristiano, felice il devoto del Sacro Cuore, che lasciando la bandiera di satana, terrà sempre dietro alla bandiera di Gesù Cristo! A giudicarlo dall’apparenza egli sembrerà un uomo da nulla, ma in realtà egli è l’uomo più grande della terra, perché porta scolpita sul cuor suo l’immagine viva del cuore di Cristo; in apparenza ei sembra nell’abbiezione e nell’annientamento, ma realmente egli cammina diritto per la strada che conduce agli onori dell’eterno trionfo, perché se è verissimo che chi si esalta sarà umiliato: qui se exaltat humiliabitur, è pure certissimo, che chi si umilia sarà esaltato: qui se humiliat exaltabitur. (Luc. XIV, 11) Ma perché ciò abbia ad essere di ciascuno di noi, diciamo tutti al nostro caro Gesù: O nostro Salvatore e Maestro! In vista del vostro umilissimo Cuore noi ci ricopriamo di confusione e di rossore. Voi Re del cielo e della terra, umiliato sino al punto da morire come un malfattore su di un patibolo, e noi così peccatori ripieni di tanta superbia! Deh! per i meriti delle vostre umiliazioni e dei vostri disprezzi, fate che noi conosciamo le miserie e deformità nostre, acciocché aborriamo giustamente noi stessi, evitiamo con diligenza di metterci innanzi e di cattivarci le lodi, e soffriamo altresì in pace di essere trascurati, disprezzati ed ingiuriati, siccome meritiamo. Così mercé il vostro aiuto, noi speriamo vivamente di rendere il nostro cuore simile al vostro, cioè mansueto ed umile, e dopo di essere stati umili con voi qui in terra, essere poscia esaltati con voi in cielo.

CONOSCERE SAN PAOLO (7)

CONOSCERE S. PAOLO -7-

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (3)

II. LE VITTIME SACRIFICATE AGLI IDOLI.

– 1. I TRE CASI. — 2. SOLUZIONE.

1 . La religione greco-romana era tutta di riti e di pratiche. Si poteva pensare e dire degli Dei immortali quasi tutto ciò che si voleva, purché si osservassero le usanze religiose della nazione o della città. Ma tali usanze invadevano quasi interamente la vita: lutti e gioie di famiglia, voti e ringraziamenti, solennità rituali, giochi del circo, anniversari, mille altre circostanze davano luogo a sacrifici. Le vittime, quando non venivano consumate sul posto, nelle dipendenze del tempio o nel boschetto sacro, servivano al banchetto familiare, o erano distribuite ai congiunti e anche cedute per poco prezzo ai rivenditori. Questa era, per i pochi neofiti sperduti in mezzo alla popolazione idolatra, una sorgente continua di difficoltà, di scrupoli e di pericoli. Bisogna credere che avessero proposto a Paolo tre casi di coscienza che occorrevano più spesso: 1) Dovevano cessare di servirsi presso i macellai idolatri, sospetti di vendere carni offerte nei tempi o di fare invocazioni superstiziose sopra le bestie che macellavano: 2) Potevano sedere a mensa con i loro parenti o amici pagani, nonostante il timore troppo fondato di trovarvi carni consacrate agli idoli? 3) Era loro permesso, per ragione di ufficio o di convenienza, prendere parte al banchetto sacro che ordinariamente accompagnava il sacrificio? – Prima di affrontare la questione, l’Apostolo stabilisce due principi: dimostra che l’idolotito non contrae nessuna impurità intrinseca, e prova che un’azione indifferente può diventare illecita per le circostanze. Che cosa è un idolotito? Una vittima immolata agli idoli. Ma che cosa è un idolo? È una chimera, un essere fantastico, un nulla. L’idolo passa per una divinità: ora « non vi è che un solo Dio » che non è quello raffigurato dall’idolo; perciò l’idolo è un’immagine senza modello, una rappresentazione senza realtà, un’idea senza oggetto corrispondente; in una parola « l’idolo non è nulla nel mondo ». Il fatto di essere immolato agli idoli, non può macchiare un essere né sottrarlo al dominio di Dio: « Al Signore appartiene la terra con tutto ciò che essa contiene » e gli appartiene per un diritto inalienabile. Senza dubbio, chi mangiasse l’idolotito « in quanto è idolotito », cioè con la persuasione che l’offerta ai falsi dèi lo abbia reso impuro, contrarrebbe la macchia di una coscienza errata: ma sarebbe per mancanza di scienza. Ebbene, di questi spiriti deboli, di questi pusillanimi, un Cristiano illuminato, dotato di scienza, deve tenere conto: « Perché il debole, questo fratello per il quale il Cristo è morto, si perderebbe per la scienza. Perciò, peccando contro i tuoi fratelli, con dare scandalo alla loro coscienza debole, peccheresti contro il Cristo. Se un alimento scandalizza mio fratello, io non mangerò mai più carne per non scandalizzarlo (1 Cor. VIII, 13) ». Ecco il cuore e lo spirito di Paolo! Nella lunga digressione che segue, sembra che perda di vista la questione degli idolotiti; ma in realtà ne prepara la soluzione. – Egli mostra col suo esempio l’applicazione di questa massima: « Se tutto è permesso, non tutto è conveniente; se tutto è permesso, non tutto edifica. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello del prossimo (X, 23) ». Forse che egli, Paolo, si vale dei suoi diritti? Egli è apostolo per il medesimo titolo dei Dodici; in ogni caso è l’apostolo incontestato dei Corinzi; potrebbe dunque vivere a spese dei fedeli; potrebbe, come gli altri Apostoli, come Pietro, come i fratelli del Signore, farsi accompagnare da una donna cristiana incaricata di servirlo. Ogni lavoratore è mantenuto da colui che lo impiega; Mosè proibisce persino di mettere la musoliera al bue che trebbia il grano. Sotto l’antica, come sotto la nuova Legge, il sacerdote vive dell’altare. Ma perché egli, Paolo, ha rinunziato al suo diritto? Perché vuole che la sua condotta non ostacoli la diffusione del Vangelo; perché ama il suo buon nome e la sua indipendenza; perché aspira al merito di un apostolato assolutamente gratuito e disinteressato; perché vuol essere per i neofiti un modello di distacco ed un esempio vivente di abnegazione; perché facendosi tutto a tutti, Ebreo con gli Ebrei, Gentile con i Gentili, spera di salvarne almeno alcuni; perché finalmente vuol poter dire ai neofiti: “Imitate me, come io imito il Cristo”.

2. Alla luce di questi principi, i due primi casi di coscienza sono già risolti. Il Cristiano può, come tutti gli altri, comprare al mercato le carni che vi trova, senza preoccuparsi della loro provenienza; ancorché siano state offerte agli idoli, questa offerta non fa nulla. Può anche accettare gl’inviti e mangiare senza scrupoli di tutto ciò che gli viene servito; ma se qualcuno fa notare la presenza di un idolotito, bisogna astenersene, perché quell’osservazione dimostra che se ne prende scandalo o lascia supporre che si prenderà scandalo, e la carità ci obbliga ad evitarlo. Si potrebbe credere che il terzo caso sia simile al precedente, invece ne è separato da un abisso. Prendere parte ad un banchetto sacro con gli adoratori dei falsi dèi è un motivo legittimo di scandalo. Che si direbbe di un Cristiano che sta alla mensa degli idoli? Vi è inoltre pericolo prossimo d’idolatria, come lo dimostrano gli Ebrei i quali, dopo di aver attraversato il Mar Rosso e di essere passati sotto la nube luminosa, doppia figura del Battesimo, dopo di aver mangiato la manna e di aver bevuto l’acqua miracolosa dell’Horeb, tipo dell’Eucaristia sotto le due specie, furono invitati al banchetto di Beelphegor e adorarono il dio. Ma, indipendentemente dallo scandalo e dal pericolo prossimo, la partecipazione al banchetto sacro è per se stessa un atto idolatrico. San Paolo lo dimostra con due argomenti di analogia. Gli Ebrei che consumano le vittime offerte nel Tempio, come tutti ammettono, entrano in comunione con l’altare. Nessun Cristiano ignora che bere al calice e rompere il pane consacrato è comunicare col sangue e col corpo del Cristo: « Io non voglio, soggiunge l’Apostolo, che siate i commensali e gli alleati dei demoni. Voi non potete bere il calice del Signore e la coppa dei demoni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni (1 Cor. X, 20-21) ». – Presso tutti i popoli, la mensa forma tra i convitati una specie di vincolo sacro che diventa più intimo e più santo quando il banchetto è la consumazione del sacrifizio. Nel banchetto religioso vi è l’unione ordinaria tra ospite e invitati, l’unione con il sacerdote sacrificatore, perché la consumazione della vittima è il compimento del sacrificio, l’unione vera o supposta con la divinità creduta presente in mezzo ai suoi adoratori, l’unione con la vittima stessa che è il veicolo di benedizioni. È manifesto che queste unioni — almeno le ultime tre — costituiscono un vincolo religioso. Non si tratta dunque più di carità o di edificazione, ma della stessa religione. – Un atto di culto fatto in onore di una falsa divinità, si voglia o non si voglia, è un atto idolatrico. Non già che gli idoli abbiano un’esistenza reale o che l’offerta agli idoli possa macchiare una creatura: San Paolo ha affermato or ora che non vi è nulla, e non si contradice affatto; ma i sacrifici che non sono offerti al vero Dio si credono offerti ai demoni, ed è infatti il demonio quello che ne trae vantaggio. [Questo succede nel mondo odierno un tempo Cattolico, invaso dalla setta modernista del « novus ordo », nel cui rito, denominato “novus ordo missæ” il “Sacrificio” viene offerto al “signore dell’universo”, cioè al baphomet-lucifero, il demone della setta massonica – il nuovo rito infatti venne messo a punto, su commissione del patriarca degli illuminati, l’ebreo G. B. Montini, ai massoni Bugnini e a sei “periti” protestanti – partecipare a questo rito demoniaco è appunto culto idolatrico, come quello che S. Paolo giustamente proibiva come pratica aberrante anticristiana -ndr-]. Qualcuno domanda come Paolo concordi da una parte col decreto apostolico e dall’altra con la tradizione ecclesiastica. Il decreto di Gerusalemme era temporaneo e locale; come semplice provvedimento disciplinare, essenzialmente variabile, proposto da San Giacomo con un fine di conciliazione per smorzare gli urti tra i neofiti Ebrei ed i Gentili nelle chiese miste, esso obbligava direttamente soltanto i fedeli di Antiochia, della Siria e della Cilicia. San Paolo aveva creduto bene di promulgarlo anche nella Galazia e probabilmente anche in Asia dove gli elementi delle comunità cristiane erano i medesimi; ma non aveva nessuna ragione di estenderlo a Corinto dove l’elemento ebreo-cristiano doveva essere minimo. D’altra parte la soluzione liberale data per Corinto, non impegnava affatto l’avvenire. Era naturale che, dopo il trionfo del Cristianesimo, si adottasse una soluzione più rigorosa. Non si poteva più invocare la necessità morale, e non vi era più motivo di dare ai sacrifici pagani quella specie di cooperazione materiale che poteva sembrare un incoraggiamento. Gli idolotiti furono dunque proibiti come i giochi del circo, sia per ragione dello scandalo divenuto inevitabile, sia per ragione del pericolo prossimo. Non bisogna neppure stupire se certi Padri, perdendo di vista l’insegnamento di Paolo, arrivarono a considerare gli idolotiti come macchiati dalla sola offerta agli idoli e proibiti soltanto per questo.

III. L’AGAPE E L’EUCARISTIA.

1. IL VELO DELLE DONNE. — 2. I QUATTRO ABUSI DELLE AGAPI. — 3. L A PROFANAZIONE DELL’EUCARISTIA.

1. Dovunque si trovavano nuclei di fedeli, si stabilirono pubbliche riunioni. Fu scelto di preferenza il primo giorno della settimana, chiamato, fino dai tempi di San Giovanni, il giorno del Signore (Apoc. I, 10). – Vi furono da principio, come si praticava sotto Traiano, due assemblee distinte, una per l’istruzione e l’altra per la frazione del pane! La prima Epistola ai Corinzi lo fa supporre. Infatti i catecumeni e i pagani assistevano alle riunioni in cui profeti e glossolali sfoggiavano i loro carismi (1 Cor. XIV), ma non è probabile che essi fossero ammessi alla celebrazione dei misteri. Paolo non ha il proposito di descriverei quelle assemblee, ma vuole soltanto correggere gli abusi che vi si erano introdotti dopo la sua partenza. I particolari più familiari non si scrivono, e quando si toccano di passaggio, questo si fa appena con qualche allusione. In grazia delle difficoltà dei Corinzi, si solleva un lembo del velo; troppo poco per soddisfare la nostra curiosità, ma abbastanza perché possiamo dare uno sguardo discreto sul funzionamento delle chiese nelle loro origini. Nelle città greche in generale, le donne godevano di una gran libertà, e Corinto non poteva essere per loro una buona scuola di riservatezza e di modestia. Sembra che parecchie assistessero senza velo alle assemblee religiose e che si permettessero anche di prendervi la parola. Paolo condanna questa pratica come sconveniente, come contraria al costume delle altre chiese e come opposta ai suoi stessi insegnamenti (1 Cor. XI, 16). È evidente che nei costumi di quel tempo l’andare a capo scoperto era segno di autorità e di autonomia, mentre il velo era simbolo di timore, di lutto, di soggezione. Ora il Cristianesimo che veniva ad emancipare la donna, a rialzarne la condizione sociale, a restituirle il suo posto d’onore nel focolare domestico, non le assegnava nessun posto nelle funzioni sacre della gerarchia ecclesiastica. Per legge di Dio e per l’ordine naturale, la donna è soggetta al marito, e il suo contegno esteriore deve esprimere questa dipendenza. L’Apostolo glielo ricorda e le fa un dovere di ricordarsene in chiesa: « il capo della donna è l’uomo, il capo dell’uomo è il Cristo, il capo del Cristo è Dio (1 Cor. XI, 3) »; questa è la gerarchia legittima. Il Cristo, capo supremo della Chiesa sotto l’alta sovranità di Dio, ha riservato all’uomo solo la potestà dell’ordine, e per mezzo dell’uomo esercita la sua giurisdizione; la donna è all’ultimo posto, senza autorità propria. L’uomo e la donna, come si vede, sono presi in significato collettivo, e perciò non vi è nulla che si opponga alla loro disuguaglianza individuale né alle loro relazioni reciproche di superiore e d’inferiore. Ma San Paolo vuole che la gerarchia dei sessi sia espressa sensibilmente nelle funzioni liturgiche. L’uomo che prega o che profetizza in chiesa a capo coperto, disonora il suo capo, perché volontariamente rinunzia alla dignità gerarchica di cui il Cristo lo ha onorato; una donna che preghi o che profetizzi a capo scoperto, disonorerebbe il suo capo, perché dimostrerebbe con tale atto un’arroganza e una sfrontatezza poco convenienti al suo sesso e al suo grado inferiore; sarebbe, dice l’Apostolo, come se avesse il capo raso. Nel mondo pagano si radevano le persone vili: in Grecia le schiave, a Poma le ballerine e le cortigiane, come segno distintivo dei loro vergognoso mestiere. – La storia della creazione dà alla donna la stessa lezione di riservatezza. L’uomo è in certo modo il riflesso diretto delia maestà divina, mentre la donna è come l’immagine di un’immagine. Nel formare la donna Dio disse: Facciamo all’uomo un aiuto simile a lui », e l’uomo è preso come modello. Inoltre la donna è tratta dall’uomo, come l’uomo era stato tratto dalla materia inerte. Finalmente « la donna è fatta per l’uomo »; perché « non era bene che l’uomo fosse solo ». Ecco tre motivi di subordinazione che lo Spirito Santo le offre da meditare. Del resto anche la natura è concorde con la rivelazione, per insegnare alla donna la modestia e la decenza. La natura le ha dato una capigliatura a guisa di velo; è per lei un ornamento ed un onore di cui non può essere privata senza subire un affronto. Sarebbe invece vergogna per l’uomo il coltivare la capigliatura, come fanno certi effeminati senza pudore per i quali la voce della natura non conta nulla. L’Apostolo riassume il suo pensiero in questa frase alquanto enigmatica: « Perché la donna deve avere sul capo il segno dell’autorità (dell’uomo) per causa degli angeli (1 Cor. XI, 10) », testimoni della subordinazione originaria dei sessi nel giorno della creazione, e invisibili ma severi custodi del cristiano nei luoghi consacrati alla preghiera e ai riti augusti. Queste considerazioni sono profonde, e i Corinzi erano disposti a trovarle troppo sottili. Paolo prevede l’obbiezione e vi risponde subito, opponendo ai ragionatori la pratica delle altre chiese e il suo insegnamento formale (ivi, XI, 16). La Chiesa dunque, appena nata, aveva già le sue usanze fisse a cui il fedele era tenuto a conformarsi, anche quando non ne avesse compreso o apprezzato le ragioni. – Gli Apostoli poi avevano il diritto riconosciuto di dettare leggi e di farle osservare: la loro autorità troncava ogni questione.

2. Paolo era venuto a conoscere altri abusi, dalla relazione di testimoni che ha la delicatezza di non nominare: “Nel darvi questo comando (riguardo il velo delle donne) non vi lodo che vi raduniate non con profitto, ma con Anzitutto dunque radunandovi voi nella chiesa, sento esservi scissure tra voi, e in parte lo credo. Poiché è necessario che vi siano anche eresie, affinché si palesino quelli che tra voi sono di virtù provata. Quando dunque vi radunate insieme, non è già un mangiare la cena del Signore. Poiché ciascuno prende prima a mangiare la sua cena, e uno patisce la fame, un altro poi è ubriaco. Ma non avete voi case per mangiare e bere? Ovvero disprezzate la Chiesa di Dio e fate arrossire quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo (1 Cor. XI, 17-22). – Una delle più commoventi istituzioni del secolo apostolico erano le agapi. Trionfo dell’eguaglianza e della fraternità cristiana, rappresentazione viva dell’ultima cena di Gesù Cristo su la terra, simbolo del banchetto che deve riunire gli eletti intorno al trono di Dio, le agapi erano nel tempo stesso, come dice eloquentemente San Giovanni Crisostomo, « un’occasione di carità, un mezzo di soccorrere la povertà e di nobilitare la ricchezza, un grande spettacolo di edificazione e una scuola di umiltà ». Congiunte con l’Eucaristia che esse talora precedevano, in segno di unione fraterna tra i comunicanti e in ricordo dell’ultima Cena, e che per lo più seguivano, in segno di gioia spirituale e di ringraziamento, le agapi erano un annesso e un compimento dell’Eucaristia. Esse però erano molto esposte a perdere il loro carattere liturgico e a degenerare in un banchetto profano simile a quello delle eterie o di altre associazioni pagane. Fino dal tempo degli Apostoli ne nacquero gravi abusi che San Paolo, San Pietro e San Giuda dovettero reprimere. Ben presto l’Eucaristia fu separata dall’agape; poi a poco a poco questa fu limitata a poche solennità commemorative, o trasformata in un banchetto offerto ai poveri da persone ricche. La difficoltà che incontrò la Chiesa per estirpare quelle antiche usanze, dimostra quanto fossero radicate e vive. La liturgia ne ha conservate alcune tracce nella cerimonia dell’offerta, nella distribuzione del pane benedetto, nel banchetto offerto il giovedì santo a dodici poveri, e forse anche nel bacio della pace. – Nelle agapi dei Corinzi si notavano quattro abusi: i fedeli si dividevano in gruppi distinti di parenti e di amici, il che distruggeva la bellezza apostolica del banchetto fraterno; — invece di mettere tutto in comune, ciascun gruppo consumava le sue provviste con un egoismo ingiurioso e urtante; — i primi arrivati si mettevano a tavola senza darsi pensiero dei ritardatari; — finalmente, e questo era il colmo dello scandalo, alcuni dimenticavano totalmente il rispetto dovuto all’assemblea e si abbandonavano agli eccessi del bere. Il comportarsi in tale maniera davvero non era più celebrare la Cena del Signore, ma era fare un volgare banchetto, ciascuno per conto suo, così poco religioso come gli eranoi dei pagani. Paolo non discute la legittimità delle agapi; egli che insorge con tanta forza contro le donne così ardite da comparire nell’assemblea senza velo o da prendere la parola in pubblico, contro l’usanza delle altre comunità cristiane, con quale tono non condannerebbe l’usanza delle agapi, già guaste dagli abusi, se fossero soltanto particolari e locali! Bisogna dunque conchiuderne che esse erano in vigore nelle chiese fondate da lui, come pure a Gerusalemme: per questo, invece di sopprimerle, si limita a regolarle. Egli ordina di aspettarsi vicendevolmente, di fraternizzare con tutti, di ricordarsi che il banchetto liturgico non ha lo scopo di saziare la fame e la sete — non si va in un luogo sacro, per questo — ma di commemorare la Cena del Cristo, di simboleggiare la carità e l’unione dei fedeli e di preludere così all’Eucaristia.

3. È appunto quest’ultima considerazione quella che predomina, e non bisogna cercare altro nesso tra i due passi relativi all’Eucaristia e alle agapi. Veramente non sembra che gli abusi si fossero introdotti nella celebrazione stessa dell’Eucaristia; almeno San Paolo non ne dice nulla. Ma per ragione della loro intima unione, i disordini delle agapi avevano la loro ripercussione sui santi misteri dei quali non erano più il preludio, ma la profanazione anticipata. “In questo non vi Io infatti ho appreso dal Signore quello che ho anche insegnato a voi, che il Signore Gesù, in quella notte in cui era tradito, prese il pane, e rese le grazie, lo spezzò e disse: questo è il mio corpo il quale sarà dato (a morte) per voi: fate questo in memoria di me. Similmente anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel sangue mio: fate questo, tutte le volte che lo berrete, in memoria di me. Perché ogni volta che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Per la qual cosa chiunque mangerà questo pane e berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Provi perciò l’uomo se stesso, e così mangi di quel pane e beva di quel calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, si mangia e beve la condanna, non distinguendo il corpo del Signore. Per questo molti tra voi sono infermi e senza forze, e molti dormono. Che se ci giudicassimo da noi stessi, non saremmo certamente giudicati. Ma quando siamo giudicati, siamo castigati dal Signore, affinché non siamo condannati con questo mondo (1 Cor. XI, 22-32). – Coloro che nei dogmi cristiani vogliono vedere soltanto il termine di una lenta evoluzione e la risultante di lunghi sforzi i quali finiscono con combinarsi, dopo di aver agito per lungo tempo in senso contrario, si devono trovare assai imbarazzati dopo la lettura di questo passo, scritto meno di trent’anni dopo l’istituzione dell’Eucaristia, e di una autenticità indiscussa. Il linguaggio teologico di oggi non descrive con termini più precisi e più espliciti il più consolante e il più ineffabile dei nostri misteri. Paolo ha appreso questa dottrina dal Signore stesso, lo dice espressamente, perciò non si può intendere che parli di una rivelazione fatta per mezzo di un intermediario, la quale non lo distinguerebbe per nulla dal meno favorito dei fedeli. Da molto tempo si è notato che nel racconto dell’Eucaristia, Luca dipende da Paolo, come Matteo e Marco sembrano dipendere l’uno dall’altro, senza che si possa dire con certezza da qual parte sia l a priorità (Matt. XXVI, 26 – Marc. XIV, 22). Tra Paolo e Luca vi sono soltanto tre differenze di minima importanza, nessuna delle quali altera il senso. — Nella consacrazione del pane, l’Evangelista esprime il verbo che San Paolo sottintende. Egli dice: « Questo è il mio corpo che è dato per voi », mentre l’Apostolo, secondo la lezione più accreditata, dice semplicemente: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi » (τὸ ὑπὲρ ὑμῶνto uper umon); ma è chiaro che questa espressione ellittica vuole una parola che la completi, e noi non possiamo scegliere che tra dato e immolato, secondo che vogliamo vederci o no un’allusione al sacrifizio del Calvario. — Nella consacrazione del calice, la relazione tra i due scrittori è pure strettissima; le parole dell’istituzione sono riferite così: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (Matt. XXVI, 28 – Marc. XIV, 22) »; ma San Luca aggiunge: « che è versato per voi ». Questa aggiunta era già virtualmente contenuta nella parole « sangue dell’alleanza », perché data l’allusione formale alla conclusione dell’antica alleanza, quel sangue non può essere altro che il sangue del sacrificio, sparso in favore di coloro dei quali esso sigilla il patto della riconciliazione. — Più lieve ancora è l’ultima divergenza. A ciascuna delle due formule Paolo aggiunge il precetto: « Fate questo in memoria di me »; San Luca la tralascia la seconda volta come superflua, essendo inseparabili le due parti del rito sacramentale. Non si può negare che, nell’uno e nell’altro, la consacrazione del carice presenta una certa difficoltà. Nella formula: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue », con o senza l’aggiunta: « che è versato per voi », l’oscurità non dipende affatto dalla metonimia comunissima che prende il calice per il suo contenuto;, deriva invece da una figura del linguaggio meno comune, figura che consiste nel prendere la causa per l’effetto o l’effetto per la causa, cioè l’alleanza conchiusa nel sangue, per il sangue che sigilla l’alleanza. Però se si tiene conto del parallelismo con la prima consacrazione: « Questo è il mio corpo », la quale sembra che chiami la formula corrispondente: « Questo è il mio sangue »; se ci riportiamo alle parole dell’Esodo ricordate nella formula; se finalmente si riflette che, in tutto il contesto, San Paolo adopera indifferentemente le espressioni « bere il calice » e « bere il sangue del Signore » come assolutamente sinonime, non si esiterà a conchiudere che la nuova alleanza nel sangue equivale al sangue della nuova alleanza. In questa espressione complessa, Paolo e Luca mettono in rilievo la causa, cioè il sangue. Dunque non si comprenderebbe come mai San Tommaso giudicasse insufficiente la formola di San Paolo, se — cosa strana — non sostenesse che è insufficiente anche quella dei due primi Sinottici (S. Th. III, q. LXXVIII, ART. 3): dal che seguirebbe che nessuno dei quattro scrittori sacri ci avrebbe trasmesso, neppure nella sostanza, la vera formula della consacrazione, e che le chiese orientali non avrebbero avuto mai vero sacrificio. Le allusioni al sacrificio, nelle diverse formole di consacrazione, si riferiscono al sacrifizio della croce o al sacrifizio dell’altare! Bisognerebbe certamente accettare la prima alternativa, se il futuro tradetur della Volgata traducesse esattamente il testo. Ma questa parola o risponde a un participio presente, o più probabilmente non corrisponde a niente affatto, poiché la lezione migliore sembra che sia: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi ». Questa impressione viene confermata quando si confronta con la formola di San Paolo quella di San Luca: « Questo è il mio corpo che è dato per voi », con un participio presente che indica la simultaneità del dono. Lo stesso è della consacrazione del calice: San Paolo non aggiunge nulla al ricordo del sangue della nuova alleanza, ma l’aggiunta dei tre Sinottici ha il verbo al presente e non al futuro: « che è sparso per voi, che è sparso per molti. per la remissioni dei peccati ». Si può dire, è vero, che essendo cosi vicino il sacrificio del Calvario, si può considerarlo come presente. Tuttavia questa interpretazione ha qualche cosa di stentato e di oscuro. Se questa non si accetta, bisognerà ammettere che le allusioni al sacrificio mirano direttamente al sacrificio dell’altare e non a quello della croce. – Non dobbiamo qui dimostrare che questo passo provi invincibilmente la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, né esaminare se le parole di San Paolo autorizzino l’uso della comunione sotto una sola specie; ma vi è un punto che merita la nostra riflessione. L’Apostolo afferma che « chiunque mangia questo pane e beve il calice del Signore indegnamente, è reo del corpo e del sangue del Signore »; che « colui che mangia e beve indegnamente, beve e mangia la sua condanna, non distinguendo il corpo del Signore ». Ma la comunione indegna ha dei gradi infiniti, dall’irriverenza fino al sacrilegio; e lo stesso è della mancanza di discernimento, più o meno cosciente e più o meno colpevole. Paolo aggiunge che per questo motivo — per questo trattamento indegno e per questa mancanza di discernimento — i Corinzi sono afflitti da malattie numerose e da morti frequenti; che quelli sono avvisi paterni che essi potrebbero evitare giudicando se stessi con maggior rigore. Ora egli ha soltanto biasimato tre o quattro abusi riguardo la celebrazione dell’agape e comanda soltanto di prendere quel pasto liturgico insieme e con decenza; è dunque molto probabile che con la parola « indegnamente » intenda non solo le disposizioni cattive, ma anche le irriverenze e la mancanza di preparazione. I severi castighi inflitti ai Corinzi, potrebbero far credere a disposizioni peggiori; ma si osserverà che San Paolo non li chiama castighi, li chiama soltanto lezioni che hanno per scopo la correzione e la salvezza dei fedeli. Ora se una condotta spensierata e una mancanza di rispetto verso l’Eucaristia sono punite in tal maniera, che supplizio non meriterà la comunione veramente sacrilega!

CONOSCERE SAN PAOLO (6)

CONOSCERE S. PAOLO -6-

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (2)

CAPO II

Casi di coscienza.

I . IL MATRIMONIO E IL CELIBATO.

1 . L’IDEALE DI PAOLO. — 2. PIENA LICEITÀ DELL’ATTO CONIUGALE E DEL MATRIMONIO. — 3. LA VERGINITÀ È MIGLIORE. — 4. MATRIMONIO INDISSOLUBILE E PRIVILEGIO PAOLINO.

1. La massima parte della prima Epistola ai Corinzi è dedicata alla soluzione dei dubbi proposti dagli stessi neofiti. Paolo si riferisce spesso alle questioni dei suoi corrispondenti (1 Cor. VII, 1), ma probabile che alla sua risposta egli mescoli pure dei punti dottrinali su cui essi non avevano pensato di consultarlo. Vi sono sei questioni principali: il matrimonio e il celibato (VII), la questione degli idolotiti (VIII- X), le agapi e l’Eucaristia (XI), l’uso e il valore dei carismi (XII- XIV), la risurrezione dei morti (XV) e la gran colletta (XVI). Questo ultimo punto sarà trattato a proposito della Epistola seguente di cui occupa due interi capitoli. Alla celebrazione dell’agape e dell’Eucaristia si connette il contegno delle donne in chiesa. Forse, nel pensiero dell’Apostolo, i carismi appartengono allo stesso argomento; ma non conviene pregiudicare nulla e lasciare ai testi la loro indipendenza. – « È bene per l’uomo evitare il contatto della donna (1 Cor. XVI, 1) ». Questa sentenza sembrerebbe una massima conosciuta, citata forse dai Corinzi per proporre la questione della legittimità del matrimonio. Paolo la ripete e, facendola sua, l’applica successivamente all’estensione delle relazioni coniugali, al celibato e alla vedovanza. Per sé, è bene il rinunziare ai diritti del matrimonio, è bene il conservare la verginità, è bene il non contrarre una nuova unione quando la morte ha troncato la prima; ma se tutto questo è buono, anche il contrario è buono, ma di una bontà minore; non si tratta di un precetto, ma di vocazione divina, di perfezione e di consiglio. Può sembrare strano, che simili scrupoli siano nati a Corinto; ma l’estrema dissolutezza dei costumi provoca alle volte reazioni esagerate. Poiché si dispera di riformare la natura, si arriva al punto di sognare di distruggerla, e accanto all’epicureo che pratica il più vergognoso libertinaggio, si alza lo stoico che vorrebbe quasi condannare il matrimonio. I gnostici ondeggiarono sempre tra questi due eccessi. Paolo rimette le cose a posto, e la sua dottrina si può riassumere in tre frasi: l’uso del diritto coniugale è lecito, ma la continenza è più perfetta; il matrimonio è cosa buona, ma la verginità è migliore; le seconde nozze sono permesse, ma lo stato di vedovanza è preferibile. Se vi è cosa certa, è che l’Apostolo viveva nel celibato, poiché la voce discorde di un Clemente Alessandrino non fa che accentuare di più l’accordo della tradizione cattolica a questo riguardo. Che egli considerasse la verginità come più eccellente del matrimonio, non è possibile dubitarne, e gli sforzi di certi scrittori eterodossi per eludere questa testimonianza importuna, non fece che mostrarla in tutta la sua evidenza. « Io voglio — dice Paolo permettendo agli sposi l’atto coniugale, ma senza imporlo — voglio che tutti gli uomini siano come me, dati alla continenza, « ma ciascuno ha da Dio il suo carisma speciale, chi in un modo, chi in un altro ». E perché non si possa prendere abbaglio sul suo pensiero, soggiunge: « Dico ai celibi e alle vedove, che per loro è bene rimanere come sono io », cioè, evidentemente, sciolti dai vincoli del matrimonio; « ma se non sono continenti, si sposino. È meglio sposarsi che ardere » del fuoco impuro.

2. Su questi princìpi, il caso degli sposi è molto semplice; a loro, come a tutti, si applica la massima generale: « È bene per l’uomo evitare il contatto della donna »; per conseguenza lo stesso è della donna verso l’uomo, essendo uguali le condizioni, come vedremo più innanzi. Ma anche a loro si applica quest’altra sentenza: « Per causa della fornicazion, cioè per causa degli atti d’incontinenza a cui sarebbero esposti, « ciascuno abbia la sua donna, e ciascuna donna abbia il suo marito ». Noi pensiamo che l’Apostolo adoperi a bella posta la formula più comprensiva, per abbracciare insieme tutti i rapporti sessuali legittimi. Egli non parla distintamente né del matrimonio da conchiudere né del diritto coniugale da esercitare, perché mira nel tempo stesso all’uno e all’altro e applica loro la stessa regola: per se stessa l’astensione è migliore, ma l’uso è buono e in certe circostanze può essere raccomandato. Egli naturalmente suppone che nessun impegno antecedente non leghi la volontà: è noto il suo giudizio severo su le vedove che violano la loro fede — voto propriamente detto o semplice promessa — e ricorda agli sposi, che essi non sono più interamente liberi di sodisfare il loro desiderio di perfezione. Poiché l’atto coniugale è per loro un vero debito, nella misura in cui il coniuge vuole valersi del suo diritto; il rifiuto di compiere questo dovere è assimilato ad un rifiuto di giustizia, il quale priva l’altro coniuge di un bene di cui non dev’essere privato. Infatti, siccome il matrimonio fa dei due sposi una sola carne, il corpo della donna appartiene al marito, e il corpo del marito appartiene alla sposa. Certamente è loro permesso il rinunziare insieme al loro diritto, ma Paolo vi mette tre condizioni: il mutuo consenso; un motivo di ordine spirituale, come sarebbe il desiderio di attendere più liberamente alla preghiera; un tempo limitato, passato il quale si devono riprendere le relazioni ordinarie, per evitare il pericolo d’incontinenza e per prevenire le tentazioni di satana. Ma appena dato questo ultimo consiglio che potrebbe sembrare un comando, l’Apostolo si affretta a soggiungere: « Dico questo per indulgenza, non già per farne un obbligo (1 Cor. VII, 6) ». Egli desiderava che tutti fossero continenti come lui, ma non vuole imporre a nessuno la continenza; anzi non potrebbe neppure farlo, poiché per quello ci vuole un dono speciale di Dio. Il permesso che egli dà, prova che l’atto coniugale è perfettamente lecito, anche per il solo fine di evitare le tentazioni del demonio e della carne, ma non per questo lo rende obbligatorio. – Questo insegnamento è così chiaro e preciso, che non sembrerebbe mai poter dare luogo a discussioni o a dubbi. Il caso dei celibi e dei vedovi differisce da quello dei coniugati, in quanto i primi sono liberi da ogni impegno; i celibi perché non ne contrassero nessuno, i vedovi perché ne sono stati sciolti dalla morte del coniuge; esso dunque si risolve con i medesimi princìpi. Il celibe può senza nessuna colpa contrarre matrimonio: « Prendendo moglie tu non pecchi, e se la vergine prende marito non pecca (ivi, VII, 28) ». Così pure: « la donna è legata finché vive suo marito; che se il marito muore, essa è libera di rimaritarsi a chi vuole, purché ciò si faccia nel Signore (ivi, 39) », cioè purché sposi un cristiano. La stessa soluzione è data per il padre o il tutore che abbia la custodia di una fanciulla e la responsabilità della condotta di lei. Se custodendola per troppo tempo dopo l’età nubile, teme per sé o per lei qualche spiacevole conseguenza — senza che sia possibile specificare con precisione quello che teme — farà bene a seguire i consigli della prudenza e darle marito. « Operando così, egli non pecca affatto »; la fanciulla e il suo fidanzato « si sposino » (ivi 36). Ma se, per una parte, non vi sono tali timori, fa bene, anzi fa meglio, per sé, a conservare vergine la sua figliuola. Certi interpreti trovano strano che il padre disponga in tale maniera di sua figlia senza consultarla, e scelga a suo talento per lei la verginità o il matrimonio. Non diremo che sia troppo il considerare la questione dal nostro punto di vista moderno d’individualismo a oltranza; non diremo neppure che, nel dubbio, una fanciulla onesta segue generalmente il parere del suo direttore naturale, ma ci limiteremo ad osservare che il consenso della figlia è implicitamente indicato nella frase: « Si sposino! » e, per il caso contrario, nell’assenza di qualunque obbligo da parte del padre. Del resto non c’è da supporre un padre o un tutore di intenzioni tiranniche, né di un despotismo arbitrario, e Paolo con tutta ragione fa astrazione da questo caso eccezionale (ivi 37-38).

3. La liceità piena e intera del matrimonio e delle seconde nozze è dunque fuori di discussione; ma non è meno certo che lo stato di verginità o di vedovanza è per se stesso migliore, e non è possibile nessun equivoco a questo riguardo. « Dico ai celibi e alle vedove: È bene per loro il rimanere come sono io (ivi, VII, 8) », cioè fuori del matrimonio. Non è soltanto questione di bene, ma di meglio, poiché è un bene che l’Apostolo augura a tutti, che vorrebbe vedere in tutti, ma che dipende da un dono gratuito (χάρισμα = karisma) di Dio. — Dopo un caloroso invito alla verginità, Paolo soggiunge: « Dico questo per il vostro bene; non per tendervi un tranello, ma per incitarvi a quello che è onesto e adatto a attaccarvi al Signore senza distrazione (35) ». L’oggetto delle raccomandazioni dell’Apostolo, l’ideale che egli propone, il mezzo di attaccarsi più strettamente al Signore, è evidentemente qualche cosa di meglio dal punto di vista spirituale. — Il padre che, dopo di aver riflettuto e debitamente pesate tutte le circostanze di tempo e di persone, conserva sua figlia vergine, « fa meglio » (38) che se le desse marito; dunque le procura un bene superiore. Le cose sono perfettamente uguali per i due sessi. Paolo parla in generale delle persone non coniugate; se fa menzione particolare delle vergini e delle vedove, è perché il maschile di questi nomi è poco usato in greco, e forse anche perché la liceità del matrimonio e delle seconde nozze per gli uomini era fuori di questione. Ma egli fa vedere a più riprese, che non stabilisce nessuna differenza tra i due sessi né riguardo a precetti né riguardo a consigli. – È infatti innegabile che egli dà dei consigli: « Riguardo alle vergini, non ho comandi del Signore, ma do un parere (ossia: esprimo un sentimento) in virtù della misericordia che Dio mi ha fatto, di essere fedele (25) ». Che fedele significhi « degno di fede » oppure « fedele banditore del Vangelo », poco importa; in ogni caso l’Apostolo mette avanti l’autorità che egli ha da Dio, per stabilire il suo insegnamento. Sopra un punto relativo alla vita cristiana, egli dà un parere motivato; esprime un sentimento che appoggia su ragioni soprannaturali e che, date le circostanze, non può essere che un consiglio, comunque lo si voglia chiamare. Quando in vita le vedove a non passare a seconde nozze, assicurandole che a suo avviso saranno così più felici, e se ne appella allo Spirito di Dio che egli crede di avere, dà egualmente un consiglio. Per questo solo, che presenta la verginità e la vedovanza come uno stato più perfetto, più vantaggioso, più gradito a Dio, senza essere tuttavia l’oggetto di un comando, egli insegna l’esistenza dei consigli evangelici. La sua preferenza per il celibato sarebbe forse suggerita da considerazioni egoistiche, da mire utilitarie, dal desiderio di evitare gl’impicci del mondo, per condurre una vita senza fastidi e senza noie? Chiunque abbia la pretesa di conoscere l’Apostolo, non si persuaderà mai che egli obbedisca a preoccupazioni così terrene, a sentimenti così bassi; ma egli stesso pensò a confondere gli interpreti indegni del suo pensiero. Egli vuole che la cessazione temporanea dei rapporti coniugali abbia per motivo il desiderio di attendere meglio alla preghiera. Egli sa che l’uomo non ammogliato, se è veramente Cristiano, « pensa a piacere al Signore », e che l’uomo ammogliato, ancorché sia Cristiano, è assorbito da idee mondane e deve « pensare a piacere alla moglie ». Egli sa pure che la vergine o la vedova può avere l’unica cura « di essere santa di corpo e di anima », mentre la donna maritata è distratta dall’obbligo « di occuparsi delle cose del mondo » e dalla sollecitudine « di piacere a suo marito ». Sotto l’aspetto spirituale, la condizione del celibe è migliore, perché può dedicarsi interamente al servizio di Dio. Ora, conchiude l’Apostolo, io voglio darvi il mezzo « di attaccarvi al Signore interamente (ivi, 32-34) ». L’instabilità delle cose umane ci dà la stessa lezione: « Io penso che è bene per l’uomo il restare così (restare vergine), per causa della necessità presente… Voglio dire, o fratelli, che il tempo è breve; dunque coloro che hanno moglie, siano come se non l’avessero, quelli che piangono, come se non piangessero, quelli che si rallegrano, come se non si rallegrassero, quelli che comprano, come se non possedessero, quelli che si servono del mondo, come se non se ne servissero; perché la figura di questo mondo passa (26-31) ». Paolo sarebbe forse assediato dall’idea della prossima parusia? Non bisogna negarlo a priori; su questo argomento, come abbiamo detto, egli non insegna nulla ed ha la coscienza di non saperne nulla; ma in mancanza di una scienza certa, poteva avere un’opinione fondata su probabilità o su congetture e, dal momento che ci avverte della sua ignoranza e protesta di non insegnare nulla, non sì vede l’impossibilità assoluta che egli regoli la sua condotta e i suoi consigli secondo tali probabilità.

4. San Paolo proclama con la stessa forza con cui la proclamano i Sinottici, l’indissolubilità del matrimonio cristiano, perché la legge che egli promulga a questo riguardo ha la stessa origine: « Alle persone coniugate ordino questo, non io ma il Signore: la donna non si separi da suo marito. Se venisse a separarsene, si astenga da una nuova unione, oppure si riconcili con suo marito. E il marito non rimandi sua moglie (ivi, 10-11) ». Paolo deve aver conosciuto per tradizione orale questo precetto del Signore, riferito dai tre Sinottici; egli lo presenta in una forma che si avvicina al testo di Marco, con differenze notevoli. In virtù di questo precetto divino è proibito alla donna separarsi dal marito, ed è proibito al marito rimandare la moglie: differenza di espressione assai delicata, per indicare l’autorità maritale, così dal punto di vista ebraico come da quello romano. — L’Apostolo prevede tuttavia il caso in cui la separazione di persona avverrà di fatto, e lascia capire che essa può essere legittima; ma in nessuna ipotesi il matrimonio non è sciolto. Infatti la donna separata dal marito non ha che questa alternativa: o riconciliarsi con lui, il che dimostra che il vincolo sussiste, oppure astenersi da una nuova unione, il che prova che la prima dura ancora. — Il rinvio della donna da parte del marito è vietato senza restrizione e senza eccezione, perché questo rinvio s’intende, per gli Ebrei come per i Gentili, come un atto che avrebbe l’effetto di annullare legalmente il contratto coniugale. Non dovendo avverarsi mai tale caso, non occorre fare a suo riguardo altre ipotesi. L’indissolubilità del matrimonio cristiano non riceve dunque da San Paolo nessuna limitazione. Come egli volentieri ripete, il matrimonio viene sciolto dalla morte (Rom. VII, 2-3). Una donna sarà sempre chiamata adultera se contrae una nuova unione mentre vive suo marito, e lo stesso sarebbe dell’uomo che si riammogliasse mentre vive sua moglie; poiché questi due termini sono correlativi, e l’Apostolo stabilisce tra gli sposi, dal punto di vista coniugale, una perfetta uguaglianza di diritti e di doveri. – Il matrimonio misto ha minore forza, e Paolo non lo chiama neppure matrimonio, ma riserva questo nome al sacramento che unisce tra loro i fedeli « In quanto agli altri, dico loro, io e non il Signore: Se un fratello ha per sposa una donna infedele, e questa acconsente ad abitare con lui, non la rimandi. E la donna che ha per marito un infedele il quale acconsente a coabitare con lei, non deve mandare via suo marito (1 Cor. VII, 12-13) ». Anche qui le sfumature di pensiero e di espressione sono mirabilmente osservate. Non è più il Signore che parla, ma l’Apostolo, certamente con lo Spirito del Signore. Egli si rivolge agli altri, a quella categoria di fedeli che non può mettere tra i coniugati, perché riserva questa parola per i matrimoni cristiani, né tra i non coniugati, poiché vivono realmente nello stato matrimoniale. Ma egli interpella soltanto il coniuge cristiano, perché la Chiesa non ha il compito di regolare la vita di coloro che non le appartengono. Egli proibisce dunque — la forma proibitiva assoluta della frase ci fa pensare a una vera proibizione piuttosto che ad un consiglio — proibisce allo sposo cristiano di rimandare la coniuge infedele, nel caso in cui questa acconsenta a coabitare con lui. Una ripugnanza istintiva malintesa o scrupoli poco fondati non sono un motivo sufficiente di separazione. « Poiché l’uomo infedele è santificato dalla donna (fedele) e la donna infedele è santificata nel fratello (ivi VII, 14) ». – Essendo i due sposi una medesima carne, ed essendo il coniuge cristiano santificato dal Battesimo, la sua santità si riflette sul coniuge infedele. Non si tratta qui della santità interiore che è incomunicabile, ma di una santità estrinseca la quale deriva dalla relazione con le cose sante, da una separazione dalle persone profane e da una consacrazione iniziale al culto di Dio. I Corinzi ammettevano questo per i loro figli, nati quasi tutti prima della loro conversione, poiché il Battesimo dei primi neofiti datava appena da tre o quattro anni; San Paolo fa loro notare che la stessa ragione milita in favore della santificazione degli sposi pagani da parte del loro coniuge cristiano. – Però « se l’infedele si separa, il cristiano si separi (anch’esso). Il fratello o la sorella non sono legati in tali circostanze, poiché Dio vi ha chiamati (per vivere) in pace. Infatti che ne sai tu, o donna, se salverai tuo marito; e che ne sai tu, o uomo, se salverai tua moglie! (19)». Il permesso è chiaro, e la condizione pure. Il cristiano può separarsi; in tal caso non è più legato; l’Apostolo, in virtù della sua ispirazione, lo dichiara libero. Però, eccetto un pericolo morale per lui, gli è permesso rinunziare al suo privilegio. Paolo permette; al più consiglia, ma non comanda. Ma avverandosi il caso della separazione, egli toglie alla parte cristiana ogni rimpianto e ogni scrupolo, ricordandole che Dio c’invita alla pace, e che la speranza lontana e incerta di convertire un giorno il coniuge rimasto infedele, non le potrebbe imporre il sacrificio della pace, della gioia e della libertà. Bisogna soltanto che il coniuge non cristiano si allontani per il primo, o rifiutando di coabitare o rendendo la coabitazione pericolosa o moralmente impossibile, con bestemmie, con sevizie o con minacce che porterebbero lo scandalo o la guerra nel focolare domestico. Del resto questo privilegio concesso in favore della fede non è che una derogazione alla massima generale: « Ciascuno perseveri nello stato che il Signore gli ha assegnato, nel genere di vita in cui si trovava quando Dio lo ha chiamato ». A torto si volle vedere un’applicazione del privilegio di Paolo nella costituzione di Pio V (Romani Pontificis, 2 agosto 1571), il quale prescrive agli indiani convertiti di conservare, tra le altre mogli, quella che riceverà con essi il Battesimo, e di rimandare le altre; e nel decreto di Gregorio XIII (Populis ac nationibus – 25 gennaio 1585), il quale dispensa i neofiti dell’Angola, dell’Etiopia, del Brasile e di altre regioni indiane, dall’interpellare il coniuge pagano per sapere se vuole coabitare, nel caso in cui tale interpretazione sia impossibile, dichiarando validi i matrimoni contratti in virtù di questa dispensa, qualunque cosa avvenga. Nel privilegio di Paolo l’interpellazione è essenziale, se non si abbia altro mezzo per conoscere la volontà del coniuge. L’allontanamento morale di questo basta, ma è necessaria; l’allontanamento fisico accidentale non I casi di Pio V e di Gregorio XIII sono affatto diversi. Questi due Pontefici, per ragioni di forza maggiore, si servono del potere che hanno di sciogliere un matrimonio cristiano non consumato e, a più forte ragione, un matrimonio contratto nell’infedeltà. Tra i fatti considerati nei due documenti pontifici e il privilegio di Paolo, vi sono tre grandi differenze: per la causa, vi è da una parte la dispensa divina promulgata da San Paolo, e dall’altra la dispensa papale di ordine ecclesiastico; per il tempo, la dispensa del Papa scioglie l’antico matrimonio appena è applicata o notificata, il privilegio di Paolo lo lascia sussistere fino a che si conchiuda un nuovo matrimonio; per le condizioni, il Papa le determina secondo la sua saggezza, mentre Paolo ne mette una sola, il rifiuto formale o equivalente di coabitare.

CONOSCERE SAN PAOLO (5)

CONOSCERE S. PAOLO (5)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (1)

CAPO I.

Disordini e scandali.

I . PARTITI A CORINTO.

1 . STATO DELLA CHIESA DI CORINTO. — 2. COMBRICOLE E FAZIONI.— 3. SAPIENZA UMANA E VERA SAPIENZA. — 4. L’APOSTOLO COLLABORATORE DI DIO . — 5. L’APOSTOLO SERVO DEL CRISTO.

1- Sono trascorsi quattro o cinque anni dalla corrispondenza con i Tessalonicesi. Il racconto di San Luca, nonostante la sua concisione, ci permette di seguire passo per passo i movimenti dell’Apostolo. Lo abbiamo lasciato a Corinto, che insegnava in casa di Tizio il Giusto, vicino alla sinagoga (Act. XVIII, 7) . Esposto agli assalti degli Ebrei, furiosi nel vedere alcuni dei loro capi (ivi, 8-11) passare alla nuova fede, poco difeso dalla benevolenza platonica del proconsole Gallione (ivi, 12-17), egli si decide finalmente a lasciare Corinto dopo più di diciotto mesi di dimora (ivi, 18). I suoi ospiti, Priscilla e Aquila, lo accompagnano, ed egli si separa da essi a Efeso, dove ha stabilito di ritornare a stabilirsi un giorno, continua il suo pellegrinaggio in Palestina e va a riprendere lena nel suo alloggio di passaggio in Antiochia. Ma non vi si ferma a lungo: il suo zelo lo trasporta nuovamente, ed egli attraversa la Galazia e la Frigia, moltiplicando le sue fermate per completare l’istruzione dei neofiti; finalmente, secondo il suo disegno prestabilito, arriva ad Efeso. – Qui, in questo frattempo, era accaduto un fatto assai importante: un Ebreo di Alessandria chiamato Apollo, il quale si diceva discepolo del Signore ed era effettivamente stato catecumeno (ivi, 25), forse prima di lasciare la sua patria, predicava nella sinagoga quanto sapeva di Gesù e incominciava a fare proseliti. Disgraziatamente si era fermato ai preliminari della fede e non conosceva ancora il Battesimo cristiano (ivi, 25). Aquila e Priscilla ne ultimarono l’istruzione e, siccome egli desiderava di passare in Acaia, lo raccomandarono ai fratelli; ma qui pare che si sia fermato il loro proselitismo. Entrando in Efeso, Paolo vi trovò una dozzina di discepoli — probabilmente proseliti di Apollo — i quali non conoscevano altro battesimo che quello di Giovanni e non avevano mai udito parlare dello Spirito Santo. Egli, li battezzò e conferì loro lo Spirito con l’imposizione delle mani (Act. XIX, 5-6). La chiesa di Efeso deve dunque a lui la sua origine, poiché qui egli non edificò sopra fondamenta di altri. -Apollo possedeva un’eloquenza naturale, entusiasmo religioso, una parola nobile e corretta, arte di adattare le sublimi speculazioni della filosofia greca ai racconti della Bibbia, e di dare ai fatti scritturali un’interpretazione allegorica secondo il metodo di Filone (9); egli aveva dunque tutto ciò che incanta e che seduce le folle, soprattutto in una popolazione mobile e volubile come era allora quella di Corinto, ed era accaduto, suo malgrado, che egli si creasse ammiratori fanatici, decisi di abbassare qualunque altro per meglio esaltare lui. Che contrasto con le maniere semplici e familiari di Paolo, col suo stile rozzo e persino scorretto, con i suoi discorsi densi di concetti, ma privi di ricercatezze oratorie! L’autorità dell’Apostolo, in certi spiriti leggeri, veniva a soffrirne. – Erano poi sorte anche altre cause di dissenso: erano nati scandali tra i neofiti, e Paolo aveva dovuto colpire. In una lettera che non abbiamo più, egli prescriveva di tenersi in disparte dagli impudichi, e, fosse errore o fosse malizia, si era voluto in quello vedere un ordine espresso di evitare il commercio con qualunque pagano di cattiva vita, e con ragione si era trovato eccessivo quel comando. Egli voleva semplicemente proibire, come spiegò in seguito (1 Cor. V, 9-12), le relazioni con i cristiani scandalosi; ma questo stesso malinteso dimostra come certi discepoli fossero proclivi a censurare i suoi atti e ad emanciparsi dalla sua regola. La chiesa di Corinto, da lui fondata con tanti sudori, diventava di giorno in giorno meno compatta, meno omogenea, e in essa si manifestava un fermento di discordia. Quei di Cloe gli avevano recate brutte notizie (1Cor. I, 11): il fervore antico si raffreddava, si facevano combriccole che minacciavano di diventare scismi; avvenivano scandali pubblici senza provocare una repressione abbastanza energica, c’erano singolarità strane, esagerazioni di dottrina e, nel tempo stesso, attenuazioni dolorose. – L’avvenire di quella cristianità era in grave pericolo. Poco tempo dopo, Stefano, Fortunato e Acaico sbarcavano a Efeso portando una lettera in cui i Corinzi domandavano a Paolo la soluzione di parecchi casi di coscienza imbarazzanti (VII, 1). I tre messaggeri dovevano ritornare in patria per via di mare, e l’Apostolo affidò loro una seconda lettera la quale è ora la nostra prima ai Corinzi. In essa tratta gli argomenti più vari, senza altro ordine e altro legame, che i dubbi e i bisogni dei suoi corrispondenti; però in essa si vedono subito alla prima occhiata due sezioni ben distinte: la correzione degli abusi (I – VI) e la risposta ai casi di coscienza (VI – XVI).

2. Il pericolo più urgente nasce dallo spirito di parte, e l’Apostolo gli dedica il primo quarto della sua lettera: “Vi scongiuro, o fratelli, in nome del Signore nostro Gesù Cristo, che diciate tutti il medesimo, e non siano scismi tra voi, ma siate perfetti nello stesso spirito e nello stesso sentimento. Poiché riguardo a voi, o fratelli miei, mi fu significato da quei di Cloe, che sono, tra voi, contese. Parlo di quello che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo; e io di Apollo; e io di Cefa; ed io di Cristo. È egli diviso Cristo? È forse stato crocifisso per voi Paolo? Ovvero siete stati battezzati nel nome di Pania? Rendo grazie a Dio, che ho battezzato nessuno di voi, fuori che Crispo e Caio; perché alcuno non dica che siete stati battezzati nel mio nome. E battezzai pure la famiglia di Stefana; del resto non so che abbia battezzato alcun altro. Poiché Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il Vangelo; non con la sapienza delle parole, affinché non diventi inutile la croce di Cristo” (1 Cor. 1-17). – Siccome la storia dei partiti a Corinto è quasi tutta limitata a queste informazioni, non è da meravigliarsi se i critici si sono abbandonati a supposizioni. Si sono fatte quasi tutte le combinazioni possibili: ma prima di tutto, che cosa erano questi partiti! Non erano scismi, perché la parola σχίσμα (schisma) non aveva ancora il significato teologico che ebbe in seguito; non erano sette, perché tutti professavano la medesima fede, frequentavano le medesime assemblee e prendevano parte al medesimo banchetto eucaristico; non erano neppure gruppi ben definiti, perché tutti riconoscevano l’autorità di Paolo il quale ora li incoraggia, ora li esorta, ora li riprende, ora li minaccia come suoi figliuoli in Cristo. Il deposito della fede rimaneva intatto, il vincolo della carità non era spezzato, ma tutto consisteva in brighe, in rivalità personali di cui le antiche fazioni di Bisanzio e del Basso Impero, oppure le cricche che si formano anche ai nostri giorni intorno a un predicatore o ad un conferenziere rinomato, possono dare un’idea abbastanza esatta. A Corinto gli uni si dicevano di Paolo, perché egli era il loro apostolo, il loro maestro e il loro padre; altri parteggiavano per Apollo il cui ingegno li incantava; molti mettevano innanzi il nome di Pietro, il capo del collegio apostolico, la colonna della Chiesa; finalmente alcuni, credendosi più saggi e meglio ispirati, quasi che sdegnassero di infeudarsi ad un uomo, non volevano dipendere che da Cristo. Ma questa stessa pretesa di appropriarsi tutto il Cristo, disprezzando i ministri umani, dimostrava una segreta superbia e un’arroganza tracotante. Si è messa in dubbio l’esistenza a Corinto di un partito del Cristo, anche perché Clemente di Roma, scrivendo ai Corinzi circa quarant’anni dopo, non vi fa nessuna allusione, benché ricordi gli altri tre gruppi (XLVII, 3, Funk). Certi interpreti pensano che il motto: « Io sono di Cristo! » ben lungi dall’essere la parola d’ordine di un partito, sarebbe la parola d’ordine dello stesso Paolo. Ma in queste espressioni: « Sento che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo; e io di Apollo; e io di Cefa; e io del Cristo; è dunque diviso il Cristo? » a noi sembra arbitrario e poco naturale staccare l’ultimo membro per vedere in esso la formola stessa di Paolo, formola che egli condanna come un controsenso, domandando se il Cristo è diviso, e se sia lecito a ciascuno l’appropriarselo. Questo si vede con maggiore chiarezza in un altro passo della seconda ai Corinzi: « Se qualcuno si lusinga di appartenere al Cristo, sappia bene che anche noi gli apparteniamo (1 Cor. X, 7) », e a migliore titolo che non gli autori di tale esclusiva rivendicazione. – Un fatto incontestabile è che i personaggi il cui nome offriva ai faziosi un motto di riconoscimento, non entravano per nulla in quelle meschine rivalità, e per parte sua Paolo ne geme e se ne sdegna; ben lungi dall’attribuire a Pietro una parte equivoca, ne parla sempre con deferenza; Apollo poi è così poco sospetto d’intrighi, che è stato continuamente pregato di ritornare a Corinto, ma egli vi si è rifiutato, temendo forse d’inasprire il male con la sua presenza, e malcontento del rumore che si va facendo intorno al suo nome (1 Cor. XVI, 12). Del resto il tono della lettera dimostra abbastanza che tra i due operai evangelici regna l’armonia più perfetta; Paolo non è geloso, e Apollo non è ambizioso, ma l’Apostolo non vuol essere abbassato a danno del suo ministero e della sua legittima autorità.

3. A Corinto si trovava che egli non aveva quello che il suo collaboratore possedeva in alto grado, la La sapienza destava l’idea di speculazioni profonde o di un’arte consumata; Aristotele l’aveva definita: La scienza dei princìpi e delle cause prime; per gli stoici, era la scienza delle cose divine e umane, la regina delle virtù e lo scopo della vita. Ma l’arte, nei generi più differenti, si chiamava pure sapienza, e Omero e Sofocle, Fidia e Policleto erano sapienti come Socrate e Platone. Secondo i Corinzi, Paolo non aveva diritto a quel titolo né come filosofo né come artista né come bel parlatore. Dopo l’esperimento di Atene, egli aveva capito che né la filosofia né l’eloquenza né gli artifizi della parola avrebbero convertito il mondo, ma che bisognava predicare semplicemente il verbum crucis e lasciare che la parola germogliasse e facesse frutto da sé. Paolo non volle più sapere altro che Gesù Cristo, e Gesù Cristo crocifisso. Evitò a bella posta « i discorsi persuasivi della sapienza » umana (1 Cor. II, 1-5), « per non rendere vana la croce del Cristo ». Egli non afferma che il suo metodo sia il solo buono, ma esso era il solo applicabile a Corinto, in quel centro di spiriti ragionatori, prevenuti da una falsa sapienza contro la quale si sarebbero venuti a infrangere gli argomenti migliori. Infatti la chiesa di Corinto ha reclutati « pochi sapienti secondo la carne, pochi potenti, pochi nobili (I Cor. I, 26) ». Dio, secondo la sua tattica ordinaria, vi ha scelto quello che è insensato agli occhi del mondo, quello che è debole, quello che è vile, quello che non conta nulla, quello che non esiste, per confondere i sapienti e i potenti. Così nessuna carne potrà glorificarsi dinanzi a Lui (I Cor. I, 26-31). – Se gli scrittori profani per sapienza intendevano le alte concezioni della filosofia o l’abilità dell’artista, gli autori dell’Antico Testamento vedevano nella Sapienza la figlia dell’Altissimo e il più prezioso dei suoi doni. A questi due significati, il Nuovo Testamento aggiunge un senso peggiorativo, nato forse dall’abuso di questa parola nei sofisti greci e nei teologi rabbinici. Bisognava dunque distinguere tra la sapienza umana, la sapienza mondana, la sapienza carnale che i Corinzi attendevano invano da Paolo e di cui questi ripete loro il nome a sazietà con un’ironia vendicativa, e la sapienza vera, la sapienza divina che egli colma sempre di elogi e che augura ardentemente a tutti i neofiti (I. Cor. I, 21). – Perciò non vi è nessuna contradizione nelle sue asserzioni e nei suoi giudizi: egli non ha voluto adoperare la sapienza umana come indegna del suo ministero e ingiuriosa al Cristo; egli non ha potuto insegnare la sapienza divina agli uditori carnali, psichici, umani. – La sapienza vera e « nascosta nel mistero, predestinata da Dio prima di tutti i secoli per la gloria nostra, ignorata da tutti i principi di questo secolo, perché se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (I Cor. II, 7-8) ». Da questa descrizione risulta che la sapienza divina concerne i disegni della redenzione e sembra confondersi con quello che San Paolo chiamerà più tardi il Mistero per eccellenza, cioè il gran segreto di Dio. relativo all’incorporazione degli uomini col Cristo nell’unità del corpo mistico. Come il Mistero, essa è nascosta nelle profondità della volontà divina; come il Mistero, ha per oggetto la nostra eterna felicità; come il Mistero, essa fu appena intraveduta nel passato, e gli stessi Angeli non la conobbero se non mediante la Chiesa, quando la contemplarono nella sua realtà concreta (Ef. III, 10): come il Mistero, essa non può essere rivelata che da Dio o dallo Spirito che scruta tutti i segreti di Dio (I Cor. II, 10); finalmente, come il Mistero, essa ha la sua realizzazione ideale in Gesù Cristo (I Cor. I, 24). La sapienza divina è dunque qualche cosa fuori dell’uomo: è la meravigliosa economia della nostra salute. Chiunque arriva a comprenderla — il che è proprio degli apostoli e dei profeti — è veramente sapiente, perché è iniziato nella sapienza di Dio. Se egli nel tempo stesso possiede a un grado eminente la facoltà di spiegarla agli altri, ha il carisma speciale chiamato « discorso di sapienza » (λόγος σοφίας), ben diverso dalla « sapienza del discorso » (σοφία τοῦ λόγου) (I Cor. I, 17). Sotto questi due aspetti, Paolo si lusinga di non cederla a nessuno.

4. Chiusa la bocca ai suoi detrattori, Paolo affronta la questione dei partiti. I Corinzi confrontano tra loro e giudicano i predicatori del Vangelo, assegnano loro i gradi, preferendo l’uno e disprezzando l’altro. Ora non vi è cosa più irragionevole, per chi comprende il carattere, la funzione e la missione degli operai apostolici. Difatti poiché gli apostoli sono « i collaboratori di Dio », l’opposizione che si cerca di mettere tra loro è ingiuriosa verso Colui che li delega e li impiega. Come « servi del Cristo e dispensatori dei misteri divini », essi non sono giudicabili dai loro subordinati e non devono rendere conto che al loro Padrone (I Cor. III, 5-23). A ciascuna di queste due idee è legato un celebre passo il cui contesto le farà meglio comprendere. Se la Chiesa è un campo, gli apostoli ne sono i coltivatori; se la Chiesa è un edificio, gli apostoli ne sono i costruttori; ma di per se stessi essi non sono nulla, assolutamente nulla. Paolo pianta, Apollo irriga, ma Dio solo fa crescere; Paolo, da abile architetto, pone il fondamento indispensabile che è Gesù Cristo, altri costruiscono su questo fondamento, ma Dio solo ha dato alla costruzione la solidità e la coesione. Propriamente parlando, Dio è il solo agricoltore, il solo costruttore, e i fedeli sono « la coltura di Dio, l’edificio di Dio ». Gli operai apostolici non sono che manuali la cui attività, senza Dio, sarebbe totalmente Vana. Formando una cosa sola con il loro Padrone, formano una cosa sola tra loro; perciò le preferenze di cui possono essere oggetto, sono ingiuriose e ingiuste. Paolo mette in scena se stesso con Apollo, sicuro che nessuno s’ingannerà sui loro sentimenti reciproci; ma citando un caso particolare, egli ha di mira e condanna tutte le chiesuole (IV). – Dal fatto che i predicatori del Vangelo lavorano come subalterni, non ne segue che non abbiano meriti né responsabilità; anzi essi hanno diritto a una ricompensa, a un salario proporzionato al loro lavoro (III, 8). Questo salario è indipendente dall’impiego esercitato, dall’ingegno adoperato e dai frutti raccolti, ma si misura unicamente dalla fatica spesa; è personale e incomunicabile, come il lavoro che esso rimunera. E poiché si tratta di salario, è una vana arguzia il pretendere che si ottenga secondo il lavoro e non in vista del lavoro, per riconoscerlo e per retribuirlo. – All’allegoria dell’agricoltura succede senza transizione quella dell’edificio da costruire. Benché, propriamente parlando, Dio sia il solo costruttore, come è il solo agricoltore, gli operai apostolici costruiscono anch’essi come subalterni, gli uni più o meno bene, altri più o meno male, mentre un terzo gruppo, di cui non dobbiamo qui occuparci, lavora soltanto a distruggere. “Noi siamo cooperatori di Dio: voi siete coltura, edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che è stata a me concessa, da perito architetto io gettai il fondamento: un altro poi vi fabbrica sopra. Badi però ciascuno come vi fabbrichi sopra. Poiché nessuno può porre altro fondamento fuori di quello che è stato posto, che è Cristo Gesù. Che se uno sopra questo fondamento fabbrica oro, argento, pietre preziose, legna, fieno, stoppie, si farà manifesto il lavoro di ciascuno; poiché il giorno del Signore lo porrà in chiaro, perché sarà disvelato per mezzo del fuoco, ed il fuoco proverà quale sia il lavoro di ciascuno. Se sussisterà il lavoro che uno vi ha sopra edificato, ne avrà la ricompensa. Se il lavoro di alcuno arderà, egli ne soffrirà danno: ma sarà salvato, così però, come per mezzo del fuoco” (I Cor. III, 10-15). – In quest’allegoria dobbiamo considerare tre termini: la natura dell’edificio, il giorno del Signore e il fuoco che prova il lavoro degli operai. – Qual è l’edifizio che gli operai apostolici hanno la missione di compiere? Non è certamente il tempio interiore che ogni cristiano innalza nell’anima sua, dallo sbocciare della fede che ne è il fondamento, fino alla perfezione della carità che ne è il comignolo, perché questo tempio di cui i fedeli sono, ciascuno per sé, gli architetti, si moltiplica secondo il numero degli individui, mentre l’Apostolo parla costantemente di un solo edificio costruito dai predicatori del Vangelo. Non è neppure la Chiesa, questo tempio dello Spirito Santo costruito con pietre viventi su la pietra angolare del Cristo, perché allora i materiali perituri che non resistono alla prova del fuoco sarebbero i peccatori e i reprobi, e allora come mai sarebbero salvi coloro che li hanno fatti entrare nella costruzione della Chiesa? Si tratta dunque evidentemente del Vangelo di cui Paolo ha stabilito a Corinto la prima base, predicando Gesù Cristo morto per la nostra giustificazione e risuscitato per la nostra gloria. Nessuno ha il diritto di spostare questo fondamento o di sostituirne un altro, ma ogni predicatore del Vangelo ha il diritto e il dovere di continuare l’edificio. Ora, siccome la costruzione è dello stesso ordine e della stessa natura del fondamento, le parti sovrapposte all’edificio fondato da Paolo saranno necessariamente le dottrine del Cristianesimo, non dottrine morte, puramente speculative, senza influenza su l’accrescimento del corpo mistico, ma dottrine viventi, operanti, capaci di trasformare la mente e il cuore di coloro che ne fanno la loro regola di vita. L’oro, l’argento, le pietre preziose sono, in gradi diversi, le dottrine utili e fruttuose; il legno, il fieno, le stoppie, materie fragili e di poca durata, simboleggiano non gli errori e le eresie, ma gl’insegnamenti frivoli, i racconti futili che servono a pascere la curiosità degli uditori, ma che non hanno una seria azione su la loro vita morale. Il sommo Giudice appare improvviso, preceduto da un fuoco divoratore. L’oro, l’argento, le pietre preziose resistono alla prova; il legno, il fieno, le stoppie sono distrutti, e gl’imprudenti operai che se ne saranno serviti, vedendo distruggersi l’opera loro, si salveranno attraverso le fiamme. – L’Apostolo, secondo il suo solito, si porta ad un tratto all’ultimo giorno che egli chiama il Giorno per antonomasia, in cui avviene la divisione dei buoni e dei cattivi con la distribuzione delle pene e delle ricompense. Ci rappresenta gli operai del Vangelo intenti ad innalzare l’edificio della fede. Essi si dividono in tre classi: gli uni demoliscono o fanno crollare invece di edificare, e il loro castigo sarà terribile, perché Dio li distruggerà, come essi cercano di distruggere il tempio di Dio. Altri costruiscono un monumento solido e vi adoperano i materiali migliori: essi riceveranno la ricompensa speciale dovuta agli operai saggi e fedeli. Gli ultimi finalmente adoperano materiali perituri: essi soffriranno danno; San Paolo non dice precisamente in che cosa, ma per lo meno non avranno le distinzioni onorifiche concesse agli apostoli ed avranno il rammarico di aver lavorato senza guadagno. Ma non è tutto: « Essi si salveranno così come per mezzo del fuoco », simili all’operaio che, adoperando materiali combustibili invece di materiali che resistano al fuoco, vedesse divampare l’incendio nell’edificio in costruzione, e fuggisse attraverso le fiamme non senza qualche scottatura, oltre il timore e lo spavento. Vi sono dunque colpe non abbastanza gravi per chiudere il cielo e aprire l’inferno, le quali tuttavia sono punite con un castigo proporzionato. Il dogma cattolico del purgatorio e dei peccati veniali trova anche nel nostro testo un saldissimo appoggio. – Non già che il fuoco di cui parla l’Apostolo sia il fuoco del purgatorio, perché questo purifica, ma non prova, senza contare che non ha nulla da fare con le opere eccellenti rappresentate dall’oro, dall’argento e dalle pietre preziose. Meno ancora è il fuoco dell’inferno, come suppongono San Giovanni Grisostomo e alcuni suoi discepoli: il fuoco dell’inferno punisce ma non prova, e si può dire, senza fare violenza al testo, che il dannato sarà salvato, cioè conservato vivo, per soffrire eternamente? Bisogna dunque scegliere tra il fuoco del giudizio e il fuoco della conflagrazione finale. Ma il fuoco del giudizio è così spesso ricordato nella Scrittura, e quello della conflagrazione lo è così poco, che non è molto probabile che San Paolo abbia voluto parlare di quest’ultimo. – L’Apostolo parla di un fuoco che prova le dottrine e le azioni degli uomini, di un fuoco che accompagna e manifesta il giorno del Signore: ora questo fuoco non può essere altro che il fuoco del giudizio. Questo fuoco che fa una parte obbligata delle teofanie, accompagna il cocchio del Signore che viene a giudicare il mondo; è un fuoco intelligente il quale renderà manifesto il contrasto fra le buone dottrine, durature come l’oro, l’argento e il marmo, e le dottrine frivole, corruttibili come il legno, il fieno e la paglia. Questo medesimo fuoco scandaglierà le coscienze degli imprudenti architetti, infliggendo loro il meritato castigo: « Saranno salvati come per mezzo del fuoco ». Qui la parola « fuoco » , ha il suo significato ordinario, ma si fa un paragone che potrebbe svilupparsi così: Saranno salvati, ma non senza dolore e senza angoscia, come si salvano attraverso le fiamma quelli che sono sorpresi improvvisamente da un incendio. – Gli apostoli sono ancora « i servi del Cristo e i dispensatori dei misteri di Dio » (I Cor. IV, 1): non soltanto i banditori, ma i dispensatori, poiché i misteri comprendono, con verità da credere, istituzioni salutari da amministrare. Come servi, essi non dipendono che dal loro padrone; come dispensatori, non agiscono che a nome e per ordine di colui che li manda. In ogni maniera essi dipendono soltanto dal giudizio di Dio, e i verdetti pronunziati sul conto loro, non hanno né valore, né certezza, né giustizia. Paolo li chiama sdegnosamente « il giorno dell’uomo », per opposizione al « Giorno del Signore »; non ne fa nessun conto, anzi egli stesso si astiene dal giudicarsi: per quanto non abbia coscienza di alcuna colpa nell’adempimento dei suoi doveri apostolici a Corinto, non è sicuro di essere giustificato dinanzi a Dio (ivi, IV, 4). È una gran lezione di umiltà e un insegnamento da non dimenticare: ancorché sentissimo di essere come era Paolo, dobbiamo operare la nostra salvezza con timore e con tremore. Non solo i Corinzi giudicavano i ministri del Vangelo e assegnavano loro dei gradi secondo le loro preferenze e i loro capricci, ma prendevano motivo di vanità dalle loro relazioni con essi e si vantavano di appartenere piuttosto all’uno che all’altro. Paolo colpisce con la satira questo ridicolo errore: « Chi dunque ti distingue? (38) ». Chi pensa, fuori di te, a riconoscerti una superiorità qualunque? Ma supposto che questa superiorità di cui ti vanti, non sia immaginaria, « che cosa possiedi tu che non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti » come di una distinzione personale? Che tu l’abbia da Pietro, da Apollo o da Paolo, che importa? In fin dei conti bisognerà sempre risalire fino a Dio. Così si verificherà la massima: « Chi vuole vantarsi, si vanti nel Signore » e non negli uomini. Non vi è nulla che autorizzi l’opinione di certi esegeti i quali suppongono che i capi di fazione siano i soli presi di mira in queste parole: i capi di fazione non sono né nominati né indicati in nessuna maniera. Paolo si rivolge a tutti i Corinzi e li avverte di non « gonfiarsi in favore di qualcuno a danno di un altro »; non in favore di Pietro o di Paolo, come neppure in favore di Apollo o di qualche altro predicatore sconosciuto. « Poiché, egli soggiunge, chi dunque ti distingue? » Chi ti riconosce quei sognati vantaggi di cui tu dai l’onore a questo o a quell’operario apostolico? Subito dopo si parla di nuovo dei Corinzi, e non si fa nessuna menzione dei mestatori. – È noto che, verso la fine della sua vita, Sant’Agostino, contro l’opinione comune, intese il Quis te discernit come allusione al discernimento divino stabilito dalla predestinazione tra gli uomini. D’allora in poi il nostro testo è divenuto classico nei trattati della grazia. Tuttavia gli atti dei Concili non deducono la necessità della grazia dal Quis te discernit stesso, ma da tutto il contesto, o più precisamente dalla frase: Quid habes quod non accestisti? da cui infatti si può dedurre. È vero che bisogna ricorrere a un doppio ragionamento, ma abbastanza semplice: si deve anzitutto ricorrere ad un argomento di parità per estendere a tutti gli uomini le parole che l’Apostolo rivolge ai soli Corinzi, anzi, secondo alcuni interpreti, ai soli fautori dei disordini; poi con un argomento a fortiori si applica ai doni della grazia ciò che Paolo dice dei vantaggi esteriori. Ma ammesso il fatto della nostra elevazione soprannaturale, resta evidente che tutto, nell’ordine della grazia, più ancora che nell’ordine della natura, dal primo raggio delia fede fino alla visione beatifica, è un dono della liberalità divina, e che l’uomo non se ne può vantare senza disconoscere la sua dipendenza e il supremo dominio di Dio.

GLI SCANDALI DI CORINTO.

– 1.LA QUESTIONE DELL’INCESTUOSO. — 2. I PROCESSI DINANZI AI PAGANI.

1 . Erano avvenuti a Corinto due fatti scandalosi dei quali si era resa complice tutta la comunità, con la sua troppo tollerante indulgenza. Venere, patrona di Corinto, vi era onorata con un culto in cui l’impudicizia dell’Afrodite greca si alleava con le turpitudini dell’Astarte orientale, Nel suo tempio mille hieroduli apertamente facevano traffico del proprio corpo, a suo profitto e onore: la prostituzione sacra era innalzata all’altezza di un sacerdozio. I costumi pubblici erano per conseguenza anch’essi di una deplorevole rilassatezza, e vivere alla corinzia era, anche per i pagani, un’ignominia. – In quell’atmosfera avvelenata, alcuni cristiani avevano subito il contagio, e uno di essi viveva in concubinato con sua matrigna, certamente vedova o divorziata. –à “Si parla di fornicazione tra voi, e di tale fornicazione quale neppure tra i Gentili, talmente che uno ritenga la moglie del proprio padre. E voi siete gonfi: e non piuttosto avete pianto, affinché fosse tolto di mezzo a voi chi ha fatto tal cosa!” (I Cor. V, 1-2). Non si tratta di commercio passeggero, ma di una unione stabile, come quella di Erode Antipa con Erodiade, moglie del suo fratello Filippo. La legge romana, così larga in materia di matrimoni, proibiva tali unioni, e gli esempi che la storia profana ne poteva offrire, erano riprovati dal sentimento pubblico, d’accordo in questo con l’istinto naturale. Ora i fedeli di Corinto non sembravano commuoversene troppo: continuavano a frequentare il colpevole e lo ammettevano nelle loro assemblee. Forse si lasciavano illudere da questa falsa massima, che il Battesimo fa del cristiano un essere nuovo, libero da tutti i suoi vincoli antecedenti ed esente da qualsiasi proibizione legale. Così agli occhi dei rabbini la conversione al giudaismo rompeva tutte le relazioni di parentela, e Maimonide insegna espressamente che è lecito al proselito sposare la sua matrigna. – L’indignazione di Paolo fu al colmo. Era sua pratica costante il sottoporre tutti gli scandalosi a una specie di scomunica la quale portava con sé la cessazione anche delle relazioni di convenienza e di civiltà. Egli aveva minacciato questa pena agli arruffoni e agli scioperati di Tessalonica, se non avessero obbedito ai suoi ordini; più tardi imporrà a Tito di evitare l’eretico ostinato, cioè il fautore di divisioni e di disordini. Nella lettera ai Corinzi, che andò perduta, ingiungeva loro espressamente di troncare ogni relazione con gli impudichi (II Tess. III). Qual è dunque ora il suo dolore nel vedere che tollerano l’infame! Presto! si allontani l’incestuoso, affinché non siano contaminati da lui. Si era, a quanto pare, verso la Pasqua, e veniva molto a proposito questa esortazione: « Non sapete che un poco di lievito fa fermentare tutto l’impasto? Togliete via il vecchio fermento, affinché siate una nuova pasta, come siete senza fermento; perché il nostro agnello pasquale Cristo è stato immolato. Solennizziamo dunque la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e della malvagità, ma. con gli azzimi della purità e della verità… Togliete di mezzo a voi il cattivo (I Cor. V, 6-8, 13) ». Queste ultime parole che contengono la sentenza definitiva di Paolo, sono un’allusione al Deuteronomio (XVII, 7, XIX, 19, etc.) il quale stabilisce la pena di morte per certi delitti. La scomunica, specie di morte simbolica, nel Vangelo sostituisce la morte reale dell’antica Legge. Egli aveva prima pensato a una pena assai più grave e più proporzionata all’enormità del delitto. – “Io però assente corporalmente, ma presente in ispirito, ho già come presente giudicato che colui il quale ha attentato tal cosa — congregati voi e il mio spirito nel nome del Signor nostro Gesù Cristo — con la potestà del Signore nostro Gesù, sia dato questo tale nelle mani di satana per morte della carne, affinché lo spirito sia salvo nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo (ivi, V, 3-5). – I canonisti, desiderosi di trovare qui un esempio di scomunica maggiore secondo le forme attualmente in uso nella Chiesa, si domandano come mai Paolo abbia potuto fulminarla e dare ordine ai Corinzi di fulminarla in nome suo, senza istruzione del processo, senza citazione né interrogatorio. Ma sono tutte questioni superflue: Paolo non pronunzia la sentenza e non impone ai Corinzi di pronunziarla; egli esprime soltanto il suo parere su la pena dovuta all’incestuoso notorio; forse insinua il castigo rigoroso che egli è risoluto di infliggere, nel caso in cui i fedeli non facessero nulla da parte loro. Per quello che lo riguarda, egli crede giusto e conveniente di abbandonare il colpevole a satana, ma non dice quali formalità si dovrebbero osservare se si dovesse venire a tale castigo. Questo castigo terribile evidentemente supponeva la scomunica, cioè l’esclusione della Chiesa con la privazione delle grazie e degli aiuti di cui la comunione dei santi è il canale; ma comprendeva pure qualche cosa di più spaventevole. Gli Apostoli che avevano ricevuto dal Signore il potere d’incatenare i demoni, avevano pure il potere di scatenarli. Il delinquente colpito da questa condanna più grave che la scomunica, veniva abbandonato alla vendetta dell’eterno nemico degli uomini e diventava preda e zimbello di satana. Ma siccome tutte le pene inflitte dalla Chiesa sono medicinali, lo scopo finale era sempre la conversione e la salvezza del peccatore. Almeno una volta nella sua vita, Paolo si servì di questo terribile potere: egli abbandonò a satana Imeneo e Alessandro per insegnare loro a non più bestemmiare (I Tim. I, 20), o piuttosto perché lo imparassero a loro spese quando fossero abbandonati, senza protezione e senza scampo, alla tirannia del demonio. Con l’incestuoso di Corinto egli è meno rigoroso; si accontenta dell’esclusione del colpevole e, se per un momento ha pensato ad un castigo più severo, lo ha fatto sempre per salvare l’anima del peccatore, affiggendo la sua carne. – Da questa dottrina si devono trarre tre corollari: la Chiesa, per comando del Salvatore e seguendo l’esempio dell’Apostolo (Matt. XVIII, 17), rivendicò sempre a sé il diritto di escludere dal suo seno i cristiani scandalosi; ma questa penalità che mira direttamente all’immunità dei buoni, mira anche alla correzione del colpevole. Né l’Apostolo né la Chiesa non si arrogano nessun potere su gli infedeli (I Cor. V,12-13): tocca a Dio il giudicarli. — Ben lungi dall’abolire l’interdizione dei matrimoni tra parenti nei casi previsti dalla Legge mosaica (ivi, V, 1), la Chiesa nascente si affrettò a sanzionarla e la estese anche di più, e infatti la troviamo in vigore dappertutto, nelle origini. — Il profondo orrore che i vizi carnali ispirano ai banditori del Vangelo, è dovuto in parte alla reazione contro la dissoluzione dei costumi pagani e in parte è ereditata dagli Ebrei presso i quali la fornicazione e l’idolatria si esprimevano con la medesima parola (πορνεία). Paolo sente il bisogno d’inculcare ai neofiti un’avversione ragionata contro quei disordini vergognosi che forse si erano abituati a guardare con occhio indifferente. I tre motivi che espone loro per distorglierli dall’impurità, derivano dalle profondità della sua teologia mistica. – La fornicazione è un’ingiustizia, un sacrilegio e una profanazione: un’ingiustizia verso Colui al quale apparteniamo corpo e anima, un sacrilegio verso Gesù Cristo di cui siamo membri, una profanazione del tempio dello Spirito Santo. –

– Un’ingiustizia. Si chiamano indifferenti le azioni conformi all’istinto naturale, che non ledono i diritti di nessuno e non hanno relazione diretta con la vita morale, come il bere e il mangiare. Lo stomaco è fatto per gli alimenti, e gli alimenti per lo stomaco; ma il rapporto del corpo con la fornicazione è ben diverso. « Il corpo appartiene al Signore, non alla fornicazione, e il Signore appartiene al corpo ». Il corpo appartiene al Signore come il membro appartiene al capo, e reciprocamente; e il segno di questa reciproca appartenenza è che Dio li risuscita, l’uno per causa dell’altro. La fornicazione, violando i diritti del Cristo su noi, è dunque un’ingiustizia. – Un sacrilegio. Chiunque abbia presenti alla mente queste due verità elementari della dottrina di Paolo, che cioè il corpo del cristiano è un membro del Cristo, e che nell’unione sessuale l’uomo e la donna diventano un solo corpo e ima medesima carne, deve logicamente conchiudere che la fornicazione prostituisce un membro del Cristo a una donna impura, in modo da identificarlo con essa: basta nominare un tale atto per mostrarne la sacrilega abbominazione.

– Una profanazione. Il nostro corpo santificato dalla grazia, diventa, come l’anima, un tempio consacrato dalla presenza delle tre Persone divine e dall’abitazione speciale dello Spirito Santo. Ora la fornicazione imbratta e viola questo tempio. In tutte le altre colpe, il peccatore abusa di una creatura estranea e pecca contro di essa distogliendola dal suo fine; qui invece egli abusa del suo stesso corpo e pecca contro di lui. Formando i complici una sola carne, non v’interviene nulla di estraneo; il corpo non è soltanto lo strumento del peccato, come nelle altre colpe, ma ne è lo stesso oggetto.

2. Nei nostri costumi presenti, il secondo abuso biasimato dall’Apostolo sembrerebbe molto leggero: un cristiano ne aveva citato un altro in tribunale. Egli aveva « chiesto giustizia agli ingiusti » (I Cor. VI, 1): così si solevano chiamare i pagani. Di qui un doppio scandalo: la stessa querela e la pubblicità clamorosa del processo. Era preferibile soffrire l’ingiustizia, che il dare ai pagani un così pericoloso esempio e mettere nelle loro mani quest’arma contro i fedeli. – Si sa che gli Ebrei, dovunque erano numerosi, avevano tribunali speciali dinanzi ai quali regolavano i loro litigi. L’autorità romana generalmente tollerava, qualche volta riconosceva quella giurisdizione eccezionale che al bisogno pronunziava, come dice Origene, anche sentenze di morte (Ep. Ad Afric., 14, – XI, 84), che però dovevano avere l’approvazione del potere supremo, oppure si dovevano eseguire clandestinamente, come nel medioevo le sentenze della Santa Veheme in Germania. Bisogna credere che gli Ebrei spontaneamente concedessero ai loro magistrati la massima competenza, e San Paolo stesso sembra che più di una volta si sia assoggettato al loro verdetto, mentre la sua qualità di cittadino romano poteva sottrarvelo: così si spiegherebbero le cinque flagellazioni di trentanove colpi, che sembrano essergli state inflitte secondo le usanze ebraiche e dopo un regolare processo. Comunque sia, egli desidera per i Cristiani un’istituzione simile: « Se avete dei processi, dice, scegliete come giudici i membri più abbietti della Chiesa ». Poi, riprendendosi subito per timore che i Corinzi non prendano sul serio la sua mordace ironia, soggiunge: « Come! non si trova in mezzo a voi un uomo saggio capace di essere arbitro tra i suoi fratelli, perché un fratello vada a querelarsi contro un fratello, e dinanzi a infedeli! (VI, 4-5) ». – I santi — e tutti i Cristiani portano questo nome — possono benissimo decidere in una querela di minima importanza, essi che un giorno giudicheranno il mondo e gli stessi Angeli (VI, 3). I teologi, imbarazzati intorno a questo giudizio, ne hanno immaginate cinque o sei specie: giudizio di comparazione, giudizio di approvazione, ecc. Ma si sono data una pena affatto inutile: il pensiero dell’Apostolo è molto più semplice. I santi giudicheranno con Gesù Cristo, come risusciteranno con Lui, saranno glorificati con lui e regneranno con Lui. Formando una cosa sola con Lui nell’unità del corpo mistico, partecipano a tutte le sue prerogative e per conseguenza anche a quella del giudizio universale. Gli Angeli sottoposti alla prova come gli uomini, saranno giudicati come gli uomini, e saranno gli eletti, con Gesù Cristo a cui sono indissolubilmente uniti, che li giudicheranno. E dunque superfluo il supporre che « gli angeli » potrebbero qui significare i sacerdoti o i demoni: ipotesi che non si può accettare, perché affatto contraria all’uso. – Sappiamo quanto Paolo fosse geloso di edificare i pagani, perché in questo vedeva un mezzo di apostolato talora efficace quanto la predicazione diretta. Questo è il principale motivo della regola che impone, la quale per natura sua doveva essere transitoria. Rimase infatti in vigore per tre secoli; fino alla conversione ufficiale dell’Impero a Gesù Cristo, quando perdette la sua ragione di essere e cadde in disuso, non si troverebbe forse esempio di un processo intentato da un Cristiano contro un altro Cristiano.

[Continua …]

 

APPARECCHIO ALLA SS . COMUNIONE (3)

APPARECCHIO ALLA SS . COMUNIONE (3)

[Sac. G. Riva: Manuale di Filotea, Milano, 1888]

APPARECCHIO VII.

Atto di Contrizione.

Mio Dio, mio Creatore e Redentor Gesù Cristo,  mi pento e mi dolgo con tutto il cuore di avervi offeso perché siete sommo bene, infinitamente buono ed amabile. Propongo, mediante la vostra grazia, di non offendervi mai più, di fuggire le occasioni del peccato e di farne penitenza. Spero che per la vostra bontà mi perdonerete.

Atto d’Adorazione.

Adoro umilmente la vostra infinita maestà avanti la quale tremano gli Angioli più sublimi. Vi riconosco per padrone e Signore di tutto il mondo,  e confesso che sono un nulla davanti a voi.

Atto d’Umiltà.

Come dunque ardirei io di venire a Voi, se Voi medesimo non mi invitaste con tanta bontà? Io non sono degno di ricevervi nel mio cuore, perché  una creatura vile ed ingrata, piena di miseria e di peccati, e voi siete il fonte d’ogni bene, il Dio della gloria, della maestà e della santità; ma dite una parola e l’anima mia sarà santificata. Gloriosissima Vergine Maria, Angioli e Santi del Paradiso, supplite, vi prego, con la vostra intercessione alla mia indegnità.

Atto di Desiderio.

Suvvia adunque, amabilissimo Gesù mio, degnatevi per la vostra bontà di venire nel mio cuore, che, senza Voi, nulla sono e nulla posso. Venite, vi prego, a guarire le malattie dell’anima mia, a fortificarla con la vostra grazia, illuminarla con la vostra luce, infiammarla con il fuoco del vostro santo amore, e rallegrarla con le vostre dolcissime consolazioni. Io desidero di ricevervi per gloria vostra e salute dell’anima mia: desidero di unirmi tutto a Voi e non separarmene mai più in eterno.

Atto di Fede.

Con la fede la più viva, la più ferma, io credo che nell’Ostia consacrata riceverò il vostro corpo, il vostro sangue, la vostr’anima, e la vostra Divinità. Lo credo più fermamente che se lo vedessi con i propri occhi, perché voi, che non potete mentire, lo avete detto, e se bisognasse sarei pronto a darà la mia vita per questa verità.

Atto di Speranza.

Per mezzo della s. Comunione, che sono per fare, spero che mi assisterete ne’ miei bisogni, mifortificherete nei miei travagli, mi darete la vostra grazia in questa vita e la vostra gloria nell’altra. Ecco quello che io, sebben indegno, a voi domando e da voi spero, perché voi, per vostra bontà, me lo avete promesso.

Atto di Carità,

Vi amo, Gesù dolcissimo, con tutto il cuore. E chi mai amerò, o Signore, se non amo Voi che mi amate tanto e siete il sommo Bene infinitamente buono ed amabile! Misero me che non vi amo ancora quanto debbo! Desidero di amarvi sempre più. Voglio prima perdere la vita che il vostro amore. Fatemi la grazia che io vi ami con tutte le forze, e vi ami continuamente, per amarvi poi in eterno nel Paradiso.

A Maria.

O speranza e consolazione della miserabile anima mia, gloriosissima Vergine, che diveniste la madre di tutti i fedeli, dando alla luce l’Autore e il consultore della fede, quello stesso Figliuol di Dio che io sono per ricevere sotto il velo di poco pane, degnatevi adesso di farmi parte dei vostri celesti tesori; vestitemi delle vostre virtù, affinché possa con più fiducia accostarmi alla sua mensa, e ritrarrò dalla presente Comunione quei gusti e quei vantaggi che ritraeste voi stessa, quando lo albergaste per nove mesi nel vostro seno, e tante volte lo riceveste sotto le specie sacramentali.

Agli Angeli.

Santi Angeli, ministri fedelissimi di quel Signore che io sono per ricevere, e voi specialmente, o mio amoroso Custode, illuminate adesso la mia mente con la pienezza della vostra scienza, perché conosca la mia viltà e l’eccellenza di quel Sacramento a cui sono per accostarmi. Sciogliete il ghiaccio del mio cuore ed accendetelo del vostro fuoco, affinché ami il mio Dio con quell’ardore con cui lo amate voi. Impetratemi insomma la vostra purità, la vostra innocenza, la vostra umiltà, il vostro fervore, e tutte le vostre virtù, affinché, ornata di una veste così preziosa, l’anima mia diventi un’abitazione non del tutto indegna della divina Maestà.

Ai Santi.

Santi Patriarchi e Profeti, che vaticinaste con tanti oracoli, rappresentaste con tanti simboli, e con l’ardore dei vostri desideri chiamaste dal cielo in terra quel divin Salvatore che sta per venire dentro di me: santi Apostoli, che foste i primi a partecipare a questo gran Sacramento; santi Martiri, che dalla divina Eucaristia riceveste la forza di sostenere con gioia i più spietati supplizi; santi Pontefici, che, a salute dei popoli, immolaste tante volte sopra l’altare questo Agnello senza macchia; santi Monaci e Romiti, che alimentati da questo pane miracoloso, superaste gli assalti i più violenti del mondo e della carne; sante Vergini, che con la diligente custodia del vostro candore, preparaste in voi una stanza degna di Dio, ed ora ne godete una visione più completa, e cantate d’intorno a lui il cantico tutto nuovo che non può essere cantato da alcun altro; voi infine, o Santi dei quali fa in oggi memoria la Santa Chiesa, e voi specialmente miei Avvocati e Protettori, impetratemi almeno una parte di quei doni dei quali abbondaste, affinché, accostandomi con fede viva, con carità ardente, con disposizione perfetta, a questa mensa di paradiso, ne riporti un gran lume per conoscere, una gran forza per superare tutti gli ostacoli che si incontrano nella vìa della salute, una risoluzione efficace di non trascurare alcun mozzo per sempre più avanzarmi nella santità e nella perfezione; onde, conformando ai vostri esempi tutta quanta la mia vita, meriti di essere un giorno compagno vostro nel cielo.

APPARECCHIO VIII.

Atti diversi,

Con cuor contrito, o mio Gesù, vi adoro.

E il vostro ajuto in ogni istante imploro.

Senza di voi nulla di ben poss’io,

Perciò domando il vostro ajuto, o Dio.

Tutto ciò che la Chiesa insegna e crede,

Lo credo anch’io colla più viva fede.

Io credo e spero in voi, Dio trino ed uno

Senza di cui non può salvarsi alcuno.

Credo e spero in Gesù mio Redentore,

Che crocifisso fu per nostro amore.

Creato fui per amar Voi, mio Dio,

Ma a tutt’altro pensai che al dover mio.

Or però, benché tardi, ho risoluto

Di tributare a Voi l’amor dovuto.

D‘avervi offeso, o Dio, ogni momento

Non per timor, ma per amor mi pento.

La vita e il sangue, o mio Gesù, darei

Per cancellare tutti i peccati miei.

Vorrei poter ricominciar la vita,

Per sempre amar Gesù Bontà infinita.

Come fermo nel mar stassi lo scoglio,

Cosi con Voi, caro Gesù, star voglio.

In Voi spero, Voi bramo ogni momento,

O vivo Pan del ciel gran Sacramento.

Per Voi vivo, o Gesù, per Voi respiro,

E di venire a Voi sempre sospiro.

Tanta fame ho di Voi, gran Sacramento,

Che per amor quasi languir mi sento,

Siccome al fonte l’assetato cervo,

Cosi sospira a Voi il vostro servo.

L‘unico fonte, o mio Gesù, Voi siete;

Chi beve al vostro sen non ha più sete,

Venite nel mio cuor, caro Gesù,

Per starvi sempre e non partir mai più,

Venite a ristorar col vostro sangue

L’anima mia che di tristezza langue,

In me venite a ravvivar la fede,

E a stabilir del vostro amor la fede.

E quando entrato nel mio cor sarete,

Come in trono d’amor nel cor sedete.

Offerta per le Anime Purganti

Sulla Sposa che geme, che langue

Nella foga di tutti i tormenti,

Scenda, o Nume pietoso, quel sangue,

Speme e vita de’ veri credenti,

Che cancellò l’antico reato,

Che rinnova dell’alme lo stato,

E gustare fa i gaudi del ciel

A chiunque al Signore è fedel.

Amore ed Umiltà,

Ecco quel dolce istante

Che in sacro velo ascoso

Tu vieni a me pietoso,

Eterno Re dei re,

Vieni nel seno mio,

caro pietoso Iddio;

Ma tu chi sa se mai

Pago sarai di me!

Come assetato il cervo

Corre veloce al rio,

Sull’ali del desio

Vola il mio cuore a te.

Da te ristoro brama

Te solo aspetta e chiama

Ma tu chi sa se mai

Pago sarai di me!

In te che fonte sei

D’ogni immortal favore,

Ricerca questo core

La grazia che perdè.

M‘innebria dunque il petto

Di grazia e di diletto:

Ma tu chi sa se mai

Pago sarai di me!

Pascolo più soave,

Che ogni sapor contiene,

Di te mio sommo Bene

Per l’alma mia non v’è.

Unico pan del cielo,

A te mai sempre anélo:

Ma tu chi sa se mai

Pago sarai di me!

Pria mi donò la vita

Tua mano creatrice,

Poi vita più felice

Il sangue tuo mi diè.

L‘opra compisci adesso

Donami ancor tu stesso:

Ma tu chi sa se mai

Pago sarai di me!

Innanzi al tuo cospetto

Un’ombra, un nulla io sono,

Tu vanti il ciel per trono,

Ed hai le stelle al piè.

Eppur nel seno mio

D’accoglierti desio;

Ma tu chi sa se mai

Pago sarai di me!

T‘offesi ingrato, è vero,

Ma piango il fallo mio,

Ed al tuo trono invio

La carità, la fè;

T’invio le più sincere

Fervide mie preghiere:

Ma tu chi sa se mai

Pago sarai di me!

Domanda di un Cuor nuovo

Io vorrei languir d’amore,

Ma non so come si fa.

O Gesù, datemi un cuore

Che amar sappia in verità.

Il mio cuor non è che gelo!

Per amar come conviene;

Antepon la terra al cielo,

Ed il falso al vero ben.

Ho bel dirgli che Voi siete

Solo degno d’ogni amor,

Che appagar Voi sol potete

Di sue brame il vivo ardor

Ei non bada, né intende,

E continua a vaneggiar;

Né il mio dir punto l’accende

Perchè voi pensi ad amar

Deh! un sì stolto e freddo core

Voi toglietemi dal sen.

E un cor datemi, o Signore,

Che del vostro amor sia pien.

Se un tal cor voi mi darete,

Gesù mio, ben v’amerò,

E d’amor per voi che siete

Tutto amor, io languirò.

Ma se il cor mi resta in petto

Qual finora sempre fu,

Io vorrei, ma invano aspetto

Di languir per voi Gesù!

A Maria

O del ciel gran Regina,

Tu sei degna d’ogni amor;

La beltade tua divina,

Chi non ama non ha cor.

Tu sei Figlia, tu sei Sposa,

Tu sei Madre del Signor:

Di noi pur, Madre pietosa

Tu innamori tutti i cor.

Tu del giusto sei la guida,

Sei conforto al peccator,

Che perdon, se in te confida,

Sempre ottiene dal Signor.

Tutti adunque, deh venite

A piegar Maria di cor,

E devoti a lei v’offrite

D’esser figli amanti ognor.

Si, Maria, vi dono il core

Egli è reo, ma se sarà

Da voi dato al mio Signore

Riliutarlo ei non saprà.

Altro ben da voi non brama,

Nè altro mai vi chiederò

Spero un di, se così v’amò

Che in eterno v’amerò.

Avvocata in questo esilio,

Già vi eleggo per pietà!

Impetrate a un vostro Figlio

La beata eternità.

Desiderio

Vieni, vieni, o dolce Amore,

Gesù mio, sposo diletto:

Vieni, o caro, in questo petto

Vieni, o Dio, non più tardar.

Vieni  o sposo,  vieni Amante,

Vieni o Dio del santo amore ;

Ecco aperto è già il mio core,

vieni in esso a riposar.

Dell’eterno Genitore

Tu sei Figlio e di Maria;

Cibo sei dell’alma mia;

mio conforto e mio tesor.

Qual solinga tortorella

Gemo e piango il fallo mio,

deh mi torna, amabil Dio,

Agli implessi del mio cor.

Come cervo sitibondo,

A te solo aspiro e anelo,

Fonte eterno in cui del cielo,

Si nasconde ogni piacer.

Pel desio di te, mia vita.

Venir meno già mi sento,

Più di me non mi rammento,

In te solo è il mio pensier.

G m’investono le tue fiamme,

Già quest’alma spicca il volo,

Mio Gesù, mio ben, tu solo

Puoi mie brame soddisfar.

Vieni dunque, vieni eletto,

Fior del campo, intatto giglio.

Di Maria augusto Figlio,

Io non posso più aspettar.

Aspettar più non poss’io.

Cara gioia, luce bella,

Di Giacobbe eletta stella;

 Io ti vengo ad incontrar.

APPARECCHIO IX.

Fede e domanda

Come ubertosi sono

Quegli orticelli aprici,

Cui l’acque irrigatrici

Non sogliono mai mancar.

Così sarà copiosa

Di frutti l’alma mia

Se dell’Eucaristia

Saprolla fecondar,

Sacramentata specie,

Che ascondi il mio tesoro,

Del sommo Ben che adoro

Deh lasciami bear,

In così gran mistero

Fa’ che i più ascosi arcani

Con occhi sovrumani

Io possa penetrar,

O testimon dolcissimo

Di sua passione e morte,

O vivo Pan, che forte

Bendi il mortai quaggiù:

Deh, fa’ che di te solo

M’occupi tutto e viva;

Né pensi, parli, o scriva,

Che di te sol, Gesù,

Del pane onde beato

Tu fai l’eterno regno,

Lo sai che non son degno,

Mio dolce Redentor.

Ma d’ogni fallo il sangue

Sparso da te mi scioglie,

L’indegnità mi toglie,

Nuovo m’infonde amor.

Mistico Pellicano,

Mio buon Signor, mio Dio,

Deh, tu dal lezzo mio

Mondami per pietà.

Mondami col tuo sangue,

Onde una stilla basta

D’Eva a salvar la guasta.

La rea posterità.

Sol col toccar la veste

Del Redentor dicea

L’inferma Cananea,

Potrommi risanar.

Che mai dovrò dir io

A cui vien or concesso

Di Cristo il Corpo stesso

Ricever dall’altar?

Volgi, Gesù, deh! volgi

Il guardo tuo pietoso;

Discendi a me lebbroso

Penetra in questo cuor.

Col tuo divin contatto

La lebbra sanerassi,

Ripiglieranno i passi

Le strade tue, Signor.

Qual tenero arboscello,

Che col languor dei rami.

Par che la pioggia chiami

Sua sete a ristorar.

Tale, o Gesù, il mio core,

Che da gran tempo langue,

Nel tuo divino sangue

Si brama dissetar,

Gesù, le cui bellezze

Si umane che divine

Bramano senza fine

Gli Spirti in ciel mirar,

Sempre il mio cor ti cerchi

E tal sien le brame

Che mai di te la fame

Non abbia in me a cessar.

Gesù, che sotto il velo

Del Sacramento or miro,

Deh compiasi il desiro

Del servo tuo fedel.

Quel gran desiro ond’ardo

Di vagheggiarti in volto,

E di vedermi accolto

Fra tuoi beati in ciel.

Desiderio.

Sospira questo core.

E non so dir perché,

Sospirerà d’amore

Ma non lo dice a me.

Rispondimi cor mio.

Perchè sospiri tu?

Risponde; voglio Dio,

Sospiro per Gesù.

Sospira, e non lasciare

Mai più di sospirar:

Tua vita sia l’amare

Chi ti sa tanto amar.

Sospira, e fa che sia

Gesù il tuo solo amor,

E tutta sia Maria

La tua speranza ognor.

Manda i sospiri tuoi

A chi ti può salvar;

E lieto spera poi

Quanto mai puoi bramar.

Sospiri miei, su andate.

Ite a trovar Gesù:

Ai piedi suoi restate,

Né vi partite più.

Dite che un cor vi manda

Ch’arde dì sua beltà:

Dite la sua domanda,

Ch’ egli la gradirà.

Amore ed Invito

Vieni, vieni, o mio Signore,

Vieni, vieni nel mio petto,

Fosti sempre il mio diletto,

Il primo e solo amor.

S‘io t’invito è questo amore

Che m’infonde un santo ardire,

Deh! non farmi più languire,

Vieni, ah vieni, o mio tesor.

Gesù mio, se a me tu manchi,

Che il mio tutto ognor sei,

Manca il lume agli occhi miei,

Perde l’alma il suo vigor.

Ah, se tu non mi rinfranchi,

Io mi sento già svenire;

Deh, non farmi più languire,

Vieni, ah vieni, o mio tesor.

Se una stella, un fior io veggo,

Tua bellezza mi rammenta,

Ogni voce o suon ch’io senta

Sol di te mi parla al cor.

Vedi ben ch’io più non reggo!

Alla forza del desire;

Deh! non farmi più languire;

Vieni, ah vieni, o mio tesor.

Vieni alfine, e meco unito

Resta, o caro, in sempiterno;

Da te lungi un altro inferno

Mi parrebbe il cielo ancor.

Del mio amore al dolce invito

Godi ormai, né  più fuggire,

Deh non farmi più languire.

Vieni, ah vieni, o mio tesor.

Senza te non trova pace

L’alma mia d’amor ferita.

Sei tu solo la mia vita,

L a mia calma, il mio tesor.

Se vedermi a te non piace

Di dolore, o Dio, morire.

Deh non farmi più languire

Vieni, ah vieni, o mio tesor!

Sia che spunti o cada il sole

Sempre a me tu sei presente!

In te fissa è la mia mente

Anche oppressa dal sopor!

No, non puote, ancor se vuole

L’alma mia da te partire

Deh non farmi più languire

Vieni, ah vieni, o mio tesor.

Ah! pietà di chi sospira

Te cercando, o sommo Bene

Metti fine alle mie pene

Ti commova il mio dolor.

Il mio cor pietoso mira

Che è già stanco di soffrire

Deh! non farmi più languire:

Vieni, ah vieni, o mio tesor.

Il desio frenar non posso

Onde tutto avvampo ed ardo,

Se a venir ancor sei tardo

Vengo meno a tanto ardor.

Ma il tuo cuor è già commosso,

Già ti sento a me venire.

Cesso ormai di più languire,

Già t’abbraccio, o mio tesor.

#    #    #

[Tra i nove “apparecchi” riportati, ognuno troverà quello che meglio si adatti alla propria condizione,  momento ed alla circostanza. L’ultimo “Apparecchio”, in particolare, si presta ad essere cantato salmeggiando. – Importante è che gli “apparecchi” siano propedeutici ad una santa Comunione, ad una “vera” Comunione, ricevuta da un Sacerdore della Chiesa Cattolica, unica Arca di salvezza voluta da N. S. Gesù-Cristo, in unione con il Santo Padre Gregorio XVIII che, pur in esilio e nelle mani dei “nemici di Dio e di tutti gli uomini”, è pur vivo e vegeto, secondo le promesse del divin Redentore e del Sacrosanto Magistero della Chiesa [Cost. Apost. Paster Æternus]. I Sacramenti che non vengono ricevuti nella Chiesa Cattolica [è Cattolico colui che è in unione col Santo Padre … il “vero” – Bolla: Una Sanctam di Bonifacio VIII] sono invalidi, illeciti e sacrileghi, amministrati da falsi sacerdoti, apostati e mai validamente consacrati da mai-vescovi non-consacrati [novus ordo], o dai discepoli delle fraternità paramassoniche [se si preferisce si può anche eliminare il “para” … è lo stesso], mai-consacrati dal non-vescovo Lienart, il cavaliere kadosh, dal suo figlioccio Marcel ed epigoni vari, scomunicati ipso facto, oltretutto per essere fraudolentemente non-consacrati e senza alcuna Giurisdizione apostolica o missione canonica. Un falso sacramento, è una maledizione terribile, peccato gravissimo contro la fede e la carità, peccato mortale che conduce direttamente al fuoco della geenna.- ndr. -]

APPARECCHIO ALLA SS . COMUNIONE (2)

APPARECCHIO ALLA SS . COMUNIONE (2)

[Sac. G. Riva: Manuale di Filotea, Milano, 1888]

APPARECCHIO IV

Pater noster.

Dove mai, o Signore, più che in questo Sacramento, vi date a conoscere nostro Padre? Nel contento d’avermi creato, a preferenza di tanti che ti avrebbero servito meglio di me, redento a costo di tutto il vostro sangue, malgrado la previsione della mia ingratitudine, conservato dopo tanti peccati con i quali ho meritato l’inferno, ricolmato di tanti benefici, non ostante l’abuso continuo dei medesimi, voi volete in questo Sacramento nutrirmi delle vostre carni e abbeverarmi del vostro sangue. Sì, non contento di essere divenuto mio compagno nella vostra nascita, mio modello nella vostra vita, mio riscatto nella vostra morte e mio premio futuro nella vostra gloria, volete ancora divenire mio cibo nella divina Eucaristia.

Qui es in Cœlis.

La vostra stanza, o Signore, è in cielo; e ciò nonostante volete adesso calare dal trono della vostra gloria e nascondervi sotto le specie di poco pane per abitare dentro di me? Nell’incarnazione voi nascondete la vostra divinità, ma qui volete nascondere anche la vostra umanità per far risplendere solamente la grandezza della vostra carità. Oh degnazione infinita! Io mi umilio e mi confondo dinanzi a Voi.

Sanctificetur Nomen tuum.

Ma se vengo a ricevervi questa mattina è per far un’opera che serva alla santificazione del vostro Nome in tante maniere da me sprezzato. Io vi offro perciò la presente Comunione, insieme a tutte le opere buone che si son fatte e si faranno, in adorazione della vostra gran maestà, in ringraziamento di tutti i benefici a me compartiti, in soddisfazione di tanti torti che vi ho fatti, in impetrazione di tutte quelle grazie che mi sono indispensabili all’acquisto della salute. Ve l’offro ancora per ottenere la concordia fra i principi cristiani, e l’esaltazione della santa Chiesa, l’estirpazione delle eresie, la conversione degli infedeli, eretici e peccatori, la perseveranza dei giusti, il refrigerio alle anime purganti, affinché tutti possano insieme onorare, lodare e santificare il vostro Nome amabilissimo.

Adveniat regnum tuum.

Venga dunque questo felice momento di ricevervi sacramentato! Come il cervo desidera di arrivare alla fonte delle acque per dissetarsi, così io desidero di unirmi a voi, perché spero fermamente che la vostra venuta dentro di me stabilirà nell’anima mia il regno santissimo della vostra grazia, e mi sarà una caparra sicura di passare un giorno a possedere con gli Angioli e coi santi il regno della gloria.

Fiat voluntas tua.

Conosco di essere affatto indegno di un favore così distinto; e non ardirei di accostarmi alla vostra mensa, se non fosse per fare la vostra volontà. Io sono un niente, e voi siete il tutto; io la stessa miseria e Voi la stessa perfezione; che relazione adunque fra me e Voi? Tuttavia Voi minacciate la morte a chi non mangia la vostra carne e non beve il vostro sangue; e promettete ogni bene a chi vi riceve sacramentato. Io confesserò adunque col Centurione la mia indegnità; ma vi dirò di venire dentro di me per soddisfare ì vostri desideri, per provvedere ai miei bisogni, per rinnovare il mio spirito, per santificare il mio cuore, per mettermi in stato dì poter dire come s. Paolo: “Non son più io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me”.

Sicut in Cœlo et in terra.

Affinché però la vostra volontà sia perfettamente adempita, datemi, o Signore, quelle disposizioni che Voi desiderate in chi vi ha da ricevere. Fate che io vi riceva con quella purità di coscienza, con quella santità d’intenzione, con quell’ardenza di amore con cui vi ricevettero sopra la terra tutti coloro che vi glorificano nel Paradiso. Permettete adunque che io vi offra in supplemento della mia indegnità, tutte le disposizioni santissime che portarono a questa mensa gli Apostoli, i Martiri, i Confessori, le Vergini, anzi quelle che ebbe Maria ss. quando v’incarnaste nel di lei seno, e quando più volte vi ricevette sacramentato; finalmente quelle disposizioni divine che aveste Voi, o Gesù mio, là nel Cenacolo, quando istituiste, con stupore di tutto il cielo, questo mirabile Sacramento.

Panem nostrum quotidianum da nobis hodie.

Venite dunque, o Pane soprasostanziale infinitamente più prezioso di quella manna che pioveste al vostro popolo nel deserto. Venite a satollarmi della vostra grazia, affinché, nutrito di Voi, possa, come Elia, camminare al monte santo senza provare stanchezza, e senza arrestarmi giammai.  Fate che io viva in maniera da potervi ogni giorno, se non sacramentalmente almeno spiritualmente: fate infine che io ritrovi in Voi ogni sapore ed ogni soavità, affinché per 1′ avvenire nient’altro abbia a desiderare fuori di Voi.

Dimitte nobis debita nostra.

Perché non abbia la vostra grazia a trovar alcun impedimento a diffondersi sopra di me togliete prima, o Signore, dall’anima mia tutto quello che vi dispiace. Perdonatemi tutti i peccati da me commessi in tutto il tempo della mia vita, e purificatemi ancora dalle colpe le più leggere come voleste di vostra mano lavare i piedi agli Apostoli prima di ammetterli al banchetto del vostro Corpo sacramentale.

Sicut et nos dimìttimus debitoribus nostris.

E per impegnarvi sempre più a perdonarmi tutti i miei falli, io rimetto adesso per sempre nelle vostre mani tutti i torti ricevuti dai miei fratelli, e vi supplico a dimenticarli, com’io desidero che Voi vi scordiate de’ miei; anzi, date a’ miei offensori tanto di bene quanto essi di male mi hanno fatto, oppure desiderato. Io amo e protesto di voler amare sempre tutti i miei prossimi come me stesso; quindi desidero loro quel bene che desidero per me.

Et ne nos inducas in tentationem.

Finora mi sono lasciato dominare dalle passioni più vergognose cedendo alle tentazioni de’ miei nemici; ma, venuto che Voi sarete dentro di me, non sarà più così, io non asseconderò più i desideri della carne, ma la terrò soggetta allo spirito colla continua mortificazione di tutti i miei sentimenti. Riguarderò come sterco tutte le pompe del mondo, e sprezzerò coraggioso tutte le sue dicerie per vivere una vita sempre conforme ai vostri divini insegnamenti. Rigetterò prontamente tutte le suggestioni del demonio per obbedire soltanto a voi che siete l’unica sorgente di ogni bene temporale ed eterno.

Sed libera nos a malo. Amen.

Ah! Gesù mio non permettete che l’anima mia sia un’altra volta occupata da’ miei nemici dopo essere stata santificata, dalla vostra visita sacramentale. Liberatemi da tutto quello che potrebbe cagionarmi un male così grave. Fissate nel mio cuore la vostra stanza, e non ve ne partite mai più. Lo so che è troppo vile abitazione per voi: ma la vostra venuta la renderà gloriosa. Per il gusto che avete di trattare coi figliuoli degli uomini, per il desiderio che vi arde di santificare tutti i cuori, per l’amore e per la gloria che dalla vostra venuta in me risulterà a Voi, al Padre eterno, allo Spirito Santo e a tutta la Corte celeste; ascoltate le mie preghiere ed esauditemi. Maria ss., Angelo mio Custode, Santi tutti del cielo, e specialmente voi miei Avvocati e Protettori, intercedete per me. Così sia.

APPARECCHIO V.

A Gesù come Giudice

Signore di tremenda maestà, che giustamente ci condannate per i nostri delitti, e benignamente ci salvate per la vostra pietà, che sarà di me, se mi vorrete giudicar con rigore? Sebbene nascosto sotto il velo lo del pane, Voi avete osservate le mie iniquità, ne sapete il numero, ne conoscete il peso, e però, dove potrò mai fuggire per ritrovare salute? Non posso ricorrere ad altri che a Voi, che solo potete perdonare tutti i miei debiti. Ricordatevi che finora non avete preso le parti di giudice, ma siete mio avvocato presso del Padre. Su dunque, mostrategli le vostre piaghe, mentre a queste m’appello, e mi tengo sicuro, se desse son quelle che sentenziano la mia causa. Gesù mio, pegno della mia redenzione, che nel Nome stesso mi prometteste salute, se Voi siete per me, chi sarà mai contro di me? I o dunque vorrei ricevervi per riacquistare coi vostri meriti la mia innocenza; ma temo di ricevervi perché son reso; quindi non posso far altro che implorar gli effetti della vostra misericordia. Venite in me con la pienezza della vostra luce e del vostro amore, affine di distruggere affatto la colpa, e salvare il colpevole che in Voi solo ripone tutta la sua confidenza.

A Gesù come medico.

O Gesù mio, Via, Verità e Vita di quest’anima peccatrice, come è possibile che, dopo esservi Voi stesso fatto mio medico, continuino ancora ad affliggermi tanti mali? Sono già scorsi tanti anni dacché mi venite sì spesso a visitare nel letto delle mie miserie, e mi porgete per rimedio il vostro santissimo Corpo, mi abbeverate al vostro preziosissimo costato, ed io non finisco mai di guarire. Ah, quanto è deplorabile  questa mia infermità che ha resistito fin adesso ad cura divina! Ma la vostra grazia è onnipotente, e può vincere ogni malattia, per quanto grave ed invecchiata; perciò io non voglio perdere la speranza che ho posta in voi. Venite dunque a sanarmi e  sarò sano; salvatemi e sarò salvo. Basta una sola vostra parola per tutto questo, ditela dunque, e sarà tolta al momento tutta la mia indegnità. Dite all’anima mia: Io sono la tua salute: Dic animæ meæ, salus tua ego sum. Quest’è la grazia che io vi chiedo per riavermi ad un colpo da tanti mali, e che io spero da un Signore così ricco, qual siete voi. Voi che invitate tutti al vostro seno, non rigetterete questa povera creatura che vi desidera: e se ci comandate che vi chiediamo tutte le grazie che ci abbisogna per la nostra salute, non rigetterete al certo quelle suppliche che io vi porgo. Questa speranza mi consola fra tante languidezze del mio spirito: e questa farà ch’io non rimanga mai confuso in eterno.

A Gesù come Sposo.

O Dio della purità, avanti a cui non sono mondo abbastanza né anche le stelle, sarò io tanto inconsiderato di accostarmi a voi con un cuore sì sordido, mentre so che vi pascete solo fra i gigli? Non ardisco di farlo. Ma, alzando dal fondo delle mie miserie i miei occhi verso di voi, vi ricordo che se io sono immondo, voi mi potete mondare: e se l’anima mia vi ha mancato di fede, voi la potete convertire in maniera che essa vi ami tanto quanto già vi tradì. Le sue colpe non possono far in modo che voi non siate sempre il suo sposo; e se ha consumato malamente la dote della vostra grazia ricevuta nel santo Battesimo, non ha però consumata la vostra misericordia, sicché ella non sia, come prima, infinita nel compatirmi. Eccone la fonte aperta in quel divinissimo sacramento, dove il mio cuore brama di abbeverarsi. Su dunque, amabilissimo mio Signore, unico e sommo mio bene, non mi negate la grazia vostra, non tenete più stretta la vostra mano; apritela sopra di me; riguardatemi con occhio amorevole; parlatemi al cuore. Già avete fatto il più sulla croce, fate ora no: e mentre ritorno a Voi, dolente delle mie passate infedeltà, ristabilite meco un nuovo accordo di pace, un nuovo sposalizio di fede e di carità, che non si disciolga mai più in eterno.

A Maria come Madre di Gesù Cristo

O Madre degnissima del mio Signore, che dalla grandezza inarrivabile della vostra dignità cavate motivi più forti per amare più teneramente i peccatori, voi che co1 divenir madre di Gesù Cristo diveniste ancor madre mia, e raddoppiaste quelle fiamme di carità che anche prima ardevano sì ferventi nel vostro seno, permettete che mi prostri davanti a voi, e pieno di confidenza nella vostra misericordia, implori il vostro soccorso. Io sono per ricevere quel Primogenito divino che consacrò alla salute dell’anima mia tutti i passi, tutti i momenti, tutte le pene della sua vita; ma il mio cuore è tuttora ripieno di affetti profani, di desideri terreni, e non ha nemmeno una scintilla di amore verso di voi e verso il vostro divin Figliuolo. Voi ottenetemi adunque quella mondezza, quella purità, quel fervore che sono necessari per accostarmi degnamente al santo altare. Confesso che non merito questa grazia, che merito ogni castigo, e che in cambio di nuovi favori, dovrei essere spogliato anche di tutto l’altro bene che ho ricevuto finora: ma appunto per questo, in una causa sì disperata, ricorro a voi che siete un’avvocata onnipotente. Già si è fatto il più, già il mio Redentore ha versato tutto il sangue per procurarmi ogni bene, non vi vuol altro se non mi sia applicato questo tesoro, ed una sola delle vostre parole a mio favore mi otterrà tutto. O Madre divina, mille e mille volte più che madre anche per noi, non vi lasciate vincere dalla mia malvagità, ma sopraffatela con la bontà del vostro cuore; ottenetemi il perdono di tutti i miei falli gravi e leggieri, fatemi entrare nel novero dei vostri veri devoti, e fate in modo che tanto ami il vostro e mio Dio per l’avvenire, quanto lo offesi per lo passato. Così,  liberato per vostra intercessione dal doppio male di colpa e di pena, mi accosterò con confidenza a cibarmi di quel pane misterioso che è la memoria della sua morte, la fonte di tutte le grazie, il preludio e la caparra della beata immortalità.

APPARECCHIO VI.

A Gesù come Re.

O Re dell’anima mia, che non contento di esservi così abbassato per me nella passione da comparire qual Re di burla, ora di nuovo abbassate la vostra grandezza fino ad apparire come pane; certo non è conveniente ch’io vi riceva sì spesso, perché  entrando voi nel mio cuore, entrate i n una sordida capanna, e chi vi alloggia è così rozzo che non sa dirvi una buona parola. Tuttavia, contentatevi almeno che io sospiri a Voi come a sommo mio Bene e mi basta. Voi siete il mio Signore sempre amabile, sempre benigno, sempre liberale verso di me e però anche da lontano potete comandare, e sarete obbedito. Mostrate quello che siete per gloria vostra; fatemi vostro servo fedele ora e per sempre;  sicché io non torni mai più a tradirvi. Voi che sostenete sui suoi cardini la terra, potete sostenere anche quest’anima sì incostante, e se vi siete riservato il dominio dei cuori, adesso potete esercitarlo con me, affinché non vi sia mai più ribelle, e da quegli Angeli che invisibilmente vi circondano impari ad ubbidirvi sino alla morte. Deh, Angeli santi, che fate ora la corte al mio e vostro Signore, intercedete per me. Si stabilisca per mezzo vostro la sua santa legge nel mio cuore: venga a me il suo regno, affinché, ora compagno vostro nel servirlo e nell’amarlo, sia fatto a suo tempo compagno vostro nel goderlo per sempre.

A Gesù come Pastore.

O Pastore delle anime nostre, che solo siete pastore buono perché solo siete il vero Dio, non fu ella già immensa la pietà vostra nel discendere che Voi faceste con la vostra incarnazione in questo deserto del mondo, affine di cercar noi pecorelle smarrite e ricondurle all’ovile? Eppure, non contento di tutto questo, Voi tante volte scendete dal cielo quante sono le Messe che si celebrano sopra la terra; e per esercitare più compitamente l’ufficio intrapreso, ci nutrite delle vostre carni, e ci abbeverate del vostro sangue. L’amor vostro però vi lodi, che solo vi può lodare abbastanza, e la cura che tenete delle anime nostre ve ne ringrazi come voi meritate. Ed oh, avessi ancor io un amore infinito per corrispondervi! Ma, sebbene io sia la più meschina delle vostre creature, bramo di aver quest’amore per meritar di ricevere il pascolo di vita che mi porgono le vostre carni immacolate sopra l’altare. Deh, non rimanga io privo di un sì grande ristoro! Voi solo siete quello che io desidero, amabilissimo, dolcissimo, ricchissimo mio Signore, unica sorgente d’ogni mio bene; non mi discacciate da voi ora che vi cerco, mentre mi cercaste con tanta premura quando io ne era lontano. Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle. Questo l’avete fatto sopra la croce; ora applicatemene la virtù; indirizzatemi Voi perché non erri; reggetemi perché  esca di strada; correggetemi paternamente quando ne avessi ad uscire ; datemi il vostro amore, e con questo son ricco abbastanza, né chiedo altro di più che di mantenerlo in eterno.

A Gesù come Redentore.

Amabilissimo mio Redentore, con quale eccesso di carità avete amata l’anima mia, mentre per riscattarla avete dato tutto il vostro sangue sopra la croce, ed ora, non contento neppur di tanto, mi offrite di nuovo questo medesimo prezzo sopra l’altare, affinché io paghi tutti i miei debiti alla divina giustizia e soddisfaccia pienamente per le mie colpe! Siate però lodato in eterno dalle vostre stesse misericordie, che solo vi possono riconoscere secondo il merito. Ma volete voi forse essere dato di nuovo in mano de’ peccatori con venire a visitarmi? Volete di nuovo esser riposto in una stalla, con entrare in questo cuore re sì lordo? Ah! per ora basta che voi veniate in me con la forza della vostra virtù, e per lei rompiate ad un tratto quei mali abiti inveterati che mi tengono schiavo. Ma, giacché voi lo volete, venite pure sacramentalmente a quest’anima così meschina. Vi invito con i sospiri, vi abbraccio con i desìderi, e prostrato a quei piedi divini che sono per me un altare di rifugio, vi supplico a fare in modo che Voi viviate sempre in me e che io viva sempre in Voi. Ben conoscete qual sia l’ostacolo che mi impedisce tanto gran bene qual è l’unirmi perfettamente a Voi per mezzo della carità; or bene, togliete voi questo ostacolo, e così fatevi compiutamente mio Salvatore. Ricordatevi che io sono vostra conquista, quindi doppiamente son vostro e perché mi avete creato, e perché mi avete redento. Come vostro adunque mi avete a riguardare; come vostro mi avete a difendere; ed io vi prometto di amarvi e di servirvi come Dio ed ogni mio bene, senza abbandonarvi mai più.

A Gesù come Santificatore.

O Dio infinitamente santo, che, per comunicare a noi misere creature la vostra santità, vi faceste già nostro esempio, ed ora vi fate nostro cibo, come ardisce di alzar gli occhi a voi un’anima così immonda qual è la mia? Io merito che tutte le vostre divine virtù si levino contro di me, mentre tutte le ho irritate con la mia vita perversa. Ma voi che siete la stessa bontà, potete ben vincere la mia malizia, e fare in modo che tanto vi imiti per l’avvenire, quanto mi sono dilungato da Voi per lo passato. Non vi vuole altro che uno sguardo dei vostri occhi divini per tutto questo, e però, me lo negherete Voi che con tanto amore offrite per me tutto il vostro sangue l’altare? Venite dunque, o mio Diletto, a visitarmi non solo con la vostra presenza, ma ancora con le vostre virtù e con la vostra grazia. Voi che me ne date desiderio, Voi esauditelo. Ricordatevi che a questo fine vi offerte ogni giorno in sacrificio per le mani dei sacerdoti, onde santificare in noi tutta la nostra natura. Fate adunque quello per cui vi siete mosso dal cielo. Lavate sempre più l’anima mia. Rendetela più candida della neve, affinché io mi disponga a ricevere quel che è promesso ai mondi di cuore, che è veder Voi per tutti i secoli.

Ritmo di S. Tommaso d’Aquino.

Vi adoro col più umile rispetto, o Divinità nascosta sotto il velo di questo divin Sacramento. A voi tutto il mio spirito si sottomette, perché tutto interamente s’inabissa nella considerazione delle vostre meraviglie. I miei occhi, la mia lingua, le mie mani c’ingannano: ma ciò che i miei orecchi hanno udito da voi assicura la mia fede. Credo tutto ciò che voi vi avete rivelato: non vi ha cosa più certa di ciò che dite Voi, che siete l’istessa verità. Sulla croce la divinità sola era nascosta: in questo sacramento vi è nascosta anche la umanità. Io pertanto credo che entrambe vi sono; né altra ricompensa vi chiedo alla mia fede che quella che per la sua vi chiese il buon ladrone. Non cerco di vedere le vostre piaghe per confessare che siete il mio Dio: fate che in voi vieppiù creda; che in voi collochi tutta la mia speranza, che vi ami con tutto il mio cuore. O sacra rimembranza della morte del mio Salvatore! Pane vivo che date la vita agli uomini, siate il nutrimento dell’anima, e formate per sempre le sue delizie. Caro Gesù, che ora ricevo velato, fate finalmente che io vi vegga a faccia scoperta, e vi goda per sempre nella vostra gloria. Così sia.

[Continua …]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: PROVIDENTISSIMUS DEUS di S.S. LEONE XIII

Nel percorso che ci siamo proposti nell’esaminare i documenti magisteriali riguardanti la Sacra Scrittura, leggiamo una lettera enciclica fondamentale, riferimento costante e cardine roccioso di successivi documenti e di riferimenti dottrinali di certezza assoluta. Data la lunghezza del documento, preferiamo introdurci subito alla lettura dello stesso, ove dettagliati sono gli argomenti a sostegno della ispirazione divina delle Scritture, della sua inerranza, della necessità di studi accurati delle lingue semitiche, della scelta degli insegnanti nei seminari, e i riferimenti agli errori più comuni degli avversari di Dio e della Chiesa, i protestanti e i razionalisti. Oggi poi è un’epoca in cui ogni “cretino”, ignorante e borioso, solo perchè ha spulciato qualche frammento o condivide i giudizi strampalati di censori preconcetti, derivati per lo più dalla feccia massonica e kazara [… sì, anche quella pseudo-ecclesiastica dei finti-consacrati], si sente in diritto di sindacare ed obiettare in pratica a tutta la Scrittura, senza sapere cosa dice e con argomentazioni spesso ridicole ed insulse. È pertanto indispensabile che i Cattolici si attengano rigidamente alle indicazioni dei Concili e dei Pontefici, per trovare un’ancora sicura e una certezza irremovibile nei confronti, oltre che dei noti nemici già citati, anche dei modernisti apostati della falsa chiesa dell’uomo, ecumenista, relativista e gnostica, dove per confondere al meglio lo sbigottito fedele [in pratica un infedele di fatto!], si dice tutto ed il contrario di tutto rivestendolo con la maschera di una falsa e satanica ermeneutica. Allora coraggio, occorre resistere per conservare la fede e giungere indenni alla fine della corsa, per conquistare il premio promesso dal Cristo. In ogni dubbio, si consulti il Sacro Magistero della Chiesa e la dottrina sicura da esso scaturente, senza timore di errare, e resistendo in faccia agli asini raglianti, ai cani muti, ai porci grassi, voluttuosi e libidinosi che affettano sapienza falsa e contradditoria.


Leone XIII
Providentissimus Deus

Lettera Enciclica

Il Dio provvidentissimo che, nell’ammirabile disegno del suo amore, innalzò sin dal principio il genere umano a essere partecipe della divina natura e che poi, tràttolo dalla colpa e dalla rovina comune, ristabilì nella primitiva dignità, gli conferì per questo un singolare aiuto, per manifestargli in modo soprannaturale i misteri della sua divinità, della sua sapienza e della sua misericordia. Sebbene infatti nella divina rivelazione siano comprese anche cose non inaccessibili all’umana ragione, e tuttavia rivelate agli uomini “perché si potessero da tutti conoscere con più prontezza, con ferma certezza e senza mescolanza di errori, non per questo però si può affermare che la rivelazione sia assolutamente necessaria, ma perché Dio, nella sua infinita bontà, ordinò l’uomo ad un fine soprannaturale“. Questa “rivelazione soprannaturale, secondo la fede universale della Chiesa“, è contenuta sia “nelle tradizioni non scritte“, sia anche “nei libri scritti” che vengono chiamati sacri e canonici, perché, “essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati affidati alla chiesa“. Questo certamente, riguardo ai libri dell’uno e dell’altro Testamento sempre ha ritenuto e apertamente professato la Chiesa: ben noti sono gli importantissimi documenti antichi, nei quali si afferma che Dio, il quale parlò prima per mezzo dei profeti, poi Egli stesso e quindi per bocca degli Apostoli, è anche autore delle Scritture che sono chiamate canoniche, e che sono oracoli e locuzioni divine, una lettera inviata dal Padre celeste trasmessa per mezzo degli autori sacri al genere umano, peregrinante lontano dalla patria. Essendo quindi così grande l’eccellenza e la dignità delle Scritture da rivendicare quale autore lo stesso Dio, e contenendo i suoi altissimi misteri, disegni e opere sue, ne consegue che anche quella parte della sacra teologia, che riguarda la difesa e l’interpretazione dei Libri divini, è di un’eccellenza e utilità grandissima.

Parte 1

UTILITA’ MULTIFORME DELLA S. SCRITTURA E STIMA CHE SEMPRE NE EBBE LA CHIESA

Noi quindi, come curammo, non senza frutto. con l’aiuto di Dio, di far progredire, con frequenti lettere ed esortazioni, alcuni altri generi di discipline che sembravano poter molto giovare all’incremento della gloria divina e alla salvezza del genere umano, così già da lungo tempo pensavamo di spronare e raccomandare questo studio altissimo delle sacre Lettere e dirigerlo anche più conformemente alle necessità dei tempi presenti. Ci sentiamo mossi e spinti dalla sollecitudine del nostro ufficio apostolico non solo a desiderare che in modo sempre più sicuro e abbondante si renda manifesta, per l’utilità dei gregge del Signore, questa fonte della rivelazione cattolica, ma ci sentiamo anche spinti a non tollerare che venga violata in alcuna parte da coloro che con empia audacia inveiscono apertamente contro la sacra Scrittura, o tramano a suo danno ingannevoli o imprudenti innovazioni. – La Scrittura è divinamente ispirata.

Non ignoriamo, venerabili fratelli, come fra i cattolici non pochi siano gli uomini d’ingegno e di dottrina che si adoperano alacremente sia per la difesa dei Libri divini, sia per contribuire ad una più ampia cognizione e intelligenza dì essi. Mentre elogiamo grandemente la loro opera e i loro frutti, non possiamo fare a meno, tuttavia, di esortare vivamente a meritare l’elogio di così santo scopo anche tutti coloro la cui solerzia, dottrina e pietà ottimamente promettono in questo campo. Vivamente desideriamo e bramiamo che molti rettamente intraprendano e costantemente si occupino della difesa delle divine Lettere e che quelli, soprattutto, che la divina grazia chiamò al sacri ordini, si applichino ogni giorno con diligenza e solerzia sempre maggiori nel leggerle, meditarle e spiegarle, come è loro preciso dovere. – La ragione per cui tanto sembra da raccomandarsi questo studio, a parte la sua eccellenza e l’ossequio dovuto alla parola divina, sta nella molteplicità dei vantaggi che sappiamo dovranno derivarne, secondo l’infallibile promessa dello Spirito Santo: “Ogni Scrittura divinamente ispirata è utile a insegnare. a redarguire, a correggere, a educare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto e pronto ad ogni opera buona” (2Tm III, 16-17). Che le Scritture siano state date certamente da Dio agli uomini a tal fine, lo dimostrano gli esempi del Cristo Signore e degli apostoli. Gesù, infatti, che “con i miracoli si conciliò l’autorità e con l’autorità si acquistò la fede e con la fede attrasse la moltitudine“, soleva, nell’ufficio dei suo divino mandato, appellarsi alle sacre Scritture. Infatti quando gli si offre l’occasione, prova con le sacre Scritture di essere stato mandato da Dio, e si proclama Dio; da esse prende gli argomenti per ammaestrare ì suoi discepoli e per confermare la sua dottrina; da esse rivendica testimonianze contro le calunnie dei suoi denigratori e le oppone, per redarguirli, ai sadducei e ai farisei, e le ritorce anzi contro lo stesso satana che impudentemente osa tentarlo. Di esse si servi anche alla fine della sua vita, e, risuscitato, le spiegò ai discepoli, sino a che ascese alla gloria del Padre. – Ammaestrati dalla sua parola e dal suoi precetti, gli Apostoli, sebbene Gesù concedesse che “segni e prodigi si operassero per mano loro” (At XIV,3), grande efficacia traevano tuttavia dai Libri divini, per diffondere largamente tra le genti la sapienza cristiana, per infrangere la pertinacia dei giudei e per soffocare le eresie nascenti. Ciò appare apertamente dai loro stessi discorsi, primo fra tutti quello del beato Pietro, che composero quasi interamente con detti dell’Antico Testamento, come fermissima prova della nuova legge. E ciò è pure dimostrato dai vangeli di Matteo e Giovanni, e dalle lettere cosiddette cattoliche; molto chiaramente, poi, appare dalla testimonianza di colui che “si gloria di aver appreso la legge di Mosè e profeti ai piedi di Gamaliele, da poter poi, come armato di armi spirituali, fiduciosamente affermare: Le armi della nostra milizia non sono carnali, ma ogni nostra potenza ci viene da Dio“.

La Scrittura e la predicazione

Per mezzo dunque degli esempi del Cristo Signore e degli apostoli, comprendiamo tutti, e specialmente i novizi della sacra milizia, quanto siano da tenersi in conto le Lettere divine, e con quale diligenza e con quale pietà debbano accedere allo studio di esse come ad un arsenale. Per coloro, infatti, che abbiano da trattare la dottrina della verità cattolica, sia presso i dotti come gli indotti, nessun altro luogo, più delle Scritture, offre numerose e più ampie testimonianze su Dio, sommo e perfettissimo bene, e sulle sue opere, che manifestano la gloria e l’amore di lui. Riguardo poi al Salvatore del genere umano, nulla vi è di più eloquente e più evidente delle testimonianze contenute in tutto il contesto della Bibbia, onde Girolamo giustamente poteva affermare che “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza del Cristo“. Dalla Scrittura, infatti, balza viva e palpitante l’immagine di lui, dal quale sì diffonde. in un modo del tutto meraviglioso, la liberazione dal male, l’incitamento alle virtù, l’invito all’amore divino. Per ciò che riguarda la chiesa, e cioè la sua istituzione, la sua natura, le sue funzioni, i suoi carismi, tanto spesso se ne fa menzione nelle Scritture, e tanto numerosi si trovano in essa gli argomenti fermi ed evidenti a suo favore, da far esclamare giustamente san Girolamo: “Colui che è corroborato da testimonianze delle sacre Scritture, questi è certamente un potente baluardo per la chiesa“. Che se poi si cercassero norme di disciplina di vita e di costumi, abbondanti e ottimi sussidi troveranno in essa gli uomini apostolici: prescrizioni piene di santità, esortazioni condite di soavità e di forza, insigni esempi per ogni genere di virtù. A tutto ciò si aggiunge un’autorevolissima promessa e una minaccia, fatte nel nome e con le Parole dello stesso Dio, di premi o di pene per l’eternità. – E questa virtù propria e singolare delle Scritture, che viene dalla divina ispirazione dello Spirito Santo, è quella che conferisce autorità all’oratore sacro, offre l’apostolica libertà di parole, dona vigorosa e vittoriosa eloquenza. Chi, infatti, nel predicare comunica lo spirito e la forza del Verbo divino, “non predica soltanto a parole, ma anche nella virtù e nello Spirito Santo e in molta pienezza” (1Ts 1,5). Si può dunque affermare che agiscono senza ordine e improvvidamente coloro che tengono prediche sulla religione ed enunciano precetti divini servendosi quasi esclusivamente di parole di scienza e di prudenza umana, appoggiandosi più su argomenti propri che non su quelli divini. Di conseguenza tali prediche, per quanto appoggiate sullo splendore dello stile, riescono fiacche e fredde, perché mancanti del fuoco della parola di Dio (Ger XXIII,29): ben lontane quindi da quella forza di cui essa è ricca: “La parola di Dio, infatti, è viva ed efficace e più affilata di qualunque spada a doppio taglio e penetra fino alla divisione dell’anima e dello spirito” (Eb IV,12). Quantunque anche i più saggi debbano ammettere che si trova nelle sacre Scritture una mirabile, varia e copiosa eloquenza degna di cose grandi – cosa che sant’Agostino vide chiaramente e dimostrò eloquentemente -, tuttavia ciò è confermato anche dall’esperienza stessa dei più eccellenti oratori sacri, i quali, grati a Dio, ebbero ad affermare di dover la loro fama soprattutto all’assiduo uso e pia meditazione della Bibbia. – I santi padri, avendo sperimentato molto bene tali cose, sia speculativamente che praticamente, mai cessarono dal lodare e le divine Lettere e i loro frutti. Le chiamano, in vari loro scritti, tesoro ricchissimo delle celesti dottrine, fonti perenni di salvezza, o le presentano quali campi fertili e ameni orti, nei quali il gregge del Signore viene mirabilmente ristorato e ricreato. Viene qui opportuno ricordare le raccomandazioni di san Girolamo al chierico Nepoziano: “Leggi spesso le divine Scritture, mai, anzi, la lettura sacra venga deposta dalle tue mani; apprendi ciò che insegni… ; il parlare del prete sia condito dalla lettura delle Scritture“. E qui viene opportuna la sentenza di san Gregorio Magno, il quale descrisse più sapientemente di ogni altro i compiti dei pastori della chiesa: “E necessario“, egli dice, “che coloro che hanno l’ufficio della predicazione non tralascino mai lo studio della sacra lettura“.  – Ci piace ancora ricordare sant’Agostino che ammonisce: “E‘ vuoto quel predicatore che non sia intimo discepolo della parola di Dio“, e lo stesso Gregorio che mette in guardia gli oratori sacri “affinché nelle sacre predicazioni, prima di predicare agli altri, pensino a se stessi, perché non succeda che badando agli altri si dimentichino di sé“. Tale norma però, sull’esempio e sull’insegnamento del Cristo, che “Incominciò prima a fare e poi a insegnare” (At 1,1). già era stata ampiamente inculcata dall’apostolo, che rivolse non a Timoteo soltanto, ma a tutto l’ordine dei chierici questo precetto: “Attendi a te e all’insegnamento e persevera in queste cose, perché così facendo tu salvi te stesso e quelli che ti ascoltano” (1Tm IV,16). Nelle sacre Lettere sono veramente offerti aiuti preziosi per la salvezza e perfezione propria e altrui, illustrati più abbondantemente nel Salmi; tuttavia, per coloro che prestano alla parola divina non soltanto una mente docile e attenta, ma anche una volontà abitualmente integra e pia. Non si deve infatti stimare il valore di tali libri alla stregua degli altri: poiché essi, essendo ispirati dallo Spirito Santo, e contenendo cose importantissime, e in molti punti recondite e assai difficili, per comprenderle e spiegarle sempre “abbiamo bisogno dell’intervento” dello stesso Spirito e cioè del suo lume e della sua grazia. Tali mezzi, come con frequente insistenza ammonisce l’autorità del divino Salmista, dobbiamo implorare con umile preghiera e custodire in noi con la santità della vita. – Da tutte queste cose appare quindi egregiamente la provvidenza della chiesa, la quale, “affinché non giacesse trascurato il tesoro dei sacri Libri, che lo Spirito Santo con somma liberalità donò agli uomini“, in ogni tempo vi provvide con ottime istituzioni e leggi. Essa infatti stabilì non solo che tutti i suoi ministri avessero l’obbligo di leggerne e meditarne pia mente gran parte nell’ufficio quotidiano, ma anche che venisse spiegata e commentata, per mezzo di uomini idonei, nelle chiese cattedrali, nei monasteri, nei vari conventi degli altri regolari, nei quali possano convenientemente fiorire gli studi; e ordinò che almeno nel giorni di domenica e nelle feste solenni i fedeli venissero nutriti, in modo a loro conveniente, con le salutari parole dell’evangelo. E così si deve pure alla saggezza e sollecitudine della chiesa il culto della sacra Scrittura, vivo in ogni tempo e fecondo di grandi vantaggi.

Le antiche scuole di sacra Scrittura

Giova qui far notare, anche per confermare sempre più le nostre testimonianze e le nostre esortazioni, come sin dagli inizi della religione cristiana, tutti coloro che eccelsero per santità di vita e di opere e per scienza delle cose divine furono sempre assidui nella lettura delle sacre Lettere. Vediamo gli immediati discepoli degli apostoli, tra i quali Clemente Romano, Ignazio d’Antiochia, Policarpo; gli apologisti e nominatamente Giustino ed Ireneo, che nelle loro epistole e libri, sia che difendano sia che celebrino i dogmi cattolici, attingono specialmente dalla sacra Scrittura tutta la loro sicurezza, la forza e ogni grazia. Sorte poi le scuole catechetiche e teologiche in molte sedi episcopali, tra cui celebri l’Alessandrina e l’Antiochena, non si aveva in esse quasi altra istituzione di studi se non quelle che riguardavano la lettura, l’esposizione, la difesa della parola divina scritta. Da tali scuole vennero poi fuori molti Padri e scrittori, dei cui laboriosi studi ed egregi libri abbondarono a tal punto i tre secoli segnati, da essere a buon diritto chiamati l’età aurea dell’esegesi biblica.

Orientali e Occidentali

Tra gli Orientali tiene il primo posto Origene, mirabile per la prontezza d’ingegno e per la costanza nella fatica: dai suoi numerosi scritti e dall’immensa opera degli Esapla attinsero quasi tutti i posteri. Sono pure da annoverare coloro che ampliarono i confini di tale disciplina: tra i più eccellenti della scuola alessandrina abbiamo Clemente e Cirillo; dalla Palestina Eusebio e l’altro Cirillo; dalla Cappadocia Basilio Magno e l’uno e l’altro Gregorio, il Nazianzeno e il Nisseno; da Antiochia il famoso Giovanni Crisostomo, in cui gareggiavano grande perizia di dottrina e somma eloquenza. Non meno illustri sono gli Occidentali. Tra i molti che grandemente si segnalarono, nomi celebri sono quelli di Tertulliano e Cipriano, di Ilario e Ambrogio, di Leone Magno e Gregorio Magno; celeberrimi quelli di Agostino e Girolamo, dei quali l’uno fu sommamente acuto nel penetrare il senso della parola divina ed espertissimo nel farla servire alla verità cattolica, l’altro fu onorato dal singolare riconoscimento della chiesa col titolo di dottore massimo per la scienza dei Libri sacri e per le grandi fatiche sostenute per la conoscenza di essi. – Da questo tempo fino al secolo XI, tale genere di studi, benché non fiorisse con pari ardore e non desse i frutti di prima, tuttavia fu in auge per opera soprattutto di uomini ecclesiastici. Essi curarono infatti o di scegliere quegli insegnamenti più utili, come gli antichi li lasciarono, e, una volta convenientemente ordinati, di divulgarli con l’aggiunta di propri commenti, come fu fatto in primo luogo da Isidoro di Siviglia, da Beda, da Alcuino; o di illustrare i sacri codici con glosse, come fece Valafrido Strabone e Anselmo di Laon; o infine di salvaguardarne con rinnovata sollecitudine l’integrità, come fecero Pier Damiani e Lanfranco. – Nel secolo XII poi molti si occuparono lodevolmente dell’esposizione allegorica della Scrittura: in questo genere eccelle tra gli altri san Bernardo, i cui sermoni ridondano quasi esclusivamente delle divine Lettere.

Periodo scolastico

Ma nuovi e consolanti incrementi vennero ad aggiungersi col metodo degli Scolastici. Questi, sebbene abbiano cercato di investigare la lezione genuina della versione latina, come lo attestano chiaramente i loro Correttori biblici, tuttavia indirizzarono maggiormente i loro studi e le loro cure all’interpretazione e spiegazione delle Scritture. Furono distinti infatti, con un’arte e con una chiarezza, come non mai per l’innanzi, i vari sensi delle sacre parole, e soppesata di ognuno l’importanza nella scienza teologica; furono definite le parti dei libri, gli argomenti delle parti; furono investigati i fini degli scrittori, spiegati il nesso e i rapporti tra le varie proposizioni: considerate tali cose, è chiaro che nessuno potrebbe negare che molta luce si è fatta in tal modo sui passi oscuri. E quanto abbondante e scelta fosse la loro dottrina sulle Scritture, ce lo manifestano pure ampiamente sia i libri di teologia, sia i commenti alle medesime Scritture; e anche sotto questo riguardo ebbe tra essi il primo posto san Tommaso d’Aquino.

Le università degli studi

Dopo che Clemente V, nostro predecessore, ebbe dotato l’ateneo dell’Urbe e le più celebri università degli studi di cattedre di lettere orientali, i nostri studiosi incominciarono a lavorare molto più accuratamente sui codici originali della Bibbia e sull’esemplare latino. Con il ritorno, in seguito, tra noi dell’erudizione greca e molto più con la felice invenzione della nuova arte della stampa, grandemente si accrebbe il culto della sacra Scrittura. E’ cosa mirabile, infatti, come in sì breve tempo si siano tanto moltiplicati con la stampa i sacri testi, specialmente la Volgata, da riempire quasi l’orbe cattolico, così che, proprio nel tempo in cui i nemici della chiesa la calunniano, i divini volumi sono però onorati ed amati. – E neppure si deve passare sotto silenzio quali vantaggi nella scienza biblica abbia apportato il grande numero degli uomini dotti, appartenenti specialmente a famiglie religiose, dal concilio di Vienne al Tridentino. Essi, infatti, servendosi dei nuovi mezzi, e portando essi stessi il contributo della loro molteplice erudizione e del loro ingegno, non solo accrebbero il patrimonio accumulato dagli antichi, ma prepararono quasi la via alla preminenza del secolo seguente. che scaturì dallo stesso concilio Tridentino, allorché sembrò quasi ritornare la grande età dei Padri. Nessuno infatti ignora, e ci è gradito ricordarlo, come i nostri predecessori, da Pio IV a Clemente VIII, fossero i promotori di quelle insigni edizioni delle antiche versioni, della Volgata e dell’Alessandrina, che poi, pubblicate per ordine e con l’autorità di Sisto V e dello stesso Clemente, si trovano ancor oggi nell’uso comune. E’ noto come nello stesso tempo siano state edite con la massima diligenza sia le altre antiche versioni della Bibbia, sia la poliglotta di Anversa e quella di Parigi, adattissime per un’accurata investigazione del senso; né vi era alcun libro dell’uno e dell’altro Testamento che non vantasse ben più di un valente interprete, o qualche grave questione, attorno cui non si fossero affaticati assai proficuamente molti uomini d’ingegno, tra i quali, non pochi. soprattutto tra i più esperti studiosi dei santi Padri, acquistarono un nome illustre. Né a partire da questo tempo lasciò a desiderare la solerzia dei nostri, poiché valenti uomini, di quando in quando, ben meritarono in tali studi, difendendo le sacre Lettere contro le avverse dottrine del razionalismo, tratte dalla filologia e da altre discipline affini, con simile genere di argomenti. – Tutte queste cose provano, a chi ben le considera, come la chiesa non sia mai venuta meno al suo compito di tramandare in modo salutare le fonti della divina Scrittura ai propri figli, e come abbia conservato perennemente la sua posizione di presidio nella quale venne divinamente posta per la tutela e il decoro delle stesse e come l’abbia consolidata provvedendola di ogni genere di studi, di modo che non ebbe mai bisogno e non abbisogna di incitamenti di estranei nell’adempimento del suo compito.

Parte II

ORDINAMENTO ATTUALE DEGLI STUDI BIBLICI

Avversari ed errori

Ormai l’argomento che ci siamo proposti di trattare richiede che Noi, venerabili fratelli, vi comunichiamo tutte quelle norme che sembrano più opportune per rettamente ordinare tali studi. Ma tornerà certamente utile conoscere qui, fin dall’inizio, quale genere di avversari si accaniscano in questa lotta e in quali artifici o armi confidino. – E manifesto come la lotta dovette prima essere sostenuta con coloro che, basandosi sul proprio giudizio privato e ripudiando le tradizioni divine e il magistero della Chiesa, asserivano essere la Scrittura l’unica fonte della rivelazione e il supremo arbitro della fede. Ora la lotta è con i razionalisti, i quali, quasi figli ed eredi dei primi, basandosi parimenti sul proprio giudizio, ripudiano nel modo più assoluto persino questi stessi elementi della fede cristiana ricevuti dal padri. Essi infatti negano del tutto sia la divina rivelazione, come l’ispirazione e la sacra Scrittura, e vanno dicendo che altro non sono se non artifici e invenzioni degli uomini, che non contengono vere narrazioni di cose realmente accadute, ma inutili favole o storie menzognere; così non abbiamo in esse vaticini od oracoli, ma soltanto predizioni fatte dopo gli eventi o presagi di intuito naturale; non presentano veri e propri miracoli e manifestazioni della potenza divina, ma si tratta o di fatti meravigliosi, mai però superiori alle forze della natura, o di magie e miti. I vangeli poi e gli scritti apostolici sono certamente, dicono. da attribuirsi ad altri autori. – Siffatti gravi errori, con i quali credono di distruggere la sacrosanta verità dei Libri divini, li presentano come sentenze decisive di una certa nuova scienza libera, sentenze che riescono però così incerte a loro stessi, tanto da dover mutare e sostituire ben spesso le loro opinioni su identiche questioni. Non mancano tra questi taluni che, pur essendo e parlando tanto empiamente di Dio, del Cristo, dell’Evangelo, e del resto della sacra Scrittura, vorrebbero tuttavia passare per teologi, cristiani ed evangelici, cercando così di coprire sotto un nome specioso la temerarietà di un insolente ingegno. A costoro si aggiungono non pochi studiosi di altre discipline, che condividono le idee dei primi e li aiutano, e che la stessa intolleranza per le verità rivelate induce similmente ad avversare i Libri sacri. Non potremo mai deplorare abbastanza come questa lotta vada ogni giorno più estendendosi e facendosi sempre più accanita. Viene mossa a danno di uomini valenti ed eruditi, sebbene non trovino questi grande difficoltà a difendersene; ma soprattutto i nemici si volgono accanitamente, con ogni studio e mezzo, verso il popolo indotto. Spargono il loro veleno esiziale con libri, opuscoli e quotidiani; lo insinuano nelle adunanze, nei discorsi: hanno ormai pervaso ogni campo, e tengono nelle loro mani molte scuole di giovani, sottratte alla tutela della chiesa, in cui si corrompono miseramente le ancor credule e docili menti e si spingono al disprezzo delle Scritture, anche ricorrendo al ludibrio e agli scherzi osceni. – Questi sono i fatti, venerabili fratelli. che debbono scuotere, infiammare il nostro zelo pastorale. così che a questa che è “falsamente chiamata scienza” (1Tm VI,20) nuova, si opponga l’antica e la vera, quella che la chiesa ricevette da Cristo per mezzo degli apostoli, e sorgano in questa immane lotta idonei difensori della sacra Scrittura.

Scelta dei docenti

Sia dunque questa la prima cura, che nei seminari o accademie si impartisca l’insegnamento delle divine Lettere così come lo richiedono e l’importanza della materia stessa e la necessità dei tempi. A questo fine, nessun’altra cosa deve stare più a cuore della prudente scelta dei docenti: a questo ufficio, infatti, non si tratta di assumere qualcuno tra i molti, ma uomini tali, che un grande amore e una diuturna consuetudine con la Bibbia e un’adeguata dottrina raccomandino, all’altezza cioè di tale ufficio. Né meno tempestivamente bisogna considerare chi debba in seguito loro succedere. Gioverà perciò, ove lo si possa, che, tra gli alunni di ottime speranze, ve ne siano alcuni i quali, espletato lodevolmente il corso di teologia, si consacrino totalmente al Libri divini, e venga loro data la possibilità di dedicarsi per un certo tempo ad uno studio più profondo di essi. E così una volta scelti e formati, in qualità di dottori assumano con sicurezza l’ufficio loro affidato; e affinché in esso si trovino ottimamente e ne traggano convenienti frutti, vogliamo impartir loro più ampi ammaestramenti. – Curino pertanto di preparare le menti dei discepoli, fin dal principio degli studi, in modo da formare e coltivare in essi con grande diligenza una mentalità atta, in pari tempo, e a difendere i Libri divini e a cogliere il senso di essi. A questo mira il cosiddetto trattato di introduzione biblica, nel quale il discepolo trova un opportuno sussidio per dimostrare l’integrità e l’autorità della Bibbia, per investigare e trovarne il senso genuino, per impossessarsi delle obiezioni cavillose e stroncarle alla radice. Di quanta importanza sia l’aver fin dall’inizio trattato di queste cose ordinatamente e appositamente, col sussidio e l’aiuto della teologia, è appena necessario dirlo, dal momento che tutta la restante trattazione della Scrittura si appoggia di continuo su questi fondamenti e viene illuminata da questi principi chiarificatori. – L’opera quindi del precettore deve volgersi con molto zelo alla parte più fruttuosa di questa scienza e cioè a quella dell’interpretazione, affinché i discepoli siano ammaestrati nel modo di volgere le ricchezze della parola divina al progresso della religione e della pietà. Comprendiamo certamente l’impossibilità di esporre tutta la Scrittura nelle scuole, sia per la vastità della materia che per mancanza di tempo. Tuttavia, poiché è necessario seguire una via sicura per ottenere una fruttuosa interpretazione, sappia il saggio maestro evitare l’uno e l’altro inconveniente: sia quello di coloro che appena possono gustare di passaggio qualcosa dei singoli libri, sia quello di coloro che si fermano oltre il conveniente su una determinata parte di un libro solo. Se infatti in molte scuole non si potrà ottenere ciò che si ottiene nelle accademie maggiori, e cioè che venga esposto l’uno o l’altro libro con una certa continuità e abbondanza, bisogna però curare in ogni modo che le parti dei libri scelte per l’interpretazione abbiano una trattazione convenientemente completa, di modo che i discepoli incitati e ben ammaestrati da questo saggio, studino poi da se stessi le altre parti e vi provino gusto in ogni momento della loro vita. Il docente, inoltre, attenendosi alla costante tradizione del passato, adotterà come esemplare la versione Volgata, che il concilio Tridentino decretò doversi ritenere “autentica sia nelle pubbliche lezioni, come nelle dispute, predicazioni ed esposizioni“, e che anche la costante consuetudine della chiesa raccomanda. Dovrà tuttavia tenere anche nel debito conto le altre versioni, che la cristianità antica elogiò e di cui si servì, e specialmente i codici primitivi. Quantunque, infatti, per ciò che riguarda l’essenziale, le parole della Volgata rendano bene il senso dell’ebraico e del greco, tuttavia se un qualche punto riuscisse un po’ oscuro o fosse stato tradotto meno accuratamente, gioverà, come avverte sant’Agostino, “l’esame accurato della lingua originale“. E’ evidente, del resto, quanta perizia e accuratezza occorra in questo, essendo infatti “compito del commentatore non esporre idee personali, ma quelle dell’autore che sta interpretando“.  – Dopo aver soppesato, ove sia necessario, con ogni industria la lezione, si passerà ad esaminare e a esporre i sensi. Primo consiglio è che si osservino le prescrizioni comunemente approvate per l’interpretazione e con cura tanto più sollecita quanto più gli avversari si mostrano tenaci nel tener desta la contesa. E perciò allo studio per soppesare quale sia il valore delle parole in se stesse, cosa significhi la concatenazione delle varie realtà, la somiglianza dei luoghi e le altre considerazioni simili, si aggiunga ancora la delucidazione di elementi esterni risultante da una conveniente erudizione. Si badi però a non dedicare a siffatte questioni più tempo e fatica, che non per conoscere più a fondo i Libri divini, e non avvenga che le molte e affastellate cognizioni siano alle menti dei giovani più di ostacolo anziché di aiuto.

Scrittura e teologia

Da questo punto, sicuro sarà il passaggio all’uso della divina Scrittura in teologia. Occorre a questo proposito tenere presente che, oltre alle altre cause di difficoltà che per lo più s’incontrano nell’interpretazione di qualsiasi libro antico, qui se ne aggiungono alcune proprie dei Libri sacri. Trattandosi infatti di libri il cui autore è lo Spirito Santo, molte cose vi sono in essi che superano di gran lunga la forza e l’acume della ragione umana, i divini misteri cioè, e molte altre cose contenute insieme con questi, e per di più talvolta con un senso ben più ampio e recondito di quanto non sembri esprimere la parola o indicare le leggi dell’ermeneutica, e certamente lo stesso senso letterale richiama poi altri sensi, sia per illustrare i dogmi, sia per raccomandare precetti di vita pratica. Non bisogna perciò negare che i sacri Libri non siano avvolti da una certa religiosa oscurità, per cui nessuno può accedere ad essi senza una qualche guida: avendo così provvidamente disposto Dio, secondo l’opinione comune dei santi padri, affinché gli uomini si sentissero spronati a studiarli con maggior desiderio e diligenza e perché si imprimessero poi più profondamente nelle loro menti e nei loro animi quelle verità tanto laboriosamente acquistate, e perché comprendessero soprattutto che Dio affidò le Scritture alla chiesa, della quale debbono servirsi come di sicurissima guida e maestra nel leggere e trattare le sue parole. Infatti già s. Ireneo insegnava che si deve apprendere la verità là, ove sono posti i carismi del Signore, e che senza alcun pericolo vengono esposte le Scritture da coloro presso cui si trova la successione apostolica. Il concilio Vaticano abbracciò certamente la dottrina di questo e degli altri Padri quando, rinnovando il decreto tridentino riguardo l’interpretazione della parola divina scritta, “dichiarò essere tale il suo giudizio che nelle cose riguardanti la fede e i costumi appartenenti all’edificazione della dottrina cristiana, sia da ritenersi quale autentico senso della sacra Scrittura quello che tenne e tiene la santa Madre Chiesa, cui spetta giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sante Scritture; e che perciò non è permesso ad alcuno interpretare la stessa sacra Scrittura contro questo senso o anche contro l’unanime consenso dei Padri“.

Investigazione e interpretazione biblica

Con questa legge piena di sapienza la chiesa non intende in alcun modo ritardare o proibire l’investigazione della scienza biblica, anzi la preserva immune da errore e contribuisce grandemente al suo vero progresso. Un grande campo si apre infatti ad ogni maestro privato, in cui con passo sicuro potrà con la sua arte di interprete cimentarsi egregiamente e con utilità per la chiesa. Nei passi della divina Scrittura, ove si desidera ancora una interpretazione certa e definitiva, può in tal modo avvenire che, per un soave disegno del provvidente Dio, data la piena preparazione nel diligente studio, maturi il giudizio della chiesa. Nei passi poi già definiti il maestro privato può egualmente dare un contributo esponendoli più dettagliatamente al popolo fedele e più altamente ai dotti, o confutando brillantemente gli avversari. Per la qual cosa, sia principale e sacrosanto dovere dell’interprete cattolico. trattandosi di passi scritturali il cui senso è autenticamente dichiarato o per mezzo dei sacri autori, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, come in molti luoghi del Nuovo Testamento, o per mezzo della Chiesa, assistita dal medesimo Spirito Santo, “sia con solenne giudizio, o per il magistero ordinario e universale“, di interpretarli allo stesso modo e di cercare di convincere, mediante gli aiuti della propria dottrina, che secondo le leggi di una sana ermeneutica si può rettamente approvare soltanto quella interpretazione. Negli altri casi si deve seguire l’analogia della fede e attenersi, come a norma suprema, alla dottrina cattolica, quale la si riceve dall’autorità della chiesa. Essendo infatti lo stesso Dio autore dei sacri Libri come della dottrina, la cui depositaria è la chiesa, non è certamente possibile che provenga da legittima interpretazione il senso di un qualche passo scritturale che sia in qualche modo discordante dalla chiesa. Ne segue che è da rigettarsi come inetta e falsa quella interpretazione che faccia apparire gli autori ispirati in qualche modo in opposizione tra loro, o sia contraria alla dottrina della Chiesa.

Scrittura e santi Padri

Bisogna quindi che il maestro di questa scienza eccella pure in questo aspetto e cioè che possegga egregiamente la teologia e sia versato nei commentari dei santi padri, dei dottori e degli interpreti insigni. Questo inculca del resto san Girolamo e pure vivamente sant’Agostino che, giustamente rammaricandosi, diceva: “Se qualsiasi disciplina, per quanto da poco e facile, richiede, per essere compresa, un dottore o un maestro, che vi è di più temerario e di orgoglioso quanto il ricusare l’aiuto degli interpreti nello studio dei libri dei divini misteri!“. Questo ritennero e confermarono con l’esempio gli altri padri i quali “ricercavano l’intelligenza delle sacre Scritture non basandosi sulla propria presunzione, ma sugli scritti e sull’autorità di quei grandi, dei quali constasse che avevano ricevuto e accettato le norme di interpretazione indicate dalla successione apostolica“.  – Somma è invero l’autorità dei santi padri, per mezzo dei quali “la Chiesa, dopo gli Apostoli, ebbe incremento, come da piantatori, irrigatori, edificatori, pastori ed educatori“, ogni volta che all’umanità interpretano con uguale senso una qualche testimonianza biblica, riguardante la dottrina della fede o dei costumi. Dal loro unanime consenso, infatti, appare chiaramente che così sia stato tramandato dagli Apostoli secondo la fede cattolica. Il pensiero dei padri è pure da tenersi in gran conto quando essi esercitino il loro ufficio di dottore quasi in forma privata, poiché non è solo la scienza delle cose rivelate e la cognizione di molte notizie utili alla conoscenza dei libri apostolici che li rende fidati, ma certamente Dio stesso aiutò con più valido soccorso della sua luce questi uomini insigni per santità di vita e per la diligente ricerca della verità. Sappia quindi l’interprete che è suo dovere il seguire riverentemente i loro passi e l’usufruire delle loro fatiche con intelligente scelta. – Non pensi però che gli venga per questo preclusa la via per cui, intervenendo una giusta causa, egli potrà anche procedere oltre nella ricerca e nel l’interpretazione, purché si mantenga religiosamente ossequioso al precetto sapientemente dato da sant’Agostino, e cioè di non allontanarsi per nulla dal senso letterale e ovvio, se non vi sia una qualche ragione che non permetta di tenerlo, o una necessità che imponga di lasciarlo: prescrizione questa a cui fa d’uopo attenersi con tanta più fermezza quanto maggiore, in così grande smania di novità e libertà di opinioni, sovrasta il pericolo di sviarsi. Si guardi parimenti lo studioso dal trascurare quei passi che furono volti dagli stessi Padri a un senso allegorico o simile, soprattutto quando partono dal senso letterale e sono sostenuti dall’autorità di molti. Tale modo di interpretare, infatti, la chiesa lo ricevette dagli apostoli, e lo approvò essa stessa, come appare dalla liturgia, col proprio esempio; non che i padri si studiassero per mezzo di esso di dimostrare per sé ì dogmi dì fede, ma perché conoscevano per esperienza quanto valesse ad alimentare la virtù e la pietà. – Minore è certamente l’autorità degli altri interpreti cattolici; tuttavia, poiché gli studi biblici hanno sempre goduto nella Chiesa di un continuo progresso, è doveroso rendere il debito onore parimenti ai loro commenti, dai quali assai opportunamente si possono prendere molti argomenti per confutare sentenze contrarie e per risolvere punti difficili. Ma è davvero cosa troppo sconveniente che taluni, quasi ignorando o disprezzando opere lasciateci in buon numero dai nostri, preferiscano libri eterodossi e vadano a cercare da essi, con presente pericolo per la sana dottrina e non di rado con detrimento della fede, spiegazioni di passi nel quali i cattolici, già da tempo, vi spesero con buoni frutti ingegno e fatiche. Sebbene, infatti, l’interprete cattolico possa talvolta giovarsi degli studi degli eterodossi, usandoli, con la debita prudenza, ricordi, tuttavia, che anche secondo numerosi documenti degli antichi non si può affatto trovare, fuori della chiesa, il senso incorrotto delle sacre Lettere, e che neppure può essere tramandato da coloro che, privi come sono della vera fede, non possono della Scrittura raggiungere il midollo, ma soltanto è dato loro di roderne la corteccia.

La Scrittura anima della teologia

E’ poi grandemente desiderabile e necessario che l’uso della divina Scrittura domini in tutta la scienza teologica e ne sia quasi l’anima. Questo affermarono in ogni età i padri e i più insigni teologi e questo procurarono di fare. Essi infatti cercarono di stabilire e assodare le verità che sono oggetto di fede, come pure le altre che ne derivano, soprattutto per mezzo delle divine Lettere, e per mezzo di esse, come parimenti per mezzo della divina tradizione, cercarono di confutare i commenti innovatori degli eretici, di investigare la ragione, l’essenza, la correlazione dei dogmi cattolici. Nessuno dovrebbe meravigliarsi di ciò, se si pensa che, tra le fonti della rivelazione, è così insigne il luogo dovuto ai Libri divini che, senza uno studio e un uso assiduo di essi, non si può trattare di teologia in modo retto e secondo la sua dignità. Sebbene sia cosa giusta che nelle accademie e nelle scuole i giovani vengano esercitati specialmente nell’acquisto della conoscenza e scienza dei dogmi così che, posta l’argomentazione degli articoli di fede, si arrivi da questi alla conclusione di altri, seguendo le norme di una provata e solida filosofia, tuttavia un grave e dotto teologo non dovrà mai trascurare la stessa dimostrazione dei dogmi dedotta dall’autorità della Bibbia: “Infatti (la teologia) non riceve i suoi principi da altre scienze, ma immediatamente da Dio per mezzo della rivelazione. E perciò non riceve dalle altre scienze come fossero superiori, ma si serve di esse come inferiori e ancelle“. Questo modo di insegnare la dottrina sacra ha quale maestro e auspice il principe dei teologi, l’Aquinate, il quale, partendo da questa chiara comprensione dell’indole della teologia cristiana, insegnò in che modo il teologo possa difendere i suoi stessi principi, caso mai qualcuno li impugnasse: “Per mezzo dell’argomentazione rigorosa se l’avversario ammette qualcosa di ciò che si ha per divina rivelazione; come quando per mezzo dei testi autorevoli della sacra Scrittura disputiamo contro gli eretici, e per mezzo di un articolo ammesso disputiamo contro coloro che ne negano un altro. Se poi l’avversario non crede ad alcuna delle cose divinamente rivelate, non rimane la possibilità di provare gli articoli di fede per mezzo di argomentazioni, ma solo si possono in tal caso sciogliere le obiezioni, se l’avversario ne adduce, contro la fede“. – Bisogna dunque provvedere affinché i giovani intraprendano gli studi biblici convenientemente preparati e agguerriti, perché non venga frustrata la giusta speranza che riponiamo in essi e perché, ciò che sarebbe maggior male, presi dagli inganni dei razionalisti e dall’apparenza di erudizione, non corrano incautamente il pericolo di sviarsi. Saranno ottimamente preparati, se avranno religiosamente coltivato e profondamente compreso la disciplina della filosofia e della teologia, secondo la guida dello stesso san Tommaso, seguendo quella via che additammo e prescrivemmo. Così cammineranno rettamente, sia nella scienza biblica come in quella parte di teologia cosiddetta positiva, e faranno in ambedue felicissimi progressi.

Parte III

DIFESA DELLA S. SCRITTURA CONTRO GLI ERRORI MODERNI

Integrità dei libri sacri

E’ certamente già gran cosa che la dottrina cattolica sia stata provata, esposta, illustrata con la legittima e solerte interpretazione dei Libri sacri; rimane tuttavia un’altra parte da farsi e di ben grande importanza, come pure di grande lavoro e cioè che si sostenga il più validamente possibile l’integra autorità degli stessi Libri sacri. Intento che in nessun altro modo potrà universalmente e pienamente conseguirsi se non per mezzo del vivo e legittimo magistero della Chiesa, la quale, “per se stessa e cioè per la sua ammirabile propagazione, per l’esimia sua santità e inesauribile fecondità in ogni opera buona, per la sua cattolica unità e invitta stabilità è un grande e perpetuo motivo di credibilità e testimonio irrefragabile del suo divino mandato“. Poiché il divino e infallibile magistero della chiesa poggia anche sull’autorità della sacra Scrittura, bisogna perciò in primo luogo sostenere e rivendicare a questa una fede almeno umana: e da questi libri, come da testimoni veraci a tutta prova dell’antichità, si mettano in evidenza e al sicuro la divinità e la missione del Cristo Signore, l’istituzione della chiesa gerarchica, il primato conferito a Pietro e ai suoi successori. Gioverà assai a questo scopo se vi saranno molti ben preparati tra gli insigniti del sacro ordine, i quali anche in questo campo combattono per la fede e respingono gli assalti ostili, rivestiti soprattutto dell'”armatura di Dio” (Ef 6,13 ss.), come ci avverte l’apostolo, e quindi non impreparati alle nuove armi e battaglie dei nemici. Ecco come egregiamente esprime ciò il Crisostomo parlando dei doveri sacerdotali: “Occorre molto studio, affinché “il verbo del Cristo abiti abbondantemente in noi” (cf. Col III,16): non dobbiamo infatti essere preparati ad un solo genere di lotta, essendo molteplice la battaglia e vari i nemici, i quali per di più non si servono tutti delle stesse armi, né usano un’unica tattica per scendere in lotta contro di noi. Per questo è necessario che colui che dovrà combattere con ogni sorta di nemici abbia profonda conoscenza di tutti gli strumenti e arti degli avversari, da essere così nello stesso tempo e arciere e fromboliere, tribuno e condottiero, duce e soldato, fante e cavaliere, perito di guerre navali e di città assediate: se infatti egli non conoscerà tutte le arti del combattere, ben saprà il diavolo, qualora anche una sola parte venisse lasciata indifesa, far penetrare per quella i suoi predoni e dilaniare il gregge“. Abbiamo sopra accennato agli inganni, alle arti di cui i nemici si servono per combattere in questo campo: ora vi indicheremo quali siano i mezzi di cui dovrete valervi per la difesa.

Lo studio delle lingue orientali

Il primo mezzo è lo studio delle antiche lingue orientali e della cosiddetta arte critica. Essendo oggi tenuta in grande conto e onore la conoscenza di entrambe le discipline, ne consegue che il clero che ne sia fornito. con una scienza più o meno profonda secondo i luoghi e gli uomini con cui abbia a che fare, meglio potrà sostenere il suo prestigio e il suo ufficio, dovendo egli “farsi tutto a tutti” (1Cor IX, 22), sempre pronto a “dar soddisfazione a chiunque domandi ragione della speranza che è in lui” (1Pt III,15). E’ dunque necessario per i docenti di sacra Scrittura e conviene ai teologi la conoscenza profonda delle lingue nelle quali i libri canonici furono originariamente composti dagli agiografi. Sarà pure ottima cosa se i discepoli della Chiesa coltiveranno tali lingue, specialmente coloro che aspirano ai gradi accademici in teologia. Occorre anche curare che nelle accademie, cosa che lodevolmente si fa già in molte di esse, si impartiscano lezioni anche di altre lingue antiche, specialmente semitiche, e di quelle materie che con esse hanno relazione, soprattutto per coloro che vengono designati per l’insegnamento delle sacre Lettere. – Questi poi, per lo stesso motivo, dovranno essere più dotti e più esercitati nella vera scienza dell’arte critica. Ingiustamente infatti, e con danno della religione, si introdusse l’artificio coonestato dal nome di alta critica, secondo la quale, in base a sole ragioni interne, come essi dicono, dovrebbero scaturire l’origine, l’integrità, l’autorità di ogni libro. E’ chiaro, invece, che nelle questioni storiche, come sono l’origine e la conservazione dei libri, valgono sopra tutte le testimonianze storiche, e che queste soprattutto debbono essere raccolte e investigate con la maggior diligenza possibile; mentre le ragioni interne, il più delle volte, non sono poi di così grande importanza da poter essere chiamate in causa, se non per una certa conferma delle altre. Agendo diversamente ne conseguiranno di certo grandi inconvenienti. I nemici della religione, infatti, prenderanno sempre più ardire nell’assalire e combattere l’autenticità dei Libri sacri: quello stesso genere di critica più sublime ch’essi praticano, si ridurrà infine a tal punto da lasciare che ognuno segua, nell’interpretazione, la propria propensione, la propria opinione pregiudicata. Di qui ne viene che non si otterrà né il lume richiesto per l’intelligenza delle sacre Scritture, né alcun vantaggio per la dottrina, ma al contrario apparirà quel sicuro contrassegno di errore, che è la varietà e la dissomiglianza dei modi di pensare, come già ne fanno fede gli stessi principali assertori di questa nuova scienza. Di qui pure ne verrà che, essendo i più impregnati di una vana filosofia e delle dottrine del razionalismo, non esiteranno a rimuovere dai sacri Libri profezie, miracoli, e tutto ciò che supera l’ordine naturale.

Scrittura e scienze naturali

Bisogna combattere in secondo luogo coloro che, abusando della propria scienza di fisici, indagano in ogni modo i Libri sacri, per rimproverare agli autori la loro imperizia in tali cose, e trovano da ridire sugli stessi scritti. Queste accuse, riguardando le cose oggetto dei sensi, diventano perciò stesso più pericolose, diffuse tra il popolo, e soprattutto tra i giovani studenti, i quali, una volta perso il rispetto riguardo a qualche punto della divina rivelazione, perderanno facilmente ogni fede in ogni punto di essa. E’ ben manifesto quanto le scienze naturali siano atte a far comprendere la gloria dell’Artefice impressa nelle cose create, purché vengano rettamente proposte, come pure quale grande potere abbiano nello svellere gli elementi di una sana filosofa e nella corruzione dei costumi, se perversamente infuse nei giovani animi. La cognizione perciò delle cose naturali sarà un valido sussidio per il dottore di sacra Scrittura, per scoprire più facilmente e confutare anche siffatti cavilli addotti contro i Libri divini. – Nessuna vera contraddizione potrà interporsi tra il teologo e lo studioso delle scienze naturali, finché l’uno e l’altro si manterranno nel propri confini, guardandosi bene, secondo il monito di sant’Agostino di “non asserire nulla temerariamente, né di presentare una cosa certa come incerta“. Se poi vi fosse qualche dissenso, lo stesso santo dà sommariamente le regole del come debba comportarsi in tali casi il teologo: “Tutto ciò che i fisici, riguardo alla natura delle cose, potranno dimostrare con documenti certi, è nostro compito provare non essere nemmeno contrario alle nostre Lettere; ciò che poi presentassero nei loro scritti di contrario alle nostre Lettere e cioè contrario alla fede cattolica, o dimostriamo con qualche argomento essere falso ciò che asseriscono o crediamolo falso senza alcuna esitazione“. Per comprendere quanto sia giusta questa regola, notiamo in primo luogo che gli scrittori sacri, o più giustamente “lo Spirito di Dio che parlava per mezzo di essi, non intendeva ammaestrare gli uomini su queste cose (cioè sull’intima costituzione degli oggetti visibili), che non hanno importanza alcuna per la salvezza eterna“, per cui essi più che attendere direttamente all’investigazione della natura, descrivevano e rappresentavano talvolta le cose con una qualche locuzione metaforica, o come lo comportava il modo comune di parlare di quei tempi ed ancora oggi si usa, riguardo a molte cose, nella vita quotidiana, anche tra uomini molto colti. Dato che nel comune linguaggio viene espresso in primo luogo e propriamente ciò che cade sotto i sensi, così anche lo scrittore sacro (e come ci avverte anche il dottore angelico) “si attenne a ciò che appare ai sensi“, ossia a ciò che Dio stesso, parlando agli uomini, espresse in modo umano per farsi comprendere da essi. – Dicendo che la difesa della sacra Scrittura deve essere condotta strenuamente, non ne segue che si debbano ugualmente sostenere tutte le sentenze che i singoli padri e successivamente gli interpreti affermano nello spiegarla, in quanto essi, date le opinioni del tempo, nell’interpretare i passi in cui si tratta di cose fisiche non sempre forse giudicarono secondo la verità oggettiva, di modo che alcune interpretazioni allora proposte, ora sono meno accettabili. Occorre perciò distinguere diligentemente quali siano di fatto le interpretazioni che essi tramandarono come spettanti alle cose di fede o strettamente connesse con essa; quali poi siano state tramandate con unanime consenso, poiché infatti “nelle cose che non sono di necessità di fede fu lecito ai santi, come anche a noi, pensare in modo diverso“, secondo la sentenza di san Tommaso. Il quale in altro luogo molto prudentemente avverte: “Mi sembra cosa più sicura riguardo alle opinioni comunemente ammesse dai filosofi e che non ripugnano alla nostra fede, non asserirle come dogma di fede, anche se introdotte talvolta sotto il nome dei filosofi, ma neppure negarle come contrarie alla fede, per dar occasione ai sapienti di questo mondo di disprezzare la dottrina della fede“. Quantunque sia certamente compito dell’interprete dimostrare che le cose proposte come certe per mezzo di argomenti certi dagli studiosi di scienze naturali non contraddicono affatto le Scritture, se rettamente spiegate, non deve tuttavia sfuggire all’interprete questo fatto e cioè che talora avvenne che alcune cose date come certe furono poi poste in dubbio e quindi ripudiate. Che, se poi gli scrittori di scienze naturali, oltrepassati i confini della propria disciplina, invadessero con errate opinioni il campo della filosofia, l’interprete teologo domandi ai filosofi di confutarle.

Scrittura e inerranza

Queste stesse cose gioverà applicarle anche alle altre scienze affini, specialmente alla storia. E’ da deplorarsi, infatti, come vi siano molti che investigano e portano a conoscenza, anche con grandi fatiche, monumenti dell’antichità, costumi e istituzioni di gente antica e altre testimonianze del genere. ma il più delle volte con l’intento di scoprire errori nel Libri sacri, per riuscire ad infirmarne e a scuoterne l’autorità. E ciò taluni fanno con animo accanitamente ostile e con giudizio non abbastanza equo, poiché, trattandosi di libri profani e di antichi monumenti, tale è la fiducia che vi prestano, da escludersi persino ogni sospetto di errore. mentre negano una almeno pari fiducia alle sacre Scritture, anche per una sola parvenza di errore, neppure debitamente provata. E certamente possibile che nella trascrizione dei codici qualcosa abbia potuto essere riportata meno rettamente, il che è da giudicarsi con ponderatezza e non da ammettersi tanto facilmente, se non in quei passi ove ciò sia stato debitamente dimostrato. E’ anche possibile che rimanga ancora incerto il senso preciso di qualche passo, e per delucidarlo saranno di grande aiuto le migliori regole dell’interpretazione. Ma non è assolutamente permesso o restringere l’ispirazione soltanto ad alcune parti della sacra Scrittura, o ammettere che lo stesso autore sacro abbia errato. Infatti non è ammissibile il metodo di coloro che risolvono queste difficoltà non esitando a concedere che l’ispirazione divina si estenda alle cose riguardanti la fede e i costumi, e nulla più, stimando erratamente che, trattandosi del vero senso dei passi scritturali, non tanto sia da ricercarsi quali cose abbia detto Dio, quanto piuttosto il soppesare il motivo per cui le abbia dette. Infatti tutti i libri e nella loro integrità, che la chiesa riceve come sacri e canonici, con tutte le loro parti, furono scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ed è perciò tanto impossibile che la divina ispirazione possa contenere alcun errore, che essa, per sua natura, non solo esclude anche il minimo errore, ma lo esclude e rigetta così necessariamente, come necessariamente Dio, somma verità, non può essere nel modo più assoluto autore di alcun errore. – Tale è l’antica e costante fede della Chiesa, definita anche con solenne sentenza dai concili Fiorentino e Tridentino, e confermata infine e dichiarata più espressamente nel concilio Vaticano che in modo assoluto così decretò: “Bisogna ritenere come sacri e canonici i libri interi dell’Antico e del Nuovo Testamento con tutte le loro parti, come vengono recensiti dal decreto dello stesso concilio [Tridentino] e quali si hanno nell’antica edizione volgata latina. E la Chiesa li ritiene come sacri e canonici, non per il motivo che, composti dal solo ingegno umano, siano poi stati approvati dalla sua autorità, e neppure per il semplice fatto che contengono la rivelazione senza errore, ma perché, essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore“. Perciò non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini come strumenti per scrivere, come se qualche errore sia potuto sfuggire non certamente all’Autore principale, ma agli scrittori ispirati. Infatti Egli stesso così li stimolò e li mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che Egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in maniera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l’autore di tutta la sacra Scrittura. Questo sempre ritennero i santi padri: “Dunque – dice sant’Agostino -, dal momento che essi scrissero ciò che Egli mostrava e diceva, in nessun modo può dirsi che non sia stato lui a scrivere, quando le sue membra operano ciò che conobbero sotto la parola del capo“. E san Gregorio Magno dice: “E’ davvero vano il voler cercare chi abbia scritto tali cose, quando fedelmente si creda che autore del libro è lo Spirito Santo. Scrisse dunque tali cose chi le dettò perché si scrivessero; scrisse colui che anche nell’opera di quello, fu l’ispiratore“. Ne viene di conseguenza che coloro che ammettessero che nei luoghi autentici dei sacri Libri possa trovarsi alcun errore, costoro certamente o pervertono la nozione cattolica della divina ispirazione o fanno Dio stesso autore dell’errore. Tutti i padri e dottori erano talmente persuasi che le divine Lettere, quali furono composte dagli agiografi, sono assolutamente immuni da ogni errore, che non pochi di quei passi che sembrano presentare qualcosa di contrario e di dissimile (e cioè quasi i medesimi che ora vengono proposti come obiezioni sotto il nome della nuova scienza) cercarono non meno sottilmente che religiosamente di comporli e conciliarli tra loro, professando all’umanità che quei libri, sia interi sia nelle loro singole parti, erano in pari grado divinamente ispirati e che Dio stesso, che parlò per mezzo dei sacri autori, non poté affatto ispirare alcunché di alieno dalla verità. Valga per tutti ciò che lo stesso Agostino scriveva a Girolamo: “Io, infatti, confesso alla tua benevolenza che soltanto al libri delle Scritture, che già vengono chiamati canonici, ho imparato a prestare una tale venerazione e onore, da credere fermissimamente che nessuno dei loro autori abbia commesso errore alcuno nello scrivere. Qualora poi, mi imbattessi in essi in qualche cosa che sembrasse contrario alla verità, non avrò il minimo dubbio che ciò dipenda o dal codice difettoso, o dal traduttore che non ha interpretato rettamente ciò che fu scritto, o che la mia mente non è arrivata a capire“.

CONCLUSIONE

Impegno nel leggere e diffondere la Scrittura

E invero lottare pienamente e perfettamente, con ogni mezzo offerto dalle più serie discipline, per la santità della Bibbia, è cosa ben più grande i quanto non sia lecito aspettarsi dalla sola diligenza degli interpreti e dei teologi. Per questo è da desiderarsi che si uniscano e lavorino a questo fine anche quelli, tra gli studiosi cattolici, che si siano acquistata una certa autorità e fama nelle varie scienze profane. Se mai, per il passato, mancò alla chiesa il sostegno di questi ingegni, neppure ora, per grazia di Dio, è venuto a mancare, e voglia il cielo che aumenti sempre più a sussidio della fede. Nulla, infatti, stimiamo più necessario di questo e cioè che la verità acquisti più validi propugnatori, fidi quanto non lo siano gli avversari. Né vi è alcun mezzo che maggiormente possa indurre il popolo all’ossequio della verità, quanto il vederla liberamente professata da coloro che godono di autorità in qualche stimata disciplina. Che, anzi, sarà facile in questo caso che desistano dal loro odio anche gli stessi detrattori, o almeno non osino più asserire così impudentemente che la fede è contraria alla scienza, allorché vedranno illustri scienziati rendere sommo onore e riverenza alla fede. – Dal momento dunque che così grande vantaggio possono recare alla religione coloro cui benignamente Dio elargì, con la grazia della professione cattolica, anche il dono di un felice ingegno, si scelga perciò ciascuno, in questo effervescente movimento di studi che toccano in qualche modo le Scritture, un genere di disciplina più adatto per sé, nel quale, una volta divenuto esperto, possa, non senza gloria, respingere le accuse lanciate in nome della falsa scienza contro le sacre Scritture.

Elogio ad alcuni Cattolici

Qui ci torna grato elogiare, secondo il merito, l’operato di alcuni Cattolici, i quali, per poter somministrare ai dotti ciò che è loro necessario per trattare a fondo e far progredire con abbondanza di ogni mezzo siffatti studi, dopo aver fondato delle associazioni, elargiscono abbondanti offerte in denaro. Ottimo certamente e molto opportuno per i nostri tempi tale uso dei mezzi pecuniari. Quanto meno hanno i Cattolici da sperare nei loro studi dall’aiuto pubblico, tanto più è conveniente che si offra loro una più pronta e abbondante liberalità dei privati, di modo che coloro ai quali Dio elargì ricchezze vogliano convertirle in mezzi di difesa del tesoro della stessa dottrina rivelata.

Norme da seguire

Affinché poi tali pratiche giovino davvero alla scienza biblica, occorre che i dotti stiano ben ancorati a quelle norme da noi sopra stabilite come principi, e che fedelmente ritengano che Dio, creatore e rettore di tutte le cose, è lo stesso autore delle Scritture, e che perciò nulla può ricavarsi dalla natura delle cose, nulla dai documenti della storia che realmente sia in contraddizione con le Scritture. Che, se qualche cosa sembrasse inaccettabile, bisogna diligentemente chiarirla, sia servendosi del sapiente giudizio dei teologi e degli interpreti sul significato più preciso o verosimile del passo della Scrittura in discussione, sia vagliando con più diligenza la forza degli argomenti addotti contro tale passo. Né bisogna desistere dalla ricerca fino a che rimanga ancora una qualche apparenza di opposizione. Infatti, non potendo in alcun modo la verità contraddire la verità, siamo certi che ciò avviene perché si è incorsi in errore o nell’interpretazione delle sacre parole o in qualche parte della disputa. Se nessuna delle due cose appare ancor chiaramente, bisognerà frattanto tener sospeso il giudizio. Molte cose infatti di ogni ramo delle scienze che per lungo tempo furono oggetto di grande opposizione contro la Scrittura, ora sono cadute come vuote; parimenti non poche cose di certi passi scritturali, non riguardanti precisamente la fede e i costumi, furono un tempo proposte nell’interpretazione, di cui poi più rettamente poté giudicare una più acuta investigazione. Il tempo infatti cancella sì i commenti delle varie opinioni, ma “la verità rimane e conserva il suo valore in eterno” (3Esd 4,38). E perciò, come non vi è alcuno che possa vantare di conoscere nel preciso senso tutte le Scritture, nelle quali lo stesso sant’Agostino confessava essere più le cose che non conosceva di quelle che conosceva, così se qualcuno si imbatterà in qualche passo troppo difficile per essere chiaramente spiegato, prenda come norma quella circospetta moderazione dello stesso dottore: “E’ meglio lasciarsi avvicinare da incognite ma salutari parole che, volendo inutilmente interpretarle, liberare la testa dal giogo di servitù per incatenarla tra i lacci dell’errore“. – Tutti coloro quindi che si dedicheranno a tali studi sussidiari. se seguiranno rettamente e rispettosamente i nostri consigli e ordini, e nello scrivere e nell’insegnare indirizzeranno il profitto dei loro studi a redarguire i nemici della verità e ad impedire i danni della fede nella gioventù, allora finalmente potranno rallegrarsi di rendere servizio con degne opere alle sacre Lettere e di apportare alla causa cattolica quell’aiuto che la chiesa, con diritto, si ripromette dalla pietà e dalla dottrina dei suoi figli.

Ultimo motivo e benedizione

Queste sono le direttive, venerabili fratelli, che abbiamo stimato, sotto l’ispirazione di Dio, doversi, secondo l’opportunità, consigliare e comandare riguardo allo studio delle sacre Scritture. Sia ormai vostra sollecitudine il curare che tali direttive vengano custodite e osservate, come si conviene, con grande diligenza, così che più chiara risalti la riconoscenza dovuta a Dio, per aver comunicato al genere umano le parole della sua sapienza, e perché ne provengano i tanto desiderati vantaggi, specialmente per la formazione della gioventù ecclesiastica oggetto della nostra assillante cura e speranza della chiesa. Adoperatevi quindi alacremente con la vostra autorità ed esortazione, affinché nei seminari e nelle accademie che si trovano sotto la vostra giurisdizione tali studi siano tenuti nel dovuto onore e rinvigoriscano. Integramente e felicemente rinvigoriscano sotto la guida della chiesa, secondo le salutari norme dei documenti e degli esempi dei santi padri e la lodata consuetudine degli antichi, e ricevano tali impulsi, col passar del tempo, che davvero siano di presidio e gloria della verità cattolica, divinamente sorta per la perenne salvezza dei popoli. – Esortiamo infine con paterna carità tutti i discepoli e i ministri della Chiesa ad accedere alle sacre Scritture sempre con sommo affetto, fatto di rispetto e di devozione, poiché l’intelligenza salutare delle stesse non potrà mai essere elargita com’è necessario, se non sarà rimossa l’arroganza della scienza terrena, e se non si dedicheranno santamente allo studio fervente di quella sapienza che è al di sopra della terrena (cf. Gc III,15-17). Una volta che la mente si sia introdotta in tale studio e venga quindi illuminata e fortificata, avrà poi la mirabile capacità di discernere quali siano gli inganni della scienza umana ed evitarli, di raccogliere i veri frutti della scienza e riferirli ai beni eterni, e quindi con animo sempre più ardente, tenderà con maggiore e più gagliardo spirito alla virtù e al divino amore: “Beati coloro che scrutano le sue testimonianze, lo cercano con tutto il cuore” (Sal. CXVIII, 2). – Fondati sulla speranza dell’aiuto divino e confidando nella vostra pastorale sollecitudine, auspice dei celesti favori e testimone della Nostra singolare benevolenza, a voi tutti e a tutto il clero e al popolo affidato a ciascuno, con effusione di cuore impartiamo l’apostolica benedizione nel Signore.

Roma, presso S. Pietro, 18 novembre 1893, anno XVI del Nostro pontificato.

LEONE PP. XIII

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXXV:1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Ps LXXXV:4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.
[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’ànima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.
[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10
Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia V.- Torino 1899]

“Se viviamo in ispirito, facciamo anche di camminare in ispirito. Non sia che siamo vanitosi, provocando od invidiando gli uni gli altri. Fratelli, se alcuno sia soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale in ispirito di mansuetudine, badando a te stesso, che ancor tu non sia tentato. Sopportate a vicenda le molestie, e così adempirete la legge di Cristo. Perché se alcuno stima d’essere alcun che, essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua, e allora avrà il vanto in se stesso e non in altri, perché ciascuno porterà il suo peso. Colui poi che viene istruito con la parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. Non vi ingannate; Dio non si schernisce; perciocché quello che l’uomo avrà seminato, quello ancora mieterà. Onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì mieterà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna. Intanto nel fare il bene, non ci venga meno l’animo, che alla sua stagione mieteremo  con sicurezza. Mentre adunque abbiamo tempo, facciamo bene a tutti, ma principalmente a quelli che hanno comune con noi la fede „ (Ai Galati, V, 25, 26; VI, 1-10).

Tutti questi versetti della Epistola si leggono in continuazione di quelli che vi spiegai meglio nella omelia terza della Domenica XIV dopo Pentecoste. Come vi dissi, l’ultima parte di questa lettera ai Galati è tutta morale, dirò meglio, è un vero tesoro di dottrina morale, e le sentenze si succedono l’una all’altra con una copia, con una chiarezza, con una efficacia ammirabile. Devo poi avvertirvi che queste sentenze morali non sono sempre legate tra loro come conseguenza l’una dell’altra, ma parecchie possono stare da sé, a guisa di ricordi. L’Apostolo, in sul chiudere questa lettera, ci presenta l’immagine di un padre tenerissimo, che scrive ai suoi figliuoli lontani, e spinto dall’affetto e dal desiderio ardente del loro bene, fa raccomandazioni sopra raccomandazioni senza badare molto all’ordine delle cose. Ciò che gli sta a cuore è di ricordar loro ciò che maggiormente importa e ciò che crede per loro più utile e necessario. Ripetiamo le singole sentenze del grande Apostolo e facciamone la chiosa, come è nostro uso. – “Se viviamo in spirito, facciamo anche di camminare in spirito. „ È da ricordare, o carissimi, che nei versetti precedenti S. Paolo ha distinto i Cristiani in due grandi classi, quelli che vivono secondo lo spirito e quelli che vivono secondo la carne; i primi sono quelli, che avendo ricevuta la fede e la grazia di Dio, vivono conformemente agli insegnamenti del Vangelo, combattono le ree passioni della carne e praticano le virtù del loro stato; i secondi son quelli che, quantunque rigenerati da Cristo, secondano le passioni della carne e producono quelle male opere della carne, che S. Paolo viene numerando. Continuando il filo del suo discorso, S. Paolo dice: ” Io so bene che voi, o Galati, ammaestrati da me, vivete in ispirito, cioè siete informati ai grandi insegnamenti del Vangelo, volete essere veri discepoli di Gesù: se è così, mostratelo con le opere. Sta bene credere in Gesù Cristo, par che dica l’Apostolo; sta bene l’aver ricevuto il suo Battesimo, ma non basta: bisogna anche camminare, cioè operare secondo la fede. „ E questa una verità che si trova inculcata in cento luoghi delle lettere di S. Paolo. La fede è necessaria, e senza di essa non possiamo piacere a Dio: ma la sola fede non basta: essa deve essere avvivata dalle opere che mostrino la fede, e quasi le diano corpo. Vedete nel vostro campo la vite: essa deve essere viva, e a suo tempo mettere le sue gemme, i suoi germogli e coprirsi di foglie: ma v’appagate voi ch’essa sia viva e lussureggi nel fogliame? No, per fermo; voi volete che sia viva e vi dia il suo frutto: se non vi dà il frutto, tanto vale che sia secca, e voi la tagliate o svellete dal suolo. Similmente Iddio; vuole che abbiamo la fede: Spiritu vivimus, ma ciò non basta: vuole i frutti di questa vita di fede, ossia esige le opere Spiritu et ambulemus. Quanti che hanno la fede, ma non le opere! Quanti battezzati e vivono da pagani! Quanti che professano il simbolo, e non osservano il decalogo! Non siamo di costoro, la vita dei quali è una continua contraddizione! Tien dietro un’altra sentenza dell’Apostolo, che faceva al caso dei Galati, ma non sarà certamente inutile anche a noi. La Chiesa di Galazia era sossopra per opera di certi falsi predicatori, che mettevano in dubbio la dottrina e la missione di S. Paolo, e volevano col Vangelo di Cristo le leggi e le cerimonie mosaiche: erano uomini arroganti, pieni di orgoglio, che volevano avere il vanto di essere maestri dei Galati. L’Apostolo grida: “Non sia che siamo vanitosi, provocando ed invidiando gli uni gli altri.” – Vedete forma delicata e piena di carità, che usa l’Apostolo. Poteva dire: “non siate vanitosi, „ ma dice: “Non sia che siamo vanitosi”, si mette anch’egli nel numero dei colpevoli, e la correzione che fa agli altri, la indirizza anche a se stesso per non offendere troppo vivamente l’amor proprio di quei suoi figliuoli indocili e riottosi. Imitiamo la prudenza e la carità dell’Apostolo, allorché per ufficio talora ci accada di dover correggere i nostri fratelli o figliuoli: più che sia possibile risparmiamo la loro debolezza, raddolciamo il rimprovero, affine di guadagnarli.  – Quali sono generalmente le conseguenze della vanità? Il dispetto, l’ira e l’invidia in quelli che la nostra vanità offende. — Fate che uno s’innalzi in mezzo agli altri o per veri o per falsi meriti, e voglia loro sovrastare e meni pompa dei suoi titoli. Con la sua vanità ed ambizione li disgusta e li ferisce, e di qui tosto il dispetto, il mal animo, l’invidia, i litigi, le discordie e gli sforzi per abbatterlo e rompere quel giogo che si tenta di imporre. A ragione pertanto, S. Paolo vuole che fuggiamo la vanità e l’ambizione per chiudere la porta alle ire ed alle invidie, e serbare la pace. L’Apostolo volendo chiudere la sua lettera, con una serie di gravi ammonimenti pratici, per far sentire quanto gli stavano a cuore e come ne desiderasse ardentemente l’osservanza, manda innanzi una parola piena di affetto, mostrando quasi di dimenticare la sua dignità, e comincia: ” Fratres — Fratelli! „ Come è cara questa parola in bocca all’Apostolo per eccellenza, e che si rivolge ai fedeli della Galazia, la maggior parte dei quali dovevano essere poverelli! Per i pagani era un linguaggio inaudito, incomprensibile, affatto contrario ai loro usi, alle loro leggi ed alle loro credenze: era un lampo di luce che brillava in mezzo alle tenebre, che annunziava un nuovo ordine di cose, che gettava le basi d’una nuova società. Quella parola sì santa, “Fratelli, „ che allora si pronunciava per la prima volta nel mondo pagano (Il paganesimo ignorava al tutto l’idea di fratellanza degli uomini, ignorando la loro origine comune e il fine comune, a cui sono chiamati. Per i pagani la fratellanza umana era un assurdo, un insulto al senso comune: la schiavitù ne era una conseguenza ed una prova. Né è da credere che n’avessero un’idea piena gli Ebrei, che pure possedevano la vera religione. Gli Ebrei estendevano l’idea di fratellanza ai loro connazionali: fuori dell’ebraismo non vedevano che nemici o stranieri, non mai fratelli. È Gesù Cristo colui che annunzia la fratellanza vera ed universale.), a poco a poco faceva il giro del mondo, dissipava gli errori e i pregiudizi, e stabiliva il principio della fratellanza universale, la cui attuazione va lentamente, ma infallibilmente esplicandosi. « Fratelli, grida S. Paolo, se alcuno di voi è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; siamo fratelli, e come fratelli dobbiamo amarci: ora che cosa domanda l’amore, l’amore fraterno? L’amore veramente fraterno vuole e deve volere il bene dei fratelli, anzitutto rimovendo da essi ogni male. Vedere il male che affligge il fratello, e poterlo allontanare da lui, e non allontanarlo, in chi ama davvero, non si può concepire, come non si può concepire il fuoco senza calore. Tra i mali che travagliano i fratelli nostri, i maggiori senza dubbio sono i morali, e perciò questi sopratutto son quelli che con ogni studio dobbiamo allontanare da essi. Ecco perché S. Paolo scrive ai Galati: “Se qualcuno è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; „ cioè, voi che vivete secondo lo spirito, e camminate secondo il Vangelo, porgete la mano al fratello caduto o in pericolo di cadere, sostenetelo, od aiutatelo ad uscire dalla colpa. Dirai: In qual modo farò questo? Con la preghiera senza dubbio, col buon esempio e particolarmente con la parola di correzione, di consiglio, di esortazione, di incoraggiamento, secondo le condizioni speciali in cui versa il fratello e ti trovi tu stesso. E qual sarà l’accento delle vostre parole al fratello caduto o pericolante? In spiritu lenìtatis. Il vostro accento sia dolce, mite, affettuoso, tutto informato a carità: e perché? “Badando a te stesso, risponde san Paolo, che ancor tu non sii tentato; „ che è quanto dire: Sii benigno, caritatevole, correggendo ed ammonendo il fratello tuo, perché ancor tu puoi cadere ed aver bisogno che altri usi teco quella carità che ora eserciti con esso. Adopra con lui quella misura che vorresti usata con te, e certamente sarai mite e indulgente. La correzione fraterna! Quale argomento, o dilettissimi! Certo è un dovere, e gravissimo, ma non sono poche né lievi le difficoltà nell’eseguirlo. Noi siamo tenuti a correggere il fratello errante, quando non vi siano altri che per ufficio, per età, per carattere, o per altre ragioni sono tenuti prima di noi; quando vi sia speranza di ottenere qualche emenda, quando il farlo non ci esponga a pericoli, o dispiaceri, o danni soverchiamente gravi, che non siamo obbligati a subire. E quando poi sia manifesto il dovere della correzione, è da badare al modo, al tempo, al luogo, alle circostanze di adempirlo fruttuosamente; e qui conviene consultare la prudenza, la quale ci deve tener lontani ugualmente e dalla pusillanimità e dalla temerità. Governarsi saviamente nella pratica è cosa malagevole, e molte sono le regole che si sogliono dare affinché la correzione raggiunga il suo intento. Seguendo S. Agostino, io le riduco ad una sola, ed è questa: “Ama, e di’ come ti piace, e non suonerà giammai come ingiuria ciò che avrà apparenza d’ingiuria, se rammenterai e sentirai, che con la parola di Dio, con la parola della correzione, tu puoi liberare il fratello dai vizi che l’opprimono. „ Ah sì! Quando vuoi ammonire e correggere il fratello, fa’ che il tuo cuore sia pieno di carità verso di lui, carità attinta in Dio stesso, che è tutto e solo rarità, e non dubitare che la tua parola troverà la via del suo cuore, rischiarerà la sua mente e la renderà docile alla tua parola, che sarà parola di Dio. – Passiamo alla sentenza che segue, che si può considerare come un’altra manifestazione della carità: ” Portate le molestie gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. „ Che cosa sono queste molestie, che l’Apostolo ci esorta a portare vicendevolmente? Sono i peccati, che tutti più o meno commettiamo; sono i difetti, che tutti abbiamo; sono le offese, le noie che ci diamo scambievolmente, e spesso senza saperlo nè volerlo. Dov’è l’uomo, anche virtuoso e santo, che non abbia colpe e difetti, o che almeno a noi non paia averne, che poi torna lo stesso? Io che vi parlo ho le mie colpe, i miei difetti, e più assai che non ne vegga e non ne senta, e voi che mi ascoltate, e ciascuno di voi, senza eccezione avete i vostri. Chi di noi oserebbe negarlo od anche solo dubitarne? Che faremo? Ci getteremo in faccia l’uno l’altro le nostre debolezze, i nostri falli? Non faremmo che accrescere i nostri mali e renderci per poco impossibile la quotidiana convivenza. Il miglior partito, non solo secondo il precetto dell’Apostolo, ma secondo la prudenza stessa del mondo, è quello di tollerarci a vicenda: ciascuno soffra le colpe e i difetti degli altri, affinché gli altri tollerino e compatiscano i suoi. Tu sei ardente, impetuoso, facile all’ira, e ti sdegni perché altri è freddo, quasi insensibile; tu non sai soffrire il fratello perché scialacqua e perde il suo in conviti e passatempi, e non vedi che tu pecchi per eccessiva parsimonia e grettezza d’animo; tu biasimi la dissimulazione, il carattere chiuso del fratello, e non badi che tu inciampi nel difetto contrario di non saper tacere a tempo. In mezzo a questo contrasto incessante di difetti, per i quali ciascuno riesce molesto agli altri, che ci resta a fare se vogliamo vivere in questo mondo in pace, od almeno, il men male possibile? Seguire il precetto dell’Apostolo, che è la ripetizione di quello di Cristo: “Portate le molestie gli uni gli altri — Alter alterius onera portate; „ io sopporterò i tuoi difetti, e tu sopporta i miei. Se in tutte le famiglie, se nella società si osservasse questa legge sì semplice e sì pratica, quante contese, quanti dissidi, quante discordie, quanti dispiaceri, quanti mali sarebbero sbanditi dal mondo! Quanta concordia di animi, quanta pace fiorirebbe in mezzo a noi! Osservando questo mutuo compartimento, soggiunge S. Paolo, “voi adempirete la legge di Cristo. „ Qual legge di Cristo? Per fermo l’Apostolo allude alle parole del Salvatore: Questo è il mio precetto, che vi amiate scambievolmente; „ e altrove: “Amerai il prossimo tuo come te stesso. „ Colui che sa compatire i falli altrui e sopportare pazientemente le sue colpe, mostra di avere in  cuor suo l’amore dei fratelli e di adempire la legge proclamata da Gesù Cristo. – Segue un’altra sentenza, che spiega e rafferma ancor meglio quella che abbiamo udito: “ Poiché se alcuno stima d’essere alcunché, essendo nulla, inganna se stesso. „ Tu devi correggere il fratel tuo in spirito di mansuetudine e di carità, come vuole Gesù Cristo; se tu per contrario ti reputi migliore di lui e monti in superbia, quasi suo maestro e sua guida, e lo tratti con durezza, con alterigia e con disprezzo, non ne farai nulla; l’opera tua sarà vana, non guadagnerà che si allontanerà da te, e scioccamente ingannerai te stesso, credendoti da più degli altri e rimanendo vittima del tuo orgoglio. E perché in quest’opera della correzione fraterna non abbia ad errare, S. Paolo mi mette sott’occhio un’altra regola eccellente, che è mestieri considerare con attenzione: “Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua. „ Mentre ammonisco il fratello, devo badare a me stesso, e vedere se per avventura anch’io non sia colpevole e degno di biasimo e bisognoso di correzione al pari di lui: e se trovo d’essere in fallo come il fratel mio, vedrò di emendarmi tostamente, e questo conoscimento mi renderà più benigno ed indulgente verso di lui, avendo, come lui, bisogno di compatimento. Mentre ammonisco il fratello, devo anche esaminare me stesso, e vedere se non forse nella correzione che faccio abbiano parte la vanità, l’invidia, la presunzione, il malumore od il desiderio di umiliarlo: devo scrutare me stesso e studiarmi di adempire il mio dovere col fratello unicamente per amore di lui e per piacere a Dio, non mai per appagare qualsiasi passione che si annidasse nel mio cuore o per un fine non retto e men degno d’un cristiano. E da ciò ne conseguirà che, se troverò in me stesso qualche bene, potrò compiacermene innanzi a Dio, e da Lui a suo tempo ne avrò la mercede e la gloria, e non menerò vanto del bene che poi il fratello da me ridotto sulla retta via potesse fare: Et sic in semetipso tantum gloriata habebit, et non altero. Sono verità chiarissime e pratiche, delle quali tutti possiamo e dobbiamo fare tesoro, direi quasi, ogni giorno. Non dimentichiamo, soggiunge S. Paolo, che ciascuno porterà il proprio peso. „ Che dici, grande Apostolo? La tua è una manifesta contraddizione: or ora ci hai esortato con tanta forza a portare i pesi e le molestie gli uni degli altri: Alter alterius onera portate, e poi ci dici che ciascuno porterà il proprio peso: Unusquisque onus suum portabiti Come ciò? Non vi turbate, o dilettissimi: l’Apostolo non si contraddice punto, né può contraddirsi. Là egli ci inculca nella vita presente a sopportare a vicenda i nostri pesi e le molestie che ci rechiamo gli uni gli altri col mutuo compatimento, figlio della carità; qui ci dice che nella vita futura, dinanzi al tribunale di Cristo giudice, ciascuno dovrà rendere conto di sé e delle opere sue, e porterà il suo peso, ossia dovrà rispondere di tutto ciò che avrà fatto. Sarebbe superfluo il far avvertire che, secondo la fede cristiana, di cui S. Paolo è l’Apostolo per eccellenza, tutte le cose che si pensano, si dicono e si fanno, si debbono considerare alla luce di quella sentenza infallibile ed irrevocabile che Gesù Cristo pronunzierà alla morte di ciascuno, e confermerà alla fine dei secoli. Ma ascoltiamo ancora il nostro gran maestro che, continuando, dice: “Quegli poi che viene istruito con la parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. E questa una raccomandazione che non si lega né con le sentenze che precedono, né con quelle che seguono, ma sta da sé sola. Gesù Cristo, mandando gli Apostoli a predicare, disse loro che l’alimento ed il necessario l’avrebbero avuto da quelli ai quali avrebbero annunziata la divina parola, perché l’operaio è meritevole della sua mercede, e se il ministro di Gesù Cristo dà i beni spirituali, è giusto che riceva in cambio quel tanto di beni temporali, che gli è strettamente necessario. È questa una verità chiaramente stabilita nel Vangelo e richiesta dalla natura stessa delle cose; e qui S. Paolo l’accenna: ” Voi, così egli, che ricevete l’istruzione dai sacri ministri, fate loro parte dei vostri beni in guisa che possano campare onestamente la vita. „ Per sé l’Apostolo non voleva nulla, e con santo orgoglio diceva: “Ai miei bisogni materiali provvedono queste mani; „ egli non volle mai essere di peso a persona, e dichiarava che non avrebbe mai permesso che altri gli togliesse questo vanto. Ma la regola ch’egli s’era imposto, di vivere col guadagno delle sue mani, era affatto volontaria, e non poteva imporla ad altri, e perciò qui, come altrove, rammenta ai fedeli l’obbligo che hanno di fornire del necessario i loro ministri. In quei primi principii della Chiesa, com’era naturale, i sacri ministri vivevano di giorno in giorno delle oblazioni volontarie dei fedeli, che non venivano meno giammai, come anche nel presente, quando si annunzia il Vangelo nei paesi che cominciano a riceverlo. Anzi le oblazioni dei fedeli erano sì copiose, che gli avanzi si mandavano a quelli che ne pativano difetto. Ora, nei nostri paesi, dove la Chiesa da tanti secoli è stabilita, ai bisogni dei ministri è provveduto regolarmente in guisa da non essere d’aggravio a chicchessia, e così è messa al sicuro la dignità e la indipendenza dei ministri stessi, ed i fedeli sono liberati da ogni peso. Ma se al presente i sacri ministri non hanno bisogno delle vostre oblazioni per avere un tetto che li copra ed il necessario per vivere e vestire, la chiesa, che ci raccoglie, che è la casa del Padre nostro e casa nostra, ha pur sempre dei bisogni, e deve essere vostra gloria l’averla bella, kornata, degna di Dio e degna di voi. Che le vostre mani per essa siano larghe e generose! Ascoltiamo ancora il nostro Apostolo, che scrive: ” Non vi ingannate: Dio non si schernisce. Perché ciò che l’uomo avrà seminato, questo raccoglierà: onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì raccoglierà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna.„ Queste sentenze, se male non vedo, si collegano con la grande dottrina sopra svolta dall’Apostolo, e che spiegai nella omelia III; là stabilisce che vi sono due grandi principii in ogni uomo: lo Spirito, ossia la grazia di Gesù Cristo, e la concupiscenza della carne, e che da quei due principii tra loro pugnanti derivano opere contrarie, le opere dello Spirito, opere buone e sante, e le opere della carne, opere cattive e malvagie. Richiamando quelle verità, san Paolo, compreso della loro importanza, premette quella forma di dire sì grave: “Badate bene a quel che dico: non ingannatevi, perché Dio non si inganna, Dio non si schernisce, e se tentassimo di farlo, il danno sarebbe tutto nostro e ne porteremmo il peso. „ E su qual cosa non dobbiamo ingannarci? Usa una similitudine comune e sempre bellissima: la nostra vita è una seminagione: seminiamo nel tempo, mieteremo nella eternità. Ora che cosa si miete? Quello che si è seminato. Seminate buon grano? Mieterete buon grano. Seminate cattivo grano? Mieterete cattivo grano. Seminate molto? Molto mieterete. Seminate poco? Poco mieterete. La mietitura risponde alla semina. Ora, o uomo, semini nella carne? cioè, operi seguendo le passioni della carne e aggiungi peccati a peccati? Non ne dubitare; il campo dell’anima tua sarà coperto d’una messe maledetta, e da queste opere di carne raccoglierai la corruzione, la morte eterna. Ora semini nello Spirito? cioè operi secondo lo Spirito, seguendo le voci della grazia, osservando il Vangelo? Il campo dell’anima apparirà coperto d’una messe ottima, e da questa raccoglierai la vita eterna. Voi vedete in sostanza che la dottrina dell’Apostolo si riduce a quell’altra sentenza del medesimo, dove dice: “Iddio darà a ciascuno secondo le opere sue:„ a chi ha vissuto cristianamente, il cielo, la vita eterna; a chi ha vissuto malamente, l’inferno, la morte eterna. – Dunque, ecco la conseguenza naturale che ne deriva, e che l’Apostolo non tace. Dunque nel fare il bene non ci venga meno l’animo. ,, Si raccoglie di quel che si semina: dunque seminiamo il bene, operiamo, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Troveremo difficoltà molte e gravi; nemici scaltri e potenti ci si attraverseranno sulla via: saremo messi a dura prova, tentati di dar volta e correre sulla via facile della carne e delle passioni. Non sia mai, grida S. Paolo: Non deficiamus; non smarriamoci d’animo, ma camminiamo innanzi animosi sulla via della virtù. Finché ne abbiamo il tempo ed il modo, facciamo il bene, cioè le opere dello Spirito, per noi e per tutti: Dum tempus habemus operemur bonum. Quali opere buone? Tutte quelle che sono volute dal nostro stato e che sono possibili alle nostre forze. E a chi dobbiamo fare il bene? Udite, udite, dilettissimi: ” A tutti — Ad omnes. „ Anche ai Gentili? anche agli Ebrei ostinati? anche ai nemici? anche ai persecutori? ” A tutti, a tutti — Ad omnes, ad omnes. „ S. Paolo non fa eccezione, tutti commende quanti sono gli uomini: Ad omnes». Ecco la carità cristiana. E che veramente si debba fare il bene a tutti gli uomini secondo le nostre forze, è chiaro dalle parole che seguono: ” Massime a quelli che sono congiunti nella fede — Maxime ad domestìcos fidei. „ Se dobbiamo fare il bene a tutti, e specialmente a quelli che hanno comune con noi la fede, è cosa evidente che in quella parola “tutti” sono compresi anche i non credenti. Ho finito, o dilettissimi: ma permettete che, chiudendo la mia omelia, vi lasci con una osservazione semplice, ma utile, ed è questa: le sentenze di S. Paolo, sì concise e sì chiare, racchiudono un vero tesoro di verità morali, e voi non dimenticate mai le due ultime, che insieme abbiamo meditato: “Nel fare il bene non vi venga mai meno l’animo, che a suo tempo mieteremo con sicurezza: e mentre che abbiamo tempo facciamo bene a tutti, particolarmente a quelli che hanno comune con noi la fede. „

Graduale
Ps 91:2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime. [È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemM. V. [È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV:3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja. [Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam

Omelia II

[Mons. Bonomelli, ut supra, omelia VI]

“E avvenne che Gesù andava nella città chiamata Naim, e lo seguivano i suoi discepoli e moltitudine grande. E allorché furono presso alla porta della città, ecco si portava a seppellire un figlio unico della madre sua, e questa era vedova, e gran turba della città la accompagnava. Il Signore, vistala, fu tocco di compassione, e le disse: Non piangere. Ed accostatosi, toccò la bara, e quei che la portavano ristettero, e disse: Giovanetto, io ti dico, levati. Ed il morto si pose a sedere, e prese a parlare, ed Egli lo diede alla madre sua. Intanto tutti furono compresi da timore, e rendevano gloria a Dio, dicendo: Un grande profeta è sorto in mezzo a noi, e Dio ha visitato il suo popolo „ (S. Luca, VII, 11-16).

Gesù, a Cafarnao, aveva risanato il servo del Centurione e fatto il più splendido elogio della fede e della umiltà di questo Gentile, che di gran lunga avanzava quella dei figli d’Israele. Il giorno appresso egli lasciò Cafarnao, e per la gran via che da Damasco mette a Jaffa, attraversando la pianura di Esdrelon, s’incamminò verso una piccola città, detta Naim, o Nain. Essa era ai piedi del piccolo Hermon, distante tre o quattro chilometri dal Tabor, circa quaranta da Cafarnao. – Non dimenticherò mai il giorno 21 di ottobre del 1894. Al mattino io era sulla cima del Tabor, e guardando ad occidente vidi ai piedi d’una collina un gruppo di capanne. Chiesi alla guida che villaggio fosse quello, ed egli prontamente mi rispose: È Naim. Al suono di quella parola tacqui e la mia mente corse al fatto evangelico, che là avvenne diciotto secoli or sono e quasi mi pareva di vedere Gesù che, seguito dai suoi Apostoli e dalle turbe, vi entrava e sulle porte operava il prodigio, che debbo spiegare. La postura della cittadella era amenissima, presso le sorgenti del Kison, e non senza ragione si chiamava Naim o Nain, che in nostra lingua significa bella. Ora non è più che un miserabile villaggio abitato da poche famiglie arabe, che pascono le loro gregge. È questo il luogo scelto da Gesù per operarvi uno dei più strepitosi suoi miracoli. Voi ne avete udita la narrazione in tutta la brevità ed in tutto il candore proprio del Vangelo: brevità e candore, che non hanno confronto in nessun libro del mondo, e sono anche, umanamente parlando, il carattere infallibile della verità e della sincerità. Ora a noi. –  “Avvenne che Gesù andava nella città chiamata Naim, e lo seguivano i suoi discepoli e moltitudine grande. „ Ciò che l’Evangelista nota in questo luogo è quello che avveniva costantemente in tutte le sue peregrinazioni attraverso la Palestina, dal dì che gli Apostoli, vista la prodigiosa pesca fatta nel lago di Genesaret, lo seguitarono definitivamente. Essi lo accompagnavano per ogni dove, e poiché il nome di Gesù era divenuto popolare e famoso, gran moltitudine di gente lo seguiva di borgata in borgata, di città in città, avida di udire la sua parola e più avida ancora di vedere i miracoli che operava. “E come furono giunti presso alla porta della città, ecco si portava a seppellire un figlio unico della madre sua, e questa era vedova, e gran turba della città era con lei. „ Il fatto, come è narrato, parrebbe avvenuto a caso: ma se nulla accade a caso per noi Cristiani, i quali teniamo per fede, ogni cosa essere disposta, ordinata o permessa da Dio, per i suoi fini sapientissimi, fate voi ragione se quell’incontro di Gesù sulle porte di Naim poteva attribuirsi al caso. Quell’incontro fu voluto da Gesù Cristo, e precisamente in quel luogo. Sulle porte della città ordinariamente si raccoglie molta gente per entrare o per uscire, e più per gli Ebrei, che sulle porte tenevano non solo i loro mercati, ma vi alzavano eziandio il tribunale e vi trattavano le cause; ciò che per i Romani erano i fori, erano per gli Ebrei le porte. Gesù dispose che in quel luogo frequentatissimo avvenisse l’incontro del corteggio funebre d’un giovane morto sul fiore degli anni. Il Vangelista ebbe cura di notare che questo giovanetto defunto era unico figlio d’una madre per giunta vedova. – La madre desolata, tutta in lacrime, seguiva il cadavere portato da quattro uomini, ravvolto in un lenzuolo. Gran turba accompagnava il funebre corteggio, sia perché il defunto appartenesse a ricca e distinta famiglia, sia perché il caso pietoso di quella morte precoce e di quella madre sventurata avesse commosso il popolo, e, come suole avvenire, tiratolo dietro a quel mesto e doloroso spettacolo. Non vi sia grave che vi metta sott’occhio alcune osservazioni: mi paiono meritevoli della vostra attenzione. Un funerale è sempre tal cosa, che deve richiamarci a pensieri gravi e solenni: il pensiero della morte, dell’estinto, che si accompagna all’ultima dimora; del dolore, in cui sono immersi i parenti, i congiunti, gli amici; il pensiero sì terribile della vita immortale, che comincia al di là della tomba, per chi è credente; dell’ignoto, del mistero pauroso, indecifrabile, desolante per chi non è credente; questi pensieri, volere o non volere, devono affacciarsi alla mente di chiunque ragiona e sente; devono raccoglierla, forzarla a riflettere, e riempirla d’una mestizia grave e solenne, che necessariamente deve manifestarsi negli atti, nelle parole, nel vestito e nel contegno tutto della persona. Così dovrebbe essere: ed in quella vece assai volte che vediamo noi? Ohimè! lo dico con dolore e vergogna. I funerali, massimamente i più solenni, troppo spesso diventano occasione di spettacoli profani. Non silenzio, non gravità, non preghiera, non capo scoperto, non riverenza al sacro rito, ma confuso rumore, strepito di musicali strumenti, leggerezza d’atti, conversazioni come negli amichevoli convegni, coperto il capo, dissipazione, irriverenze, sfoggio di lusso, smania di vedere e d’essere veduti, e a Dio non piaccia, discorsi irreligiosi al cimitero! Tanta leggerezza e spensierata dissipazione, parrebbe incredibile con lo spettacolo sì lugubre della morte sotto gli occhi! Eppure, che giova dissimularlo! è questo il brutto spettacolo di cui io e voi non poche volte fummo testimoni. Il povero figlio della vedova di Naim era portato fuori delle mura per essere seppellito. Gli Ebrei, come i Romani, avevano l’uso di seppellire i loro morti fuori della città, e ciò saggiamente per molte ragioni, che è superflua cosa ricordare; ma non è superflua cosa il ricordare come l’uso di seppellire i morti, prescritto dalla Chiesa, è antichissimo, e praticato non solo dai Romani, dai Greci, dagli Egiziani e dagli Ebrei; ma pressoché da tutti i popoli conosciuti, come il migliore sotto ogni rispetto. E vero, ai nostri tempi, come sapete, quest’uso di seppellire i corpi, ad alcuni uomini della scienza parve meno conveniente, e tentarono di sostituirvi l’abbruciamento. Per noi Cattolici, figli obbedienti della Chiesa, basta il sapere che essa ha solennemente riprovato quest’uso e interdetto l’onore della sepoltura ecclesiastica a quanti deliberatamente vogliono l’abbruciamento o cremazione. E meritamente la Chiesa vieta ai suoi figli, fuori dei casi di necessità, l’abbruciamento dei cadaveri. La pietà naturale ci impone il massimo rispetto verso i cadaveri: come dunque darli alle fiamme ed incenerirli sotto dei nostri occhi? Perché non affidarli alla terra, che con lavoro lento e naturale li discioglie? La vista dei cadaveri dati in pasto alle fiamme, è cosa che offende il sentimento naturale, che incrudelisce gli uomini, che fa ribrezzo. – Dissero che l’uso di seppellire può essere causa di contagi ed infezioni funeste; se ciò fosse vero sarebbe forse necessario adottare l’abbruciamento; ma quando si osservino le debite cautele, prescritte dalle leggi, il seppellimento è scevro d’ogni pericolo, mentre non lo è l’abbruciamento. Le somme celebrità mediche di Germania, di Francia e d’Inghilterra, si dichiarano a favore del seppellimento. Ah! miei cari! Vi sono ben altre e più gravi cause di infezioni e contagi, che non siano i cimiteri, che si potrebbero e dovrebbero rimuovere, nelle città e nei villaggi, e delle quali i fautori della cremazione non si danno pensiero. Del resto per conoscere lo scopo di quest’uso dell’abbruciamento dei cadaveri, che vorrebbesi introdurre, basta conoscere chi siano coloro che se ne fanno i difensori e propagatori; fatte pochissime eccezioni, sono uomini senza fede, anzi nemici dichiarati della fede, ascritti notoriamente alle sètte [massoniche -ndr-], e col distruggere i cimiteri vorrebbero distruggere quei luoghi dove la fede si alimenta e si tien viva la pietà religiosa. No, noi non ascolteremo codesti maestri, seguiremo l’uso dei nostri padri, ubbidiremo alla Chiesa, nostra madre, e porteremo i nostri cari defunti al cimitero, li affideremo alla terra benedetta, dove aspetteranno la voce di Dio, che li richiamerà alla seconda vita. – Ed ora ritorniamo alla narrazione evangelica. Gesù insieme con gli Apostoli e con la turba che lo seguiva, giungeva sulle porte di Naim in quella che ne usciva il funebre corteo, che accompagnava la bara del giovane. Le due moltitudini si incontravano, e ne dovette seguire, come suole sempre in questi casi, un po’ di confusione, domandandosi da una parte e dall’altra chi fossero e che si facessero. Gli occhi di Gesù naturalmente caddero sul feretro e sulla donna, che, affranta dal dolore, era oggetto della comune commiserazione: la vide e ne fu profondamente commosso: Quam cum vidisset Dominus, misericordia motus super eam; se tutti, che vedevano quella madre sconsolata, si sentivano commossi, fate voi ragione come non doveva sentirsi commosso il cuore tenerissimo di Gesù Cristo! Egli mosse verso di lei: la turba, che lo dovette tosto riconoscere, si ritrasse riverente, ripetendosi gli uni gli altri il suo nome con stupore e con una cotale confusa speranza di vedergli operare un miracolo. Giunto presso la desolata madre, con accento pieno di ineffabile tenerezza, le disse: “Non piangere — Noli flere. „ Forse Gesù a quelle due parole: “Non piangere, „ altre ne aggiunse di conforto; forse le promise senz’altro la risurrezione del figlio, come pensa S. Ambrogio; ma poniamo ch’Egli pronunziasse quelle due sole parole: “Non piangere„ e le pronunziasse come Egli sapeva pronunziarle: erano più che bastevoli a confortare l’afflitta e ad infondere in lei la più viva speranza, appena ebbe conosciuto chi Egli era. Dette quelle parole alla madre, “accostatosi, toccò la bara (e quelli che la portavano ristettero). „ Il momento dovette essere solenne: il silenzio di quella folla in un attimo fu profondo: i lontani si alzavano in punta di piedi e mille occhi erano ansiosamente fissi sopra Gesù e sul feretro immobile. Tutti aspettavano e comprendevano essere per accadere alcunché di nuovo, di grande, di meraviglioso, attesa la fama di taumaturgo inseparabile ormai dal nome di Gesù. Egli, tenendo, credo io, una mano sulla bara: Tetigit loculum, e forse con l’altra scoprendo il viso del morto, disse: ” 0 giovane, io ti dico, levati — Adolescens, tibi dico, surge. — E il morto si pose a sedere, e prese a parlare — Et reseda qui erat mortuus, et cœpit loqui. „ Fermiamoci e consideriamo posatamente ogni parola ed ogni parte del fatto sì laconicamente narrato. – Gesù non è pregato né dalla madre, né da altri di richiamare a vita novella il morto, come leggiamo della maggior parte dei suoi miracoli, fatti a preghiera di chi vi aveva interesse. Lo fa per impulso del suo cuore, mosso a pietà della misera madre che si struggeva in pianto: Misericordia motus super eam. Gesù operando il miracolo, non fa precedere orazione, né altri atti, come quelli di Elia, come padrone assoluto della vita e della morte, comanda al giovane defunto di levarsi: “Levati. „ Nessuna incertezza, non un atto, non una parola, non un segno, ancorché lievissimo, di timore, di dubbio; è la parola dell’impero più assoluto: “O giovane, io ti dico: Levati. „ Quando mai un uomo osò o potrà osare di tenere un tal linguaggio? — Gesù tocca il feretro: e perché? Per mostrare che la risurrezione era opera sua, e che la virtù vivificatrice di quel cadavere emanava da lui, dal suo corpo stesso, come il Vangelo dichiara altrove: Virtus de ilio exibat, et sanabat omnes. A quelle parole onnipotenti: “O giovane, Io ti dico: Levati, „ il morto incontanente si scosse come da profondo sonno, aperse gli occhi e si pose a sedere sul feretro e prese a parlare. Il primo ch’egli vide fu per certo Gesù Cristo, che lo doveva tenere per mano; e pensate voi come lo doveva contemplare stupefatto, come ringraziarlo, benedirlo e mostrargli tutta la sua gratitudine. Gesù, rimirandolo amorosamente, e tenendolo sempre per mano, come una sua carissima conquista, lo diede alla madre sua: Dedit illum matri suæ, aiutandolo a scendere dalla bara. In quest’atto del Salvatore, che di sua mano presenta il risorto alla madre desolata, e quasi lo mette tra le sue braccia, vi è una delicatezza sì amabile e squisita che ci commuove. – Alla vista del risorto quella turba fu presa come d’un brivido, d’un sacro terrore (il miracolo di sua natura fa sentire presente Iddio, e però ci riempie di sacro terrore); essa più non si tenne, e proruppe in un grido di gioia, di meraviglia, di lode a Dio, che si manifestava con tanta evidenza, ed esclamò: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo, „ cioè è venuto in mezzo a noi il Profeta, il gran Profeta promesso ed aspettato, e Dio ci dà una prova magnifica che è con noi. Che ne avvenisse dopo, il Vangelo non lo dice, ma è troppo facile ad immaginarsi. Quella moltitudine, nell’impeto e nell’ebrezza della meraviglia e della gioia, dovette precipitarsi ai suoi piedi, professare di credere in Lui e portarlo in trionfo. Ma lasciamo tutto questo, e, rifacendoci sul fatto, raccogliamo le belle considerazioni che i Padri, a modo di commento dettarono nei loro commenti, e che ancor noi possiam cavare dalla natura stessa del miracolo. Come sapete, vi furono e vi sono uomini che hanno fama di sommi sapienti, e che, onorando pure e venerando Gesù Cristo come un genio incomparabile, come un maestro di morale senza pari, non ammettono i suoi miracoli, e li spiegano, cioè tentano di spiegarli naturalmente, anche i maggiori, e certo tra i maggiori devesi mettere questo della risurrezione del figliuolo della vedova di Naim. Intorno a questo fatto due cose si debbono ricercare: la prima è la certezza del fatto materiale, e la seconda è se questo fatto materiale si possa spiegare con le sole forze della natura, o si debba necessariamente ricorrere alla Onnipotenza divina. È egli possibile dubitare del fatto quale è riferito dal Vangelo? E perché dubitarne? Chi lo narra è uomo (consideriamolo semplicemente come uomo) degnissimo di fede: senza dubbio l’udì narrare da quelli che lo videro coi loro occhi, e non erano pochi; lo scrive e pubblica pochi anni dopo che è avvenuto: nomina la città, il luogo dove accadde, e determina la persona del risorto e la madre di lui, per guisa che ciascuno, volendolo, poteva verificare la cosa, tanto più che dovevano essere ancora viventi i testimoni, almeno il maggior numero. E come e perché inventare un fatto di questa natura? Qual vantaggio se ne poteva promettere lo scrittore? E non doveva temere d’essere scoperto, vituperato e punito? E se non temeva gli uomini, non doveva temere Iddio, tentando di far credere come Messia e operatore di miracoli chi non lo era? E quando avesse voluto ingannare i lettori, spacciando un fatto che non esisteva, la via da esso tenuta era la meno opportuna, perché facilissimo smascherare la bugia. Se si potesse dubitare di questo fatto, si potrebbe dubitare di qualunque altro fatto, e la certezza storica sarebbe distrutta. Ma quel fatto è anche veramente tale, che non si possa spiegare con le forze naturali, e che debba necessariamente ascriversi alla potenza divina? Dio solo può ridonare la vita ad un morto che si porta alla tomba, è quel giovane era indubbiamente morto, e da qualche tempo. Se non fosse stato morto, avrebbe dovuto fingere di esserlo; dovremmo supporre impostore lui, e con lui la madre; ipocrite le sue lacrime; impostori quanti ebbero parte all’indegna e sacrilega commedia: e tutti impostori per servire a chi? Alla causa di Gesù Cristo, che sarebbe stato il più colpevole di tutti. Dovevano precedere accordi tra Lui e i complici della scellerata congiura. E che potevano sperare da Lui, facendosi strumenti dell’inganno? Nulla potevano sperare da Lui, tutto temere da Dio ed anche dagli uomini, potendosi facilmente svelare il bruttissimo intrigo. Che nessuno dei molti complici avesse coscienza? Che tutti tacessero? E sempre e nulla ne trapelasse mai nel pubblico, sotto gli occhi sì acuti degli scribi e farisei, nemici di Cristo, e che avevano in mano il potere? Che il popolo presente fosse ingannato? Ed è ben da credere, che, visto il fatto, si facessero domande e indagini d’ogni maniera per accertarsi del fatto strepitoso, avvenuto sulle porte della città. Ma poteva essere una morte apparente quella del giovane! E Cristo lo poteva Egli sapere che era apparente, Cristo che incontrava il corteo sulla via, e che non aveva visto mai il giovane, come apparisce dal contesto? E ignorando che fosse una morte apparente (caso rarissimo), come poteva accostarsi alla bara, toccarlo e richiamarlo a vita? Come esporsi al disprezzo, o almeno al compatimento pubblico, se la morte era reale? E, posto anche il caso d’una morte apparente, era bastevole  toccarlo e chiamarlo? Il solo tocco, la sola voce potevano non pure destarlo, ma ridonarlo a perfetta salute, là, sotto gli occhi di un popolo intero? E questo sospetto doveva pure spuntare nella mente d’alcuno dei presenti, e indurli a dubitare e verificare la cosa. Ah! quella folla dovette bene essere sicura del miracolo prima di prorompere unanime in quel grido: “Un gran profeta è sorto in mezzo a noi, e Dio ha visitato il suo popolo! „ Ma non occorre spendere parole per mettere in sodo la certezza di sì splendido miracolo, narrato dal Vangelo e creduto da tanti milioni di Cristiani pel corso di oltre a diciotto secoli; i dubbi, sì tardi e sì a torto sollevati dai razionalisti moderni, non meritano d’essere confutati. – Passiamo in quella vece a due altre osservazioni, che mi sembrano utili, e con esse chiudiamo l’omelia. I Vangeli, osservano i Padri, ci narrano di tre morti risuscitati da Cristo, ma in diverse condizioni: la prima è la figlia del capo della Sinagoga, appena morta; essa fu risuscitata da Cristo in casa, pregando, alla presenza dei genitori e dei tre discepoli prediletti ; il secondo è quello che oggi abbiamo letto nel Vangelo, il figlio della vedova di Naim; egli fu risuscitato da Cristo lungo la via dalla casa al sepolcro, alla presenza di gran popolo, senza preghiera, con la parola del comando: “Levati:„ il terzo è Lazzaro, risuscitato quattro dì dopo la morte, dal sepolcro, alla presenza di moltissime persone, e tra queste non pochi dei suoi nemici, con voce alta e imperiosa: “Lazzaro, vieni fuori. „ Perché questi tre modi diversi di risuscitare tre morti con una progressiva solennità? Potrei rispondervi che così è piaciuto a Dio, e a noi non resta che adorare i segreti consigli della sua sapienza e della sua volontà. Ma non è vietato di investigarli con umiltà e con alta riverenza. Io penso che Gesù Cristo in questi tre miracoli, che sono i maggiori di loro natura, dopo quello di sua Risurrezione, volle con sì manifesta gradazione e varietà togliere ogni dubbio e mostrare ch’Egli era il padrone della vita e della morte in tutte le loro fasi, dalla fanciullezza alla gioventù, alla virilità, in casa, sulla pubblica via e fino nel sepolcro. Se la risurrezione di tre morti fosse avvenuta sempre allo stesso modo e nelle stesse condizioni, il miracolo sarebbe stato sempre certissimo, è vero, ma privo di quella varietà che ne accresce lo splendore. Oltrediché, in queste tre risurrezioni sì diverse, i Padri ravvisano adombrato un insegnamento morale nobilissimo. La morte del corpo è figura della morte dell’anima per opera del peccato, e per conseguenza anche la risurrezione del corpo simboleggia la risurrezione dell’anima per mezzo della grazia. La figlia del capo della Sinagoga, risuscitata appena morta, rappresenta quei peccatori che, appena caduti, si rialzano; il figlio della vedova di Naim significa quei peccatori, che vivono a lungo in peccato e poi si scuotono e si convertono; Lazzaro, che già deposto nel sepolcro e già fetente, raffigura quei peccatori inveterati e quasi infradiciati nelle loro sozzure, dei quali sembra disperata la conversione, e che alla voce di Cristo rivivono alla sua grazia. Non vi è peccatore, sia pure invischiato in ogni più laida colpa per anni e lustri, e già sull’orlo dell’inferno, che con la grazia di Dio non possa uscire dal peccato e salvarsi. Ma qual è il modo ordinario, col quale Gesù Cristo risuscita questi morti, salva questi poveri peccatori? Ponetevi ben mente, o carissimi, che la cosa è della più alta importanza. È sempre Gesù Cristo, sempre Lui solo che risuscita i morti del corpo e dell’anima. Ma come e perché si muove Egli a risuscitare i tre morti registrati dal Vangelo? La prima volta si muove per le lacrime dei genitori; la seconda per le lacrime della madre; la terza per le lacrime delle sorelle; sono sempre le lacrime dei parenti, dei congiunti, della madre quelle che quasi lo forzano a strappare quei cadaveri dalle mani della morte; così sono le lacrime dei genitori, dei congiunti, dei fratelli, della madre, e soprattutto della gran Madre, che è la Chiesa, quelle che ottengono la conversione dei peccatori. Fratelli e figliuoli miei! preghiamo sempre Gesù Cristo per questi poveri peccatori, che sono tanti di numero; piangiamo sulla loro morte spirituale, e Gesù, che è la stessa vita, finalmente avrà compassione delle nostre lacrime, e con la sua infinita potenza li richiamerà alla vita della grazia, troppo più preziosa di quella del corpo.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXXIX:2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro. [Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta
Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus. [I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Communio
Joann VI:52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.
[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio
Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus. [L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

Oratio Leonis XIII

S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.

O. Salve Regina, Mater misericordiae, vita, dulcedo, et spes nostra, salve. Ad te clamamus, exsules filii Evae. Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrymarum valle. Eia ergo, Advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte. Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, nobis, post hoc exilium, ostende. O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.
S. Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix.
O. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

S. Orémus. Deus, refúgium nostrum et virtus, populum ad te clamantem propitius respice; et intercedente gloriosa, et immaculata Virgine Dei Genitrice Maria, cum beato Joseph, ejus Sponso, ac beatis Apostolis tuis Petro et Paulo, et omnibus Sanctis, quas pro conversione peccatorum, pro libertate et exaltatione sanctae Matris Ecclesiae, preces effundimus, misericors et benignus exaudi. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

O. Sancte Michaël Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae Caelestis, satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute in infernum detrude. Amen.

S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXVI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXVI.

LA DIVINA INCARNAZIONE

Come Iddio stabilì di salvare gli uomini. — Se non potevano essere salvati altrimenti  — Perché Dio differì la redenzione di 4000 anni circa? — Come si salvarono gli uomini prima di essa? — Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. — Sua intelligenza, sue volontà ed operazioni.— Se come uomo poteva far peccati, e se ebbe ogni scienza, grazia e virtù. — Se con la visione beatifica abbia realmente patito, e se sia veramente morto.

— Ed ora mi piacerebbe conoscere che cosa è avvenuto di tutta l’umanità dopo il peccato di Adamo?

Dio senza dubbio poteva lasciarla irreparabilmente nello stato deplorevole, in cui era caduta. Ma così non volle nella sua infinita misericordia. Epperò stabilì di rialzare gli uomini dal loro stato di colpa e di dare agli stessi la salute, esigendo tuttavia della colpa una adeguata riparazione.

— E che cosa vuol dire un’adeguata riparazione della colpa?

Vuol dire che siccome la colpa per ragione di quel Dio infinito, contro del quale era stata commessa, aveva rivestito il carattere di infinita, perciò a ripararla convenevolmente innanzi a Dio si richiedeva una soddisfazione di valore infinito.

— Come mai gli uomini, che sono finiti in tutto e per tutto, potevano dare questa soddisfazione infinita?

Certamente essi non lo potevano. Ed è perciò che la seconda Persona della Santissima Trinità, come fu stabilito nei divini consigli, discese dal cielo, s’incarnò e si fece uomo, per compiere questa soddisfazione. Come uomo poté meritare, e come Dio, quale restò facendosi uomo, poté comunicare ai suoi meriti un valore infinito ed ottenere che agli uomini fosse restituita la grazia santificante, e volendolo, potessero salvarsi coll’acquisto eterno del cielo.

— Fu adunque obbligata la seconda Persona della Santissima Trinità ad incarnarsi.

Che cosa dici mai? In nessuna maniera e da nessuno il Verbo di Dio ricevette tale obbligo. Ciò egli fece per comprovarci l’immenso amore che ci portava e per cattivarsi nel modo più efficace l’amore nostro, ma liberamente, senza essere in nessun modo costretto o forzato, perché né il Padre celeste poteva obbligare il suo Divin Figlio innocente e giusto a vestirsi di umana carne per morire poscia su di una croce per i peccatori; né gli uomini avevano alcun diritto a che il Divin Figlio facesse ciò.

— Ma Iddio non avrebbe potuto perdonare il peccato senza esigerne un’adeguata riparazione, epperò salvare gli uomini in altro modo senza farsi uomo?

Di potenza assoluta certamente avrebbe potuto perdonare il peccato senza esigerne alcuna soddisfazione, o accettando la soddisfazione che gli fosse stata offerta da qualche santa creatura, per esempio da un Angelo. Ma egli volle, come sopra dicemmo, una condegna soddisfazione della colpa, epperò volle operare la nostra salvezza con la divina Incarnazione. E di ciò noi non dobbiamo cercare a Dio il perché, sebbene possiamo riconoscere che il modo scelto da Dio per la salvezza nostra fu convenientissimo, restando così pienamente soddisfatta la Divina Giustizia e venendo manifestati in un grado incomparabile gli altri divini attributi, come la Clemenza, la Sapienza, l’Onnipotenza, eccetera.

— Ma per lo meno non poteva egli salvarci senza sottostare alla morte? Mi è accaduto più volte di sentir a predicare che a salvarci sarebbe bastata una goccia di sangue, una lacrima, un sospiro di Gesù: perché dunque non si è contentato Egli di questo?

Sì, assolutamente parlando sarebbe bastato a salvarci un sospiro, una lacrima, una goccia del sangue di Gesù Cristo, perché in Lui, vero uomo e vero Dio, ogni più piccola azione ha un merito infinito. Anzi qualora Egli non avesse tatto altro che incarnarsi con l’intenzione di rendere omaggio al suo Padre celeste affine di espiare le nostre colpe, Egli avrebbe già passato la misura del nostro riscatto. Ma Egli volle per di più patire e morire, e della morte di croce, per fare sovrabbondante la sua redenzione, per rendere al suo Divin Padre l’omaggio più eccelso, per dare a noi la prova suprema dell’amore ed accrescere in tal guisa in noi la fiducia della nostra salute.

— E perchè tuttavia Iddio ha voluto aspettare circa 4000 anni a compiere la redenzione?

È certo, rispose S. Tommaso, che Iddio ha definito bene tutte le cose, epperò differì la redenzione a quel tempo, che Egli giudicò sopra ogni altro convenientissimo. Tuttavia non mancano ragioni, che lasciano conoscere anche a noi la convenienza di tale ritardo. Le principali sono: 1° L’aver voluto Iddio che gli uomini conoscessero per loro esperienza il bisogno che avevano di un Salvatore e ne esprimessero un desiderio, come realmente accadde. Giacché durante i 4000 anni, che precedettero la venuta di Gesù Cristo, gli uomini caddero in tale abisso di errori e d’iniquità, da sentirono essi stessi il bisogno di un celeste liberatore e da invocarlo con le più infuocate preghiere. 2° L’aver voluto Iddio che Gesù Cristo comparisse al mondo in guisa da essere facilmente riconosciuto. Ed in vero, come i sovrani, quando stanno per entrare in qualche città, mandano innanzi i loro araldi per far conoscere il loro arrivo, così Gesù Cristo lungo il corso dei secoli, che precedettero la sua venuta, mandò nel mondo gli araldi suoi, che chiaramente lo indicassero. Tali appunto furono i patriarchi, che lo aspettarono con tanto desiderio. profeti che lo annunziarono, i giusti che lo figurarono. – 3°. L’aver voluto Iddio che il mondo per mezzo de’ suoi grandi avvenimenti gradatamente preparasse la via a Gesù Cristo a presentarsi nel tempo più opportuno per compiere l’opera sua. Difatti chi guarda la storia della umanità con occhio superficiale non vedrà nulla di tutto ciò, ma chi invece la considera attentamente, tosto riconosce che tutte le grandi monarchie, che l’una dopo l’altra dominarono il mondo, l’una dopo l’altra senza addarsene, lavorarono a formare nel mondo quella vasta unità politica, che era necessaria non solo a simboleggiare, ma eziando a stabilire la grande unità religiosa, che Gesù Cristo sarebbe venuto a crearvi.

— Ma se Gesù Cristo ha ritardato per 4000 anni ad incarnarsi e farsi uomo per la salute degli uomini, come mai avranno potuto salvarsi quelle migliaia di generazioni, che esistettero prima della sua venuta?

Tutti gli uomini, intendilo bene, anche prima della venuta di Gesù Cristo, potevano benissimo salvarsi, giacche Iddio nella sua bontà infinita applicava loro anticipatamente i meriti di Gesù Cristo istesso, e compartiva loro le grazie necessarie. Non altro ad essi occorreva per salvarsi, se non che conoscessero, amassero e servissero il vero Dio, e avessero la fede e la speranza nel promesso Redentore. Ora non ostante gli errori e i delitti del genere umano, nessuno era incapace di questa fede e di questa speranza, neppure tra i pagani e i gentili, perché quando Iddio non avesse fatto altro, mise d’innanzi a tutti la grandezza e la bellezza del Creato, mediante la quale tutti gli uomini avrebbero potuto conoscere l’esistenza di un Dio Creatore e Signore di tutte le cose, conforme ci insegna il libro della Sapienza (Vedi Capo XIII), e vegliò perché le tradizioni e il desiderio del Redentore fossero dovunque, anche tra i pagani e gentili, conservati. Se pertanto prima della venuta di Gesù Cristo molti uomini andarono alla perdizione, non incolperanno certamente il ritardo della Divina Incarnazione, ma unicamente se stessi, che in mezzo alla luce più sfolgorante chiusero volontariamente gli occhi per non vedere la verità.

— Dunque è proprio certo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio fattosi uomo?

Certissimo, tanto che ad essere veri Cristiani

Cattolici, dobbiamo credere e confessare che Gesù Cisto Verbo di Dio incarnato è vero Dio e vero uomo; Dio consustanziale all’Eterno Padre, da Lui generato avanti a tutti i secoli da tutta l’eternità, e uomo formato con la sostanza della Madre e nato nel tempo; che però in Gesù Cristo vi sono due nature, la natura divina e la natura umana, e una sola Persona, la Persona divina.

— E come mai in Gesù Cristo essendovi due nature non v’è che una Persona?

A questo proposito ascolta la bella spiegazione di S. Agostino; « Come negli altri uomini l’anima in unità di persona si unisce al corpo ed abbiamo un uomo, così in unità di Persona Dio si unisce ad un’anima e ad un corpo, e abbiamo l’unico Gesù Cristo. In tale unione Gesù Cristo conserva quella essenza, quella immortalità, quella impassibilità, quel tutto, che è proprio della natura divina, ed aggiunge l’essere passibile, l’essere mortale, che è alieno da Dio, ma proprio dell’uomo. Prende ciò che è proprio dell’uomo, il potere patire e morire, ma ritiene ciò che è alieno dall’uomo, il potere di propria virtù risorgere e rendersi impassibile ed immortale. Quindi è che il divin Verbo ha comune la divina natura col Padre, e secondo essa Gesù Cristo dice: « Io e il Padre siamo una cosa sola »; per l’umana natura è minore del Padre e secondo essa asserisce: « Il Padre è maggiore di me ». Così il grande dottore spiega come in Gesù Cristo vi siano  due nature ed una sola Persona.

— E in Gesù Cristo fatto uomo vi è anche la ragione naturale, l’intelligenza umana?

Certamente.

— E quante volontà vi sono i n Lui?

Due: la divina e l’umana: la divina è quella che come Dio ha comune col Padre, e l’umana è quella che come uomo ha distinta da quella del Padre.

— E quante operazioni si trovano in Gesù Cristo?

Anche due: le operazioni proprie della natura umana, come il dormire, il mangiare, il bere, il passeggiare e simili; le operazioni proprie della natura divina, come il dare lo Spirito Santo, il rimettere i peccati, il fare miracoli, eccetera. Ma devi avvertire che in Gesù Cristo benché le volontà e le operazioni si distinguano, non si possono tuttavia separare l’una dall’altra, di quella guisa, dice San Anselmo, che un ferro tagliente ed infuocar essendo un ferro solo, ha tuttavia due atti sempre insieme uniti, quello dell’abbruciare e del tagliare.

— E Gesù Cristo come uomo poteva fare dei peccati, avere dei difetti, essere ignorante, eccetera?

No assolutamente, perché fin dall’istante primo della sua mortale esistenza, l’anima di Lui ricevette nell’intelletto la pienezza della scienza e nella volontà la pienezza della grazia santificante e di tutte le virtù.

— Allora egli non era più libero.

Lo era perfettamente. E i cordati di quanto abbiamo già detto parlando delle perfezioni di Dio, che il non poter fare il male non è difetto, ma perfezione.

— Se Gesù Cristo nell’anima sua ricevette subito fin dal primo istante la pienezza della scienza e della grazia, come mai si dice in un Vangelo, « che Egli cresceva in sapienza, in età e in grazia? »

Così si dice nel Vangelo di S. Luca, ma ciò si riferisce solo in quanto all’esercizio e alla manifestazione esteriore, che Egli faceva, della sua sapienza e della sua grazia, col crescere dell’età. Del resto è verissimo quello che già dicemmo, epperò nulla potevasi aggiungere di scienza e di grazia a quanto Gesù Cristo aveva ricevuto sin dal primo istante.

— Dunque in Gesù Cristo vi furono eziandio tutte le virtù?

Senza dubbio, ad eccezione di quelle che suppongono il peccato od altra imperfezione, come sarebbe la virtù della penitenza in quanto è pentimento del male operato, e ad eccezione ancora di quelle altre che non possono ritrovarsi nell’Uomo-Dio, come sarebbero la fede e la speranza, per ragione della visione beatifica, che Egli ebbe.

— E che cos’è questa visione beatifica, che ebbe Gesù Cristo?

È la visione che l’anima di Gesù Cristo aveva chiarissima d i Dio, ossia della Divina Persona, cui era unita, e della Persona del Padre e di quella dello Spirito Santo, visione che la rendeva beata e incapace di patire.

. — Ma allora come mettere insieme questa visione beatifica coi patimenti, che si dicono sofferti da Gesù Cristo dal primo istante di sua esistenza fino alla sua morte in croce?

La nostra corta intelligenza non arriva certamente a farsi un pieno concetto del come ciò sia avvenuto, ma con tutto ciò non lascia di esser vero che Gesù Cristo sofferse realmente patimenti di corpo e di spirito inesprimibili, e insieme godette le delizie della visione beatifica. Senza dubbio ciò doveva accadere per un grande miracolo della Divina Onnipotenza, col quale Gesù Cristo conteneva il gaudio della visione beatifica nella parte, superiore ossia intellettuale dell’anima, perché nella parte inferiore ossia sensitiva di essa e nel corpo potesse patire.

— Dunque Gesù Cristo ha sofferto realmente patimenti di corpo e di spirito?

Sì, ciò è di fede, come è di fede che abbia preso vera carne umana. E siccome quanto più si è delicati, sensibili e perfetti, tanto più al vivo si sentono le pene, perciò avendo Gesù Cristo un corpo il più delicato, un cuore il più sensibile, e un’anima la più perfetta, che Dio stesso potesse creare, nessuna mai tra le creature potrà pienamente conoscere i patimenti suoi.

— Ed è pur certo che Gesù Cristo sia veramente morto?

Anche questo è di fede. E come accade quando muoiono gli uomini, anche in Lui la morte avvenne per la separazione dell’anima dal corpo, benché la Persona divina sia rimasta unita tanto all’anima che al corpo.

— E Gesù Cristo ha sofferto ed è morto come uomo, non è vero?

Verissimo!

— Come dunque si dice: « Dio ha patito ed è morto per noi? »

Siccome in Gesù Cristo, essendovi due nature, la divina e la umana, non vi ha tuttavia che una sola Persona, la Persona divina, perciò riferendosi alla sua Persona si dice « Dio ha patito ed è morto », come si dice ancora: « Il corpo, l’anima del Figliuol di Dio ».

— Che cosa pertanto ha meritato Gesù Cristo con la sua incarnazione, passione e morte?

Oltre all’aver meritato la gloria del suo corpo e l’esaltazione del suo nome, secondo che ci apprende S. Paolo, ha meritato per noi il perdono dei peccati ed ogni grazia necessaria alla salute, e non solo per quelli che vennero dopo la sua incarnazione, ma anche per quelli che vissero prima, di modo che ogni grazia fu da Dio concessa in ogni tempo per riguardo ai meriti di Gesù Cristo.

— Ho inteso abbastanza, e la ringrazio!