LO SCUDO DELLA FEDE (XXVIII)

LO SCUDO XXVIII.[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

GESÙ’ CRISTO DIO-UOMO.

Esistenza di Gesù Cristo. — Autenticità e veracità elei Vangeli. — Affermazioni   di Gesù Cristo sopra la sua divinità. — Sincerità di tale affermazione dedotta dal suo carattere — Prove della verità di tale affermatone nella sua nascita e vita privata. — Nella vita pubblica. — Nella passione e  morte.

Perdoni: avrei ora da farle una domanda che a dir vero non oso neppure. Ma che vuole mai? Dopo aver udite certe cose da certi professori non posso fare a meno di fargliela,

Sentiamo adunque.

Gesù Cristo è egli veramente esistito, o non è altro che un mito chimerico, un fantasma dell’immaginazione dei popoli?

M’immaginava che doveva essere questa la tua domanda, perché so benissimo che in certe scuole, seguendosi certi scrittori nebulosi di oltr’alpe, si ardisce di metter fuori certi deliri. Ma dimmi, se Gesù Cristo non è altro cheun sogno, un fantasma, un mito, non sarebbero per avventura altrettanti sogni, fantasmi e miti e Alessandro Magno, e Annibale, e Scipione, e Cesare e Napoleone?

— Ma la storia accerta indubbiamente l’esistenza di tutti codesti personaggi.

La storia non attesta altresì l’esistenza di Gesù Cristo? Che anzi non fa di Gesù Cristo il centro di tutti i fatti che narra, di tutti i secoli che passa in rassegna? Questo secolo XX non segna esso forse la data della sua esistenza sulla terra? Credilo, amico mio, per negare l’esistenza di Gesù Cristo, come fanno certi pretesi grandi filosofi tedeschi, bisogna o essere divenuti grandi matti o aver perduto ogni pudore nel dire le più audaci menzogne. Epperò quando ti accade di udire taluni, siano pure professori, o qualche cosa di più grosso ancora, a dire simili bestialità …

… Non ti curar di lor, ma guarda e passa.

— L’assicuro che seguirò il suo consiglio. Ma ora mi dica un po’ di qual maniera possiamo noi essere certi che Gesù Cristo sia Dio?

Dai Santi Vangeli che ci attestano averlo Gesù Cristo affermato e comprovato.

— Ma si può essere veramente sicuri sull’autenticità dei Vangeli?

Su questa questione gravissima ti dirò poche parole, ma irrefutabili. Dimmi dunque chi è che dubita della certezza dei libri di Cicerone, di Cesare, di Sallustio, di Tito Livio, e Tacito? Eppure per affermarla vi sono assai meno ragioni, che non ve ne siano per affermare quella dei Vangeli. – Questi libri brevissimi, che narrano in succinto la vita di Gesù Cristo, e i cui autori, da Dio inspirati, rispondono al nome di San Matteo e di S. Giovanni, di S. Marco e di S. Luca, i due primi Apostoli del Redentore, i due ultimi suoi discepoli e contemporanei di Lui non meno degli Apostoli, furono mai sempre avuti come certi non solo dalla Chiesa, da’ suoi Pontefici, da’ suoi vescovi, da’ suoi dottori, da’ suoi santi, da tutti i suoi fedeli, ma eziandio dagli eretici e dai pagani.

— Possibile?

Sì; gli eretici si arrogavano essi la proprietà dei medesimi libri, ed i pagani si valevano slealmente di ciò, che in essi leggevano, per gettare il ridicolo e l’obbrobrio sulla Religione di Gesù Cristo. Ora vorresti che i Cristiani abbiano accettati senz’altro questi libri, in cui è determinata la loro fede, la loro Religione, la loro legge e la sanzione della stessa, senza essere certi degli autori che li scrissero? E ti parrebbe possibile che, oltre ai Cristiani, gli stessi pagani ed eretici dessero tanto peso a libri, che tutt’altro che essere di autori certi, fossero di origine ignota?

— Le ragioni che mi ha addotte dimostrano con la massima evidenza l’autenticità dei Vangeli. Ma si può essere parimenti sicuri della loro veracità, che cioè i Vangeli siano sinceri, narrino sempre le cose conforme a verità? Non si può con fondamento sospettare che le cose ivi narrate siano inventate appunto per poterne poscia inferire la divinità di Gesù Cristo?

Chi pensa che le cose narrate dagli Evangelisti siano state inventate, è certo che non ha letti mai, né tampoco conosce i Vangeli. E come mai inventare un tipo quale Gesù Cristo è descritto dagli evangelisti, tipo unico, tutto a sé, tipo inarrivabile, tipo impossibile anche allora che si mettessero insieme le virtù più eroiche di tutti i più grandi uomini? Come inventare una dottrina così sublime, quale non si avrebbe neppure congiungendo il distillato dei più grandi filosofi ? E dopo di avere inventato tutto ciò, come scriverlo con tanta semplicità, con tanto disinteresse, con tanta convinzione di essere creduti, e quattro scrittori diversi con sì ammirabile accordo, non ostante le differenze accidentali, che facilmente spiegabili, sono per altra parte una stupenda prova non essersi previamente intesi fra di loro! – E poi gli Evangelisti, se avessero inventato essi dei fatti relativi a Gesù Cristo, non sarebbero stati smentiti dagli Ebrei loro contemporanei, che furono testimoni ancor essi della vita di Gesù Cristo? Ed avrebbero osato, come hanno, rivelare magagne e delitti di re, di proconsoli, di sacerdoti, di dottori, di Giudei di pagani, mentre la maggior parte di costoro, per essere ancora in vita, potevano levarsi su a protestare solennemente contro la menzogna e la calunnia? Ah! che anche tutto ciò è impossibile. – È dunque necessario riconoscere che in tutto ciò che gli Evangelisti hanno scritto, sono stati sinceri e non hanno inventato nulla; è necessario insomma ammettere la veracità del Vangelo. Ed è ciò appunto che sempre si è ammesso, tanto che anche oggi, quando si vuol dire che una cosa è vera, si dice: È verità di Vangelo; ed ogni qual volta si giura per dar sicurezza che si dice il vero, si giura sulla verità del Vangelo.

— Gesù Cristo adunque secondo il Vangelo si è affermato Dio?

Non vi ha certamente nel Vangelo cosa tantto chiara ed esplicita quanto l’affermazione che fa Gesù Cristo della sua Divinità. Un dì, chiede agli Apostoli chi credano che Egli sia. E San Pietro risponde: «Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo». Ed a questa affermazione così aperta, Gesù Cristo soggiunge: « Beato te, Simone, figliuolo di Giovanni, perché né la carne, né il sangue ti rivelarono queste cose, ma il Padre mio che sta nei cieli ». — Un’altra volta all’Apostolo Filippo, che quasi a nome degli altri Apostoli, gli domanda di far loro vedere il Padre celeste, di cui sempre parla, risponde: « Come!? È da tanto che Io sono con voi, e voi non mi avete ancora conosciuto? Filippo, e non sai tu che chi vede me, vede ancora il Padre? Non credi tu che Io sono nei Padre e che il Padre è in me ? » — Un giorno, taluni del popolo gli dicono: « E fino a quando ci terrai sospesi? dinne alla fine, sei tu veramente il Cristo ? » E Gesù: « Io ve l’ho detto ma voi non lo credete, eppure le opere che Io faccio nel nome del Padre mio, rendono testimonianza di me ». A queste parole i Giudei danno di piglio alle pietre per lapidarlo, ma Gesù soggiunge: « Perché mi lapidate voi? »  E i Giudei rispondono: « Per la tua bestemmia, perciocché tu essendo uomo ti sei fatto Dio ». Tradotto dinanzi al consiglio degli anziani dei sacerdoti, dei principi della Giudea, il sommo sacerdote a nome di tutti lo interroga: « Io ti scongiuro pel Dio vivo: Dimmi, sei tu il Cristo figliuolo di Dio? » E Gesù Gesù, senza punto scomporsi con solenne maestà risponde: « Io lo sono ». Anzi Egli dice di più « Sono quegli, e mi vedrete un giorno sedere alla destra della maestà di Dio e venire sulle nubi del cielo ». A questa affermazione gli ipocriti si stracciano le vesti e gridano: « E di qual altra testimonianza abbiamo ancor bisogno? Basta, basta così. Egli è reo di morte. Noi abbiamo una legge, e secondo la legge egli deve morire, perché si è fatto Figliuolo di Dio ». — E Gesù è condannato a morte, vien crocifisso e tra i più atroci tormenti spira, martire della sua affermazione: «Sono Figlio di Dio, cioè sono Dio! »

— Ma qui non si potrebbe domandare se Gesù Cristo nell’affermarsi Dio era sincero? Se cioè Egli credeva veramente di sé quello che si affermava, oppure se non era altro che un povero allucinato od un maligno impostore?

Sì, senza dubbio, desiderando avere le prove razionali della divinità di Gesù Cristo. Ma a questa domanda torna facilissimo il rispondere. Difatti a conoscere che Gesù Cristo era sincero nella sua affermazione, basta esaminare gli elementi del suo carattere, giacché propriamente dal carattere d’una persona, che si può trarre argomento per giudicare con sicurezza della sincerità o falsità delle sue affermazioni. Ora da tale esame risulta che la intelligenza, il cuore, la volontà di Gesù Cristo, gli elementi cioè che costituiscono il carattere, sono tutti in Lui d’una bellezza inarrivabile, senza la minima ombra, ed in perfettissimo equilibrio fra di loro, tanto che gli stessi nemici di Gesù Cristo sono stati costretti di ammettere per lo meno che Egli fu un uomo savio, un uomo eletto, un personaggio incomparabile. Ora qualità così eccelse sarebbero comportabili con la miseria dell’allucinazione o col vizio ignominioso dell’impostura? Il più volgare buon senso risponde di no. Gesù Cristo adunque era sincero, era anzi la stessa sincerità. Essendo sincero Egli credeva quello che diceva; ed Egli diceva di essere Dio, dunque Egli credeva che era Dio.

— E non poteva essere che Gesù Cristo credesse di essere Dio senza esserlo?

Per supporre ciò, tutt’altro che riconoscere che Gesù. Cristo era d’intelligenza sublime, di cuore grande, di volontà ferma, epperò della massima sincerità, bisognerebbe invece arrivare al punto da dire che Egli era matto. L’uomo anche il più meschino non s’ingannerà mai sopra la sua natura. Potrà credere di aver delle doti che non ha, ma ritenere sinceramente di essere uccello o pesce anziché uomo, a meno che abbia perduto il cervello, non è possibile. Come adunque si sarebbe ingannato intorno al suo essere Gesù Cristo con quelle qualità così stupende che Egli aveva? Non resta perciò che la schietta verità. Gesù Cristo afferma di sé ciò che vede in sé; Gesù Cristo afferma lo stato reale della sua Persona: Gesù Cristo afferma un fatto della sua coscienza; Gesù Cristo è Dio!

— Ma Gesù Cristo si è contentato di affermare la sua divinità, oppure ne ha dato anche le prove?

Ne ha date prove stupende in tutta quanta la sua vita, nella quale se per una parte si manifesta veramente uomo, per l’altra, sia per i prodigi che l’accompagnano, sia per quelli che opera Egli stesso. si comprova Dio nel modo più evidente.

— Amerei che mi facesse conoscere ciò in complesso.

Lo farò volentieri, a grandi linee, passando in brevissima rassegna i fatti principali della sua nascita, della sua vita privata e pubblica, e della sua passione e morte. Qual è la nascita di Gesù Cristo? Spogliamento totale, abbandono completo; suo rifugio una stalla, sua culla un presepio: ecco l’uomo che nasce. Ma i cieli si aprono; pastori e Magi, Giudei e Gentili corrono ad adorare il nato Gesù. Erode trema sul suo trono e con rispetto ipocrita nasconde il suo turbamento. I celesti cantano: Gloria a Dio nell’alto dei cieli, pace in terra agli uomini di buon volere. Ecco Dio che discende. – Egli è sottoposto alla Circoncisione: e la sua stilla di sangue è il segno della sua umanità. Ma è chiamato Salvatore, ecco il titolo della Divinità di Gesù. – Presentato al Tempio è riscattato con due colombe: è l’offerta del povero. Ma un vegliardo lo riconosce, lo proclama il Messia. Cercato a morte da Erode fugge in terra straniera: è l’esilio dell’uomo. Ma un Angelo avvisa Giuseppe, i Magi miracolosamente avvertiti prendono un’altra via; è il passaggio di Dio. – Cresce a poco a poco in età, in sapienza: la sua lingua si snoda, il suo discorso si svolge: è la condizione dell’uomo. Ma a 12 anni siede in mezzo ai Dottori; non risponde come discepolo, ma li interroga come maestro: è la sapienza di Dio. Giuseppe ammira con rispettoso silenzio. Maria gli fa un dolce rimprovero: Figlio mio. che hai tu fatto? ecco che noi ti cercavamo. È l’uomo che viene accusato. Ma Gesù: Perché cercarmi, non sapete che Io debbo fare le cose del Padre mio? Dunque suo padre è Iddio,  sua casa il Tempio, da cui discaccerà un giorno i profanatori. È Dio che si giustifica. – Sulle rive del Giordano si abbassa a ricevere il Battesimo di penitenza: è la somiglianza con l’uomo peccatore. Si apre il cielo, lo Spirito Santo discende sopra di Lui, e la voce di Dio Padre dice: « È questi il mio figliuolo diletto! È la testimonianza del Cielo. – Nel deserto vuol essere tentato da satana,  vuol sentire la fame: ecco l’uomo che soffre. Ma respinge satana, è servito dagli Angeli; ecco Dio che trionfa. – Si addormenta su d’una nave e i discepoli ne rispettano il sonno; è l’uomo che riposa. Infuria la tempesta, i discepoli impauriscono, lo chiamano, Egli sorge, placa con una parola i venti ed il mare. Chi è colui a cui gli elementi obbediscono? È Dio che comanda. Non ha una pietra su cui posare il capo; è la povertà dell’uomo. Ma con pochi pesci e pochi pani sazia la moltitudine del deserto: è la ricchezza, la provvidenza di Dio. – Minacciato, fugge per sottrarsi ai nemici; la debolezza dell’uomo si manifesta. Ma risana gl’infermi, dà la vista ai ciechi, la loquela ai muti, l’udito ai sordi, raddrizza gli zoppi, monda i lebbrosi, risuscita i morti, discaccia gli spiriti maligni, li atterrisce, li soggioga: si Trasfigura sul Tabor, è la potenza di Dio che si rivela. – Al sepolcro di Lazzaro freme dentro di sé e gli sgorgano le lagrime dell’umanità; ma alla sua voce la morte restituisce la vittima: è l’impero della Divinità. – Nell’ultima cena si lamenta di chi lo tradirà, e di chi lo negherà come un uomo derelitto, ma profetizza le circostanze della sua passione e tramuta il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, manifestando la potenza divina. – Nel Getsemani abbandonato dai suoi, senza poter riscuotere dal sonno i discepoli eletti, agonizza, gronda sangue: è l’uomo che soccombe. Ma si alza con maestà davanti ai carnefici, con una parola li fa cadere ai suoi piedi: è Dio che si presenta. – Flagellato orribilmente nel pretorio di Pilato, coronato di spine, coperto d’un lacero manto di porpora, postagli una canna derisoria in mano e circondato dagli scribi, dai farisei, è oppresso di accuse e di calunnie, ed il popolo ne domanda la morte: ecco l’umanità nella sua ignominia. Ma sfolgora Caifas, parla di verità a Pilato, non degna Erode di una parola; va ad appendersi chi lo ha tradito: ad un suo sguardo piange chi lo ha rinnegato: ecco il raggio della divinità, terribile al peccatore ostinato, pietosa al pentito. – Eccolo sulla Croce: passano i suoi nemici innanzi a Lui, scuotono il capo e bestemmiano il suo nome: è l’estremo insulto all’uomo che agonizza. Ma il sole si oscura, la terra trema, i macigni si spezzano, il velo del tempio si squarcia; è l’angoscia della natura, che veste il lutto pel suo Dio. Muore perché vuole, ed emesso il supremo anelito, strappa al Centurione il grido: Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio. – Ecco come in Gesù, se per una parte di continuo apparisce l’uomo, che Egli volle farsi per noi, dall’altra di continuo apparisce quel vero Dio che rimase pur sempre essendosi fatto uomo.

— Sì, alla luce di questi fatti è impossibile negare che Gesù Cristo sia Uomo-Dio!

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

[G. Riva: Manuale di Filotea, XXX ed., Milano, 1888 –impr.-]

En ego, o bone et dulcissime Iesu, ante conspectum
tuum genibus me provolvo ac maximo
animi ardore te oro atque obtestor, ut meum
in cor vividos fidei, spei et caritatis sensus, atque
veram peccatorum meorum paenitentiam,
eaque emendandi firmissimam voluntatem velis
imprimere : dum magno animi aff ectu et dolore
tua quinque Vulnera mecum ipse considero, ac
mente contemplor, illud prae oculis habens, quod
iam in ore ponebat tuo David Propheta de te,
o bone Iesu : « Foderunt manus meas et pedes
meos; dinumeraverunt omnia ossa mea » (Ps. 21
v. 17 et 18).

[Eccomi, o mio amato e buon Gesù, che alla santissima vostra presenza prostrato, vi prego col fervore più
vivo a stampare nel mio cuore sentimenti di fede, di speranza, di carità, di dolore dei miei peccati e di proponimento di non più offendervi, mentre io con tutto l’amore e con tutta la compassione vado considerando le vostre cinque piaghe, cominciando da ciò che disse di voi, o mio Dio, il santo profeta Davide: “Hanno forato le mie mani e i miei piedi, e hanno contato tutte le mie ossa”. Così sia].
[Fidelibus, supra relatam orationem coram Iesu Christi
Crucifixi imagine pie recitantibus, conceditur:
Indulgentia decem annorum;
Indulgentia plenaria, si præterea sacramentalem confessionem instituerint, cælestem Panem sumpserint et ad mentem Summi Pontificis oraverint (S. C. Indulg., 31 tal. 1858; S. Pæn. Ap., 2 febr. 1934).

RINGRAZIAMENTO V.

Atto di Umiltà.

Quanto mi confondo, o Signore, confrontando la vostra infinita eccellenza con la mia totale indegnità! Re della gloria, come Voi siete, voleste il seno di una Vergine per incarnarvi, un Cenacolo ben addobbato per dispensarvi agli Apostoli sacramentato, un lenzuolo mondissimo per essere involto, un Sepolcro nuovissimo per rimanervi defunto, e poi adesso vi contentate della povera anima mia più schifosa della stalla in cui nasceste, più obbrobriosa di quella croce su cui moriste, perché stata tante volte l’asilo delle passioni e l’abitazione dei demoni vostri capitali nemici! Ah io mi confondo, o Signore! io mi perdo considerando questo eccesso della vostra degnazione! Deh non avessi mai peccato! Deh potessi distruggere col mio sangue le mie passate iniquità! Detesto, o Signore, abbomino e maledico la mia passata insensatezza nel profanare con tante colpe l’anima che Voi amate a preferenza della vostra gloria medesima. Ma dove Voi siete, o Signore, la povertà si cambia in ricchezza, la miseria in abbondanza, l’inferno in Paradiso. Mostrate adunque la vostra potenza sopra dell’anima mia, ora che è tutta circondata, investita, e per così dire immedesimata con la vostra umanata divinità. Come un padrone assoluto, togliete da essa tutto quello che vi dispiace, e riempitelo di quello che a Voi più aggrada. Rianimate, o Signore, ciò che è spento, sanate ciò che è infermo, rinvigorite ciò che è debole, riscaldate ciò che è freddo, innaffiate ciò che è arido, fecondate ciò che è sterile.

Atto di Amore.

Sopra tutto accendetevi la bella fiamma del vostro amore, di quell’amore che siete venuto a portar sulla terra, e che desiderate sì ardentemente di vedere acceso in tutti i cuori, di quell’amore infinito che vi mosse a morire per noi sopra una croce, e a rimanere con noi annientato sotto sì povere specie. Deh potessi io, o Signore, ardere tutto come una fiamma per voi! Deh potessi io col presente ardore cancellare tutte le passate ingratitudini, amarvi guanto vi ho offeso, e quanto voi meritate! O fuoco divino, illuminativo delle menti, attrattivo degli affetti, unitivo delle volontà, fatemi sentire gli effetti della vostra venuta dentro di me! Con la vostra luce illuminatemi, con il vostro calore riscaldatemi, con la vostra virtù purificatemi, con la vostra onnipotenza confortatemi, affinché possa, senza stancarmi, camminare come Elia al monte santo della vostra gloria. Non permettete, o Signore, quel miracolo mostruosissimo di stupidezza avvenuto finora dentro di me, non permettete cioè  ch’io sia ancor languido e freddo nel vostro amore dopo di aver albergato nel mio seno Voi che siete il Dio dell’amore, anzi la stessa carità. E chi potrà mai in avvenire separarmi da Voi? Mi perseguiti pure tutto il mondo: mi avvenga pure ogni disgrazia, che né l’esilio, né la miseria, né la prigione, né spada, né l’infamia, né la morte potranno mai minimamente allontanarmi da Voi. Io vi amo, o Signore, sopra ogni cosa; vi amo più della mia vita, più di me stesso. Io rinunzio eternamente a tutto quello che vi dispiace, e mi protesto prontissimo a qualunque sacrificio per secondare la vostra amabilissima volontà, e per attestarvi il mio amore.

Atto di Offerta.

A rendere inviolabili fino alla morte queste sante risoluzioni io mi dedico e mi consacro interamente a Voi. Voi vi siete dato tutto a me, è giusto che anch’io niente mi ritenga, e tutto mi doni a Voi. Sì, o Signore, io vi consacro e vi sacrifico in questa mattina quarto ho, quanto posso, quanto sono al presente e quanto  sono per essere in avvenire, i miei pensieri, i miei affetti, i miei desideri, i miei gusti, le mie inclinazioni, la mia libertà; insomma nelle vostre mani consegno tutto il corpo e tutta l’anima mia. Fate o Signore, in me, e disponete in me come più vi piace, acciocché io da oggi innanzi sia tutto vostro, e unicamente per eseguire i vostri precetti, i vostri consigli, i vostri santissimi desideri, il vostro maggior gusto. Accettate, o Maestà infinita, il sacrificio che vi fa di sé stesso il peccatore più ingrato che avete avuto sulla terra per lo passato, ma che ora si offre e si dona tutto a Voi. Benedite questa piccola offerta e premiatela con l’abbondanza della vostra grazia, e come benediceste e premiaste quella della povera vedova che nelle due piccole monete vi offrì il proprio cuore e tutta se stessa. Maria santissima, le cui preghiere tornano sempre gradite, le cui intercessioni sono sempre efficaci, presentate Voi con le vostre mani alla santissima Trinità questa povera offerta; Voi fate in modo che la accetti, e mi doni la grazia di esservi fedele fino alla morte.

Atto di Domanda.

Ma che mi darete, o Signore, ora che io mi sono offerto e consacrato tutto a Voi? Ah qual cosa, dirò piuttosto, Voi sarete per negarmi, ora che mi avete dato tutto Voi stesso? Voi non entraste mai in nessun luogo senza operarvi gran bene. Entraste in casa di Pietro e guariste la donna febbricitante; in casa di Lazzaro e lo risuscitaste; in casa di Matteo, e lo faceste un Apostolo. Compite adunque i disegni di misericordia per cui vi donaste interamente all’anima mia, ed accordatemi tutto quello di cui mi vedete bisognoso. Io non vi domando grazie temporali, sanità, prosperità, ricchezze: in questo io mi rimetto pienamente al vostro beneplacito: io vi domando soltanto grazie spirituali che mi sono indispensabili per l’acquisto della salute. Queste catene di mali abiti, Dio onnipotente, rompete; questa febbre mortale di vanità, di libidine, di superbia, o Medico divino, guaritela; questa vergognosa nudità d’ogni virtù che mi rende indegno delle vostre tenerezze, o Santo dei Santi, copritela. Datemi, vi prego, una gran luce per conoscere la vanità d’ogni cosa di questa terra e il merito che Voi avete di essere amato; datemi un vivo dolore dei disgusti che vi ho recati, e una volontà risoluta di non peccare mai più. Investitemi, vi prego, di quella carità che forma il distintivo dei vostri discepoli; di quella umiltà senza della quale Voi resistete alle orazioni più fervorose, di quella purità senza di cui Voi giuraste di non riposare mai col vostro spirito sopra degli uomini. Cambiatemi insomma questo cuore: distaccatelo da tutti gli affetti alla terra e donatemene un altro tutto uniforme alla vostra santa volontà, che non cerchi e non aspiri se non al vostro gusto e al vostro amore. Ma datemi soprattutto la grazia di amarvi e di perseverare nel vostro santo servizio fino alla morte. In quel gran punto, o Signore, rinnovate all’anima mia la vostra visita sacramentale, affinché, fortificato dalle vostre carni divine, io possa affrontare coraggioso tutti i nemici della mia salute, e vittorioso dei loro assalti, volar beato alla vostra gloria per non abbandonarvi mai più. Io non merito queste grazie, perché indegno perfino di un vostro sguardo; ma per me le meritate Voi, o Gesù mio, che prometteste di esaudirci ogni qualvolta pregheremo nel vostro Nome. Voi mi avete creato, mi avete redento, mi avete pasciuto delle vostre carni; santificatemi adunque, e non mi lasciate perire. Io tutta in Voi ho riposta la mia speranza,  e chi confida in Voi non sarà confuso in eterno, … In te Domine, speravi; non confundar in æternum.

Al Sacro Cuor di Maria.

O imperatrice dell’universo, o figliuola, madre e sposa dell’Altissimo, Voi siete la più bell’opera del braccio del Creatore, e il vostro cuore immacolato, è il più bel frutto che dalle sue fatiche e dalla sua croce abbia raccolto il Redentore divino. Io vi ricordo adunque per quella che siete, e mi inchino, e mi prostro a terra per venerare questo medesimo cuore celeste tanto simile al cuore di Gesù, e tanto pieno di virtù somiglianti alle sue. Mi rallegro della vostra somma felicità e mi congratulo anche meco medesimo, perché essendo Voi tanto vicina al mio Salvatore, avete con Lui comuni gl’interessi della mia salute; e però, vengo ai vostri piedi come ad un tribunale di pura misericordia. Vi presento il mio cuore, ma oh quanto dissimile dal vostro, tutto pieno di Dio! A voi però sta il cambiarlo in tutt’altro con il bandire da esso ogni superbia, ogni impurità, ogni affetto terreno. Il vostro dominio non si estende solo sopra dei corpi si estende ancora sopra dei cuori; esercitatelo dunque meco una volta ampiamente, affinché impari ad obbedirvi per sempre. Voi nulla perdete, o Signora, nell’esaudire questo meschino che viene innanzi a Voi con tutti i meriti del suo Redentore per supplicarvi. Conoscano tutti quanto amate il vostro Figliuolo, mentre richiesta di limosina per amor suo da chi n’è tanto indegno, pur non sapete negarla. Voi siete solita di concedere anche più di quanto vi si domanda; so che non sarete scarsa ora meco; e se non avete abbandonato veruno che abbia ricorso a Voi, so che non comincerete da me; onde, ripieno di una speranza così fondata io principio adesso a ringraziarvi per non finire giammai in tutti i secoli.

Conclusione.

O divino Tesoro dell’anima mia, fermatevi stabilmente con me, poiché senza di Voi, mio medico, non posso essere che oppresso da infermità; senza di Voi, mio sole, e mio conforto, non posso viver che in tenebre ed in tristezza. Ma giacché avete risoluto di partirvene corporalmente col consumarsi delle specie sacramentali, trattenetevi meco con la vostra grazia e risvegliate in me un desiderio così vivo di Voi che io stia aspettando con santa impazienza il vostro sacramentale ritorno. Degnatevi intanto di benedire l’anima mia, il mio corpo, i miei parenti, i miei amici, quelli che pregano per me e che si sono raccomandati alle mie orazioni, nonché rutti i miei superiori così spirituali, come temporali. Benedite infine tutti i miei prossimi, e sovveniteli secondo il bisogno; ma benedite in modo speciale le povere anime del Purgatorio, affinché, sottratte alle pene che le tormentano, vengano presto a godervi nel gaudio eterno del cielo.

RINGRAZIAMENTO VI.

Umiltà.

Chi sono io, o Signore, per meritare che Voi venire a me in modo sì amorevole e portentoso, fino ad entrare nel mio seno col vostro corpo, col vostro sangue con l’anima vostra, con la vostra divinità? Ah che io non sono punto somigliante a quelli avventurati figliuoli degli uomini con i quali Voi formate le vostre delizie! Non ho né la purità di Maria, nè la santità del Battista, né la carità degli Apostoli. Io sono un impasto di fango, anzi per i miei peccati, sono simile a quel discepolo che vi ha tradito, e a quei Giudei che vi hanno crocifisso. O mio Dio: quale unione del Santo dei Santi con il più gran peccatore, della luce con le tenebre, della pienezza dell’essere con l’abisso del nulla,  d’un Dio eterno, immenso, onnipotente, con una creatura mortale, debole ed imperfetta quale son io! Oh bontà, oh misericordia, oh compiacenza degna di Dio! Benedici anima mia, benedici il Signore che ti ha fatto un favore sì grande, sì singolare. E voi, santi spiriti, che eternamente cantate le sue lodi, aiutatemi a lodarlo, essendo Egli egualmente grande in tutte le sue opere, o sia che si innalzi al di sopra delle nubi, o che voli sulle penne dei venti, o sia che si abbassi e si nasconda, e quasi si annienti nel cuore di una delle sue più piccole miserabili creare.

Adorazione.

Vi adoro, vi riverisco, e vi glorifico, o sacramentato  Gesù, unitamente al Padre ed allo Spirito Santo. Vi formo del mio cuore un trono, ed umilmente prostrato innanzi a Voi, mi vi dono e mi vi consacro irrevocabilmente. Vi adoro come Dio con rispetto, come mio Salvatore con fiducia, come mio padre con amore, e come mio Giudice con umiltà e timore. Ah non mi condannate quando verrete a giudicarmi, Voi che siete entrato nell’anima mia per santificarla e per salvarla! Vi offro pertanto la comunione che ho fatto per ottenere il perdono di tutte le mie iniquità, la conversione di tutti i peccatori e la permanente santificazione di tutti i giusti. Illuminate la mia mente, cambiate il mio cuore, regolate la mia vita, domate le mie passioni, e qual padrone assoluto regnate su tutto me stesso. Fate, o mio dolce Gesù, che io altro non cerchi che di piacervi, e che, distaccato da tutto il creato, mi unisca a Voi solo per amarvi nel tempo, e per vostra misericordia continui poi ad amarvi e godervi per tutta l’eternità.

Consacrazione

Gesù mio sacramentato, io vi consacro l’anima mia con le mie potenze, il mio cuore con i suoi affetti, il mio corpo con i suoi sentimenti. A voi li consacro perché tutti si impieghino nel servirvi e nel glorificarvi. Non usi mai delle mie cognizioni, né delle mie parole e delle mie opere per soddisfare al mio genio, per secondare il mio amor proprio, per far la mia volontà,  ma di tutto mi serva solamente per dar gusto a Voi e tutto vi riferisca alla vostra gloria che sarà sempre l’unico supremo mio scopo.

A Gesù come Padre.

Signor mio Gesù Cristo, Padre amabilissimo dell’anima, vi domando di tutto cuore perdono del poco amore e timore, della poca riverenza ed obbedienza ch’io ebbi verso di Voi fino al presente, vi rimando la grazia di amarvi e temervi per l’avvenire con amore e timore figliale, con perfetta obbedienza ai vostri divini comandamenti, alle vostre sante inspirazioni e a tutto quello a cui mi obbliga lo stato mio. Finalmente vi prego a darmi la grazia di imitarvi generosamente nelle vostre sante virtù, e di essere perfettamente rassegnato in ogni cosa al vostro divino volere.

A Gesù come Avvocato.

Signor mio Gesù Cristo, che per vostra divina misericordia vi siete degnato di costituirvi mio avvocato presso del vostro eterno Padre, io vi supplico con tutto il cuore d’impetrarmi una perfetta contrizione ed una compita remissione de’ miei peccati, la grazia di emendarmi de’ miei abiti peccaminosi, come pure una fedele perseveranza nella vostra grazia, nelle pratiche di pietà, e in quel piano di vita, che è proprio del mio stato, onde assicurarmi una buona morte: in una parola, vi domando la salute eterna di questa povera anima mia.

A Gesù come Maestro.

Signor mio Gesù Cristo, unico e vero maestro dell’anima, vi prego per le viscere della vostra pietà di insegnarmi a consultare e far sempre la vostra santissima volontà, e camminare direttamente la via dei vostri santi comandamenti, e studiare le obbligazioni del mio stato, affine di compierle con fedeltà. Insegnatemi a fuggire i peccati e schivare tutti i pericoli; ad amare e praticare le virtù, a crescere in esse ogni giorno senza mai secondare, nemmeno per un istante, la tiepidezza e l’accidia.

A Gesù come Giudice.

Signor mio Gesù Cristo, giudice giustissimo, io vi domando la grazia di giudicare ben bene me stesso nella vita presente e tutte le mie azioni, senza scusarle e palliarle, di confessare schiettamente tutti i miei falli con cuore contrito ed umiliato, onde evitare  la disgrazia di essere da Voi giudicato severamente al punto della morte e nel gran dì del Giudizio. Vi  prego ancora di castigarmi de’ miei peccati in questa vita, anzi che riservarne la punizione nell’altra.

A Gesù come Medico.

Signor mio Gesù Cristo, medico soavissimo delle anime, guarite, vi prego, per i meriti della vostra passione amarissima, tutte le piaghe ed infermità dell’anima mia. Illuminate il mio intelletto nei doveri che mi incombono come Cristiano; infiammate la mia volontà nell’amor vostro e nella pratica delle virtù che vi sono più care; purgate la mia memoria da ogni cattivo pensiero. Liberatemi dalle passioni disordinate, e singolarmente da quella che mi predomina e tiranneggia. Preservatemi dalla corruttela del vizio, frenate colla onnipotente vostra grazia l’impeto della mia concupiscenza; assoggettatela alla ragione; e fate che la ragione stessa sia sempre subordinata alla vostra santa legge.

A Gesù come Pastore.

Signor mio Gesù Cristo, pastore vigilantissimo delle anime, io vi prego con tutto l’affetto di pascere l’anima mia con l’abbondanza dei vostri doni e delle vostre grazie. Vi prego di farmi gustare le cose spirituali, la lettura devota, la divina parola, e singolarmente i santissimi Sacramenti, e di affezionarmi alle opere di misericordia. Vi prego di farmi odiare i piaceri terreni e sensuali e tutte le vanità della terra; finalmente di difendermi dalle insidie del lupo infernale, dandomi forza di vincere tutte le tentazioni,  principalmente, nel punto della mia morte.

A Gesù come Glorificatore.

Signor mio Gesù Cristo, unico santificatore e glorificatore delle anime, vi prego, per i meriti del vostro sangue preziosissimo, ad accordarmi l’efficacia della vostra grazia per servirvi fedelmente in tutta la mia vita, vincendo tutte le difficoltà che si incontrano nella via della salute, ond’essere un giorno partecipe della medesima gloria che Voi godete nel cielo.

Al Sacro Cuore di Maria.

O Regina di grazia, o Madre del Re della gloria, che sopra di Voi non avete altro che Dio, e sotto di voi rimane a una distanza quasi infinita tutto il rimanente delle creature, se il vostro splendore eclissa la luce di tutti gli altri Santi, che cosa farò io miserabile innanzi alla vostra grandezza? Io mi abbasso fino al centro del mio nulla per ossequiare e venerare il vostro sacro Cuore, che è un abisso di perfezione, e per ottenere da Voi quella grazia di cui siete sì felicemente ricolma non solo per voi stessa, ma anche per noi. Vorrei aver mille vite, e darle tutte ad un colpo per glorificarvi, o Madre eccelsa, che meritate ogni onore. E giacché tanto non posso, per supplire alla mia povertà, mi compiaccio di quante lodi avete ricevuto e ricevete dagli uomini e dagli Angeli, nel tempo e nella eternità, rallegrandomi per tal maniera di esservi servo, che non cambierei questa sorte con tutte le grandezze immaginabili della terra. Ma intanto, se avete la chiave di tutti i tesori del vostro divin Figliuolo, e siete Voi stessa il suo tesoro maggiore, deh non vi scordate delle mie miserie nel colmo della vostra felicità; volgete a me i vostri occhi misericordiosi, mentre in Voi, sovrana Signora, tiene fissi i suoi  questa povera anima mia. Non vi chiedo beni temporali, non onori, non ricchezze, non piaceri: datemi quello che sopra ogni altro bene avete stimato Voi, la grazia del mio Signore. Come potrete negarmi ciò che vi domando, se, mentre siete divenuta Madre del mio Salvatore, siete ancora divenuta Madre della mia salute? Per l’interesse che avete della redenzione delle anime, per quella liberalità che forma il vostro carattere, esaudite le preghiere di colui per cui ha versato tutto il suo sangue il vostro divin Figliuolo. Fate adunque che io vi serva con inalterabile fedeltà in questa vita, per venire ad amarvi e ringraziarvi eternamente nell’altra, dove regnate per tutti i secoli.

RINGRAZIAMENTO VII.

Atto di Ammirazione.

Mio Dio, mio Creatore Redentor Gesù Cristo, è possibile che vi siate dato a me con tanto eccesso di amore? San Giovanni si riputava indegno di sciogliere i legami delle vostre scarpe; san Pietro di stare in vostra compagnia; santa Elisabetta di essere visitata da Maria vostra Madre; e Voi siete  venuto a visitar me sì indegno peccatore? Che favore è mai questo che voi mi fate!

Atto di Adorazione.

Prostrato adunque innanzi a Voi, vi adoro con tutte le forze del mio cuore; vi riconosco per mio sovrano da cui dipendo in ogni cosa, e senza di cui nulla sono e nulla posso. Vi offro, mio Gesù, tutte le adorazioni degli spiriti beati. Gloriosissima vergine Maria, Angeli e Santi del Paradiso, adorate, vi prego, lodate, benedite, ed amate adesso e sempre Iddio per me.

Atto di Ringraziamento.

Gesù dolcissimo, siate il ben venuto nella povera anima mia. Vi ringrazio di tutti i benefici che mi avete fatto e particolarmente che vi siate degnato di venire a visitare una creatura sì vile, un verme di terra, un indegno peccatore quale son io. Come potrò mai ringraziarvi degnamente per sì gran favore? Accettate, vi prego, in ringraziamento tutte le lodi e benedizioni che vi danno e vi  daranno eternamente tutte le vostre creature.

Atto di Offerta.

Per contraccambiarvi come posso di un favore così distinto di esservi dato tutto a me, io mi do tutto a Voi e voglio essere tutto vostro; vi offro tutto me stesso: tutto ciò che mi appartiene; disponete di me come vi piace. Vi offro i miei pensieri, le mie parole, le mie opere, le mie fatiche, voglio che tutto sia per gloria vostra e a salute dell’anima mia.

Atto di Domanda.

Voi però, o gran Dio, che conoscete le mie miserie e le mie debolezze, difendetemi vi prego, contro gli assalti del demonio, del mondo e della carne, acciò non vi offenda mai più con alcun peccato. Datemi lume, amore e forza, acciò conosca, ami ed adempia sempre la vostra volontà. Datemi, vi prego, il dono della perseveranza, acciò vi benedica nel tempo e nell’eternità. Vergine gloriosa, Angeli e Santi, pregate tutti per me, acciò sia degno d’essere esaudito.

Atto di Protesta.

Andandomi unicamente in Voi, amabilissimo Gesù mio, che siete tutta la mia virtù e la mia forza, protesto di volervi servire fedelmente in avvenire. Rinunzio di buon cuore a satanasso, alle sue pompe e alle sue opere. Voglio, mediante la grazia vostra, perdere tutto ciò che ho di caro al mondo, e patire qualsivoglia tormento piuttosto che offendervi. Voglio per vostro amore fuggire ogni occasione di peccato, e consacrarmi con ogni sforzo alla pratica d’ogni virtù per corrispondere alla mia destinazione e ai vostri santi desideri sopra di me.

A Maria.

Gloriosissima vergine Maria, gettate adesso lo sguardo sopra di me, che, sebben miserabile peccatore, son divenuto un oggetto degno delle vostre compiacenze. Parlate in mio favore al vostro divinissimo Figlio che si è degnato di nutrirmi delle immacolate sue carni. Offrite a lui i vostri meriti in supplemento della mia imperfezione. Ringraziatelo per me, ed ottenetemi che Egli non parta da me con la sua sacramentale presenza, senza prima impartire all’anima mia la sua preziosa benedizione.

Agli Angeli.

Santi Angeli, degni ministri dell’Altissimo, fedeli esecutori di tutti i suoi ordini, adorate adesso e ringraziate per me quel Primogenito del Padre eterno di cui cantaste le lodi sulla grotta di Betlemme, saziaste la fame nel deserto, consolaste la tristezza nell’orto, annunciaste la risurrezione nel sepolcro; ed ottenetemi di poterlo servire in spirito e verità con quel fervore con cui lo servite voi nella patria celeste.

Ai Santi.

Santi Patriarchi e Profeti, che, sebbene ammessi alle confidenze dei secreti di Dio, desideraste tanto tempo, ma sempre inutilmente, di vedere quell’amabile Redentore che ora si trova sacramentato dentro di me, fate ch’io sempre sospiri a Lui con un affetto simile al vostro, onde meritare come voi l’adempimento di tutte quante le sue promesse. Zelantissimi Apostoli, che, seguitando sempre fedeli quel divino Maestro, che ora rinchiudo nel mio seno, meritaste di essere di sua mano nutriti di questo cibo di Paradiso e di essere i primi banditori del suo Vangelo a tutte le nazioni del mondo, fate che a vostra imitazione io non mi separi giammai da Lui, lo ami sopra tutte le cose, e promuova a tutto potere la sua gloria. Invittissimi Martiri, che sacrificaste generosamente le sostanze e la vita per la fede di quel Gesù che ora si è fatto tutto mio, ottenetemi adesso la grazia di viver sempre crocifisso a tutti i desideri della carne e di esser disposto a suggellare anche col sangue le  verità della fede. Beati Pontefici, pastori solleciti al divin gregge, vedete in me quell’Agnello immacolato che voi tante volte immolaste sopra l’altare, e fate che, a somiglianza di voi io adempia con inalterabile fedeltà, e a pura gloria di Dio, tutti i doveri del mio stato. Santi Monaci ed Eremiti, che, non solo con l’affetto, ma anche realmente, rinunciaste a tutti i comodi e a tutti gli agi di questa vita, per assicuravi il possesso di quel Dio che ora è divenuto una sola cosa con me, ottenetemi voi la grazia di disprezzare costantemente così le traversie come le prosperità della terra, onde assicurarmi il possesso dei beni sodi ed immancabili del Paradiso. Purissime Vergine, che ora seguite più da vicino quell’Agnello misterioso che io ho ricevuto sotto le specie sacramentali, ottenetemi Voi una purità illibata di mente e di cuore, onde godere come Voi di sua visione particolare e del suo più compito possedimento nel regno della gloria. Voi finalmente, o Santi tutti del Paradiso, e voi specialmente, miei Avvocati e Protettori, che siete il conforto e la consolazione della povera anima mia, adorate adesso dentro di me l’autore, il consolatore, il modello e il premio della vostra santità; ottenetemi con la vostra intercessione ch’io resista costantemente a tutti gli assalti nemici, e cresca ogni giorno nel fervore del divino servizio, onde libero da ogni immondezza, e pieno di meriti e di virtù, divenga un giorno partecipe di quella gloria che vi beatificherà per tutti i secoli.

Raccomandazione.

Gesù amabilissimo, che prevenite le suppliche dei bisognosi, ed esaudite coloro che vi pregano con rettitudine, estendete le vostre misericordie a tutti coloro pei quali la gratitudine, la carità e la giustizia mi impongono di pregare. Deh! per i meriti di questo Sacramento, che è il simbolo ed il legame dell’unità vostra Chiesa, convertite gli empi, richiamate gli eretici, illuminate gl’infedeli. Accordate nella vostra misericordia la contrizione ai peccatori, il fervore ai penitenti, la perseveranza ai giusti, la pazienza ai poveri, la rassegnazione agli infermi. Mantenete nell’ubbidienza i figliuoli, nell’amore i fratelli, nella vigilanza i genitori, nel buon ordine le famiglie. Fate che sempre si conservino illibate le vergini, casti i coniugati, fedeli i servi e discreti i padroni. Dirigete nella via della giustizia e della pace i magistrati ed i principi che ci avete dato a rappresentanti della vostra suprema autorità; allontanate dai nostri stati tutti i nemici che li sconvolgono, tutti i flagelli che li desolano, anzi concedeteci, se pur vi piace, che il commercio sia sempre prospero, il governo sempre felice, l’aria sempre salubre, la terra sempre feconda, il tempo sempre opportuno. Ma rassodate sopra tutto il regno della vostra Chiesa, estendetelo a tutti i climi, glorificatelo in tutti i popoli; perciò conservate nell’esattezza della osservanza i Regolari, nella costanza dello zelo i Predicatori, nella purità della dottrina e nella santità della vita tutti quanti i suoi ministri: e benedite con grazia di predilezione, e circondate di gloria e di maestà il trono del vostro Vicario, il Romano Pontefice a cui avete promesso nella persona di san Pietro una fede immanchevole ed un potere divino. Ricordatevi, finalmente, o Signore, delle amatissime vostre Spose che gemono nel carcere del Purgatorio. Per i meriti infiniti di quel preziosissimo sangue che Voi versaste a salvezza di tutti gli uomini e di cui mi avete questa mattina abbeverato, e che io tutto vi offro a loro suffragio, dimenticatevi di tutti i torti che avete da loro ricevuto, quando vivevano su questa terra; abbiate compassione dello stato miserabilissimo in cui ora si trovano, appagate il desiderio ardentissimo che ora nutrono di possedervi; traetele senza indugio nei tabernacoli eterni, ove spero di cantare con loro, unitamente a tutti i Beati, l’inno della perpetua riconoscenza. Così sia.

RINGRAZIAMENTO VIII.

Atti Diversi,

Or che dentro di me venuto siete,

Come in trono d’amor nel cor sedete.

Giacché l’amarvi è il mio primo dovere,

V’amo, o Gesù, con tutto il mio potere.

Perisca il corpo mio, ma viva il core,

Per amar Voi con sempiterno amore.

Venga pur ogni mal, venga la morte,

Con voi Gesù, spero morir da forte.

Quando sarà quel dì che senza velo

Voi, mio Gesù, contemplerò nel cielo?

Se per vostra bontà mi salvo, o Dio,

Qual gioia avrò di sempre amarvi anch’io?

A Voi offro, o Gesù, bontà infinita,

L’anima mia dei falli suoi contrita.

In quel poco di vita che mi avanza

Siate, Gesù, l’unica mia speranza.

Benedite, o Gesù, l’anima mia,

Perché costante nell’amor vi sia.

Pentimento ed amor, speranza e fede,

Chieggo, o Gesù, per esser vostro erede.

Vi domando, o Gesù, con grande istanza

Il don della final perseveranza.

Consacrazione.

Signor la libertà tutta vi dono,

Ecco le mie potenze, il voler mio:

Tutto vi do, che tutto è vostro, o Dio.

E nel vostro volere io m’abbandono.

Per gradirvi ed amarvi, o mio Signore,

Grazia datemi solo e vivo amore;

Poiché, se voi mi amate, ed io pur v’amo,

Già son ricco abbastanza, e più non bramo.

Riconoscenza.

Quali grazie a un Dio sì grande

Che nel povero mio petto

Per amore si è ristretto,

Quali  grazie io renderò?

Deh scendete dalle stelle,

Qua venite, Angeli santi,

Con soavi e dolci canti

Gesù meco ad adorar:

Serafini voi più ardenti,

Deh venite a questo core,

E il mio caro e dolce Amore

M’aiutate a ringraziar.

Quante intorno al divin trono

Risplendete anime belle,

E voi caste verginelle

Date vampa a questo amor.

Santa vergine Maria,

Bella madre dell’amore,

A me date il vostro core

Per poter con esso amar.

Gesù mio, pria che tu parta,

Dammi in dono il tuo bel volto

Che nell’alma ben raccolto

Sempre impresso porterò.

Tu mi cangia in seno il core;

Il tuo dammi, prendi il mio;

Sicché viva, non più io,

Ma tu solo viva in me.

Con tal vita, oh me felice,

Che potrò di più bramare?

Saran dolci, saran care

Le miserie di quaggiù.

A te unito in ogni istante,

A te stretto in vita e in morte,

Sol degli Angeli la sorte

Mi rimane da aspettar.

Offerta.

Eterno Genitor,

Io t’offro il proprio Figlio,

Che in pegno del suo amor,

Si volle a me donar,

A lui rivolgi il ciglio,

Mira chi t’offro e poi,

Lascia, Signore, se puoi,

Lascia di perdonar.

Or che nell’alma mia,

Mio Dio, venuto sei,

Tutti gli affetti miei

Ti rendo per mercé.

Con te, Bontà infinita,

Resti quest’alma unita:

Spero, Signor, che ormai

Pago sarai di me.

Rassegnazione.

Il tuo gusto e non il mio,

Amo solo in te, mio Dio;

Voglio solo, o mio Signore,

Ciò che vuol la tua bontà,

Quanto degna sei d’amore,

O divina volontà!

Tu dai vita al puro affetto,

Tu l’amor rendi perfetto.

Tu sei dolce e tutto ardore

Verso il cor che a te si dà.

Quanto degna sei d’amore

O divina volontà!

Tu fai lieta ogni ria sorte,

Tu fai dolce ancor la morte,

Non ha croci né timore

Chi ben teco unir si sa.

Quanto degna sei d’amore,

O divina volontà!

O finisse la mia vita

Teco un giorno tutta unita,

Chi tal muore, no, non muore,

Ma ancor vive e ognor vivrà.

Quanto degna sei d’amore,

O divina volontà!

Dunque a te consacro e dono

Quanto posso e quanto sono :

Mio Gesù, solo il tuo cuore

L’amor mio sempre sarà.

Quanto degna sei d’amore,

O divina volontà!

Voglio a te piacere

Nel patire e nel godere

Quel che piace a te, mio amore

A me sempre piacerà.

Quanto degna sei d’amore,

O divina volontà!

Inno a Maria 

Salve, Mater Salvatoris,

Fons salutis, Vas honoris,

Scala cœli, Porta et Via,

Salve semper, o Maria.

Salve, Dei sponsa electa,

Sine macula concepta;

Tota pulchra atque formosa;

Salve, o Virgo gloriosa.

Salve, o Rosa, sine spina,

Regis Mater ac Regina,

Decus mundi et Stella maris,

Inter omnes singularis.

Vera salus infirmorum,

Advocata peccatorum,

Àfflictorum Consolatrix,

Dulcis Jesu Genitrix.

Hanc devotam civitatem,

Ejus loca atque gentem

Salva semper et custodi,

O spes nostra, nos exaudi.

Terremotu semper serva;

Peste et bello nos preserva

Atque auxilium presta, o clemens,

Alma Mater, Virgo potens.

Tu columna nostra fortis,

Nos conforta in hora mortis

Sancta parens, Virgo pia,

Salve semper, o Maria.

[Salve, o Madre al Salvatore,

Scampo a noi, Vaso d’onore,

Scala al cielo, Porta e via

Dio ti salvi ognor, Maria

Dio ti salvi, Sposa eletta.

Senza il primo error concetta

Tutta bella e graziosa.

Salve, o Vergin gloriosa.

Salve, o Rosa senza spina

Del gran Re madre e Regina,

Lustro al mondo, astro del mare,

O fra tutte singolare,

O salute dei malati,

O rifugio ai traviati,

D’ogni mal consolatrice,

Di Gesù gran Genitrice

Tieni ognor nel bene immota

Questa terra a te devota

Nostra speme, a’ voti arridi

De’ tuoi servi amanti e fidi.

Dalle scosse della terra

Ne preserva e dalla guerra

Deh, soccorrici clemente.

Madre pia, vergin potente

Tu colonna nostra forte.

Ne difendi nella morte.

Santa madre, vergin pia.

Dio ti salvi ognor Maria.] 

All’Angelo Custode,

Angiol santo, che a conforto

Del mio spirto il ciel spedì.

Scorgi tu i miei passi al porto

Cui sospiro notte e dì.

Ai Santi,

E voi alme, che beate

Fa l’Eterno in sua via

Deh giammai non vi scordate

Di chi geme ancor quaggiù.

Offerta per le Anime Purganti.

Per quel vivifico

Sangue che scorrere

Fa, o Dio, sui miseri

L a tua pietà.

Dell’igneo carcere

Consola gli esuli,

Rendi a quell’anime

La liberta.

E fa che il giubilo

De’ santi Spiriti

Per tutta godano,

L’eternità.

RINGRAZIAMENTO IX

Compiacenza e Adorazione

Me felice! o qual contento!

Ho trovato l’amor mio,

Sono unita col mio Dio,

Già lo tengo in mezzo al cor.

Tutta orsù del fausto evento

Meco esulti la natura;

O felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesoro,

Da per tutto l’ho cercato

Questa notte, e nol trovai;

Quanti sparsi amari lai,

Quanto piansi di dolor!

Ma il dì chiaro è già spuntato;

terminò la notte oscura;

Oh felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesor.

Ah se il duol covando in seno

M’aggirai per erme valli,

Se salii per erti calli,

Rintracciando il mio Signor,

Compensata or sono appieno

D’ogni affanno, e d’ogni cura,

O felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesor.

Quanto è amabil è l’aspetto

Del Signor per cui sospiro!

Non ha stella il vasto empiro

Che pareggi il suo splendor,

Ah, chi tiene un cuor in petto

Deve amarlo a dismisura,

O felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesor.

Di me rida il mondo rio,

Il suo scherno io prendo a scherno;

Muova guerra a me l’inferno,

Io disprezzo il suo furor.

Di che mai temer poss’io

Se Gesù mi rassicura?

Oh felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesor.

Or chi fia che mi divida,

Dal mio ben cui son unita?

Chi di Lui che è la mia vita,

Potrà togliermi l’amor?

Se in amarlo resto fida,

Più non so che sia paura,

Oh felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesor.

Può di morte la saetta

Tor la vita a questa salma,

Ma divider non può l’alma

Dal suo Dio consolator.

Ch’anzi allora a Lui più stretta

Si unirà se è bella e pura,

Oh felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesor.

Oh in quel chiaro e lieto giorno

Che veder spero e desio,

No, di perdere il Ben mio,

Non avrò mai più timor.

Canterò nel bel soggiorno

Ove il gaudio eterno dura;

Oh felice mia ventura!

Ho trovato il mio tesor.

Fede e Domanda.

 

Gesù mio ver conforto,

Pace miglior non sento,

Non ho maggior contento

Che quando siete in me.

Libero allor d’affanni,

Mi pasco allor d’amore,

Sento che l’alma e il cuore,

Qual era più non è.

Tocco dal ben mondano,

L’uomo nel piacer s’incanta

E pascolo lo vanta

Dolcissimo e gentil;

Ma se del divin pane

Lo spirito suo ricrea,

Innalza al ciel l’idea,

Ed ha la terra a vil.

O vivo pan del cielo,

Che all’uomo abbietto e frale

Un vivere immortale

Ti degni d’apprestar;

Coi tuoi divini lumi

Feconda la mia mente

Per farmi, o Dio clemente,

Tua vita respirar.

Quando il terrestre cibo

A pascermi s’avanza,

Del cibo la sostanza

Tutto trasmuto in me;

Ma quando di tue carni

Sono, o Signor, cibato,

Tu in me non sei mutato

Ma io mi trasmuto in Te.

Deh il corpo tuo sacrato,

Che ricevei, Signore,

Qual pegno del tuo amore

In questo indegno cor,

Per modo tal s’attacchi

All’alma, al sangue, all’ossa

Che svellerlo non possa

Verun profano amor.

A questo cor deh! stendi

Tua man risanatrice;

Abbi dell’infelice,

Abbi, Signor, pietà:

Fa sì che nei piaceri

Nessun contento ei provi,

Che in te soltanto trovi

La sua felicità.

Ciò che non può capire,

Ingegno d’uom mortale,

Ed occhio naturale

Discernere non può;

Per modo inusitato

Ben si discerne e vede

Col lume della fede

Che Cristo ci donò.

In questo pane angelico,

Ci si comparte un pegno

Di quel celeste regno

Che fine non avrà.

O dolce amabil pascolo

A cui Gesù ci invita,

Apportator di vita

Nel sen d’eternità!

Pane del ciel venuto

Per scorta al gran passaggio,

D’eterna luce un raggio

Degnati tramandar.

Acciò quest’alma uscendo

Dalla sua soglia impura,

Più ratta e più sicura

Possa al suo Dio volar.

Si, quando sarò giù:

Al fin del mio cammii…

Del tuo vigor divino

Degnati me nutrir.

Non temerò in allora

De’ miei nemici il dardo,

Che, volo più gagliardo

Farammi al ciel salir.

Sommo Fattore eterno

Che desti a noi la vita

Tu rendila infinita

Con darle il cielo ancor.

Le tue sacrate membra

Formin la mia difesa

E l’alma sempre illesa

Vivrà per te, Signor.

Di sì mirabil pane

Fa tu che l’alma mia

Avida sempre sia,

Dolcissimo Gesù.

Che se dell’alme sante

La refezione è questa

Null’altro allor mi resta

A desiar quaggiù.

Protesta

Mondo, più per me non sei,

Io per te non sono più;

Tutti già gli affetti miei

Li ho donati al mio Gesù.

Ei m’ha tanto innamorato

Dell’amabil sua bontà,

Che d’ogni altro ben creato

L’alma più desio non ha.

Mio Gesù, diletto mio,

Io non voglio che te,

Tutto a te mi do, mio Dio,

Fanne pur che vuoi di me.

Più non posso, o sommo Bene

Viver senza del tuo amor.

Troppo già le tue catene

M’han legato e stretto i l cor,

L‘alma mia da te mia vita,

Più fuggir ormai non può,

Da che fu da te ferita,

Preda sua ella restò.

Se d’amarti io verme ingrato

Meritevol non son più

Gesù mio, d’essere armato

Troppo degno ognor sei tu.

Dammi dunque, o mio Signor

Quell’amore che vuoi da me,

Ch’io per paga, del mio amor

Solo amor cerco da te.

Ah, mio tutto, o caro Dio,

Il tuo gusto è il mio piacer,

D’oggi innanzi il voler mio

Sarà solo il tuo voler.

Prendi, o Dio, prendi a ferire,

Questo tuo non più mio cuor,

Fammi tu, fammi morire

Tra le vampe del tuo amor-

Sposo mio, mia vita, io t’amo,

E ti voglio sempre amar

T’amo, t’amo, e solo bramo,

Per tuo amore un di spirar.

Desiderio del Paradiso

Su, pensieri al ciel volate

Ove il sommo ben si sta;

Più la terra non amate

Ove è tutto vanità.

Voi felici se saprete

Solo al cielo sospirar,

Là patir più non potrete,

Ma godere e solo amar.

Là le brame appien saziate

Fan naufragio nel piacer

Son di gioie inebriate

Ed eterno è il lor goder.

Paradiso sei pur bello

Sempiterno è il tuo seren

De’ beati il bel drappello

Tu racchiudi nel tuo sen.

O felice o caro giorno,

Quando al ciel volerò!

Oh l’amabile soggiorno

ch’ivi sempre goderò!

Tra il tripudio, il riso, il canto,

che mai più non finirà,

loderò quel Dio che tanto

Amò me per sua bontà..

Se il patir è gran contento

Per amor sol di Gesù,

che sarà star solo intento

a goderlo colassù?

Che gradita compagnia

Co’ beati festeggiar,

E la vergine Maria,

Col suo Figlio contemplar!

O mortali quanti siete,

Deh movetevi a cercar

Su nel cielo la quiete,

Che Gesù sol vi può dar

Chiunque soffre con buon viso

Le terrene avversità,

Godrà poi nel paradiso

La beata eternità.

Ad ogni strofa si ripete.

Al cielo, al paradiso — Ove puro è il goder, perpetuo il riso.

Inno a Maria

Maria degnissima

delle più eccelse lodi;

Salve in eterno, e godi,

gran Madre del Signor.

Odi le nostre preci,

Vergin che tutto puoi,

E sempre sia con noi,

Vita del nostro cor.

Tonca gli indugi e siaci

In questa fragil vita

Consolatrice e atta

Contro l’ostil furor.

Per te del sommo Giudice

Placossi alfin lo sdegno,

E al celeste regno

Abbiam diritto ancor.

Duri pertanto eterna

Una sì bella calma,

Purgando la nostr’alma

D’ogni più lieve error.

Onde, compiuto il corso

Di questo tristo esiglio,

Ai gaudi del tuo Figlio

Partecipiamo ognor.

Ritmo di s. Tommaso d’Aquino

Adoro te devote, latens Deitas,

Quæ sub his figuris vere latitas;

Tibi se cor meum totum subjicit.

Quia te contemplans totum deficit.

Visus, tactus, gustus in te fallitur;

Sed auditu solo tuto creditur:

Credo quidquid dixit Dei Filius:

Nil hoc verbo veritatis verius.

In cruce latebat sola Deitas;

At hic latet simul et humanitas;

Ambo tamen credens atque confitens,

Peto quod petivit latro pœnitens.

Plagas, sicut Thomas, non intueor,

Deum tamen meum te confiteor;

Fac me tibi semper magis credere,

In te spem habere, te diligere.

O memoriale mortis Domini,

Panis vivus, vitam præstans nomini!

Præsta meæ menti de te vivere,

Et te illi semper dulce sapere.

Pie pellicane, Jesu Domine,

Me immundum munda tuo sanguine:

Cujus una stilla salvum facere

Totum mundum quit ab omni scelere.

Jesu, quem velatum nunc aspicio,

Oro fiat illud, quod tam sitio,

Ut te revelata cernens facie,

Visu sim beatus tuæ gloriæ.Amen.

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Preghiera

per cui Pio IX, li 11 Die. 1846, accordò 3 anni d’Indulg.

Obsecro te, dulcissime Domine Jesu Christe, ut passio tua sit mihi virtus qua muniar, protegar atque defendar; vulnera tua sint mihi cibus, potusque quibus pascar, inebrier atque delecter: aspersio sanguinis fui sit mihi ablutio omnium delictorum meorum: mors tua sit mihi gloria sempiterna. In his sit mihi rectio, exultatio, sanitas et dulcedo cordis mei. Qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.

 Offerta e Domanda

Omnipotens sempiterne Deus, conservator animarum mundique redemptor, me famulum tuum ante majestatem tuam prostratum, benignissime respice; et sacrificium quod in honorem nominis tui pro salute fidelium tam vivorum quam etiam defunctorum, et pro peccatis et offensionibus meis, obtuli, piissime suscipe; iram tuam a me remove, gratiam et ricordiam mihi concede: januam Paradisi mihi pande: ab omnibus malis me potenter eripe: et quidquid proprio commisi reatu, clementer indulge. Sic in hoc sæculo in præceptis tuis fac me perseverare, ut dingus electorum gregi copulari efficiar, te præstante, Deus meus, cujus nomen benedictum, honor, atque regnum permanent in sæcula sæculorum.

Domanda e Raccomandazione.

Ignosce, obsecro, Domine Deus, indignitati meæ et quidquid deliqui in hujus Missæ celebratione, clementer indulge; respice in me oculis misericordiæ tuæ; supple excessu meritorum tuorum meam imperfectionem; et qui fecisti me vas tuum, sanctifica me. Scribe in tabulis cordis mei voluntatem tuam, ut te immensæ dulcedinis Dominum et præcepta tua semper habeam præ oculis meis. Penetret amor tuus viscera mea, ut nihil terrenum desiderem, sed te solum habeam in corde et in ore meo. Cœlesti rore benedictionis tuæ extingue in me fomitem libidinis ut maneat tenor castitatis animæ et corporis. Imprime cordi meo amorem crucis et humiliationis. Ne patiaris me sino fructu a te recedere, sed operare mecum mirabilia tua, sicut cum Sanctis tuis operatus es et fac me ambulare in fortitudine cibis istius usque ad montem perfectionis. Omnibus quoque famulis tuis pro quibus obtuli hoc sacrificium, et pro quibus rogari tu vis, da pacem, salutem et tuam benedictionem. Converte peccatores ad te, revoca bæreticos; illumina ignorantes, adesto tribuatis; esto propitius propinquis et benefactoribus meis; miserere omnium adversantium mihi. Da vivis veniam et gratiam; da fìdelibus defunctis lucem et requiem sempiternam. Qui vivis, etc.

A Maria.

O serenissima et inclyta Virgo Maria, mater Domini nostri Jesu Christi, Regina cœli et terræ, quæ eundem Creatorum omnium creaturarum in tuo sancto utero digna fuisti portare, cujus idem veracissimum corpus et sanguinem ego ìndignus sumere præsumpsi; rogo te, per virginalem humilitatem tuam, et per passionem et mortem ejusdem Filii tui, ut apud ipsum prò me misero peccatore intercedere digneris; ut quidquid in hoc sacrosancto sacrifìcio, irreverenter, ignoranter, negligenter, vel incaute commisi, aut etiam omisi, tuis sanctissimis precibus, mihi dignetur indulgere. Amen.

Altra a Maria

Anima Virginis, illumina me: Corpus Virginis, custodi me: Lac Virginis, pasce me: Fletus Virginis, purifica me; Ttransitus Virginis, confirma me. O Maria, mater gratiæ, intercede pro me: Tibi in famulum suscipe me: fac mihi semper confidere in te: A malis omnibus protege me: Et iter mihi para tutum ad te: Ut cum electis omnibus glorificem te, in sæcula sæculorum. Amen.

Agli Angeli ed ai Santi.

Beati Spiritus Angelici, qui huic tremendo Mysterio cum summa reverentia et amore semper adstatis, et vos, o Sancti Dei omnes, ecce Dominum vestrum, quem vos in hoc mundo toto corde dilexistis, quemque vos, o Angeli sancti, in terra natum adorastis, eundem ego in ss. Sacramento a me susceptum vobis omnibus et singulis offero amandum, nec non ad majorem Dei gloriam et augmentum vostri gaudii, et sanctissimæ Trinitati presentandum, et pro meis, totiusque Ecclesiæ necessitatibus, offerendum exhibeo, rogans, ut precibus vestris veniam nobis delictorum nostrorum impetretis, robur in tentationibus, in afflictionibus subsidium, in vita nostra gratiam ac sanctam in morte perseverantiam, ut fine bono consummati, Deum deorum videamus, et amemus vobiscum per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Raccomandazione

Domine Deus omnipotens, Pater Christi Filii tui benedicti, exauditor invocantium te in rectitudine, qui scis interpellationes tacentium, gratias tibi agimus quod fecisti nos dignos participationis sanctorum mysteriorum tuorum, quæ præbuisti nobis in confirmationem corum quæ bene cognita sunt, in custodiam pietatis, in remissionem peccatorum, quoniam nomen Christi tui invocatum est super nos, et tibi conciliati sumus. Qui, segregasti nos a communicatione impiorum, conjunge nos cum consecratis tibi: confirma nos in veritate Sancti Spiritus; ignorata revela: quæ desunt exple: cognita corrobora. Sacerdotes tuere immacolatos in servitute tua; reges conserva in pace, magistratus in justitia, cœlum in salubritate, fructus in fertilitate, mundum in providentia omni ex parte sufficienti. Nationes bellicosas reprime; errantes converte; populum tuum sanctifica. Virgines in puntate conserva. matrimonio junctos custodi in fide, in viduitate degentes ab omni prævaricatione defende. Infantes perduc ad virilem ætatem, juvenes in disciplina dispone; adultos in pietate solida; senes in virtute perfice. Cathecumenos instrue, et immutationis dignos redde, novitios confirma, et ad bravi supernæ vocationis impelle; professos fac meliorum charismatum æmulatores. Tribulatis præsta solamen, infirmis salutem, tentatis Victoria. Da fidelibus omnibus defunctis æternam in cœlis requiem nosque omnes cum illis congrega in regno cœlorum, in Christo Jesu Domino nostro, cum quo Tibi et Spiritui Sancto, sit honor, cultus et gloria in sæcula sæculorum. Amen.

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BREVISSIMO RINGRAZIAMENTO

da ripetersi qualche tempo dopo la Comunione.

Non mi scorderò mai, o mio Dio, della grazia singolarissima che ho ricevuto da Voi nel partecipare al pane degli Angeli, alla divina Eucaristia; che anzi, intenerito da tanti favori, mi farò sempre a ringraziarvene nuovamente. Quanto siete buono, o Signore con coloro che vi temono, e come fate risplendere la vostra misericordia sopra di me, che l’ultimo sono tra i vostri servi. Ora sarà egli possibile che io non vi ami con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le forze o che io arrivi ad amare qualche altra cosa più di Voi? Ah! la mia debolezza mi fa tremare e dalla mia malizia, Voi non potete aspettarvi che sconoscenze ed oltraggi. Ma confidente nella vostra misericordia, che non sarà mai per negarmi i necessari soccorsi, sfido la morte e l’inferno a separarmi da Voi. No, non permettete, o mio Dio, che alcun oggetto terreno mi faccia vacillare miei proponimenti, e mi renda anche minimamente infedele al vostro amore. Continuate pertanto e compite la vostra opera in me, santificandomi ogni giorno con maggior perfezione. Mettete una guardia alla mia bocca nella quale Voi siete entrato, affinché non esca mai dalla medesima alcuna parola che sappia di detrazione o di indecenza, di collera o di superbia, di oziosità o di menzogna. Custodite dagli sguardi liberi e curiosi i miei occhi che hanno avuto la bella sorte di mirarvi annientato sotto le specie del pane; e fate che d’ora innanzi non si aprano se non a rimirare Voi crocifisso per compatirvi, Voi sacramentato per amarvi. Il mio corpo e il mio cuore, dove avete voluto fare la vostra dimora, deh! si mantengano sempre più degni di ricevervi quanto prima nella santa Eucaristia. A tale effetto, rendetemi o Signore, così vigilante sopra di me stesso, che mai non perda quella grazia che già mi avete accordata. Nutritemi spesso di questo pane divino affinché in esso io trovi la forza necessaria per terminare santamente il corso di mia vita, e così giungere a godervi svelatamente nella gloria in paradiso.

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

[G. Riva: Manuale di Filotea, XXX ed., Milano, 1888 –impr.-]

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En ego, o bone et dulcissime Iesu, ante conspectum
tuum genibus me provolvo ac maximo
animi ardore te oro atque obtestor, ut meum
in cor vividos fidei, spei et caritatis sensus, atque
veram peccatorum meorum pænitentiam,
eaque emendandi firmissimam voluntatem velis
imprimere: dum magno animi affectu et dolore
tua quinque Vulnera mecum ipse considero, ac
mente contemplor, illud prae oculis habens, quod
iam in ore ponebat tuo David Propheta de te,
o bone Iesu: « Foderunt manus meas et pedes
meos; dinumeraverunt omnia ossa mea » (Ps. XXI
v. 17 et 18).

[Eccomi, o mio amato e buon Gesù, che alla santissima vostra presenza prostrato, vi prego col fervore più
vivo a stampare nel mio cuore sentimeni di fede, di speranza, di carità, di dolore dei miei peccati e di proponimento di non più offendervi, mentre io con tutto l’amore e con tutta la compassione vado considerando le vostre cinque piaghe, cominciando da ciò che disse di voi, o mio Dio, il santo profeta Davide: “Hanno forato le mie mani e i miei piedi, e hanno contato tutte le mie ossa”. Così sia].

[Fidelibus, supra relatam orationem coram Iesu Christi
Crucifixi imagine pie recitantibus, conceditur:
Indulgentia decem annorum;
Indulgentia plenaria, si præterea sacramentalem confessionem instituerint, cælestem Panem sumpserint et ad mentem Summi Pontificis oraverint (S. C. Indulg., 31 tal. 1858; S. Pæn. Ap., 2 febr. 1934).

Del Ringraziamento

Non c’è orazione più grata a Dio, né più utile alle anime, di quella che si fa nel ringraziamento dopo la Comunione. È sentenza di molti gravi autori che finché durano le specie sacramentali, la Comunione cagioni maggiori grazie, semprecché l’anima seguiti a disporvisi con nuovi atti di virtù: insegnando il Concilio di Firenze, nel decreto di Eugenio IV agli Armeni, che il ss. Sacramento opera nell’anima gli stessi effetti del materiale, il quale, entrato nel corpo, seguita ad operare a norma delle sue disposizioni. Perciò le anime sante procurano di trattenersi in orazione quanto più possono dopo la Comunione. Il venerabile Avila, dopo la Comunione, abitualmente si tratteneva non meno di due ore. Il P. Baldassare Alvarez diceva doversi fare gran conto del tempo dopo la Comunione immaginandosi di udire dalla bocca stessa di Gesù Cristo le parole che disse ai discepoli Quanto a me non sarò sempre con voi. Perciò invece di mettersi a leggere subito dopo la Comunione, è meglio impiegare qualche poco di tempo in eccitare santi affetti, parlando da per sé con Gesù che è presente nell’ostia ricevuta, replicando anche più volte qualche affettuosa preghiera, a imitazione di Gesù nell’Orto che pregó per la terza volta tenendo lo stesso discorso. In affetti adunque in preghiere deve trattenersi l’anima con Gesù dopo la Comunione, essendo cosa certa che gli atti devoti che si fanno dopo la Comunione hanno più valore e più merito davanti a Dio che non hanno fatti in altro tempo, perché stando l’anima unita con Gesù, quegli atti vengono allora avvalorati dalla sua divina presenza. Di più deve ritenersi che Gesù dopo la Comunione sta più disposto a far grazie. Dice s. Teresa che Gesù dopo la Comunione si pone nell’anima come in trono di grazie, e le dice: cosa vuoi ch’Io ti faccia? Come dicesse: Anima mia cara, Io sono venuto apposta per farti grazie, chiedimi quanto vuoi e sarai accontentata. Oh che tesori di grazie riceverai, o Filotea, se seguiterai a trattenerti con Gesù dopo la Comunione almeno per mezz’ora! E perciò potrai leggere or l’uno or l’altro dei seguenti ringraziamenti, avvertendo che anche finita l’orazione, dovrai nel giorno che ti comunichi seguitare con gli affetti e con le preghiere a mantenerti unita con Lui che si è degnato di venire a te, come nella casa di Zaccheo, per portarvi con la sua grazia la più compita santificazione.

RINGRAZIAMENTO I.

Atto di fede.

Ecco, è già venuto il mio Dio a visitarmi, il mio Salvatore ad abitare nell’anima mia. Già il mio Gesù si trova dentro di me. Egli è venuto a farsi mio, ed insieme a farmi suo. Sicché Gesù è mio, ed io sono di Gesù. Gesù è tutto mio: ed io sono tutto suo. O bontà infinita! O misericordia infinita! O amore infinito! Un Dio viene ad unirsi con me, ed a farsi tutto mio! Anima mia, ora che sei così stretta con Gesù, fatta una cosa sola con Gesù, perché non parli confidenzialmente con Lui? Suvvia, ravviva la fede; pensa che gli Angioli ti stanno attorno adorando il loro Dio dentro il tuo petto, adoralo adunque tu ancora, e tutta raccolta in te stessa, pensa a fargli la maggior accoglienza che ti è possibile.

Atto di Accoglienza.

Ah! mio Gesù, mio amato, mio bene infinito, mio  tutto, siate sempre il benvenuto nella povera casa dell’anima mia. Ma, dove siete arrivato? Dove vi  trovate Voi mai? In un cuore peggiore della stalla dove nasceste, pieno di attacchi di amor proprio e di appetiti disordinati. E come avete potuto venire ad abitarvi? Maria ss., Spiriti Angelici, Santi tutti del cielo, voi che amate Dio con puro amore, impetratemi i vostri affetti per far compagnia al mio amato Signore ora che si trova nella povera anima mia.

Atto di Ringraziamento.

Mio Dio, e mio Signore, io vi ringrazio del favore che mi avete fatto questa mattina di venire ad abitare nell’anima mia. Vorrei farvi un ringraziamento degno di Voi e del gran favore a me fatto. Ma qual ringraziamento posso farvi io miserabile, che sia degno di un Dio il quale con tanto amore si è dato a me? Se Davide non sapeva in qual modo contraccambiare i tanti benefici a lui fatti, per cui esclamava: “quid retribuam Domino, quid retribuam?” che cosa renderò io a Voi, mio Gesù, che, dopo avermi donato tanti vostri beni, mi avete donato questa mattina anche Voi stesso? Benedici dunque, anima mia, e ringrazia come meglio sai il tuo Dio. E voi Madre mia Maria, Santi avvocati, Angelo mio custode, Anime tutte che siete innamorate di Dio, venite a benedire e ringraziare il mio Dio per me, ammirando e lodando le grazie troppo grandi che Egli mi ha fatto.

Atto di Offerta.

Il mio diletto è mio, ed io sono suo. Se un Re viene a visitare un povero pastorello dentro il suo pecorile, che altro può offrirgli il pastorello, se non la sua greggia qual è? Giacché adunque, o divino mio Re, Gesù, siete venuto a visitare la povera casa dell’anima mia, io vi offro e vi dono la casa e tutto me stesso con la mia libertà e volontà. Voi vi siete dato tutto a me, io mi do tutto a Voi. Io non voglio, mio Gesù, essere più mio; da qui in avanti voglio essere vostro e tutto vostro. Sian vostri i sensi miei, acciocché mi servano solo per dar gusto a Voi. E qual maggior gusto si può avere, dirò con s. Pietro d’Alcantara, che dar gusto a Voi, Dio amabilissimo, amorosissimo, e sempre larghissimo nel corrispondere a qualunque più piccolo servigio? Io vi dono insieme tutte le mie potenze, e voglio che tutte siano vostre; non voglio che la memoria mi serva ad altro che a ricordare dei vostri benefici e del vostro amore; l’intelletto non mi serva che a pensare a Voi, che sempre pensate al mio bene, e la volontà non mi serva ad altro che ad amar Voi, mio Dio, mio tutto, ed a voler soltanto quel che volete Voi. Vi consacro dunque e vi sacrifico, mio dolcissimo Salvatore, tutto quanto ho e quanto sono, i miei sensi, i miei pensieri, i miei affetti, i miei desideri, i miei gusti, le mie inclinazioni, la mia libertà; insomma nelle vostre mani io consegno tutto il mio corpo e l’anima. Accettate, o Maestà infinita, il sacrificio che vi fa di sé stesso il peccatore più ingrato che avete avuto sulla terra per il passato, ma che ora si offre e si dona a Voi. Fate in me e disponete di me come vi piace. Consumate in me tutto quello che è mio e vi piace agli occhi vostri, acciocché da oggi io sia tutto vostro, e viva unicamente per seguire, non solo i vostri precetti e i vostri consigli, ma ancora tutti i vostri desideri. Maria ss., presentate Voi con le vostre mani alla ss. Trinità questa mia offerta, ed ottenetemi Voi che l’accetti, e mi doni la grazia d’esservi fedele fino alla morte.

Atto di domanda.

Anima mia, che fai? non è tempo da perdere il presente; è tempo prezioso in cui puoi ricevere qualunque grazia. Non vedi l’Eterno Padre che ti sta amorosamente guardando, vedendo dentro di te il suo diletto Figlio, l’oggetto più caro del suo amore? Discaccia ora tutti gli altri pensieri, ravviva la fede, allarga  il cuore, e domanda quanto vuoi. Non senti Gesù medesimo che ti dice: Che vuoi ch’Io ti faccia? Anima mia, dì che vuoi da me? Io sono venuto apposta per arricchirti e contentarti; domanda con confidenza, ed avrai quanto vuoi. Ah, mio dolcissimo Salvatore! Giacché Voi siete in me per riempirmi delle vostre grazie, e desiderate che io ve le domandi, io non vi chiedo beni di terra, non ricchezze, non onori, non piaceri, datemi vi prego un gran dolore dei disgusti che vi ho dati, e una gran luce che mi faccia conoscere la vanità di questo mondo, e il merito che Voi avete d’essere amato. Cambiatemi questo cuore e distruggete in me tutti gli affetti terreni; donatemi cuore tutto uniforme alla vostra volontà, che non cerchi altro che il vostro maggior compiacimento, e non aspiri ad altro che al vostro santo amore. Io non merito tanto; ma lo meritate Voi, o mio Gesù, dacché non sdegnate di venire dentro di me; io ve lo domando per i meriti vostri e della vostra SS. Madre, e per l’amore che portate al vostro eterno Padre.

[Qui fermatevi a chiedere a Gesù qualche altra grazia particolare per voi e pei prossimi, e non vi scordate dei peccatori e delle anime del Purgatorio. Pregate ancora per l’anima pia e religiosa del Defunto autore di questo Manuale e per quel povero Sacerdote che ne continua l’edizioni.]

Eterno Padre, è Gesù Cristo stesso, vostro Figlio che ci ha detto: Vi assicuro che qualunque cosa domanderete al Padre in mio Nome, ve la darà. Per amore  dunque di questo Figlio che tengo nel mio petto, esauditemi Voi, e donatemi quello che vi domando. O miei dolcissimi amori, Gesù e Maria, per Voi patisca, per Voi io muoia; sia tutto vostro e niente mio. – Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento. Sia benedetta la santa ed Immacolata Concezione della beata Vergine Maria. Anima di Cristo santificatemi; Corpo dì Cristo salvatemi; Sangue di Cristo inebriatemi; Acqua del lato di Cristo, mondatemi; Passione di Cristo, confortatemi; o buon Gesù, esauditemi. Tra le vostre piaghe nascondetemi; e non permettete che io mi allontani da Voi; dal nemico maligno difendetemi: nell’ora della mia morte chiamatemi: e fate che venga presso di Voi, onde con i Santi e con gli Angeli vi lodi per tutti i secoli de’ secoli. Così sia.

RINGRAZIAMENTO II

A Gesù.

Ecco, Gesù mio, già siete venuto: ora state dentro di me, e già vi siete fatto tutto mio. Siate il ben venuto, amato mio Redentore, Io vi adoro e mi prostro ai piedi vostri, e teneramente vi abbraccio, vi stringo al mio cuore, e vi ringrazio d’esservi degnato di entrare nel petto mio. O Maria, o Santi avvocati, o Angelo mio custode, ringraziatelo Voi per me. Giacché dunque, o divino mio Re, siete venuto a visitarmi con tanto amore, io vi dono la mia volontà, la mia libertà e tutto me stesso. Voi tutto a me vi siete donato, io tutto a Voi mi dono. Io non voglio essere più mio: da oggi innanzi voglio esser vostro e tutto vostro. Tutta vostra voglio che sia l’anima mia, il corpo mio, le mie potenze, i sensi miei, acciocché tutti s’impieghino in servirvi e darvi gusto. A Voi consacro tutti i miei pensieri, i miei desideri, gli affetti miei e tutta la mia vita. Deh! non vi avessi mai offeso; deh potessi amarvi quanto Voi meritate! Ma, se non posso altro, io risolvo fin d’adesso di spendere solamente in amare Voi tutta la vita che ancor mi resta. Accettate, o Dio dell’anima mia, il sacrificio che vi fa questo povero peccatore, che altro non desidera che di amarvi e compiacervi. Fate Voi in me, e disponete di me, e di tutte le cose mie, come vi piace. Distrugga in me il vostro amore tutti gli affetti che a Voi non piacciono, acciocché io sia tutto vostro, e viva solo per darvi gusto. Io non cerco beni di terra, non piaceri, non onori, vi domando per i meriti della vostra passione, un continuo dolore dei miei peccati. Datemi la vostra luce che mi faccia conoscere la vanità dei beni mondani, e il merito che Voi avete di essere amato. Togliete da me tutti gli affetti terreni, e legatemi tutto al vostro santo amore, acciocché da oggi innanzi altro non voglia, né desideri se non quello che volete Voi. Datemi pazienza e rassegnazione nelle infermità, nella povertà e in tutte le cose contrarie al mio amor proprio. Datemi mansuetudine verso chi mi disprezza. Datemi il vostro santo amore con una fedeltà inalterabile nel vostro santo servizio fino alla morte. Non permettete mai più che io mi abbia a separare da voi. Jesu dulcissime, ne permittas me separari a te. Datemi infine la grazia di ricorrere sempre a Voi con figliale fiducia in tutte le mie tentazioni, onde non demeritare giammai la massima di tutte le grazie, la santa perseveranza.

All’Eterno Padre.

Ringrazio ancora Voi, Signor santo, Padre onnipotente, eterno Iddio, che vi siete degnato di pascere me peccatore, vostro servo indegno, del preziosissimo Corpo e Sangue del Figliuol vostro e nostro Signor Gesù Cristo, e vi prego a far sì che questa santa Comunione non mi sia un nuovo reato a castigo, ma piuttosto una intercessione salutare ad ottenermi perdono; mi serva a distruzione di tutti i vizi, ad accrescimento di carità, di pazienza, di umiltà e di tutte le sante virtù: mi sia di forte difesa contro de’ miei nemici, e di calma perfetta in tutte le potenze dello spirito e della carne; e soprattutto mi aiuti ad unirmi stabilmente a Voi unico e vero Dio,  e a compiere felicemente nella vostra grazia i miei giorni. E allora deh! buon Padre, vi piaccia di condurmi a quel convito ineffabile, di Paradiso, dove Voi col medesimo Figliuol vostro e collo Spirito Santo, siete a’ vostri eletti vera luce, piena consolazione, eterno gaudio e perfetta felicità.

A Maria come Avvocata.

O gran Madre del santo amore, vita, dolcezza, speranza nostra, dunque non è bastato a Gesù di farsi avvocato mio presso il Padre, s’Egli non faceva anche Voi avvocata presso di sé medesimo? Ben si scorge quanto ami la mia salute, mentre, dopo averla procurata con tanti mezzi, non ancor pago, vuole che insieme ai suoi meriti concorranno ad ottenermela anche le vostre preghiere, cioè quelle preghiere alle quali ha dato tanto di forza che si rispettino come leggi. Se così è, ecco che, per esecuzione di un disegno così pietoso, io vengo ai piedi vostri, quasi ad altar di rifugio, e così prostrato, sebbene mi riconosca la più miserabile fra tutte le creature, pure protesto che spero nel vostro aiuto, e spero tanto che, se la mia salute stesse totalmente nelle mie mani, io vorrei subito dalle mie rimetterla nelle vostre, tanto di Voi più giustamente mi fido che di me stesso. È vero che io con i miei peccati taglio la via a quel soccorso che Voi mi procurate con la vostra intercessione: ma con tutto ciò, io spero che Voi vincerete con la vostra efficacia amorevole anche questo ostacolo che io fo a me stesso, e mi impetrerete che io secondi con una pronta e fedele cooperazione la vostra mediazione, e più non la disturbi con la mia durezza e infedeltà. Non si sa che alcuna causa protetta efficacemente da Voi siasi finora perduta; e temerò che si perda la mia? Ah no! tutto il mondo si dimentichi di me, purché ve ne ricordiate Voi, o mia amorevolissima Protettrice. Degnatevi solamente di piegare uno sguardo sopra di me, e se non si commuoverà il vostro cuore alla vista delle mie miserie, mi contento di restare da Voi abbandonato. Dite a Dio che io sono vostro, e poi non ricuso di perire, se ciò non basta a salvarmi. Questa è la sola speranza che mi consola, con questa voglio vivere, in questa voglio morire. Così sia.

Raccomandazione.

O Padre delle misericordie, Dio di tutte lo consolazioni che, dandoci nell’Incarnazione il vostro divin Figliuolo, ci avete dato insieme a Lui tutti i beni, e nelle nostre orazioni ascoltate le sue, e facendo a noi misericordia, a Lui fate giustizia, degnatevi, in vista degli infiniti suoi meriti, di rimediare a tutti i bisogni spirituali e temporali, particolari e comuni di tutto il genere umano. Abbiate pietà di tanti infedeli, di tanti eretici, di tanti peccatori, e convertiteli, di tanti giusti che vi servono sì freddamente e infervorateli, concedete agli innocenti che conoscano la loro sorte e la mantengano, ai tentati che resistano con fortezza, ai penitenti che più non tornino alle loro colpe passate, a tutti i vostri servi che vi amino sempre più e cerchino sempre più puramente la vostra gloria. Ricordatevi di tanti poveri, di tanti ammalati, di tanti afflitti: per tutti da voi imploro, o mio Gesù, consolazione ed aiuto. Santificate la vostra Chiesa in tutti quanti i suoi ministri, assistete specialmente il Sommo Pontefice, che ne è la pietra fondamentale. Rendete bene a tutti quelli che ci odiano; difendete tutti i vostri fedeli; estendete la vostra misericordia fin giù nel Purgatorio, soccorrendo quelle anime sante, a suffragio delle quali io vi offro quanto di bene è stato fatto e si farà in avvenire. Sopra tutto porgete aiuto alla povera anima mia che io interamente metto nelle vostre mani; toglietene tutto ciò che vi dispiace, accrescete in me la fede, la speranza e la carità, e infervoratemi nell’esercizio di tutte le virtù, ma datemi specialmente una continua contrizione di tutti quanti i miei peccati; non permettete ch’io torni ad offendervi; anzi fate che, mantenendomi sempre a Voi ubbidiente, venga ad amarvi e godervi, per tutti i secoli coi Santi e con gli Angeli in Paradiso.

RINGRAZIAMENTO III.

Atto di Adorazione.

Maestà adorabile del mio Dio, innanzi a cui tutto ciò che v’ha di più grande in cielo e in terra è un niente, che posso io fare alla vostra presenza, se non umiliarmi nel più profondo della mia miseria ed indegnità, e presentarvi le adorazioni e gli omaggi che vi sono resi dagli Angeli, dai Santi, da tutte le creature, e confessare con loro che voi siete il solo Santo, il solo Signore, il solo Altissimo sopra tutte le cose, cui solo si deve onore, gloria, salute e benedizione per tutti i secoli?

Atto di ringraziamento.

E tu ancora benedici, anima mia, il tuo Dio, e voi interiori potenze, risvegliatevi a riconoscere ed adorare il Signor vostro che si trova tra mezzo a voi,  né cessate mai di benedire il suo santo Nome. Un Dio darsi tutto a me! Il Creatore del cielo e della terra, il Re dei re, il Padrone dell’universo a sì misera creatura? Che degnazione, che dono! Quali ringraziamenti potranno corrispondere ad un favore sì grande? Io ve ne ringrazio, o Gesù mio, quanto so e posso; e meco pure invito gli Angeli, gli eletti del cielo e della terra, e tutte le creature dell’universo a ringraziare e ad esaltare per sempre la bontà, la larghezza, la magnificenza del mio Signore, né sarà mai che io mi dimentichi di un sì gran dono.

Atto di Contrizione.

Ma dove vi trovate voi, o sovrano Re della gloria? In questo cuore più vile di quel presepio ove siete nato, disadorno di virtù e pieno di miserie. Oh quanto mai è stata grande la bontà vostra nel venire in sì povera abitazione! E quanta è la confusione mia in vedermi tanto favorito da un Dio che ho tanto offeso ed oltraggiato! Ma di presente abbomino e detesto quanto ho fatto di male e quanto tuttora si trova in me di spiacevole agli occhi vostri. Ah, troppo grande è stato il torto che vi ho fatto, o somma Bontà infinita, di abbandonarvi così villanamente per voltarmi a misere creature, le quali poi non hanno fatto altro che imbrattarmi il cuore e trarmi a perdizione. Ora a tutto rinunzio, o Gesù mio, per riunirmi a Voi, ed essere tutto vostro per sempre. Rinunziò alle amicizie traditrici del mondo per far conto soltanto della preziosa amicizia vostra, rinunzio alle ricchezze ingannevoli del mondo per farmi veramente ricco della vostra grazia; rinunzio agli onori vani del mondo per avere la gloria sincera di essere vostro figliuolo e seguace; rinunzio finalmente a tutti i beni e a tutte le soddisfazioni sognate di quaggiù per mettere tutta la mia consolazione in Voi, per possedere Voi solo, vero ed unico mio Bene, e possedervi per sempre. O Salvatore amantissimo, Voi siete nel mezzo del mio cuore e dinanzi a Voi, e per amor vostro, io faccio queste risoluzioni, pregandovi che vi degniate di gradirle e renderle efficaci con la vostra grazia; e questo Sacramento stesso ne sia come un sigillo che lo renda inviolabili fino alla morte. Sì, morir piuttosto, o mio Dio, piuttosto spirare qui dinanzi a Voi, che offendervi ed abbandonarvi ancora.

Atto di Amore.

Ma, perché, o mio Gesù, non ho io in questo momento un cuore tutto fervore e simile al vostro per amarvi e trattenervi degnamente? Angeli, Santi, cittadini tutti del cielo e della terra, qui venite a far corte al vostro Re, e a me ancora ottenete sentimenti degni di Lui. O Gesù amabilissimo, vera luce degli occhi miei, giubilo del mio cuore, mio sostegno, mio tesoro, mia vita, vero, sommo ed unico mio Bene, sì che vi amo, e desidero di amarvi con tutta l’anima mia, con tutte le mie forze. Vi amo e vorrei in questo momento con l’ardore dell’amor mio riparare tutto quel tempo che non vi ho amato; vorrei almeno avere un cuore tutto amore per voi, sicché si occupasse di Voi solo, e più non amasse le creature che in ordine a Voi. O fornace santa d’amor celeste, fatemi parte de’ vostri ardori; investite questo mio cuore delle vostre fiamme divine; consumatevi ogni amor di mondo e di me stesso; fate che avvampi con Voi del vostro soave incendio d’amore, onde io più non abbia né mente, né cuore, se non per Voi; e, non contento di amarvi io solo, mi adoperi per tirare a Voi tutti i cuori, e vi faccia amare dalla famiglia, dai conoscenti, da tutto l’universo. A questo fine, o mio Dio, di essere una volta tutto amore per Voi, vi offro e consacro quanto ho e quanto sono, i miei pensieri, i miei affetti, i miei sensi, la mia libertà, e specialmente quella passione che più mi porta ad offendervi. Nelle vostre mani rimetto l’anima, il corpo, e la vita mia, perché ne disponiate liberamente a vostro piacere come di cosa tutta vostra. Ah Gesù mio! Se Voi tutto vi donaste a me, e in modo sì amorevole e portentoso, è ben giusto che anch’io interamente mi doni a Voi. Ma Voi siete un Dio, io una misera creatura; pure tant’è la bontà vostra, o mio Gesù, che gradiste ancora la piccola offerta della povera vedova, perché di buon cuore dava tutto ciò che poteva dare, onde spero che non disaggradirete pure l’offerta che sinceramente vi fo di tutto me stesso, anzi vi compiacerete di renderla più degna di Voi col santificarmi.

Atto di Domanda.

Si, divino Redentore, compite tutti i disegni di misericordia per cui, dal sublime trono della vostra gloria vi siete degnato di scendere a sì misero albergo. Gesù dolcissimo, non vi basti d’avermi dato tutto Voi stesso, ma datemi ancora i tesori e le grazie che portate con Voi, vedete in me quanto mi bisogna, tutto accordatemi; Voi siete pur quel desso che nel tempo del vostro corso mortale illuminaste i ciechi, mondaste i lebbrosi, risanaste gl’infermi, santificaste i peccatori, e beneficaste tutti quelli che con viva fede ricorrevano a Voi; ora eccovi ai vostri piedi, o mio Dio, e pieno di fiducia nella bontà vostra, un povero cieco, illuminatemi; eccovi un lebbroso della più schifosa lebbra di cattivi affetti, mondatemi; eccovi un infermo di più sorte d’infermità dolorose, risanatemi; eccovi un peccatore dei più miserabili, santificatemi. – Al vostro potere immenso niente è difficile, e dalla carità vostra infinita spero ogni cosa. Dei beni di questa terra solo vi cerco quello che è necessario, perché io e la mia famiglia, bastevolmente provveduti nella vita presente, meglio possiamo attendere all’acquisto della futura. Ma quello di che istantemente vi prego e vi scongiuro è singolarmente la grazia di piangere i miei peccati, di ben soddisfare ai doveri del mio stato, e di tollerare con rassegnazione e costanza i travagli della vita, di amarvi finalmente, e di potere tutti per Voi impiegare in amarvi i giorni miei fino all’ultimo respiro, il quale pure non sia che un sospiro d’amore per cui venga ad amarvi perfettamente nel cielo. Tardi vi ho conosciuto o Bontà eterna! Tardi ho cominciato ad amarvi, o Bontà infinita, ma datemi Voi tanto di amore che vi ami ancora pel tempo che non vi ho amato, vi ami per quelli che vi offendono ancora; e sarò sempre contento d’aver cominciato una volta ad amarvi, per continuare poi ad amarvi per tutti i secoli in paradiso, come in virtù di questo Sacramento, dalla bontà vostra infinita, per i meriti del vostro Sangue immacolato, domando e spero fiduciosamente di conseguire. Vergine santa, Angeli di Dio, Eletti del cielo, vi ringrazio della vostra assistenza e grazie voi pure per me rendete al mio Signore per questo gran dono che si è degnato di fare all’anima mia;  ottenetemi che sempre gliene sia grato: e viva in modo che anche alla morte possa da Lui ricevere una visita sì consolante, e per virtù di essa venire con Voi ad esaltare per sempre le sue misericordie in Paradiso.

RINGRAZIAMENTO IV.

Atto di Fede.

Amabilissimo Gesù mio, che felice momento egli è mai questo per me! Tanti patriarchi, tanti profeti han desiderato di vedervi su questa terra, e non furono esauditi; ed io indegnissimo peccatore che ho già meritato mille inferni, sono divenuto adesso il tabernacolo della vostra divinità! Il mio Diletto, posso esclamare colla mistica Sposa, il mio Diletto è con me, ed io sono con Lui: Dilectus meus mihi, et ego illi. Ho trovato finalmente l’oggetto de’ miei amori, il fonte d’ogni mia consolazione, il giubilo de’ miei occhi, l’allegrezza del mio cuore, il principio ed il fine della mia vita, il mio dolcissimo Gesù. Io più non invidio, o Signore, i Pastori ed i Magi che vi adorarono bambino nella capanna di Betlemme, né il vecchio Simeone che vi abbracciò e vi strinse al petto colà nel tempio di Sion. Più avventurato dì tutti costoro, io non solamente vi ho veduto co’ miei occhi, vi ho toccato con la mia lingua, ma glorioso e trionfante come siete, alla destra del divin Padre, vi possiedo ora realmente nella povera anima mia. Angeli del cielo, che assistete continuamente al trono dell’Eterno, venite adesso festosi d’intorno al mio cuore per corteggiare il vostro Re. Glorificate per me coi vostri inni celestiali quest’amabile Gesù, che forma la vostra beatitudine nel gaudio eterno del Paradiso.

Atto di Lode.

Che altro posso far io, o Signore, se non lodarvi, benedirvi e ringraziarvi per un beneficio sì distinto qual è quello d’avermi fatto partecipe del pane stesso degli Angeli, della manna del Paradiso? Vi lodo pertanto, o Signore, vi benedico e ringrazio con tutti gli affetti de1 mio cuore, con tutte le forze del mio corpo. Vorrei avere tanti cuori e tante lingue quanti sono gli atomi dell’aria, le arene del mare, le stelle del firmamento per tutte impiegarle in amarvi, in lodarvi, in benedirvi, o Padre delle misericordie, o Dio di tutte le consolazioni. Ma, giacché tanto non posso, lasciate almeno che nel muto loro linguaggio vi lodino e vi benedicano le creature, tutte dell’universo che Voi avete assoggettato alle nostre disposizioni. Per me dunque lodate il mio egualmente che il vostro Dio, o Cieli distesi dalla sua onnipotenza, voi o stelle illuminate dal suo splendore, voi o Pianeti diretti dal suo sapere, voi o Stagioni regolate dalla sua amorevolissima provvidenza. Lodatelo voi,o Mari, che siete un’immagino smorta della sua immensità. Lodatelo voi o Monti, che rappresentando la sua eternità, siete ancora un’immagine di quella fermezza che dovrebbe avere l’anima mia nei buoni proponimenti. Lodatelo voi, o Venti, che simboleggiate quelle sante ispirazioni con le quali tante volte mi visitò. Lodatelo o Pioggie, o Rugiade, che raffigurate quelle grazie che Egli con tanta abbondanza ha piovuto sopra di me. Lodatelo voi, o Ghiacci, o Brine, che rimproverate la mia freddezza nel suo servizio. Lodatelo voi, o Fiamme,O Fuoco, che siete un’immagine di quel fervore che non ho mai avuto fin qui, e che desidero adesso sì ardentemente. Lodatelo voi, o Fiori tutti del prato, che con la vostra caducità m’invitate a staccare il mio cuore dai beni miserabili di questo mondo, e con la soavità della vostra fragranza mi ricordate il dovere di essere sempre con la mia edificazione il buon odore di Cristo. Lodatelo finalmente voi tutti, o Germogli del campo, che m’insegnate con l’esempio a crescere ogni giorno nelle sante virtù. Io vorrei poter animare e santificare le creature tutte dell’universo per farvi da esse lodare con discernimento, con costanza e con merito. Ma giacché nemmeno questo mi è possibile, ricevete, vi prego, in supplemento della mia insufficienza, i ringraziamenti e lo lodi che vi furono date, che vi danno e vi si daranno continuamente dalle anime più fervorose di questa terra e dai Santi e dagli Angeli in Paradiso, quei fervidi atti di amore, di ringraziamento, e di lode che vi fece Maria santissima, quando v’incarnaste nel suo purissimo seno, e quando più volte la visitaste nelle sue santissime comunioni. Ricevete infine, in supplemento dei miei, quel ringraziamento infinitamente meritorio che voi medesimo faceste al vostro divin Padre là nel Cenacolo nell’atto di istituire questo gran Sacramento!

Atto di Adorazione e di Domanda.

Maestà incomprensibile del mio Dio, innanzi a cui tremano per riverenza i Serafini più puri, io mi umilio davanti a Voi, e vi adoro a me presente sotto le specie sacramentali. Vi faccio del mio cuore un trono su cui abbiate a regnare, come assoluto padrone, fino alla morte. Vi adoro con tutto il mio spirito, o Gesù mio, e Voi solo riconosco meritevole di tutto le adorazioni, perché Voi solo siete il Santo, Voi solo il Signore, Voi solo l’Altissimo sopra tutte le cose. Adoro l’anima vostra santissima raccomandata già sulla croce al Padre eterno, ed ora intimamente unita alla povera anima mia; deh con la vostra presenza santificatela: Anima Christi santificame. Capo santissimo del mio Gesù in cui risiedono i tesori della sapienza del Padre; che foste per amor mio percosso con la canna e coronato di spine, purificate adesso i miei pensieri della mia mente, affinché siano sempre diretti a Voi. Occhi santissimi del mio Gesù, che con un semplice sguardo convertiste i cuori più duri, frenate adesso la mia curiosità che mi espone a tanti pericoli, e guardate pietosamente le miserie dell’anima mia per guarirla da tutte le infermità, affinché in avvenire mirando la terra ne disprezzi le pompe, contemplando il cielo ne sospiri il possesso, e fissandosi in Voi ne ricopi gli esempi. Orecchie divine del mio Gesù, sempre aperte per ascoltar le suppliche degli infelici, eppure per amor mio assordate dalle calunnie, dalle bestemmie e dalle imprecazioni, ascoltate adesso la preghiera del più indegno fra i peccatori; non permettete che io ascolti in avvenire discorsi di seduzione, di maldicenza, di vanità; e fate che il mio udito non si impieghi che in ascoltare le vostre lodi per pubblicarle, i miei difetti per correggerli, i vostri consigli per eseguirli. Lingua divina del mio Gesù che comandaste ai venti di tacere, agli infermi di guarire, ai morti di risorgere e foste subito obbedito, comandate adesso al mio cuore di sbandire da sé tutti gli affetti stranieri per non amare che Voi; comandate alle mie passioni che non si ribellino contro lo spirito; comandate alla superbia di cedere il posto all’umiltà; dite all’invidia di non contrastare l’impero della carità, alla mia gola di mortificarsi, alla lingua di tacere, alla collera di mansuefarsi, alla carne di diminuire i suoi stimoli, al mondo di non affascinarmi più con le sue pompe, al demonio di non tentare mai più l’ingresso nell’anima mia: parlate insomma, e sottentrerà il fervore alla tiepidezza, la continenza alla libidine, la mortificazione all’intemperanza. Piedi divini del mio Gesù, che tanto vi affaticaste per cercare i peccatori regolate adesso tutti i miei passi, affinché mai non devii dalla strada dei divini comandamenti. Mani santissime del mio Gesù, che foste per amor mio legate dalle catene e trapassate dai chiodi, stringetemi pietose al divino suo seno, perché non me ne allontani mai più. Corpo santissimo del mio Gesù, per amor mio flagellato, crocifisso, morto, sepolto, ed ora sedente glorioso alla destra del divin Padre, santificate, vi prego, tutti i miei sentimenti, affinché divengano in avvenire altrettanti strumenti di vostra gloria: Corpus Christi, salva me. Sangue preziosissimo del divin Gesù, inebriatemi per modo del vostro amore, ch’io sia pronto a dar la vita piuttosto che offendervi anche solo venialmente: Sanguis Christi inebria me. Acqua santissima uscita dal costato del mio Gesù, lavate, vi prego, l’anima mia anche dalle minime imperfezioni, affinché riacquisti una volta quella bella licenza che tante volte ho perduto con i miei peccati: Aqua lateris Christi, munda me. 0 buon Gesù, che siete disceso dal cielo per visitarmi in persona nella santissima Eucaristia, esaudite pietoso le mie preghiere: O bone Jesu, exaudi me. Nelle vostre piaghe, o Signore, che sono la casa del mio rifugio, nascondetemi, affinché, in esse vivendo tutti i giorni della mia vita, io non mi separi mai più da Voi, sia sicuro da ogni assalto del mio nemico, e richiamato da Voi al punto della morte, trovandomi ancora a Voi unito passi senza ostacolo da questa terra di miserie al regno di tutti i piaceri, onde lodarvi e godervi con gli Angeli e i Santi in tutti i secoli de’ secoli. Così sia. Intra tua vulnera absconde me; ne permittas me separari a te; ab hoste maligno defende me; in hora mortis meæ voca me; et pone me juxta te; ut cum Angelis et Sanctis tuis collaudem te in sæcula sæculorum. Amen.

Atto di Raccomandazione.

Non restringete però a me solo le vostre benedizioni, o Signore. Degnatevi di benedire anche tutti coloro che si raccomandano o desiderano d’essere raccomandati alle mie orazioni, i miei parenti, i miei amici, e specialmente coloro ai quali sono stato occasione di peccato o di disgusto. Benedite la vostra Chiesa, ed esaltatela col confondere i suoi nemici, col dilatare il suo regno, col riempire di scienza, di carità, di zelo tutti quanti i suoi ministri, ma particolarmente il Sommo Pontefice [Gregorio XVIII], il nostro Vescovo, il nostro Pastore, il nostro Direttore. Benedite la nostra città, e tenete sempre da lei lontano la peste, la fame, la guerra e tutto quello che in qualunque maniera potrebbe minacciarne la sicurezza, o impedirne la prosperità. Benedite i magistrati, e fate che camminino sempre sulla via della giustizia. Benedite i bisognosi d’ogni genere, e date nella vostra misericordia la pazienza ai poveri, la rassegnazione agli afflitti, la fortezza ai tentati, la vittoria ai moribondi, la contrizione ai peccatori, il fervore ai penitenti, la perseveranza ai giusti, la grazia di convertirsi a tutti coloro che adesso non vi conoscono o vi bestemmiano. Finalmente non dimenticatevi delle povere anime del Purgatorio, in suffragio delle quali io vi supplico di ricevere la presente comunione, e vi prego d’applicare ad esse tutti i meriti infiniti della vostra passione e della vostra morte. Maria Santissima, Angelo mio custode, Santi tutti del cielo, avvocati e protettori, impetratemi voi con la vostra intercessione il compimento de’ miei desideri, l’esaudimento delle mie suppliche. Così sia. [1- Continua … ]

IL SS. NOME DI MARIA (2018)

DELL’ECCELLENZA DEL NOME DI MARIA

[J. Thiriet: Prontuario Evangelico, vol. VII, MILANO, 1916, imprim.]

FESTA DEL SS. NOME DI MARIA

Dell’eccellenza del Nome di Maria.

Et nomen Virginis Maria. (Luc. I, 27). Uscito Davide dalla meditazione delle perfezioni di Dio, gridava: Domine, Dominus noster quam ammirabile est nomen tuum in universa terra! Noi possiamo egualmente indirizzare questa lode a Maria…. «O Regina nostra, quanto è ammirabile il vostro nome nel mondo intero! » Il nome di Maria viene dal cielo: Iddio l’ha escogitato e l’ha pronunziato : Lui solo poteva dar il nome alla Madre sua: questo nome: Maria esprime il suo essere, la sua vita, la sua missione sulla terra, una storia intera che non si limita ai 72 anni di sua esistenza, ma si svolge attraverso i secoli, e si eternerà nei cieli.

Anco ogni giorno se ne parla e plora

in mille parti: d’ogni tuo contento

Teco la terra si rallegra ancora,

Come di fresco evento.

(A. MANZONI).

Si può credere che Iddio l’abbia manifestato agli Angeli suoi, annunziando loro il Mistero dell’Incarnazione: nel saluto dell’Angelo a questa donna eccelsa udiamo la prima volta in terra il nome di Maria – Ave Maria.

Dicono adunque i Santi che il nome di Maria ha parecchi significati, i quali esprimono l’eccellenza, la dignità e il ministero che Iddio le ha confidato. Questo nome è un nome di luce, di potenza, di gloria, di consolazione….

I. E’ un nome di luce.

S. Bernardo, S. Bonaventura, e molt’altri Santi concordemente dicono che il nome di Maria vuol dire: illuminata e illuminatrice.

1. — Nessuno può dubitare che Maria non sia stata illuminata, dacché l’Angelo l’ha salutata piena di grazia… « Maria, scrive Alberto Magno, ha ricevuto l’abbondanza dei lumi celesti, della fede, della scienza divina, leggendo e meditando le S. Scritture, e colloquiando familiarmente con la Divinità ».

« Non era dessa il trono della Sapienza increata, il tempio dello Spirito Santo? ».

2. — E’ altresì illuminatrice, giacché da essa abbiamo ricevuto Gesù Cristo, lux mundi. Nel Genesi leggiamo che Iddio ha creato due luminari, uno grande, ed uno più piccolo, cioè il sole e la luna. La luna, mutuando la sua luce dal sole, ci illumina nel la notte. Parimenti Maria, ricevendo la luce da Gesù e a noi comunicandola, dissipa le fitte tenebre, che accecano il mondo. È ancora figurata dalla colonna di fuoco-, che serviva agli Israeliti di guida, durante la notte, uscendo dall’Egitto ….

3. — Inoltre è una face che illumina gli uomini con la sua vita santa e virtuosa. « Talis fuit Maria, dice S. Ambrogio, ut ejus vita omnium sit disciplina…. Quantæ in una Virgine species virtutum emicant! ».

4. — Per siffatta ragione Maria è chiamata Stella matutina, che annunzia e fa sperare la levata del sole: Stella maris, perché ci guida attraverso il mare procelloso di questo mondo, e ci conduce sicuramente al porto tranquillo della felice eternità. Ecco la ragione per cui la Chiesa fa leggere nell’ufficiatura di questa festa le parole di S. Bernardo con cui il Santo sviluppa il simbolismo di Stella del Mare. « Si insurgant venti tentationum etc. » (Brev. Rom. Dom. infr. Oct. N . in II Noct. Lect. V e VI).

II. — E’ un nome di potenza.

1. — In linguaggio ebraico, Maria significa: esaltata, l’alta, l’elevata, prossima Dio, assisa a fianco di Dio, ovvero Domina, cioè Signora, Sovrana: quindi noi la chiamiamo: Nostra Signora, come chiamiamo il Divino suo Figliuolo, Nostro Signore. Dal momento, dicono i Santi Padri, che Maria è la madre del Creatore, pel fatto stesso, è la Sovrana dell’Universo: entra a partecipare dei diritti del Figliuol suo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Il dominio di questa Divina Sovrana è così esteso, che lo stesso N . S. Gesù Cristo, il Signore di tutte le cose, ha voluto essere a Lei sottoposto.

2. — In cielo ha un potere senza limiti, perché Gesù Cristo, l’ha costituita depositaria di tutti i suoi tesori e le ha confidato il diritto di grazia e di misericordia. La madre d’un re si chiama Regina-madre… ; tutto quello che vuole ottiene dal re suo figliulo…

I Santi chiamano Maria « Omnipotentia supplex ». Dio nulla rifiuta alle richieste di Maria…

3. — Sulla terra si manifesta la sua potenza con benefici d’ogni maniera. Sono innumerevoli i santuari e le chiese erette al suo nome, alle sue glorie: sono innumerevoli le tabelle votive che tappezzano le pareti delle sue cappelle a ricordare i prodigi, i benefici compiuti e versati in seno all’umanità languente e dolorante: Loreto, N. S. delle Vittorie, Lourdes, la Salette, Caravaggio ecc….Nomen tuum ita magnificava, ut non recedat laus tua de ore hominum Bernardino da Siena esclamava: « Tot creaturæ serviunt Mariae Virgini, quot serviunt Trinitati ».

4. — Laonde, la Chiesa gratissima a Maria, e desiderosa di promuovere il suo culto, ha istituito in suo onore parecchie feste, e confraternite. Vuole che si chini il capo al pronunciarsi del nome di Maria, come lo si china per il nome di Gesù, giacché il nome di Maria è possente come quello di Gesù, ed incute spavento ai demoni. La Chiesa la saluta coi titoli più gloriosi: Regina del Cielo e della terra ecc.

O Vergine, o Signora, o Tutta santa,

Che bei nomi ti serba ogni loquela:

Più d’un popolo superbo esser si vanta

In tua gentil tutela.

Te, quando sorge, e quando cade il die,

E quando il sole a mezzo corso il parte,

Saluta il bronzo, che le turbe pie

Invita ad onorar, te.

(Manzoni – Inno – Il Nome di Maria.)

5. — Entrando nello spirito della Chiesa, dobbiamo gettarci tra le braccia della nostra tenera Madre con un profondo rispetto e con una confidenza tutta figliale, ed invocare il suo bel nome…. Invocandolo degnamente, tutto otterremo. Maria è una Regina onnipossente, adunque è in grado di aiutarci; è nostra Madre tenerissima, adunque nulla vorrà ricusarci…. Abbiamo sempre questo dolcissimo nome sulle labbra e nel cuore: ci inspirerà quello che dobbiamo fare per onorare Maria, per piacerle, e per esso, saremo assicurati della nostra salvezza….

III. E’ un nome di gloria.

1. — S. Ambrogio dice che il nome di Maria significa: Deus ex genere meo, Dio è della mia stirpe. Il più bel vanto di Maria è questo: Madre di Dio. «Mater Dei, o Deipara, sancta Dei Genetrix, Mater Christi, Mater Creatoris, Mater Salvatoris…» Iddio da tutta l’eternità l’ha preparata, e l’ha creata ad hunc finem ut esset Mater Dei.

2. — Si tocchi dell’eresia di Nestorio, patriarca di Costantinopoli, il quale rifiutò a Maria la dignità gloriosa di Madre di Dio. Fu condannato l’anno 431 nel Concilio di Efeso. Questo eresiarca finì miseramente la sua vita.

3. — Facciamo sovente degli atti di fede nel mistero della divina maternità di Maria, e con amore ripetiamo «Sancta Maria, Mater Dei etc. … ».

IV. E’ un nome di consolazione.

1. — Il nome di Maria significa altresì: mare amaro. Nessuna creatura ha patito così tanto come Maria, partecipando ai dolori del Figliuolo. Magna est velut mare contritio tua… O vos omnes qui transitis per viam…

2. — Ma come mai i dolori di Maria sono per noi una cagione di consolazione? Sono veramente tali, perché Maria ha sofferto con Gesù per la nostra redenzione e salute. Inoltre i suoi dolori sono per noi un ammaestramento, e un appoggio in questo senso, che ci istruiscono e ci aiutano a soffrire. Gesù, la stessa santità, ha patito per noi: e noi, peccatori come siamo, pretenderemmo di andare in cielo senza patire? La vita di un Cristiano deve essere vita di croci, di mortificazioni e di penitenza. Guardiamo sempre a Gesù e a Maria: la grazia di Gesù, e la preghiera di Maria addolciranno le amarezze della vita, e queste si trasformeranno in consolazioni e in gloria: Si compatimur et conglorificabimur.

Conclusione. — Ringraziamo di vero cuore lo Spirito Santo delle grazie e degli aiuti che ci offre nel nome benedetto di Maria — sappiamo profittare di tali favori. Invochiamo continuamente questo sacro Nome… sarà nostro faro, nostro aiuto, nostra consolazione in hac lacrymarum valle: sarà per noi una sorgente di grazie di santità, e di salute.

CONOSCERE SAN PAOLO (9)

CONOSCERE SAN PAOLO (9)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Seconda ai Corinzi

I . I MALINTESI.

1. SGUARDO STORICO. — 2. LAGNANZE CONTRO PAOLO. 3. APOLOGIA.

1. Paolo non scrisse nulla di più eloquente, di più commosso, di più appassionato che questa lettera. La tristezza e la gioia, il timore e la speranza, la tenerezza e lo sdegno vibrano in essa con la medesima energia. L’arte di elevare gli incidenti più comuni con i più alti principi della fede, fa di essa una miniera inesauribile per l’ascetismo o per la mistica. – Dopo più di tre anni da che aveva lasciato Corinto, l’Apostolo aveva riveduto soltanto una volta i suoi neofiti. Questa visita di cui gli Atti non fanno menzione, ci sembra assolutamente certa; poiché se si possono intendere queste parole: « Per la terza volta mi preparo a venirvi a vedere » per un semplice proposito di un viaggio, ripreso tre volte, non si possono intendere così le parole: « Vengo a voi per la terza volta » e neppure, con più forte ragione, queste altre: « Ripeto ora che sono assente, come ho fatto quando ero presente per la seconda volta, che se vengo di nuovo, non perdonerò ». Spiegare questo con una presenza ideale e con progetti non mandati ad effetto, ci sembra contrario a qualunque sana esegesi (II Cor. XII, 14). Su questo viaggio di Paolo a Corinto si è inventato un romanzetto i cui particolari variano secondo i gusti e la fantasia dei critici, ma il cui tema ordinario è questo: Timoteo, mandato a Corinto per ridurre i recalcitranti, era miseramente fallito nel suo tentativo. Ci va allora Paolo con la speranza di ristabilire l’ordine, ma egli pure « ha una disdetta; la sua parola è impotente, e i suoi nemici trionfano. Egli è insultato pubblicamente e deve ritornarsene a Efeso con l’anima accasciata da una tristezza apostolica, in cui la collera si mescola con i rimpianti. Da Efeso riprende la lotta; rivolge ai Corinzi una lettera terribile, oggi perduta, della quale in un momento deplora i termini troppo violenti, e manda Tito il cui spirito conciliativo, la grande autorità personale potevano condurre i Corinzi alla resipiscenza. La lettera di Paolo, appoggiata dalla parola di Tito, provocò nei Corinzi un risveglio commovente di affezione e di riconoscenza. La maggioranza della chiesa, i n un’assemblea solenne, condannò l’uomo che aveva insultato l’Apostolo, e decise di mandargli per iscritto e per mezzo di Tito, le scuse e le testimonianze non equivoche del pentimento riguardo il passato, di vivo affetto per il presente e di fiducia per l’avvenire (Sabatier) ». – Non varrebbe la spesa ricordare queste ingegnose invenzioni, se non fosse la notorietà dei nomi di cui esse si fregiano. Siccome una congettura ne chiama un’altra, in mancanza d’ipotesi, si cade in un garbuglio di sistemi sempre più complicati e inverisimili. Invece di una lettera perduta, certi critici ne pretendono due ed hanno anche bisogno di due viaggi di Tito, e a forza d’intricare le corrispondenze, di moltiplicare le andate e i ritorni, sono obbligati ad allungare di un anno intero l’intervallo tra le nostre due Epistole, il che dà il colpo di grazia a tutto il sistema (Heinrici). Una visita recente di Paolo è inammissibile, perché una delle principali lagnanze dei malcontenti è appunto la sua prolungata assenza. Egli promette di venire e non mantiene la parola; sembra che abbia paura di farsi vedere e preferisce comporre i dissidi da lontano. Questi rimproveri non avrebbero senso, se i Corinzi avessero ricevuto una sua visita nell’intervallo tra le nostre due Epistole. Egli risponde che ha differito la sua visita per pietà verso i colpevoli e che è voluto stare lontano finché duravano i malintesi; ma che non tarderà molto e tratterà come si meritano i superbi e gl’insubordinati. Nell’ipotesi di una recente disdetta e di un affronto personale seguito da una ritirata umiliante, questa difesa non avrebbe senso, e queste minacce, invece d’ispirare un salutare terrore, avrebbero soltanto provocato il disprezzo. L’ipotesi di una lettera intermedia, oggi perduta, fa nascere meno difficoltà. Essa è subordinata alla questione se la nostra seconda Epistola faccia seguito alla prima e se, in particolare, il colpevole condannato dalla chiesa di Corinto a maggioranza di voti, sia l’incestuoso di cui l’Apostolo aveva chiesto la punizione. Per parte nostra, non vediamo nulla, nella seconda Epistola, che ci obblighi a supporre una lettera perduta, e pensiamo che questa ipotesi fa nascere assai più difficoltà di quante ne risolva. La scandalosa connivenza dei Corinzi aveva offeso Paolo abbastanza, e le loro tergiversazioni avevano leso abbastanza i suoi diritti di apostolo e di padre, da non esservi nessun bisogno d’inventare un’ingiuria personale. La sua prima Epistola conteneva dei biasimi abbastanza vivaci, degli ordini abbastanza severi ed espressioni abbasta: dure perché Paolo, il quale conosceva per esperienza la loro suscettibilità, il loro carattere sospettoso e il loro spirito d’insubordinazione, potesse temerne i cattivi effetti, e per un momento, si pentisse di averla scritta. In una circostanza precedente, gli era bastato assai meno per alienarsene i cuori: ed ora aveva saputo che un nuovo fermento di discordia e di ribellione era apparso a Corinto con quei mestatori forestieri, con quei falsi apostoli, operai di sventure e ministri di satana, risoluti di rovinare l’opera sua. – Non conosce bene il cuore di Paolo chi suppone che la sua prima Epistola non gli sia costata lacrime. Nonostante la sua incontestabile unità su cui sono oggi concordi i migliori giudici, la nostra Epistola presenta questa particolarità curiosa, che ciascuna delle sue tre parti forma come un tutto completo, senza legame apparente col resto. Il suo argomento si può riassumere in questi tre titoli: — I malintesi (I – VII); — la colletta (VIII – IX); — gli avversari (X – XIII).

I malcontenti di Corinto se la prendevano contro l’Apostolo per un motivo assai futile: lo accusavano di leggerezza e d’incostanza nei suoi progetti di viaggio. Prima delle difficoltà di cui le due lettere ci fanno udire l’eco, Paolo si era proposto di recarsi per mare a Corinto e, dopo un giro per le chiese della Macedonia, di ritornarvi ad aspettare il bastimento che lo doveva portare in Palestina (II Cor. I, 15-16). I suoi progetti, non sappiamo perché, erano completamente mutati nella primavera dell’anno 56, nel momento in cui scriveva la nostra Epistola: allora si proponeva di celebrare la Pentecoste a Efeso, di prendere poi la via di terra e, attraversando l’Asia a piccole tappe, con una fermata alquanto più lunga in Macedonia, di arrivare a Corinto verso la fine dell’estate (I Cor. XVI, 6-7). La sollevazione imprevista degli orefici e degli statuari dovette fargli affrettare la sua partenza da Efeso, e da questo ne risultò che Tito, che egli aveva mandato a Corinto e che sperava di ritrovare a Troade, non vi era ancora arrivato. Paolo andò dunque ad aspettarlo in Macedonia, probabilmente a Filippi, e siccome non voleva ripresentarsi a Corinto prima che tutti i dissidi fossero composti, affidò a lui la nostra seconda lettera (II Cor. II, 17). – Ora il nuovo itinerario che egli comunicava ai Corinzi nella sua prima lettera, era stato per loro una sorpresa e una delusione, perché avevano fatto conto di vederlo più presto. Invano egli promette loro, come compenso, una fermata più lunga: « Forse mi fermerò con voi e vi passerò anche l’inverno. Perché non voglio vedervi di nuovo di passaggio; spero di fermarmi qualche tempo con voi (I Cor. XVI, 6-7) ». Invano egli insiste su la necessità di vedere prima i Macedoni la cui visita, nel primo progetto, era rimandata dopo quella ai Corinzi; certamente già messi su dai mestatori, i neofiti non accettano le sue spiegazioni. Che cosa significano questi ritardi? Perché promettere, se non è certo di mantenere? « Ho forse deciso questo per leggerezza? Oppure le mie decisioni sono secondo la carne, e vi è in me il sì e il no? Come è vero che Dio è fedele, noi non vi diciamo il sì e il no (II Cor. I, 17-18) ». Se egli ha differito la sua visita, lo ha fatto per compassione verso di loro: avrebbe dovuto essere severo; ora egli non vuole che il suo ritorno sia accompagnato dalla tristezza. Egli ha dunque dato tempo alle nubi di dissiparsi. – A quest’accusa ridicola si aggiungevano rimproveri di ben altra gravità: Paolo era accusato di doppiezza nella sua predicazione, di arroganza nel parlare, di tirannia nel governare. Le imputazioni dei malevoli, ricordate qua e là non senza una punta d’ironia, sono tracce che ci permettono di seguire un pensiero il cui filo talora si rallenta, ma che non si spezza mai. La difesa di Paolo che non discende a meschine personalità, ma si mantiene sempre a una serena altezza, si può riassumere così: L’Apostolo porta alta la fronte, senza dissimulazione e senza maschera — perché ha l’onore di essere messaggero del Vangelo. — Quella che viene chiamata arroganza, è semplicemente il legittimo sentimento della sua dignità e la coscienza che la sua vera forza sta nella sua debolezza. — Egli parla coraggiosamente e opera nella stessa maniera, ma la sua qualità di ambasciatore del Cristo autorizza questa libertà apostolica.

Slealtà, furberia, politica, sono parole odiose e sospetti assurdi, per un uomo come lui; eppure erano proprio i termini precisi della requisitoria fatta contro di lui; nelle sue lettere si volevano trovare sottintesi, equivoci volontari, astuzie di cattivo genere: « Noi non vi scriviamo, egli risponde, altro che quello che potete leggere e capire. Spero che alla fine lo capirete… Noi non somigliamo a molti altri che adulterano la parola di Dio, nel Cristo (II Cor. II, 17) ». L’opposizione è tra la sincerità dell’Apostolo che predica la parola di Dio tale e quale, senza mescolanze o falsificazioni di sorta, e i tranelli disonesti di quegli intrusi che l’adattano ai gusti dei loro uditori, come gli osti adulterano il vino con buoni tagli o con miscele sospette, per fare più quattrini. La sincerità, come si vede, è la parola di occasione. Come potrebbe un apostolo di Gesù Cristo, mancare di rettitudine? Dovrebbe forse arrossire del suo mandato, o dissimulare il suo messaggio! Il ministero dell’antica alleanza mondava la faccia di Mosè con una luce così abbagliante, che i figli d’Israele non ne potevano sopportare lo splendore: ma quello era soltanto il ministero della lettera, e il Vangelo è il ministero dello spirito; quello era il ministero della condanna, e il Vangelo è quello della giustificazione; era il ministero della servitù, e il Vangelo è quello della libertà; era il ministero del timore, e il Vangelo è quello della confidenza filiale; era un ministero destinato a finire, mentre il Vangelo è fatto per durare per sempre (ivi, III, 6-16). Che Mosè, parlando al popolo, si copra la faccia con un velo, sia pure! che quel velo di Mosè passi su gli occhi e sui cuori di tutti quelli che lo leggono, sia pure! Ma anche Mosè, quando si voltava verso Dio, gettava via il velo; e i suoi ciechi discepoli alla fine dei tempi lacereranno anch’essi il loro velo, quando si convertiranno a Gesù Cristo. Per noi, araldi della legge di grazia, ogni velo sarebbe sconveniente: “Contemplando a viso scoperto la gloria del Signore, siamo trasformati di gloria in gloria in questa stessa immagine, come dallo Spirito del Signore. Per la qual cosa, avendo noi tale ministero in virtù della misericordia da noi conseguita, non ci perdiamo di animo; respingiamo la vergogna che cerca l’ombra; ben lungi dal seguire i raggiri della doppiezza e dal falsificare la parola di Dio, ci rendiamo commendevoli alla coscienza di tutti gli uomini, in presenza di Dio, con la chiara manifestazione della verità. Se la nostra predicazione è equivoca, essa è equivoca per i figli di perdizione, per coloro ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente, per gl’infedeli incapaci di fissare lo splendore del glorioso Vangelo dei Cristo che è l’immagine di Dio” (ivi, III, 18). Gli altri due rimproveri sono così connessi, si toccano in tanti punti, che non è quasi possibile separarli: perciò l’Apostolo li confuta insieme senza disgiungerli. Quella che gli avversari trattano come arroganza e vanagloria, non è che la giusta stima del suo carattere sacro; quella che chiamano tirannia e abuso … potere, non è che l’esercizio obbligatorio del suo mandato apostolico:

“Questa sicurezza noi l’abbiamo in Dio per mezzo del Cristo. Non che da noi stessi siamo atti a concepire qualunque cosa come (derivante) da noi stesa, ma la nostra attitudine è un dono di Dio, il quale ci ha resi atti ad essere i ministri della nuova alleanza”. (ivi, III, 4-6).

Egli ha parlato di sé in termini che possono farlo tacciare di fatuità e di presunzione (ivi, II, 14-17). e se ne sensa con molta opportunità e con molto spirito (ivi, III, 1-3). No, egli dice ora, la sicurezza nostra — mia e dei miei compagni di apostolato — non è esagerata. Essa è soprannaturale, nella sua sorgente e nel suo oggetto: essa deriva dal Cristo, nostro Mediatore universale nell’ordine della salvezza; essa tende verso Dio, come al suo termine e al suo punto di appoggio. Essa è dunque legittima, perché non si fonda sui nostri mezzi personali, ma su l’appoggio della grazia divina. D a noi stessi noi non possiamo nulla; noi siamo incapaci, inetti, anche a concepire e ad apprezzare i mezzi per compiere il nostro sacro ministero; tutta la nostra attitudine viene da Dio solo il quale ci ha resi atti a sublimi funzioni. Ben lungi dall’attribuire a sé l’apostolato, l’Apostolo afferma di aver bisogno dell’aiuto divino anche per giudicare ciò che deve fare, tanto più poi per eseguirlo. – Quando i teologi da questo passo fanno derivare la necessità della grazia per ogni atto salutare nell’ordine soprannaturale, possiamo domandarci se la loro prova derivi dall’analisi stessa del testo, oppure se essa è la conclusione di un ragionamento più o meno complesso. È noto che Sant’Agostino, nei suoi ultimi scritti, intendeva sufficientia nostra di tutti i cristiani, e cogitare aliquid, di tutti i pensieri che si riferiscono alla salute. In tal modo la necessità della grazia risulterebbe formalmente dal nostro testo per la fede iniziale e, con più forte ragione, per tutti gli atti salutari. Ma se con tutti i commentatori, compreso San Tommaso, s’intende non quod sufficientes simus e sufficientia nostra di Paolo e dei suoi collaboratori, se inoltre, con i migliori interpreti, s’intende cogitare aliquid dei pensieri che si riferiscono al ministero apostolico, si giunge alla conclusione soltanto con un doppio argomento di parità o, se si vuole, con un doppio argomento a fortiori: argomento legittimo, fondato sul senso letterale, ma che lo oltrepassa. Il canone 7 del secondo concilio di Orange, non decide la questione. Sul terreno su cui si è messo, Paolo si trova in ottima posizione contro i suoi avversari. Gli apostoli sono i depositari della verità evangelica: se sono o se sembrano umanamente insufficienti, che cosa importa? « Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché il valore incommensurabile (dei risultati ottenuti) sia di Dio e non nostro (II Cor. IV, 7) ». Benché la natura umana, destinata a diventare il ricettacolo dei doni divini, sia per se stessa tanto vile da giustificare la metafora dei vasi di creta, è probabile che San Paolo qui faccia allusione alla mancanza di qualità esteriori, che sembrerebbero non indicarlo per l’apostolato: il suo stile scorretto, la sua presenza meschina, il suo corpo infermo. Ebbene, quanto più meschino è lo strumento, tanto più divino sarà l’effetto. Sotto la mano onnipotente di Dio, la debolezza opera la forza, la morte genera la vita, il nulla è fecondo. Paolo sembra compiacersi di questo contrasto che di paradossale ha soltanto la forma. Egli vede dunque, senza perdersi di coraggio, il suo corpo che va in rovina, egli è orgoglioso di constatare in se stesso lo stato di morte di Gesù. Questo pensiero lo innalza con un volo alle regioni più sublimi della speranza cristiana; la morte lo fa pensare alla risurrezione; la rovina progressiva di questa abitazione terrestre gli ricorda l’abitazione imperitura del cielo. Egli sogna dunque di emigrare da questo mondo, per vivere col Cristo. In attesa del trionfo finale, il sentimento che lo domina si può tradurre così: confidenza, ardire, santa audacia e libertà apostolica.

II. LA GRAN COLLETTA.

1. QUESTUA IN FAVORE DI GERUSALEMME 2. TRE MOTIVI DELLA LIMOSINA.

1. Durante il concilio apostolico, nell’anno 49 o 50, Paolo aveva promesso di pensare, nelle sue missioni tra i Gentili, ai fratelli di Gerusalemme (Gal. II, 10). Questi per molto tempo vissero di limosine, quella specie di comunismo di cui fecero da principio un tentativo (Act. IV, 32) non dovette contribuire ad arricchirli. L’Apostolo non dimenticò mai la sua promessa: ei vedeva una prova di gratitudine, di deferenza e di venerazione verso la chiesa in cui era nato il Vangelo. Quei doni volontari stringevano i vincoli tra le due frazioni della comunità cristiana, troppo portate a isolarsi vicendevolmente; ravvivavano i sentimenti fraterni di cui erano l’espressione sensibile; insegnavano a tutti la generosità e il distacco; finalmente simboleggiavano il gran principio della solidarietà cattolica, la comunione dei santi. Gli Ebrei ellenisti si quotavano ogni anno per i bisogni del tempio: era conveniente che i Cristiani facessero di meno per il centro della loro unità? – Paolo aveva già predicato la questua alle chiese della Galazia (I Cor. XVI, 1); quelle della Macedonia, indovinando il suo desiderio, lo avevano prevenuto (II Cor. VIII, 6-16 ); ora era la volta di Corinto e dell’Acaia. Nella sua prima Epistola, rispondendo certamente alle domande dei Corinzi, aveva dato su questo punto istruzioni precise (I Cor. XVI, -4): egli voleva che, ogni domenica, ciascuno mettesse da parte la sua offerta, affinché fosse pronta al suo arrivo. Evidentemente la parte di questuante non gli garbava, e sentiva ripugnanza a trattare questioni di denaro. Le sue preoccupazioni per mantenere la sua buona riputazione d’integrità e di disinteresse, ci paiono oggi quasi esagerate. Egli non voleva fare nulla se non alia presenza di testimoni e non voleva neppure portare da solo ai destinatari le somme raccolte (II Cor. VIII, 3-4). A Corinto, Tito gli aveva preparata la via organizzando la colletta, e l’Apostolo, consegnandogli questa lettera, gli dava l’incarico di finire la faccenda al più presto possibile. I capitoli VIII e IX non sono altro che una raccomandazione dell’elemosina; ma quanta delicatezza per essere insinuante senza riuscire importuno! Quanti riguardi e quanta accortezza per stimolare la generosità, pure evitando d’imporla! Che volate di soprannaturale per temperare la fatale volgarità dell’argomento! Egli non pronunzia neppure la parola questua né limosina; è un atto di beneficenza e di misericordia, un ministero sacro, un mezzo di unirsi ai fratelli e di partecipare alle loro preghiere, è l’assistenza ai santi, è finalmente una grazia più per chi dà, che non per chi riceve (λογία = loghia, [colletta], si trova nella prima lettera: I Cor. XVI, 1-2 ).

2. Paolo fa appello a tre motivi che raramente vengono meno al loro scopo: l’emulazione, l’amor proprio e l’interesse (emulazione: VIII, 1-11; l’amor proprio IX, 1-5; l’interesse: IX, 6-15): questi sentimenti sono onnipotenti così per il bene come per il male; non si tratta che di dirigerli e di renderli soprannaturali. L’Apostolo vi riesce meravigliosamente e ci presenta in queste pagine un modello squisito di questo genere di predicazione. – Egli si vale anzitutto dell’emulazione. I fedeli della Macedonia, nell’infierire della persecuzione, nonostante la loro grande povertà, hanno chiesto con insistenza di contribuire alla questua: « Io devo loro questa testimonianza; essi hanno dato di buon grado quanto potevano e più di quanto potevano. Essi non hanno soltanto colmato le nostre speranze » ma le hanno superate di molto; « essi hanno dato se stessi al Signore e a noi ». Il buon esempio è una lezione facile a capirsi. O Corinzi, « voi siete eccellenti in tutto, in fede, in dottrina, in scienza, in sollecitudine di ogni sorta ed in carità per noi; bisogna dunque che siate eccellenti anche in questa grazia. Io non comando (do un consiglio); ma voglio provare la bontà della vostra carità confrontandola con lo zelo degli altri. Voi sapete infatti che nostro Signore Gesù Cristo, da ricco si fece povero per noi, per arricchirci con la sua stessa povertà (ivi, VIII, 9) ». Non si tratta più dei cristiani di Filippi o di Tessalonica; Paolo spinge il suo sguardo in cielo e là ci mostra il Figlio di Dio che si spoglia dei suoi attributi divini e si riveste della nostra miseria, per associarci alle sue grandezze e alle sue ricchezze. Chi resisterebbe a tale esempio e sarebbe sordo a tale invito? – L’amor proprio è più difficile da maneggiarsi, e la lode è uno specifico pericoloso, quando non si sa dosarlo bene. Paolo ricorda ai Corinzi, che da un anno essi hanno incominciato la colletta, e lo hanno fatto di loro iniziativa, senza che nessuno ve li spingesse. « Io conosco, egli soggiunge, la vostra premura della quale mi vanto per voi presso i Macedoni; io ripeto loro che l’Acaia è pronta da un anno, e che il vostro ardore ha eccitato molti altri (II Cor. IX, 2) ». Se dunque i Macedoni, quando accompagneranno l’Apostolo a Corinto, trovassero la colletta non ancora compiuta, Paolo dovrebbe arrossire dinanzi a loro, o piuttosto gli stessi Corinzi sarebbero coperti di vergogna; si vedrebbe che le lodi date loro con tanta generosità, sarebbero poco meritate. Certamente non si tratta d’impoverirsi per venire in aiuto degli altri; ciascuno esamini i suoi mezzi e dia quello che può; l’importante è che la limosina sia il benefizio spontaneo di un cuore generoso e non il contributo forzato dell’avaro. Il fine della limosina è quello di stabilire una certa eguaglianza tra i Cristiani (ivi, VIII, 13-15); i ricchi abbandonano ai poveri il superfluo dei loro beni temporali, i poveri lo restituiscono loro in aiuti spirituali con le loro preghiere e le loro benedizioni. Come si vede, il tono si va sempre innalzando e ci riporta ogni istante nel soprannaturale. – Quest’ultimo pensiero ci prepara al terzo motivo tratto dai vantaggi della limosina. L’elemosina è un seme di benedizioni spirituali e anche temporali. Tra la semenza e il raccolto vi è una legge di proporzionalità rigorosa: chi semina con parsimonia, deve aspettarsi di raccogliere poco: chi semina con abbondanza, si prepara una ricca messe (IX, 6). Però, quando si tratta di limosina, la quantità è cosa accessoria, ma quello che importa di più è l’intenzione caritatevole, la prontezza e la dilatazione del cuore: Hilarem datorem dìligit Deus (IX, 7; Prov. XXII, 8). L’avaro può dare suo malgrado, per forza, per rispetto umano: egli non semina per il cielo. Chi dà ai poveri, impresta a Dio. Dio s’incarica di far fruttare questo deposito e deve a se stesso di non lasciarlo infruttifero: « Dio è abbastanza potente per far abbondare in voi ogni grazia, affinché avendo tutti sempre pienamente di che bastare a voi medesimi, abbondiate in ogni sorta di buone opere… Colui che dà al seminatore la semenza e il pane (di cui ha bisogno) per suo nutrimento, moltiplicherà la vostra messe e farà crescere i frutti della vostra giustizia; e voi sarete arricchiti sotto ogni riguardo, per distribuire con cuore semplice l’offerta che farà salire verso Dio i ringraziamenti (IX, 8-11) ». Agli interessi spirituali, ai profitti temporali, si aggiunge un altro vantaggio di un ordine più generale e più elevato: Dio è glorificato, il Cristo è benedetto (ivi, 12-14). E queste preghiere e questi ringraziamenti provocati dalla limosina, ricadono in benedizioni su chi ha fatto il benefizio. Ecco perché l’elemosina è un sacro ministero, u n atto del culto, una specie di « Liturgia » (IX, 12), secondo la bella espressione di San Paolo. La carità animata da tali motivi non è più onerosa per il donatore, né umiliante per chi la riceve.

III. GLI AVVERSÀRI D I PAOLO.

1. FORESTIERI E INTRUSI. — 2. LORO DOTTRINE E LORO MIRE. — 3. FATICHE E FAVORI CELESTI DI PAOLO. — 4. LO STIMOLO DELLA CARNE.

1. Certi critici, colpiti dalla diversità di tono che vi è nelle due parti della nostra Epistola, ne hanno dedotto una diversità di condizioni, e hanno supposto che i quattro ultimi capitoli formassero da principio una lettera distinta. Questa ipotesi, non appoggiata da nessun indizio esteriore, non ebbe molti partigiani. È infatti molto inverosimile che si abbia avuto l’idea di mutilare due lettere autentiche di Paolo, per farne un tutto le cui parti combinano male insieme. Perciò la maggioranza dei critici contemporanei, mantenendo l’incontestabile unità dell’Epistola, cercano altrove la spiegazione del cambiamento di tono e di fare. Abbandonandosi alla gioia delle buone nuove portatogli allora da Tito, l’Apostolo sfoga anzitutto il suo cuore: egli ringrazia, loda, esorta, consiglia, riprende paternamente i suoi cari Corinzi ritornati a resipiscenza. Le parole « consolare » e « consolazione » che ripete una dozzina di volte nei due primi capitoli, riassumono assai bene il sentimento che in lui trabocca. Poi, quando si vede ben padrone del terreno, sicuro della simpatia, della docilità, della sommissione e dell’obbedienza dei suoi figliuoli spirituali, si rivolge contro gli agitatori e, scrivendo oramai a nome suo (X, 2-7, 12; XI, 21-22), li copre di sarcasmi, li minaccia di rappresaglie e lancia loro i suoi fulmini. Si è constatato nel Discorso per la Corona un procedimento simile: quello che in Demostene era un raffinato artifizio, è in San Paolo l’ispirazione spontanea di una natura eloquente. – Chi erano dunque quegli intriganti che correvano dietro le peste di Paolo, per rapirgli i frutti del suo apostolato? Erano anzitutto forestieri, poiché avevano bisogno di lettere di raccomandazione per farsi ammettere (II Cor. III, 1)). L’Apostolo ha sempre una gran cura di distinguere quegli intrusi dalla comunità di Corinto. Benché le loro mene bastino a turbare tutta la chiesa, essi formano un’infima minoranza nel numero dei fedeli; essi sono soltanto « alcuni »; l’indicazione vaga e collettiva di « chi viene » (XI, 14) accentua ancora di più la loro origine forestiera. Essi usurpano « il lavoro altrui » e se ne vantano come di cosa loro; s’installano nelle chiese già fondate e invadono « il dominio occupato da altri » (X, 15-16). Sono falsi apostoli, perfidi operai che si travestono da apostoli del Cristo; ministri di satana che si trasfigurano in ministri di giustizia, come satana loro capo si trasfigura in angelo di luce (XI, 13, 15) ». Il loro carattere speciale sembra essere l’amore del guadagno. Essi sfruttano il Vangelo, adulterano la parola di Dio, non tanto certamente per il piacere di corromperla, quanto per il desiderio di fare più denaro (II, 17). Essi depredano, spolpano, tosano e divorano il loro gregge (XI, 20). La loro cupidigia immagina contro Paolo un’accusa singolare: accusano la delicatezza che gli fa sacrificare i suoi diritti e respingere i doni, e l’attribuiscono a motivi vergognosi, all’ambizione, alla diffidenza, a calcoli indegni di un uomo onorato. In realtà essi si augurano che Paolo li imiti, per potersi valere del suo esempio o per sfuggire almeno l’odiosità del contrasto (XI, 7-12).

2. Sarebbe molto interessante il sapere che cosa predicavano e di dove venivano. Un’ipotesi abbastanza comune in questi ultimi tempi, attribuisce loro un vangelo opposto a quello di Paolo e ne fa degli emissari della chiesa di Gerusalemme. Nonostante l’attrattiva della novità e lo sfavore che accompagna le opinioni antiche, siamo obbligati a respingere questa doppia ipotesi come totalmente sprovvista di prove. La congettura del vangelo antipaolino si fonda unicamente sul testo più oscuro dell’Epistola. Paolo scrive ai Corinzi: « Se chi viene predica un altro Gesù che noi non abbiamo predicato, o se ricevete u n altro Spirito che non avete ricevuto, o un altro Vangelo che non avete avuto, voi con ragione lo sopportereste (XI, 4)». L’ultimo inciso si può tradurre « voi lo sopporterete » o anche « voi lo sopportate con ragione »: tutto dipende da una variante la quale consiste in una sola lettera di più o di meno. Qualunque sia la lezione adottata, il senso rimane ambiguo, e bisogna determinarlo dal contesto. Ora se gli avversari di Paolo avevano predicato a Corinto un altro Gesù, un altro Spirito Santo, un altro Vangelo, se erano riusciti a sedurre i Corinzi, se continuavano nelle loro mene sorde e lavoravano per rovinare l’insegnamento dell’Apostolo, è credibile, è possibile che questi si accontentasse di rispondere loro con un’ironia così velata, che la maggior parte degli interpreti non la rilevano? E se non vi è ironia, è ammissibile che egli si limiti a questa fredda constatazione, egli che nell’Epistola ai Galati fulmina l’anatema contro chiunque annunziasse un vangelo contrario al suo? Egli non farebbe nessuna allusione a quelle dottrine perverse e non cercherebbe di premunire i neofiti contro l’errore! Egli coprirebbe di scherno i costumi dei falsi apostoli, la loro avidità del guadagno, le loro vanterie puerili, le loro manovre sconvenienti, e non avrebbe una parola di sdegno o di biasimo per le loro eresie, ed eresie così fondamentali! Si pretende che gli avversari di Paolo siano giudaizzanti, simili a quelli che sconvolgevano le chiese della Galazia; ma la lettera non fa nessuna allusione a pratiche giudaizzanti; non vi è nulla su la giustificazione per mezzo della fede, nulla su l’impotenza e l’inutilità della Legge mosaica, e la circoncisione non è neppure nominata. Bisogna dunque che l’Apostolo si metta dinanzi a un’ipotesi assurda tanto, che la sua stessa assurdità lo dispensa dal confutarla. Se gli intrusi portavano un altro Vangelo, un altro Spirito Santo, un altro Cristo, se aggiungevano qualche cosa ai beni spirituali di cui i Corinzi già erano dotati, questi avrebbero ragione di dare loro ascolto. Ma no: non vi sono due Cristi, due Spiriti Santi, due Vangeli. Gli agitatori di Corinto cercano di soppiantare Paolo, ma senza prendersela direttamente contro la sua predicazione; se adulterano il Vangelo non lo fanno tanto per alterarlo, quanto per trarne più guadagno, per mezzo di aggiunte sospette e di abili tagli! Certi interpreti credono di avere scoperto ì connotati di quegli intriganti. Essi sono Ebrei; si fanno chiamare « gli apostoli per eccellenza » sono a capo del partito del Cristo: dunque appartengono alla chiesa madre di Gerusalemme e sono forse mandati dai dirigenti di quella chiesa per fare da contrappeso all’influenza di Paolo. Disgraziatamente questi titoli onorifici riguardano i veri apostoli e non i ministri del diavolo. A chi si può far credere che dicendo: « Sono Ebrei? anch’io; sono Israeliti? anch’io; sono figli d’Abramo! anch’io; sono ministri del Cristo? Voglio parlare da insensato: io lo sono più di loro (IX, 23) », San Paolo voglia paragonarsi a coloro che ha chiamato poco prima falsi apostoli, impostori e ministri di satana! Si risponderà che li tratta ironicamente da ministri del Cristo: ma la frase non ha nulla d’ironico. Egli non contesta loro nessuno di questi titoli, ma soltanto li rivendica per sé. Nel tempo stesso egli prende mille precauzioni oratorie per farsi perdonare la sua iattanza e, come dice più di una volta, la sua pazzia. Tratterebbe con tanto onore coloro che ha schiacciato con il suo disprezzo, e dovrebbe fare tanto per innalzarsi fino alla loro altezza? No, certamente. In quegli apostoli per eccellenza ai quali non è inferiore nonostante il suo nulla, Paolo vede i veri apostoli, i veri ministri del Cristo. Egli ha lavorato più di loro; ha sofferto più di loro. A lui si oppone il gran nome dei Dodici: ebbene, per quanto costi alla sua umiltà, per quanto tale pretesa possa avere l’apparenza di vanagloria e di irragionevolezza, egli è disposto a sostenerne il confronto. Come rappresentante del Cristo, egli non è inferiore a nessuno, neppure a quegli Apostoli per eccellenza che sono messi così in alto per abbassare lui.

3. Si è quasi tentati di rallegrarsi che la calunnia abbia costretto l’Apostolo a parlarci di sé e a raccontarci, con le grandi cose che egli ha fatto per Dio, una parte dei favori di cui Dio in cambio lo ha colmato. A dire il vero, il racconto volontariamente sobrio e circoscritto degli Atti ci lasciava indovinare i pericoli di ogni sorta incontrati da San Paolo, per parte di ladri, di falsi fratelli, di Ebrei e di Gentili. I suoi viaggi apostolici in regioni appena esplorate e situate ai confini dell’impero, in mezzo a popolazioni ostili o prevenute, senza l’apparato dell’autorità e del potere, lo obbligavano quasi inevitabilmente a fatiche sovrumane, a digiuni prolungati, alla fame, alla sete, al freddo e alla nudità. Conoscevamo già la lapidazione di Listri, la prigionia e la flagellazione di Filippi, l’evasione rischiosa di Damasco, la drammatica sommossa di Efeso, la fuga precipitosa da Gerusalemme, da Antiochia di Pisidia, da Iconio, da Tessalonica, da Berea, da Corinto. Ma non c’era nulla che ci facesse sospettare i tre naufragi che precedettero quello di cui San Luca ci descrive le peripezie, né il giorno e la notte che passò nell’abisso, senza dubbio su un rottame galleggiante, né i trentanove colpi di frusta inflittigli dagli Ebrei per ben cinque volte, né le altre due flagellazioni applicategli per sentenze di governatori, nonostante il suo titolo di cittadino romano, che avrebbe dovuto scampare Paolo da tale pena infamante (XI, 23-33). Tanti particolari, del resto ignorati e ricordati qui come per caso, ci debbono togliere la speranza di ricostruire, con l’aiuto di documenti incompleti, l’intera trama della sua vita. – Se Paolo ha lavorato più degli altri, se ha sfidato più prigionie, più tormenti, più pericoli di morte, è stato anche favorito di grazie più insigni. Bisogna gloriarsi? “Questo non conviene, ma io vengo alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo, un cristiano, il quale quattordici anni fa — nel corpo o senza corpo, non so, Dio lo sa — fu rapito fino al terzo cielo. E quest’uomo — nel corpo o senza corpo, non so, Dio lo sa — fu rapito al paradiso e intese parole ineffabili che non è permesso (o possibile) all’uomo di profferire. Mi glorierò di questo; ma per quello che mi riguarda, non mi glorierò che delle mie infermità” (XII, 1-5). In questo curioso sdoppiamento del suo essere, Paolo distingue la parte di Dio, della quale si può gloriare poiché essa glorifica Dio medesimo. Egli tiene per sé soltanto la sua miseria e se ne gloria anche, perché essa fa risaltare dal contrasto l’opera ammirabile di Dio in lui. – Non si è concordi sul senso preciso delle visioni e delle rivelazioni. È probabile che le rivelazioni siano il termine generico che abbraccia anche le visioni. L’Apostolo ne ricorda una sola ed ha cura di precisarne la data, sia per farne notare di più la realtà e la certezza, sia per insinuare che essa fu un punto importantissimo della sua vita. Essa infatti cade sul cominciare del suo ministero attivo, alla fine del suo lungo ritiro nella Cilicia, quando Barnaba venne a prenderlo a Tarso per farlo suo collaboratore nella fiorente cristianità di Antiochia. Disgraziatamente per la nostra curiosità, se Paolo è certo del fatto, ne ignora affatto il modo. Sa che fu rapito fino al terzo cielo, al paradiso, che intese parole ineffabili; ma non sa se il suo corpo ebbe parte o no con la sua anima a quel favore. Tuttavia anche questo stesso dubbiò è istruttivo, perché ci permette di conchiudere che la visione e la rivelazione fu puramente intellettuale. Se i sensi vi avessero avuto parte, il dubbio di San Paolo non si potrebbe spiegare. Il rapimento fu dunque accompagnato da estasi e da alienazione completa delle facoltà sensibili. Riguardo poi al rapimento, i commentatori sono assai divisi. Gli uni suppongono che l’Apostolo ignori se fu trasportato al cielo in corpo e anima. Nel caso in cui l’anima sola fosse stata oggetto di questo trasporto locale, il corpo sarebbe rimasto sulla terra nello stato di cadavere. Ma altri esegeti che hanno con l’autorità di Sant’Agostino e del Dottore angelico, trovano con ragione che tale cambiamento di luogo non è né necessario né probabile, dal momento che si tratta soltanto dell’anima. L’anima è rapita in cielo quando i misteri del cielo si rivelano dinanzi a lei, e Dio le scopre i suoi intimi segreti. Dappertutto gli angeli fedeli portano il cielo con sé, e il paradiso degli eletti è la felicità di possedere Dio. M a sia che l’anima di Paolo fosse trasportata nello spazio fino al soggiorno dei beati, sia che il cielo fosse idealmente trasportato nell’anima di Paolo, è inutile ricorrere alle fantasticherie sui sette cieli sovrapposti alla terra. In forza di una locuzione accettata che si snaturerebbe analizzandola, Paolo dice di essere stato rapito fino al terzo cielo, cioè fino alla vetta più sublime della contemplazione divina.

4. Per tenerlo nell’umiltà, richiamandolo continuamente al sentimento della sua debolezza, Dio ha piantato nella sua carne una spina o un pungiglione (XII, 7). La versione latina stimulus carnis, oscura e poco esatta, ha dato credito ad un’opinione che non ha grande probabilità intrinseca, sconosciuta a tutta l’antichità e poco conciliabile col testo originale. « La spina nella carne » oppure « il pungiglione per la carne » indicherebbe un’inclinazione ai piaceri carnali, sorgente di lotte penose e umilianti. Né la vecchiaia a cui andava avvicinandosi, né il dono della continenza che egli dice di aver ricevuto, non lo mettevano assolutamente al sicuro dalla tentazione, ed è impossibile dimostrare che egli sia stato immune da questa prova. Ma si può affermare senza timore che nelle sue parole non vi è nulla che autorizzi tale spiegazione. Supposto anche che potesse avere questo senso, Paolo non darebbe un’arma in mano ai suoi avversari, rivelando loro l’esistenza di una simile lotta, conosciuta da lui solo ed a Dio? Come potrebbe compiacersene e metterla nel numero delle infermità di cui si gloria? Lasciando da parte le tentazioni carnali, noi ci troviamo dinanzi a due interpretazioni che sono divise tra i commentatori antichi: le persecuzioni e le malattie. Ma è difficile comprendere che le persecuzioni esterne si possano chiamare una spina nella carne, e meno ancora si concepisce come l’Apostolo se ne senta umiliato: le persecuzioni sono talmente il retaggio del cristiano, sono così espressamente annunziate a chiunque voglia vivere piamente nel Cristo Gesù, che non si vede a che titolo egli le considerasse come una difesa personale soprattutto contro le tentazioni di superbia. E chi potrebbe poi persuadersi che Paolo abbia chiesto tre volte di esserne liberato! – Rimane la malattia: « S i dice che un dolore fisico lo facesse soffrire crudelmente; i dolori fisici sono molto spesso dovuti agli angeli di satana, ma non senza il permesso divino ». Così parla Sant’Agostino, e quasi tutti i moderni sono del suo parere. Di che malattia si tratta? Si è parlato di emicrania, di podagra, di oftalmia, di epilessia e di vari e specie di febbri; ma questa varietà di opinioni, dimostra che non è possibile una diagnosi. Supposto che nell’Epistola ai Galati (Gal. IV, 12) Paolo alluda alla medesima infermità, noi abbiamo questi sintomi, Il male di cui soffriva l’Apostolo, doveva essere acuto e cocente, perché lo chiama metaforicamente una spina o un pungiglione piantato nella carne; doveva avere qualche cosa di ripugnante, perché ringrazia i Galati di non essersi allontanati d a lui con orrore; doveva essere umiliante, perché lo considera come un antidoto contro la vanagloria e come uno schiaffo di Satana. Finalmente quell’infermità doveva sembrare un ostacolo al suo apostolato, poiché tre volte supplicò Dio che lo liberasse, e non cessò se non quando ebbe questa assicurazione: « La mia grazia ti basta ». Ulcere degli occhi, malaria o attacchi nervosi, il termine patologico a noi poco importa.

CONOSCERE SAN PAOLO (8)

CONOSCERE S. PAOLO (8)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (4)

I CARISMI.

1 . DIVERSE SPECIE DI CARISMI. — 2. LA PROFEZIA E IL DONO DELLE LINGUE.

1. Gesù Cristo, prima di salire al cielo, prometteva ai credenti il potere di scacciare i demoni, di guarire gli ammalati, di parlare nuove lingue, di rendere inoffensivi i veleni (Marc. XVI, 17-18), e la sua promessa si avverava ben presto. Quando lo Spirito Santo discese su gli Apostoli a Gerusalemme (Act. II, 4), sui semplici fedeli in Samaria (Act. VIII, 8), su le primizie del gentilesimo a Cesarea (Act. X, 46), su gli antichi discepoli di Giovanni Battista a Efeso (Act. XIX, 6), si manifestarono fenomeni del carattere più meraviglioso. I neofiti di Corinto ne erano stati favoriti con tanta abbondanza, che consultarono Paolo (I Cor. XII, 1) sul valore e su l’uso di quei doni straordinari. La cosa più urgente era di verificarne la provenienza. « Nessun uomo mosso dallo Spirito di Dio dice: Gesù (sia) anatema! e nessuno può confessare che Gesù (è) Signore, se non nello Spirito Santo (I Cor. XII, 3) ». San Paolo, notiamo bene, non pretende di dare una pietra di paragone egualmente applicabile a tutti i tempi e a tutti i luoghi. In tutte le epoche turbate da discussioni religiose, vi è sempre una formula che è come la parola d’ordine degli ortodossi: l’homoousios ai tempi di Ario, il merito delle opere ai tempi di Lutero, la grazia sufficiente ai tempi di Giansenio. Per San Giovanni, il criterio di ortodossia è la fede nel Verbo incarnato, perché allora gli eretici o negavano l’umanità del Cristo o la sua divinità, oppure non riconoscevano che un’unione accidentale tra l’umanità e la divinità. Per San Paolo, è la supremazia di Gesù Cristo. Il confessare che Gesù è Signore, è una professione di fede compendiata, è un riassunto del credo, perché è un confessare equivalentemente che egli è il Messia, che è Figlio di Dio, che è Dio. Gesù diceva dei falsi profeti: « Voi li riconoscerete dalle loro opere »; San Paolo e San Giovanni dicono: « Voi li riconoscerete dalla loro dottrina ». L’ipocrisia può ingannare: Dio solo ne penetra la maschera; ma la regola data basta in pratica, e se sempre vi resta una possibilità di errore, essa è in tal caso innocua. E poi tra i carismi ve n’era uno, il discernimento degli spiriti, che aveva appunto lo scopo di constatare l’origine soprannaturale di questi doni spirituali. Noi intendiamo qui per carismi, quelle che i teologi chiamano grazie gratuite (gratis datati per opposizione alle grazie santificanti (graturn faeientes). Esse non si distinguono dalle altre perché sono gratuite — poiché chi dice grazia dice dono gratuito — ma perché, per se stesse, esse non sono santificanti; esse hanno soltanto in sé la nozione del genere senza la differenza specifica. Il carisma si può definire: un dono gratuito, soprannaturale, passeggero, conferito per l’utilità generale, per l’edificazione del corpo mistico del Cristo. Gratuito, nel senso che non vi è nessuna connessione necessaria con la grazia santificante e che, non essendo richiesto per la salute, lo Spirito Santo « lo concede a chi vuole e quando vuole (I Cor. XII, 11) », benché vi sia speranza di ottenerlo se si chiede (ivi, XIV, 27). Soprannaturale, perché è un’operazione speciale dello Spirito Santo in noi (ivi, 12-32), che tuttavia si può sovrapporre ad un’attitudine naturale, come generalmente la grazia si sovrappone alla natura che essa trasforma e innalza. Passeggero, poiché lo Spirito lo dà e lo toghe a suo talento; è transitorio in confronto delle virtù teologali che rimangono, in confronto soprattutto della carità che non vien meno; ma possiede tuttavia una certa stabilità per la quale l’uomo abitualmente dotato del carisma profetico sarà chiamato profeta. Finalmente il carisma è conferito per l’utilità generale, come lo afferma esplicitamente San Paolo (49I Cro. XII, 7). Il paragone dei carismi con le membra del corpo umano, la cui funzione è di concorrere all’azione o al benessere comune, prova in fondo la stessa cosa. Perciò i carismi sono stimati secondo la loro utilità: quanto più sono utili alla società cristiana, tanto più sono perfetti. Ottenuti in ragione del bene comune più che in favore degli individui, essi potevano un giorno scomparire, senza privare la Chiesa di nessun organo indispensabile.

2. Di tutti i carismi, il più straordinario era il dono delle lingue, la glossolalia. Non sapremmo dire con precisione che cosa fosse, ma la Scrittura ci dice almeno che cosa non era. Essa non aveva certamente per scopo la predicazione del Vangelo. Quando gli Apostoli, nel giorno di Pentecoste, « incominciarono a parlare in diverse lingue, secondo che lo Spirito dava a loro di parlare », essi non si rivolgevano al popolo, ma celebravano nelle lingue dei presenti « le magnificenze di Dio (Act. II, 4) », con un’animazione di voce e di gesti, che li fece accusare di ubriachezza. Se si tratta di parlare alla moltitudine, Pietro parla in nome di tutti e, non potendo parlare che una lingua alla volta, è naturale che parli la sua. Se vi fu miracolo, questo si compì negli uditori e non in lui. Nel momento in cui incominciava la predicazione, il dono delle lingue era cessato. Il centurione Cornelio e i suoi, dopo il loro Battesimo, « parlarono le lingue celebrando le lodi di Dio (Act. X, 46) ». Lo stesso avvenne ai dodici discepoli di Efeso che « pieni di Spirito Santo, parlavano le lingue e profetavano (Act. XIX, 6) ». Né gli uni né gli altri non avevano da predicare. Finalmente, e questo è decisivo, il possessore di questo carisma non era compreso dai presenti, se non si trovava loro un interprete (I Cor. XIV, 2). – Riunendo tutti i dati relativi alla glossolalia, noi vediamo che essa era la facoltà soprannaturale di pregare o di lodare Dio in una lingua straniera, con un entusiasmo vicino all’esaltazione. Di fatti gli Apostoli cantano «,le magnificenze di Dio », i familiari di Cornelio « glorificano Dio », i neofiti di Efeso « profetano » nel senso biblico, quelli di Corinto « non parlano agli uomini ma a Dio, e nessuno li capisce quando, sotto l’impulso dello Spirito, profferiscono misteri », il cui significato sfugge agli uditori. D’altra parte l’eccitazione degli Apostoli è attribuita al vino che dà alla testa; e San Paolo teme per i suoi Corinzi l’accusa di pazzia, se si servono del loro dono dinanzi agli infedeli e ai catecumeni (ivi, XIV, 23). Queste manifestazioni meravigliose avveravano le profezie, dimostravano sensibilmente la permanenza dello Spirito Santo nel seno della Chiesa, simboleggiavano la grande unità cattolica e l’universalità del Vangelo, destinato a parlare tutte le lingue e a raccogliere tutti gli uomini nella professione della stessa fede. Ma quello che aveva di prodigioso la glossolalia, mentre colpiva le fantasie, doveva farla desiderare ardentemente dai neofiti ancora imperfetti e inesperti. Paolo insorge con forza contro questa stima eccessiva e raccomanda invece il dono della profezia del quale sembravano fare troppo poco conto. – Nell’Antico, come nel Nuovo Testamento, il profeta è colui che parla in nome di Dio. Ma mentre i profeti dell’Antico Testamento esercitavano una funzione pubblica e un ministero permanente, quelli del Nuovo sono profeti piuttosto in modo privato e transitorio. Essi sono predicatori ispirati, ma non è essenziale che siano apportatori di una rivelazione propriamente detta. Il loro compito specifico è quello di « edificare, esortare e consolare (ivi, XIV, 3) ». Se leggono in fondo ai cuori e sollevano il velo dell’avvenire, è in virtù di una prerogativa aggiunta alla loro missione ufficiale. Nella gerarchia dei carismi, i profeti vengono sempre immediatamente dopo gli Apostoli, e si vede che il dono spirituale di cui erano favoriti, li rendeva capaci di dirigere le comunità nascenti e li designava alle funzioni del ministero ordinario. Perciò Paolo consiglia di desiderare la profezia più che gli altri carismi e particolarmente più che il dono delle lingue (ivi, 1). Essa ha sopra questo il doppio vantaggio di essere intesa dagli uditori e di essere utile anche agli infedeli: tutti comprendono il profeta e possono profittare delle sue istruzioni, mentre Dio solo comprende il glossolale, se non gli viene in aiuto un interprete (ivi, 5). Mentre il profeta edifica la Chiesa, il glossolale edifica soltanto se stesso. Quando si sente sotto l’azione di Dio, ha coscienza di lodarlo, ma che cosa ne viene ai presenti? (ivi, XIV, 3-4). A che cosa serve infatti una lingua non compresa? (ivi, 19). Dio aveva già minacciato il suo popolo di fargli udire una lingua straniera che non avrebbe capita; c’è dunque tanto da vantarsi di un privilegio promesso all’infedeltà? (ivi, 20-21). Almeno la glossolalia convertisse gli infedeli! essa invece è per loro un argomento di derisione, come nel giorno della Pentecoste. « Quando la Chiesa è radunata in assemblea plenaria, se tutti parlano le lingue, ed entrano catecumeni e infedeli, non diranno che siete impazziti? Ma se tutti profetano, ed entra un infedele o un catecumeno, è convinto da tutti e sentenziato da tutti, e per tal modo si manifesta quello che egli ha occultamente nel cuore; e così gettatosi bocconi adorerà Dio, dichiarando che Dio è veramente in voi » (ivi, XIV, 23-35). Siccome anche il dono della profezia può essere soggetto ad abusi, San Paolo lo regola come il dono delle lingue. Tre avvisi sono diretti al glossolalo e due al profeta: Se i glossolali sono numerosi, due soltanto, o al più tre, prendano la parola in ciascuna riunione. — Essi non parlino insieme, ma uno dopo l’altro; e uno dei presenti, dotato del carisma dell’interpretazione, o che conosca la lingua che si parla, spieghi ciò che dicono. — Se non vi è interprete, il glossolalo stia in silenzio dinanzi al pubblico e parli con Dio a bassa voce (ivi, XIV, 27-28). Le disposizioni seguenti regolano l’uso della profezia: Due o tre profeti, in ciascuna riunione, esorteranno alternativamente il popolo; gli altri, oppure i fedeli dotati del carisma del discernimento degli spiriti, giudicheranno della loro ispirazione e della loro dottrina. — Se mentre uno parla, un altro si sente ispirato, il primo, per deferenza e per modestia, gli cederà la parola (ivi, 29-32). L’Apostolo riassume questo avviso in una frase; « Tutto si faccia con decenza e con buon ordine (ivi, 40) ». Nel loro desiderio di fare sfoggio dei doni spirituali, i Corinzi dimenticavano troppo facilmente, che i carismi né aggiungono né suppongono alcun merito in chi li possiede, e che gli sono concessi non tanto per il suo particolare profitto, quanto per il bene generale della Chiesa; perciò il metterli in mostra con compiacenza è una fanciullaggine. Il dono delle lingue specialmente, è uno dei minimi, perché ha bisogno di essere completato dal dono dell’interpretazione. Il glossolalo non è compreso dagli altri e ordinariamente egli non comprende se stesso: il suo spirito (πνεῦμ͜α = pneuma) si edifica, ma la sua intelligenza (νοῦς = nous) rimane digiuna. Non senza ironia Paolo lo paragona a uno strumento musicale che eseguisce un’aria sconosciuta che non capisce nessuno: l’uno e l’altro scuotono l’aria e la fanno vibrare invano. Non già che si debba di sprezzare il dono di Dio o impedirgli di manifestarsi, m a conviene stimare i carismi secondo la loro utilità. Con tale criterio, dopo il dono dell’apostolato che non è per le comunità già stabilite, la profezia tiene il primo posto. Vi è tuttavia qualche cosa di ben superiore ai carismi, favori gratuiti che Dio distribuisce a suo piacimento e la cui privazione non ci toglie nulla agli occhi suoi: sono le virtù soprannaturali, perché esse rimangono nell’anima finché vi rimane la grazia santificante, e soprattutto le tre virtù teologali, fede, speranza e carità. Questo è lo scopo per eccellenza, che Paolo assegna all’ambizione dei perfetti, e questo nome di carità gl’inspira una pagina di meravigliosa bellezza e quasi lirica. – L’oggetto speciale dei carismi diversi rimane oscuro, ma un carattere comune ed essenziale è la loro instabilità e la loro dipendenza assoluta dal beneplacito di Dio. Questo non permette di confonderti né con gli altri « frutti dello Spirito », né con le funzioni ordinarie della gerarchia. Senza dubbio da principio i dignitari ecclesiastici furono scelti spesso tra coloro che possedevano carismi. Il carisma disponeva alla funzione, ma non era necessario, potendo supplirvi la grazia dello stato, che talora si chiama anch’essa carisma. Finalmente se tutti i carismi erano soprannaturali, come frutti dello Spirito, non pare necessario che fossero tutti miracolosi, e non si vede che l’Apostolo non abbia potuto chiamare carisma un’attitudine naturale soprannaturalizzata.

V . LA RISURREZIONE DEI MORTI.

1 . CERTEZZA DELLA RISURREZIONE. — 2. RISURREZIONE NEL CRISTO E PER MEZZO DEL CRISTO. – 3. BATTESIMO PER I MORTI E PERSUASIONE DEGLI APOSTOLI. – 4. GLORIFICAZIONE DEI MORTI E DEI VIVI.

  1. Il dogma della Risurrezione del Cristo, e per conseguenza della nostra risurrezione, è, come tutti sanno, uno dei perni della teologia di San Paolo, ed era pure il più difficile da inculcare ai Pagani. L’Apostolo lo imparò a sue spese quando, nell’Areopago, udì le risa scroscianti prorompere al solo nome della risurrezione (Act. XVII), e quando, esponendo dinanzi a Festo la stessa verità, il procuratore gli disse brutalmente: « Paolo, tu vaneggi: la molta dottrina ti fa dare in pazzie (Act. XXVI, 24) ». Non è dunque cosa straordinaria che sia nato a questo riguardo qualche dubbio isolato nella cristianità di Corinto, formata quasi tutta di Gentili. Alcuni licevano: « Non vi è risurrezione dei morti (I Cor. XV, 12) ». Essi non arrivavano certamente fino a contestarne la possibilità assoluta, ma si limitavano a negare il fatto. Se si degnavano di fare un’eccezione a favore di Gesù Cristo, unica eccezione legittimata dalla dignità sublime di Figlio di Dio, si credevano forse in regola con l’insegnamento dell’Apostolo, intendendo per la risurrezione predicata da lui, la rigenerazione battesimale, una specie di risurrezione spirituale. – Agli occhi di Paolo, il negare la nostra risurrezione equivale a negare la risurrezione del Cristo, perché l’una è il corollario dell’altra o, per dir meglio, l’una è impossibile senza l’altra; perciò per essere logici bisogna ammetterle tutte e due oppure negarle tutte e due. Ma se il Cristo non è risuscitato, il Cristianesimo non è che menzogna. È vana la predicazione degli Apostoli i quali fondano su questo fragile appoggio tutto il loro vangelo; vana la fede dei fedeli, poiché essa poggia su questa base in rovina: i messaggeri della buona novella “sono falsi testimoni che attribuiscono calunniosamente a Dio un miracolo che egli non ha fatto. E quali conseguenze per i Cristiani! Vivi, essi rimangono piombati nei loro peccati; morti, sono perduti senza speranza; vivi e morti si trovano nella massima miseria. Difatti se Gesù Cristo non è risuscitato, Egli non è né il figlio né l’inviato di Dio; se Egli non è il Messia, non è il Salvatore; se non è il Salvatore, la fede in Lui e il Battesimo nel suo nome sono senza efficacia. Ne risulta dunque che il Vangelo è un’impostura, la giustificazione una lusinga, la speranza una chimera, la vita un sogno miserabile che finisce nel nulla o nella sventura. Nulla di là dalla tomba e, in questo mondo, dolori e persecuzioni, aggravati da privazioni volontarie e da rinunzie fanatiche. Questa sarebbe, in tale ipotesi, la sorte del Cristiano (I Cor. XV, 14-19). Ma, ripetiamo, non si tratta della risurrezione di Gesù Cristo, bensì della nostra, e Paolo si accinge a dimostrare che esse sono unite tra loro con un vincolo indissolubile. Noi dobbiamo risuscitare nel Cristo (ἐν Χριστῷ = en Cristo) e dobbiamo risuscitare per mezzo del Cristo (διά Χριστοῦ = dia Cristou). In altri termini, il Cristo è la causa esemplare della nostra risurrezione e ne è pure la causa meritoria. Sappiamo da Daniele, che giusti e peccatori si leveranno un giorno dalla polvere per ricominciare una vita senza fine, gli uni di obbrobrio, gli altri di gloria; da San Giovanni sappiamo che vi sono due risurrezioni, l’una di vita, l’altra di giudizio. Anche Paolo proclamò dinanzi al procuratore Pesto la risurrezione così degli empi come dei giusti (Dan. XII, 2; Joan. V, 29, Act. XXIV, 15); ma nelle sue Epistole parla soltanto di quest’ultima, perché i suoi argomenti, applicati all’altra, non terrebbero. Infatti, come potrebbe il Cristo essere causa esemplare per coloro che non hanno ricevuto e non hanno conservato la sua immagine?, e come potrebbe essere causa meritoria per coloro che hanno calpestato i suoi meriti?
  2. 2. Il ragionamento fondato su la causa esemplare si presenta in doppio aspetto: Se i giusti non risuscitano, il Cristo non è risuscitato; se il Cristo è risuscitato, anche i giusti risusciteranno (I Cor. XV, 20). Un vincolo di dipendenza unisce i due membri di queste proposizioni condizionali che bisogna o negare o affermare insieme. Ora è certo che il Cristo è risuscitato; gli scettici di Corinto non ne dubitano e, occorrendo, le testimonianze accumulate da San Paolo chiuderebbero loro la bocca. La conseguenza ineluttabile è che anche i giusti risusciteranno. E perché? Perché Gesù Cristo è risuscitato dai morti come « primizia dei dormienti (ivi, 20) ». Le primizie sono la promessa e il pegno della messe e non sarebbero più primizie senza il raccolto

che esse annunziano. Benché meno stimato e meno prezioso, il raccolto non è di natura diversa dalle primizie: è il frutto di una stessa semina, il prodotto di un medesimo campo, il reddito di una medesima coltivazione. Così il Cristo non avrebbe diritto ai titoli che gli appartengono, non sarebbe « il primogenito dei morti né primizie dei dormienti », se Egli solo, esclusi i suoi fratelli, fosse risuscitato. Si vede facilmente che la ragione ultima di tutto questo sta nella solidarietà degli eletti con il loro redentore. « Come tutti gli uomini muoiono in Adamo, così pure tutti saranno vivificati nel Cristo (ivi, 22) ». Per contrarre il debito di morte, nel corpo e nell’anima,

basta appartenere alla stirpe di Adamo e il fare con Lui una sola cosa per il fatto della generazione naturale; per ricevere il credito di vita, nell’anima e nel corpo, basta essere incorporati nel secondo Adamo e fare una cosa sola con Lui per il fatto della rigenerazione soprannaturale. Tutti quelli che sono morti in Adamo in conseguenza della comune natura ricevuta da Lui, saranno vivificati nel Cristo, a condizione che comunichino con la sua grazia. Si vede quanto sarebbe difettosa questa argomentazione di Paolo, se si parlasse della risurrezione generale dei morti; ma limitata ai giusti, essa è incrollabile. Essa ha le sue radici nella teoria del corpo mistico così cara all’Apostolo. Nel momento in cui veniamo innestati sui Cristo per mezzo del battesimo, incominciamo a vivere della sua vita, a partecipare ai suoi privilegi e ai suoi destini, come il ramo innestato sul tronco ne riceve il succo; da quel momento noi acquistiamo un diritto alla risurrezione gloriosa. Dio è debitore verso se stesso della nostra risurrezione, perché siamo membri, siamo parte integrante del Cristo. Non è una semplice convenienza, ma è una necessità, nella provvidenza attuale, è un corollario evidente, nell’ordine presente delle cose, del disegno divino della redenzione. – La seconda dimostrazione che parte dalla nozione di causa meritoria, è ancora più chiara. Nessun Cristiano può ignorare, perché questa verità appartiene al catechismo elementare, che Gesù Cristo ha la missione di restaurare le rovine fatte dal primo Adamo. Queste rovine si riassumono nella privazione della giustizia originale e nella perdita dell’immortalità. Se il Cristo non fosse vincitore della morte come è vincitore del peccato, avrebbe compito soltanto una metà dell’opera sua: « La morte è il fatto di un uomo, la risurrezione dei morti sarà pure il fatto di un uomo (ivi, 21) ». Nel numero dei nemici da distruggere, si trova la morte. Essa sarà vinta l’ultima, ma bisogna che sia vinta; ora non sarebbe vinta mai, se Gesù Cristo fosse impotente a strapparle la sua preda. Soltanto quando ciò che vi è di mortale in noi avrà rivestito l’immortalità, noi potremo cantare nell’ebbrezza del trionfo: « O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo pungolo? ». Gesù avrebbe perso definitivamente la lotta contro la gran nemica, se, contento di sfidarla per conto suo, non potesse liberare le sue vittime.

3. A questi due argomenti fondati su l’essenza della redenzione, Paolo aggiunge una doppia prova derivata dalla convinzione intima dei fedeli e dalla condotta degli Apostoli. Egli vuole dimostrare così, che la risurrezione è conforme alla voce della Del resto la persuasione degli Apostoli è già essa stessa un insegnamento (ivi, 31-32). Vi era a Corinto, e probabilmente anche in altre cristianità, un’usanza curiosa. Quando un catecumeno moriva prima di ricevere il Battesimo, uno dei suoi parenti o amici riceveva per lui le cerimonie del sacramento (I Cor. XV, 29). Che significato preciso davano essi a tale atto? È difficile dirlo. San Paolo né lo approva né lo biasima, e vede soltanto in esso ima professione di fede nella risurrezione dei morti. Difatti il Battesimo simboleggiato dall’albero della vita, depone nel corpo un germe d’immortalità; completa col rito esteriore dell’incorporazione col Cristo, la rigenerazione prodotta internamente nell’anima dalla grazia invisibile; imprime nel Cristiano un sigillo indelebile che lo farà conoscere nell’ultimo giorno come un membro del Cristo. Ecco il segno distintivo che i Corinzi volevano supplire, per quanto era loro possibile, nei catecumeni morti senza Battesimo. La loro pratica non era, in sé, superstiziosa: era una protesta solenne che il defunto apparteneva a Gesù Cristo, e che a Lui era mancato il tempo, non il desiderio, di diventare membro effettivo della Chiesa visibile. Essi non s’ingannavano neppure pensando che, in virtù della comunione dei santi, un atto di fede e di pietà da parte loro poteva giovare al defunto. Ma il pericolo stava nel credere che essi facendosi battezzare per i morti, cioè a loro profitto, si facessero battezzare in loro vece e al posto loro, in modo da procurare loro gli effetti del Battesimo, come se la morte non fosse il termine della prova, e come se i defunti potessero essere assistiti anche in altro modo che con i suffragi. Certi eretici, i cerinziani, i montanisti, i marcioniti, caddero più tardi in questo errore e giunsero persino a battezzare i cadaveri, non senza sollevare la riprovazione generale della Chiesa. Paolo e i suoi colleghi di apostolato rendono alla risurrezione una testimonianza più illustre. Essi muoiono ogni giorno con le loro volontarie rinunzie; la loro vita esposta a tanti pericoli e a tante privazioni, non è che un’immolazione lenta e continua. Tutti potrebbero dire con San Paolo: « Io castigo il mio corpo e lo riduco alla schiavitù ». Ma se il corpo non ha parte alla ricompensa, perché trattarlo così! Non è meglio seguire la massima degli epicurei? E non bisognerà conchiudere o che le azioni del corpo sono indifferenti, oppure che la speranza di una vita migliore non è che un’illusione? Si potrebbe obbiettare che basta che sopravviva l’anima. Ma oltre il fatto che, nella provvidenza attuale, la felicità eterna dell’anima e quella del corpo sono indissolubilmente unite, una felicità incompleta che toccasse soltanto a una parte del composto umano, non sodisfa le nostre aspirazioni. Del resto coloro che negano la risurrezione del corpo, sono assai vicini a negare l’immortalità dell’anima. Perciò San Paolo, come lo stesso Salvatore, confuta con gli stessi argomenti questo doppio errore.

4. Se la risurrezione risponde alle nostre aspirazioni più intime, il modo con cui essa si compirà, sconcerta la nostra immaginazione. Noi non abbiamo nessuna idea di un corpo organico eternamente incorruttibile; noi non concepiamo la vita sensibile senza mutazione, né la mutazione senza alterazione. Quando la morte avrà disperso ai quattro venti quel pugno di polvere che fu il nostro corpo, dove si potranno ritrovare quegli atomi sparsi ed entrati in mille nuove combinazioni, e come si potrà impedire che si disperdano ancora? Questa è l’obbiezione che Paolo prevede, e vi risponde subito: «Come risusciteranno i morti e in quale corpo verranno? (ivi, 35)». È evidente che il nostro corpo deve subire una trasformazione profonda; deve rivestire la forma del Cristo che « trasfigurerà il corpo della nostra umiliazione », il nostro corpo nello stato di miseria e di prova, « per renderlo conforme al corpo della sua gloria (Fil. III, 21) », cioè al suo corpo glorificato: trasfigurazione, se si considera che la personalità sarà elevata e nobilitata senza essere distrutta; trasformazione, riguardo alla nuova forma soprannaturale del corpo risuscitato. L’Apostolo spiega questa trasformazione o questa trasfigurazione con l’esempio del seme. Il seme è dotato di una vita latente che si manifesta soltanto per mezzo della morte e della corruzione; esso si trasfigura morendo, e la sua vita si trasforma in una vita più nobile, seguendo una legge di proporzione stabilita da Dio. « Così avviene della risurrezione dei morti (ivi, 42) ». Il corpo del giusto, abitato dallo Spirito Santo, contiene un germe di vita soprannaturale; e la trasformazione comune a tutti i santi non esclude affatto le differenze di gloria individuale proporzionate alla natura e all’energia del principio vitale. Le piante differiscono di perfezione, e gli astri differiscono di splendore: che meraviglia che avvenga altrettanto per gli eletti? – San Paolo insegna espressamente che il nostro corpo, nello stato di umiliazione e nello stato di gloria, rimane ideutico a se stesso; egli afferma che « questo corpo corruttibile deve rivestire l’incorruttibilità e questo corpo mortale l’immortalità (ivi, 53) ». Non bisogna dunque abusare del paragone del seme, per sostenere un cambiamento sostanziale che equivarrebbe alla produzione di un altro individuo. L’Apostolo non decide se il seme e la pianta abbiano lo stesso principio vitale; tali questioni biologiche non lo interessano; il suo paragone si riferisce soltanto alla continuazione della vita attraverso la morte, ed egli sa che la forza la quale trasfigurerà e trasformerà il nostro corpo in modo da renderlo conforme al corpo glorificato di Gesù Cristo, è sempre la stessa nonostante la diversità dei suoi effetti e delle sue manifestazioni: essa è il Πνεῦμα [= pneuma] divino. – Per quanto sia profondo, il rinnovamento del nostro essere non arriva fino alla creazione di una nuova personalità. Il corpo « è seminato nella corruzione e risuscita nell’incorruzione; è seminato nell’ignominia e risuscita nella gloria; è seminato nella debolezza, e risuscita nella forza; è seminato corpo psichico, e risuscita corpo spirituale » (ivi, 42-44). Da corruttibile diventa incorruttibile, per conseguenza immortale; da vile ed abbietto, da soggetto alle più umilianti necessità, diventa degno di onore e di rispetto, rivestito di una bellezza che riflette l’immagine di Dio riparata e lo splendore di un’anima gloriosa; da impotente e infermo, da sottoposto a tutte le limitazioni della sua natura e a tutte le tristi conseguenze del peccato, diventa superiore agli elementi, vincitore del tempo e padrone dello spazio: da carnale e terrestre, diventa « spirituale », non aereo o etereo, secondo il significato etimologico di spirito, e neppure simile agli spiriti celesti nella sua maniera di essere e di agire, benché tale spiegazione possa sembrare seducente, ma dominato dallo Spirito di Dio che lo informa nella sua vita soprannaturale, come l’anima lo muove e lo penetra nella sua vita sensibile. Il corpo spirituale è un corpo simile al corpo glorificato di Gesù. In virtù della generazione naturale, noi abbiamo da Adamo un corpo terrestre (χοϊκόν = Koicon), un corpo psichico (ψυχικόν = psukicon), che aggrava l’anima e la impaccia nelle sue operazioni; in virtù della discendenza soprannaturale, noi riceviamo dal secondo Adamo un corpo celeste (ἐπουράνιον = epuranion), un corpo spirituale (πνεματιόν = pneumaticon), simile al suo (ivi, 45-49). Le proprietà del corpo di Gesù Cristo — impassibilità, chiarezza, libertà intera di azione e di movimento — saranno pure le nostre. Ecco quanto c’insegna la rivelazione. San Paolo ricorda ai Corinzi, che la loro curiosità s’inganna. Essi vogliono sapere come saranno fatti i corpi dei risuscitati; ora la trasformazione dei vivi non è meno meravigliosa né meno difficile a comprendersi, perché « la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio (ivi, 50) ». È necessario un cambiamento che equivale ad una completa trasformazione: “Ecco che vi dico un mistero: noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, poiché sonerà la tromba, e i morti risorgeranno incorrotti, e noi saremo trasformati; poiché bisogna che questo corpo corruttibile si rivesta dell’incorruttibilità, e che questo corpo mortale ai rivesta dell’immortalità (ivi, 51-53). Ammirabile segreto e veramente misterioso che Paolo ha incarico di trasmettere ai fedeli e che infatti comunica loro in tre lettere: « Noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati ». I giusti degli ultimi giorni non conosceranno la morte: l’incorruttibilità li avvolgerà come in un manto di gloria, senza spegnere in loro la scintilla della vita; tutto ciò che hanno di mortale, sarà assorbito dall’immortalità in quell’istante indivisibile, illuminato dalla sfolgorante venuta del Cristo. Gesù Cristo, causa esemplare e meritoria della risurrezione del giusti, con la persuasione invincibile dei fedeli e con la certezza infallibile degli Apostoli, non sono le sole prove che Paolo fa valere in favore della nostra risurrezione. Altrove parla di Gesù Cristo primogenito tra i morti, dei pegni dello Spirito Santo e del desiderio soprannaturale che c’inspira, della sua abitazione nell’anima e nel corpo dei cristiani come in un tempio, della grazia che è seme di gloria. È impossibile che questi argomenti insieme connessi, dei quali dovremo esaminare i molteplici aspetti, non si tocchino in alcuni punti e non arrivino a compenetrarsi, ma essi dimostrano almeno la ricchezza delle intuizioni dell’Apostolo e la vastità dei suoi orizzonti.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: SPIRITUS PARACLITUS di S.S. BENEDETTO XV

Spiritus Paraclitus, è una delle lettere Encicliche più belle e significative di tutto il Magistero ecclesiastico. Prendendo spunto dalla esaltazione della straordinaria figura di San Girolamo, della quale si celebrava il XV centenario della morte, il Santo Padre Benedetto XV, traccia un sentiero di vera e nobile spiritualità tutta incentrata sulla Sacra Scrittura. Lunga è invero la lettera, ma si legge come … il cervo assetato in terra arida [terra arida = modernismo eretico, protestantesimo, massonismo, ateismo e paganesimo imperante ed imposto, etc.] che va alla fonte di acqua pura per dissetarsi e rivivere. Numerosi sono gli spunti di riflessione ed i rilievi dottrinali che si susseguono in sequenza strettamente logica, brillante e “vera” sotto tutti punti di vista. Assoluta è la considerazione della Santa Scrittura in ogni sua asserzione ed in ogni ambito anche laddove, da un certo periodo [cioè dal rinascimento del paganesimo] da empi e falsissimi pretesi scienziati e sapienti, si è tentato di trovare elementi che mettessero la Bibbia in “difficoltà” o addirittura capace di errori, falsità, sviste, manipolazioni. Giusto per fare un esempio breve, guardiamo alla storia della teoria eliocentrica, rimasuglio di un culto gnostico-cabalistico ereditato da conventicole “accademiche” e che oggi, nonostante i grandi mezzi economici dispiegati [che troverebbero migliore impiego nel sollevare gli indigenti], viene messa in ridicolo e sbeffeggiata pure da un bambino dalle normali facoltà mentali, capace di fare due semplici operazioni aritmetiche, con una buona vista, armato semplicemente di un banale cannocchiale [ognuno può vedere una terra ed un mare perfettamente piatti, soppiantando la teoria delle “palle che girano” – sembra di rivivere la favola del Re nudo!]. Quindi il Santo Padre, ricordando i decreti tridentini, e la “Providentissimus Deus” di Leone XIII, ci rafferma nella convinzione che unica guida di Verità per l’essere umano è solo la Sacra Scrittura, rettamente interpretata dalla Chiesa Cattolica Romana [e San Girolamo è appunto uno dei Padri Occidentali della Chiesa], e dal Magistero della stessa garantito dall’infallibilità del Sommo Pontefice [quello vero, naturalmente!]. Inutile dilungarsi oltre, è tutto contenuto mirabilmente nella lettera. Leggiamo e fissiamo indelebilmente nella mente: Spiritus Paraclitus cum genus humanum, ut arcanis divinitatis …

S. S. Benedetto XV

“Spiritus Paraclitus”

Lettera Enciclica

Lo Spirito Santo, che diede al genere umano, per iniziarlo ai misteri della divinità, il tesoro delle Lettere Sante, ha con immensa provvidenza fatto sorgere nel corso dei secoli numerosi esegeti, notevoli per santità e per dottrina, i quali, non contenti di non lasciare infecondo questo Celeste tesoro (Conc. Trid., s. V. decr. di riforma, c. I), dovevano far ampiamente gustare attraverso i loro studi e le loro opere, ai fedeli cristiani, “la consolazione delle Scritture“. – E’ universalmente riconosciuto l’eccelso posto tenuto da San Gerolamo, nel quale la Chiesa Cattolica riconosce e venera il più gran Dottore di cui il Cielo le abbia fatto dono per l’interpretazione delle Sacre Scritture. – Invero, poiché fra pochi giorni dobbiamo commemorare il quindicesimo centenario della sua morte, Noi non vogliamo, Venerabili Fratelli, lasciar passare un’occasione così favorevole per intrattenervi a bell’agio sulla gloria che San Gerolamo ha acquistata e sui servizi che egli ha reso con la sua sapienza nelle Sacre Scritture. – La coscienza del Nostro ufficio Apostolico e il desiderio di dare incremento allo studio nobilissimo delle Scritture, Ci incitano da un lato a proporre come esempio da imitarsi questo grande genio, e dall’altro a confermare con la Nostra Apostolica autorità ed a meglio adattare ai tempi che oggi la Chiesa attraversa le preziosissime direttive e le prescrizioni date in questa materia dai Nostri Predecessori di santa memoria: Leone XIII e Pio X. Infatti San Gerolamo, “spirito grandemente impregnato di senso cattolico e molto versato nella conoscenza della legge santa(Sulp. Sev., Dial., 1, 7), maestro dei cristiani” (Cass., De inc. VII, 26), “modello di virtù e luce del mondo intero” (San Prospero, Carmen de ingratis, V, 57), ha esposto meravigliosamente e validamente difeso la dottrina cattolica intorno ai Libri Santi; e a questo proposito Ci fornisce un insieme di insegnamenti di altissimo valore, di cui Noi Ci valiamo per esortare tutti i figli della Chiesa, e specialmente i membri del clero, al rispetto, alla lettura devota e all’assidua meditazione delle Scritture Divine. Come sapete, Venerabili Fratelli, San Gerolamo, nato a Stridone, città “un tempo di confine tra la Dalmazia e la Pannonia”, (De viris ill., 135), allevato fin dalla più tenera infanzia al Cattolicesimo (Ep. LXXX, 11, 2), dopo che col Battesimo ebbe preso qui in Roma stessa l’abito di Cristo (Ep. XV, 1, 1; XVI, 11, 1), fino alla fine della sua lunghissima vita consacrò tutte le sue forze allo studio, alla esplicazione e alla difesa dei Libri Sacri. – Istruitosi in lettere latine e greche, appena uscito dalla scuola dei rètori, ancora adolescente, si sforzava di commentare il profeta Abdia; questo Saggio “della sua prima gioventù” (Abd. praef.) fece crescere a tal punto il suo amore per le Scritture, che, seguendo la parabola del Vangelo, egli decise di dover sacrificare al tesoro che aveva scoperto “tutti i vantaggi di questo mondo” (Matth. XIII, 44). – Perciò, sfidando tutte le difficoltà di una simile decisione, abbandonò la sua casa, i genitori, la sorella, i parenti, rinunziò all’abitudine di una lauta mensa e partì per i luoghi santi dell’Oriente, allo scopo di procurarsi con maggior. abbondanza le ricchezze di Cristo e la conoscenza del Salvatore, con la lettura e lo studio dei Libri Santi (Ep. XXII, XXX, 1). Più volte egli stesso ci descrive come si sia dedicato a questa impresa, senza risparmiare fatica: “Una meravigliosa sete di sapere mi spingeva ad istruirmi e non fui affatto, come alcuni pensano, il maestro di me stesso. Ad Antiochia ascoltai spesso le lezioni di Apollinare di Laodicea (1), che frequentavo; ma benché fossi suo discepolo nelle Sacre Scritture, non ho però mai adottato il suo dogmatismo ostinato in materia di senso” (Ep. LXXXIV, 111, 1). – San Gerolamo dalla Palestina si ritirò nel deserto della Calcide, in Siria; e al fine di penetrare più profondamente il senso della parola divina e per frenare nello stesso tempo, con accanito travaglio, gli ardori della giovinezza, si mise alla scuola di un ebreo convertito, dal quale ebbe anche modo di apprendere la lingua ebraica e quella caldea.

“Quali pene tutto ciò mi sia costato, quali difficoltà abbia dovuto vincere, quali scoraggiamenti soffrire, quante volte abbia abbandonato questo studio, per poi riprenderlo più tardi, stimolato dalla mia passione per la scienza, io solo, che l’ho provato, potrei dirlo, e con me coloro che mi vivevano accanto. E benedico Iddio per i dolci frutti che mi ha arrecati l’amaro seme dello studio delle lingue” (Ep. CXXV, 12). – San Gerolamo, fuggendo le bande di eretici che venivano a turbarlo perfino nella solitudine del deserto, si recò a Costantinopoli. Il Vescovo di questa città era allora San Gregorio il Teologo (2) celebre per la fama e la gloria universali della sua scienza. Gerolamo lo prese per quasi tre anni a guida e a maestro nell’interpretazione delle Sacre Lettere. In quest’epoca egli tradusse in latino le Omelie di Origene sui Profeti e la Cronaca di Eusebio (3) e commentò la visione dei Serafini in Isaia (4). – Ritornato a Roma, per le difficoltà che la Cristianità attraversava, vi fu accolto paternamente dal Papa Damaso (5), che egli assistette nel governo della Chiesa (Ep. CXXIII, IX, al., 10; Ep. CXXVII, VII, 1). Sebbene assorbito in ogni senso dalle preoccupazioni di questa carica, tuttavia mai trascurò sia di dedicarsi ai Libri Santi (Ep. CXXVII, VII, 1 e segg.) e di trascrivere e di esaminare i codici (Ep. XXXVI, 2; Ep. XXXII, 1), sia di risolvere le difficoltà che gli venivano sottoposte e di iniziare i discepoli d’ambo i sessi alla conoscenza delle Scritture (Ep. XLV, 2; CXXVI, 3; CXXVII, 7). – Il Papa gli aveva affidato l’importantissimo compito di rivedere la versione latina del Nuovo Testamento: egli rivelò in quest’impresa una tale penetrazione e una tale finezza di giudizio, che la sua opera è sempre più stimata e ammirata dagli stessi esegeti moderni. Ma tutti i suoi pensieri, tutti i suoi desideri l’attiravano verso i luoghi della Palestina. Fu così che, alla morte di Damaso, Gerolamo si ritirò a Betlemme; ivi, fondato un monastero presso la culla di Gesù, si consacrò tutto a Dio, dedicando tutto il tempo che la preghiera gli lasciava libero allo studio e all’insegnamento delle Scritture. – “Già – così egli ci riferisce – il mio capo s’incanutiva e avevo ormai l’aspetto più di un maestro che di un discepolo; ciò nonostante mi recai ad Alessandria e mi misi alla scuola di Didimo (6). Molto a lui io devo: mi insegnò quello che ignoravo, e ciò che già sapevo mi rivelò sotto diversa forma. Sembrava che non avessi più nulla da imparare, e ora, a Gerusalemme e a Betlemme, a prezzo di quali fatiche e di quali sforzi ho io seguito ancora durante la notte le lezioni di Baranina! Egli temeva gli Ebrei e mi faceva l’effetto di un secondo Niccodemo” (Ep. LXXXIV, 111, 1 e segg.). – Lungi dall’accontentarsi delle lezioni e dell’autorità di quei maestri – e non solo di questi – egli si valse, per raggiungere nuovi progressi, di fonti di documentazione d’ogni genere: dopo di essersi procurato fin dall’inizio i migliori manoscritti e commentari delle Scritture, studiò i libri delle sinagoghe e le opere della biblioteca di Cesarea, fondata da Origene e da Eusebio; il confronto di questi testi con quelli che già possedeva, doveva metterlo in grado di fissare la forma autentica e il vero senso del testo biblico. – Per meglio raggiungere il suo scopo, visitò la Palestina in tutta la sua estensione, fermamente convinto del vantaggio che ne avrebbe tratto, come faceva notare nella sua lettera a Domnione e a Rogaziano: “La Sacra Scrittura sarà molto più penetrabile per colui che ha visto con i suoi occhi la Giudea, che ha ritrovato i resti delle antiche città, ed appreso i nomi rimasti identici o trasformatisi delle varie località. Questo è il pensiero che ci guidava quando ci siamo imposta la fatica di percorrere, insieme ai più grandi eruditi ebrei, la regione il cui nome risuona in tutte le chiese di Cristo” (Ad Domnionem et Rogatianum in I. Paral. Prefaz.). Ecco dunque San Gerolamo nutrire senza posa il suo spirito di questa manna Celeste, commentare le Lettere di San Paolo, correggere, secondo i testi greci, i codici latini dell’Antico Testamento, tradurre di nuovo in latino dall’originale ebraico quasi tutti i Libri Sacri, spiegare ogni giorno le Sacre Scritture ai fedeli insieme riuniti, rispondere alle lettere che da ogni parte gli giungevano per sottoporgli difficoltà esegetiche da risolvere, confutare vigorosamente i detrattori dell’unità e della fede cattolica, e – tanto grande era l’energia che gli infondeva l’amore per le Scritture – non smettere dallo scrivere e dal dettare, finché la morte non ebbe irrigidito la sua mano e spento la sua voce. – Così, non risparmiando né fatiche, né veglie, né spese, mai, fino all’estrema vecchiaia, cessò di meditare giorno e notte, presso il Santo Presepio, sulla legge del Signore, rendendo maggiori servigi al nome cattolico, dal fondo della sua solitudine, con l’esempio della sua vita e con i suoi scritti, di quelli che avrebbe potuto rendere se fosse vissuto a Roma, centro del mondo. – Dopo questo rapido esame della vita e delle opere di San Gerolamo, vediamo ora, Venerabili Fratelli, quale fu il suo insegnamento sulla dignità divina e l’assoluta veracità delle Sacre Scritture. A questo proposito, si analizzino gli scritti del grande Dottore: non v’è pagina in cui non sia reso evidente come egli abbia fermamente e invariabilmente affermato, in armonia con l’intera Chiesa Cattolica, che i Libri Santi sono stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che autore di essi va ritenuto Dio stesso e che come tali la Chiesa li ha ricevuti (Conc. Vat. I. III, Const. de fide cath. cap. II). I Libri della Santa Scrittura – egli afferma sono stati composti sotto l’ispirazione o la suggestione o anche la diretta dettatura dello Spirito Santo; ed è per di più questo stesso Spirito che li ha composti e divulgati. D’altronde però San Gerolamo non dubita minimamente che ogni autore di questi libri abbia secondo la propria possibilità e il proprio genio, dato libero contributo all’ispirazione divina. Non solo dunque egli afferma senza riserve l’elemento comune a tutti gli scrittori di cose sacre – sarebbe a dire il fatto che la loro penna è guidata dallo Spirito divino, a tal punto che Dio stesso deve essere considerato causa principe e determinante di ogni espressione della Scrittura – ma anche distingue accuratamente e pone in rilievo ciò che in un singolo scrittore vi è particolarmente caratteristico. Sotto diversi punti di vista, secondo cioè l’ordinamento del materiale, secondo l’uso dei vocaboli, la qualità e la forma dello stile, egli dimostra. come ciascuno abbia messo a profitto le proprie facoltà e le proprie capacità personali; giunge in tal modo a fissare e a ben delineare il carattere singolo, le impronte, per così dire, e la fisionomia di ogni autore, soprattutto riguardo ai Profeti e all’Apostolo San Paolo. Per meglio porre in rilievo questa collaborazione di Dio e dell’uomo alla stessa opera, San Gerolamo adduce l’esempio dell’operaio, che si serve, nella costruzione di un oggetto qualsiasi, di uno strumento o di un utensile; infatti tutto quello che gli scrittori sacri dicono “altro non è che la parola stessa di Dio e non la loro parola, e parlando per mezzo della loro bocca, Dio volle servirsi come d’uno strumento (Tract. de Ps., LXXXVIII). – Se noi cerchiamo inoltre di comprendere come bisogna interpretare questa influenza di Dio sullo scrittore di sacri argomenti e l’azione che Egli come causa principale esercitò, noi vedremo che l’opinione di San Gerolamo è in perfetta armonia con la dottrina comune della Chiesa Cattolica: Dio – egli afferma – con un dono della Sua grazia illumina lo spirito dello scrittore, riguardo alla verità che questo deve trasmettere agli uomini “per ordine divino“. Egli suscita in lui la volontà e lo costringe a scrivere; gli conferisce un’assistenza speciale fino al compimento del libro. E’ principalmente su questo punto del concorso divino, che il nostro Santo fonda l’eccellenza e la dignità incomparabili delle Scritture, la cui scienza paragona al “tesoro prezioso (Matth. XIII, 44; Tract. de Ps. LXXII) e alla “splendida perla(Matth. XIII, 45 e segg.) e in cui assicura si trovano “le ricchezze di Cristo” (Quaest. in Gen., Prefaz.) e “l’argento che orna la casa di Dio” (Agg. II, 1 e segg.; cfr. Gal. 11, 10 ecc.). – Proclamava eloquentemente, sia con le parole che con i fatti, l’autorità sovrana della Scrittura. Non appena si sollevava una controversia, egli ricorreva alla Bibbia come alla più autorevole fonte per dedurne testimonianze, argomenti molto saldi e assolutamente inconfutabili al fine di dimostrare apertamente gli errori degli avversari. – Così San Gerolamo rispose, con massima schiettezza e semplicità, a Elvidio (7), che negava la perpetua verginità della Madre di Dio: Se ammettiamo tutto ciò che dice la Scrittura, neghiamo logicamente ciò che essa non dice. Noi crediamo che Dio sia nato da una vergine, appunto perché lo leggiamo nella Scrittura; e neghiamo che Maria non sia rimasta vergine dopo il parto, perché la Scrittura non lo riporta assolutamente (Adv. Helv., 19). Si ripromette, servendosi di queste stesse armi, di difendere con la massima vigoria, contro Gioviniano (8), la dottrina cattolica sullo stato di verginità di Maria, sulla perseveranza, l’astinenza e il merito delle buone opere: “Io farò ogni sforzo per opporre, a ciascuna delle sue asserzioni, i testi delle Scritture: eviterò così che egli vada ovunque lamentandosi che io l’ho vinto più con la mia eloquenza che con la forza della verità” (Adv. Iovin., 1, 4). – Nella difesa delle sue opere contro lo stesso eretico, aggiunge: “Sembrerebbe che l’abbiano supplicato di cedere davanti a me, mentre egli non s’è lasciato prendere che a malincuore, dibattendosi nei lacci della verità (Ep. XLIX, al. XLVIII, 14, 1). – Sull’insieme della Sacra Scrittura, leggiamo ancora nel suo commentario su Geremia, che la morte gli impedì di condurre a termine: “Non bisogna seguire l’errore dei genitori né quello degli antenati, bensì l’autorità delle Scritture e la volontà di Dio maestro” (Ier. IX, 12 e segg.). Ecco come descrive a Fabiola il metodo e l’arte per combattere il nemico: “Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio (Ep. LXXVIII, XXX, al. 78, mansio). – Per altro San Gerolamo insegna che l’ispirazione divina dei Libri Santi e la loro sovrana autorità comportano, quale conseguenza necessaria, l’immunità e l’assenza di ogni errore e di ogni inganno: tale principio egli aveva appreso nelle più celebri scuole d’Occidente e d’Oriente, come tramandato dai Padri e accettato dall’opinione comune. – E invero, dopo che egli ebbe intrapreso, per ordine del Papa Damaso, la revisione del Nuovo Testamento, alcuni “spiriti meschini gli rimproverarono amaramente di aver tentato “contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutto il mondo, di fare alcuni ritocchi ai Vangeli”; San Gerolamo si accontentò di rispondere che non era abbastanza semplice di spirito, né così estremamente ingenuo, per pensare che la più piccola parte delle parole del Signore avesse bisogno d’essere corretta, o per ritenere che non fosse divinamente ispirata (Ep. XXVII, 1, 1 e segg.). Nel commento alla prima visione dì Ezechiele intorno ai quattro Evangeli, fa notare: “Non troverà strani tutto quel corpo e quei dorsi disseminati d’occhi, chi si è reso conto come dal più piccolo particolare del Vangelo si sprigiona una luce che illumina col suo raggio il mondo intero: ed anche la cosa che è apparentemente la più trascurabile brilla di tutto il maestoso splendore dello Spirito Santo (Ex. I, 15 e segg.). Ora, questo privilegio, che egli qui rivendica per il Vangelo, lo reclama poi in ognuno dei suoi commentari per tutte le altre “parole del Signore, e ne fa la legge e la base dell’interpretazione cattolica; questo è d’altra parte il criterio di cui San Gerolamo si vale per distinguere il vero profeta dal falso (Mich. II, II e segg.; III, 5 e segg.). Poiché: “la parola del Signore è verità, e per Lui dire significa realizzare” (Mich. IV, 1 e segg.). Pertanto “la Scrittura non può mentire” (Ier. XXXI, 35 e segg.) e non è permesso accusarla di menzogna (Nah. 1, 9) e neppure ammettere nelle sue parole anche un solo errore di nome (Ep. LVII, VII, 4). Del resto, il Santo Dottore aggiunge che egli “non pone sullo stesso piano gli Apostoli e gli altri scrittori, cioè gli autori profani; “quelli dicono sempre la verità, mentre questi, come capita agli uomini, si ingannano su alcuni punti” (Ep. LXXXII, VII, 2); molte affermazioni della Scrittura, che a prima vista possono sembrare incredibili, sono tuttavia vere (Ep. LXXII, II, 2), e in questa “parola dì verità” non è possibile scoprire nessuna contraddizione, nessuna discordanza, nessuna incompatibilità (Ep. XVIII, VII, 4; cfr. Ep. XLVI, VI, 2); per conseguenza “se la Scrittura contenesse due dati che sembrassero escludersi, entrambi” resterebbero “veri, quantunque diversi” (Ep. XXXVI, XI, 2). – Sempre fedele a questo principio, se gli capitava di incontrare nei Libri Sacri apparenti contraddizioni, San Gerolamo concentrava tutte le sue cure e tutti gli sforzi del suo spirito per risolvere la difficoltà; e se giudicava la soluzione ancora poco soddisfacente, riprendeva, non appena si presentasse l’occasione, senza perdere coraggio, l’esame del problema, anche se talora non giungeva a risolverlo completamente. – Mai tuttavia egli incolpò gli scrittori sacri della minima falsità: “Lascio fare ciò agli empi, come Celso, Porfirio, Giuliano(Ep. LVII, IX, 1). In ciò era perfettamente d’accordo con Sant’Agostino: questi – leggiamo in una delle sue lettere allo stesso San Gerolamo – aveva per i Libri Sacri una venerazione così piena di rispetto, da credere molto fermamente che nessun errore fosse sfuggito alla penna di uno solo di tali autori; perciò, se incontrava nelle Lettere Sante un punto che sembrava in contrasto con la verità, lungi dal credere ad una menzogna, ne attribuiva la colpa a un’alterazione del manoscritto, a un errore di traduzione, o a una totale inintelligenza da parte sua. Al che aggiungeva: “Io so, fratello, che tu non pensi diversamente: voglio dire che non m’immagino affatto che tu desideri vedere le tue opere, lette nella stessa disposizione di spirito in cui vengono lette le opere dei Profeti e degli Apostoli; dubitare che esse siano prive di ogni errore, sarebbe un delitto (Sant’Ag. a San Gerol., tra le lettere di San Gerol. CXVI, 3). – Questa dottrina formulata da San Gerolamo conferma dunque splendidamente e nello stesso tempo spiega la dichiarazione del Nostro Predecessore di santa memoria, Leone XIII, in cui era precisata la credenza antica e costante della Chiesa sulla perfetta immunità che mette la Scrittura al riparo d’ogni errore: “E’ tanto assurdo che l’ispirazione divina incorra il pericolo di errare, che non solo il minimo errore ne è essenzialmente escluso, ma anche che questa esclusione e questa impossibilità sono tanto necessarie, quanto è necessario che Dio, sovrana verità, non sia l’autore di alcun errore, anche il più lieve“. – Dopo aver riferito le conclusioni dei Concili di Firenze e di Trento, confermate dal Sinodo in Vaticano, Leone XIII prosegue: “La questione assolutamente non cambia per il fatto che lo Spirito Santo s’è servito di uomini come di strumenti per scrivere, come se qualche errore avesse potuto sfuggire non certo all’autore principale, ma agli scrittori che da Lui erano ispirati. Poiché Egli stesso li ha con la sua azione soprannaturale eccitati e spinti lino a che si ponessero a scrivere; li ha poi assistiti nel corso della loro opera a tal punto che essi pensavano secondo assoluta giustizia, volevano riportare fedelmente e perfettamente esprimevano, con esattezza infallibile, tutto quello che Egli ordinava loro di scrivere, e solo questo riportavano: diversamente non potrebbe essere lo Spirito Santo l’autore di tutta la Sacra Scrittura” (Lett. Encicl. Providentissimus Deus). Queste parole del Nostro Predecessore non lasciavano adito ad alcun dubbio, né ad alcuna esitazione. Ma, ahimè!, Venerabili Fratelli, non mancarono tuttavia, non solo fra gli estranei, ma anche tra i figli della Chiesa Cattolica e – strazio ancor più grande per il Nostro cuore – perfino fra il clero e i maestri delle Scienze sacre, spiriti che con fiducia orgogliosa nel proprio criterio di giudizio, – apertamente rifiutarono o attaccarono subdolamente su questo punto il magistero della Chiesa. Certamente noi approviamo l’intenzione di coloro che, desiderosi per sé e per gli altri di liberare il Testo Sacro dalle sue difficoltà, ricercano, con l’appoggio di tutti i dati della scienza e della critica, nuovi modi e nuovi metodi per risolverle; ma essi falliranno miseramente nella loro impresa, se trascureranno le direttive del Nostro Predecessore e se oltrepasseranno i limiti precisi indicati dai Santi Padri. – Ora l’opinione di alcuni moderni non si preoccupa affatto di queste prescrizioni e di questi limiti: distinguendo nella Sacra Scrittura un duplice elemento, uno principale o religioso, e uno secondario o profano, essi accettano, si, il fatto che l’ispirazione si riveli in tutte le proposizioni ed anche in tutte le parole della Bibbia, ma ne restringono e ne limitano gli effetti, a partire dall’immunità dall’errore e dall’assoluta veracità, limitata al solo elemento principale o religioso. Secondo loro, Dio non si preoccupa e non insegna personalmente nella Scrittura se non ciò che riguarda la religione: il resto ha rapporto con le scienze profane e non ha altra utilità, per la dottrina rivelata, che quella di servire da involucro esteriore alla verità divina. Dio soltanto permette che esso vi sia e l’abbandona alle deboli facoltà dello scrittore. Perciò non vi è nulla di strano se la Bibbia presenta, nelle questioni fisiche, storiche e in altre di simile argomento, passaggi piuttosto frequenti che non è possibile conciliare con gli attuali progressi delle Scienze. – Alcuni sostengono che queste opinioni erronee non sono affatto in contrasto con le prescrizioni del Nostro Predecessore: non ha forse Egli dichiarato che, in materia di fenomeni naturali, l’autore sacro ha parlato secondo le apparenze esteriori, suscettibili quindi d’inganno? Quanto questa affermazione sia temeraria e menzognera, lo provano manifestamente i termini stessi del documento Pontificio. – L’apparenza esteriore delle cose – ha dichiarato molto saggiamente Leone XIII, seguendo Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino – deve essere tenuta in una certa considerazione; ma questo principio non può suscitare il minimo sospetto di errore nella Sacra Scrittura: poiché la sana filosofia asserisce come cosa sicura che i sensi, nella percezione immediata delle cose, oggetto vero di conoscenza, non si ingannano affatto. Inoltre il Nostro Predecessore, dopo aver negato ogni distinzione e ogni possibilità di equivoco tra quello che è l’elemento principale è l’elemento secondario, dimostra chiaramente il gravissimo errore di coloro i quali ritengono che “per giudicare della verità delle proposizioni bisogna senza dubbio ricercare ciò che Dio ha detto, ma più ancora valutare il motivo che lo ha indotto a parlare“. Leone XIII precisa ancora che l’ispirazione divina è presente in tutte le parti della Bibbia, senza selezione né distinzione alcuna, e che è impossibile che anche il minimo errore si sia introdotto nel testo ispirato: “Sarebbe un errore molto grave restringere l’ispirazione divina solo a determinate parti della Sacra Scrittura, o ammettere che l’autore sacro stesso abbia potuto ingannarsi“. – E non sono meno discordi dalla dottrina della Chiesa, confermata dall’autorità di San Gerolamo e degli altri Padri, quelli che ritengono che le parti storiche delle Scritture si appoggiano non sulla verità “assoluta” dei fatti, ma soltanto sulla loro “verità relativa“, come essi la chiamano, e sul modo volgarmente comune di pensare. Per sostenere questa teoria, essi non temono di richiamarsi alle stesse parole del Papa Leone XIII, il quale avrebbe affermato che i principi ammessi in materia di fenomeni naturali possono essere portati in campo storico. Come nell’ordine fisico gli scrittori sacri hanno parlato seguendo le apparenze, cosi – essi pretendono – quando si trattava di riportare avvenimenti non perfettamente noti, li hanno riferiti come apparivano fissati secondo l’opinione comune del popolo o le relazioni inesatte di altri testimoni; inoltre essi non hanno citato le fonti delle loro informazioni, e non hanno garantito personalmente le narrazioni attinte da altri autori. – A che confutare più a lungo una teoria veramente ingiuriosa per il Nostro Predecessore e nello stesso tempo falsa e piena di errore? Quale rapporto, infatti, vi è tra i fenomeni naturali e la storia? Le scienze fisiche si occupano di oggetti che colpiscono i sensi e devono quindi concordare con i fenomeni come essi appaiono; la storia invece, narrazione di fatti, deve – ed è questa la sua legge principale – coincidere con questi fatti, come realmente si sono verificati. Se si accettasse la teoria di costoro, come sarebbe possibile conservare alla narrazione sacra quella verità, immune da ogni falsità, che come il Nostro Predecessore dichiara in tutto il contesto della sua Enciclica, non si deve affatto menomare? – Che anzi, quando egli afferma che v’è interesse a trasportare nella storia e nelle scienze affini i principi che valgono per le scienze fisiche, non intende stabilire una legge generale e assoluta, ma indicare semplicemente un metodo uniforme da seguire, per confutare le obiezioni fallaci degli avversari e difendere contro i loro attacchi la verità storica della Sacra Scrittura. – Se almeno i partigiani di queste teorie si fermassero a ciò! Ma non giungono invece fino al punto d’invocare il Dottore dalmata per difendere la loro opinione? San Gerolamo, a credere in loro, avrebbe dichiarato che bisogna mantenere l’esattezza e l’ordine dei fatti storici nella Bibbia “prendendo per regola non la realtà obiettiva ma l’opinione dei contemporanei“, che, veniva cosi a costituire la vera legge della storia (Ier. XXIII, 15 e segg.; Matth. XIV, 8; Adv. Helv. 4). – Come sono abili a trasformare in loro favore le parole di San Gerolamo! Ma non è possibile avere dubbi sul suo esatto pensiero: egli non afferma che nell’esposizione dei fatti lo scrittore sacro si appropria di una falsa credenza popolare a proposito di dati che ignora, ma dice soltanto che nella designazione delle persone e degli oggetti egli usa il linguaggio corrente. Cosi quando uno scrittore chiama San Giuseppe padre di Gesù, indica chiaramente in tutto il corso della sua narrazione come intenda questo nome di padre. – Secondo San Gerolamo, “la vera legge della storia” richiede che nell’impiego delle denominazioni lo scrittore si attenga, dopo aver eliminato ogni pericolo d’errore, al modo generale d’esprimersi; poiché l’uso è l’arbitro e il regolatore del linguaggio. E che? Forse che il nostro Dottore non pone sullo stesso piano i fatti riportati dalla Bibbia e i dogmi nei quali è necessario credere, se si vuol raggiungere la salvezza eterna? Ecco infatti ciò che leggiamo nel suo commentario sull’Epistola a Filemone: “In quanto a me, ecco ciò che penso: uno crede in Dio Creatore: ciò non gli sarebbe possibile se non credesse alla verità di tutto quello che Scrittura riporta riguardo ai suoi Santi“. E compila una lunghissima serie di citazioni tratte dall’Antico Testamento, concludendo: “Chiunque rifiuti di prestar fede a tutti questi fatti e a tutti gli altri, senza eccezione alcuna, riguardanti i Santi, non potrà credere al Dio dei Santi” (Philem. 4). – San Gerolamo si trova quindi in perfetto accordo con Sant’Agostino, il quale, interprete del sentimento comune di tutta l’antichità, così scriveva: “Noi crediamo tutto ciò che la Sacra Scrittura, posta al supremo culmine dell’autorità dalle testimonianze sicure e venerabili della verità, ci attesta riguardo ad Enoch, ad Elia e a Mosè… Così, se noi crediamo che il Verbo è nato dalla Vergine Maria, non è per il fatto che Egli non avrebbe potuto trovare altro mezzo per assumere una forma realmente incarnata, e per manifestarsi agli uomini (come pretendeva sostenere Fausto), ma perché così è detto in quella Scrittura, alla quale dobbiamo prestar fede, se vogliamo rimanere cristiani e salvarci” (San Aug. Contra Faustum, XXVI, 3 e segg., 6 e segg.). Vi è poi un altro gruppo di denigratori della Sacra Scrittura: intendiamo parlare di coloro che, abusando di certi principi, giusti del resto se si trattengono entro determinati limiti, giungono a distruggere la base della veridicità delle Scritture, e a denigrare la dottrina cattolica trasmessa dai Padri. – Se ancora vivesse, certamente San Gerolamo lancerebbe acuminati strali contro questi imprudenti che, disprezzando il sentimento e il giudizio della Chiesa, ricorrono con troppa facilità a quel sistema da essi definito “delle citazioni implicite” o delle narrazioni che sono storiche soltanto apparentemente; i quali pretendono di scoprire nei Libri Sacri procedimenti letterari inconciliabili con l’assoluta e perfetta veracità della parola divina, e professano sull’origine della Bibbia un’opinione che tende unicamente a scuoterne l’autorità o addirittura ad annullarla. E che pensare di coloro che, nella interpretazione del Vangelo, ne attaccano l’autorità, sia umana che divina, diminuendo quella e distruggendo questa? Delle parole, delle opere di Nostro Signor Gesù Cristo, nulla ci è pervenuto, secondo costoro, nella sua integrità e senza alterazioni, malgrado le testimonianze di coloro che hanno riportato con religiosa cura ciò che avevano visto ed udito; essi non vi vedono – soprattutto per ciò che concerne il IV Vangelo – che una compilazione costituita da un lato dalle aggiunte considerevoli dovute all’immaginazione degli Evangelisti, e dall’altro dal racconto di fedeli di altra epoca; queste correnti perciò, sgorganti da dubbia fonte, hanno oggi cosi ben confuse le acque nello stesso letto, che non è possibile assolutamente avere un criterio sicuro per distinguerle. . – Non è così che Gerolamo, Agostino e gli altri Dottori della Chiesa hanno compreso il valore storico dei Vangeli, nei quali: “Chi ha visto ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera. Ed egli sa di dire il vero, affinché anche voi lo crediate” (Ioan. XIX, 35); San Gerolamo, dopo aver rimproverato agli eretici, autori di Vangeli apocrifi, di “aver tentato più di ordinare la narrazione che di stabilire la verità(Matth. Prol.) aggiunge al contrario, a proposito dei Libri Canonici: “Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la realtà di quello che è scritto” (Ep. LXXVIII, 1, 1; cfr. Marc. 1, 13-31). Su questo punto è nuovamente d’accordo con Sant’Agostino, il quale in modo eccellente diceva, a proposito del Vangelo: “Queste cose vere sono state scritte con tutta fedeltà e veridicità a suo riguardo, affinché chiunque crede nel suo Vangelo, sia nutrito di verità, e non sia ingannato da menzogne (San Aug., C. Faustum, XXVI, 8). – Vedete quindi, Venerabili Fratelli, con quale ardore dovete consigliare ai figli della Chiesa di fuggire questa folle libertà d’opinione, con la stessa cura che avevano i Padri. Le vostre esortazioni saranno più facilmente ascoltate se convincerete il clero e i fedeli, affidati alla vostra custodia dallo Spirito Santo, che San Gerolamo e gli altri Padri della Chiesa hanno attinto questa dottrina riguardante i Libri Sacri alla scuola stessa del Divin Maestro Gesù Cristo. Infatti, leggiamo noi forse che Nostro Signore abbia avuto una diversa concezione della Scrittura? – Le parole: “E’ scritto“, e “Bisogna che la Scrittura s’avveri” sono sulle Sue labbra un argomento senza eccezioni, tale da escludere ogni possibile controversia. – Ma insistiamo con maggior agio su questa questione. Chi non sa e non ricorda come nei Suoi discorsi al popolo, sia sulla montagna prossima al lago di Genezareth, sia nella sinagoga di Nazareth e nella Sua città di Cafarnao, Gesù Nostro Signore traeva i punti principali e le prove della Sua dottrina dal testo sacro? Non è da esso che Egli attingeva armi invincibili per le discussioni con i Farisei e i Sadducei? Sia che insegni o discuta, Egli riporta affermazioni ed esempi tolti da ogni parte della Scrittura; così, ad esempio, si riferisce indistintamente a Giona, agli abitanti di Ninive, alla regina di Saba e a Salomone, a Elia e ad Eliseo, a Davide, a Noè, a Loth, agli abitanti di Sodoma e alla moglie stessa di Loth (Matth. XII, 3, 39-47; Luc. XVII, 26-29, 32, ecc.). Egli rende una grande testimonianza alla verità dei Santi Padri con la solenne dichiarazione: “Non passerà un solo iota o un solo tratto della legge, finché tutto non sia adempiuto(Matth. V, 18); e ancora: “La Scrittura non può essere annullata” (Ioan. X, 35); perciò: “Colui che avrà violato anche il più lieve di questi comandamenti e insegnato agli uomini a fare altrettanto, sarà il più trascurabile per il regno dei Cieli” (Matth. V, 19). Prima di raggiungere il Padre Suo in Cielo, Egli volle donare questa dottrina agli Apostoli, che ben presto doveva abbandonare sulla terra: “Aprì loro gli spiriti, affinché comprendessero le Scritture, dicendo: così è scritto, e così bisognava che Cristo soffrisse e che risuscitasse da morte il terzo giorno” (Luc. XXIV, 45 e segg.). – La dottrina di San Gerolamo sull’eccellenza e la verità della Scrittura è dunque, per esprimerCi brevemente, la dottrina di Cristo stesso. Perciò Noi esortiamo vivissimamente tutti i figli della Chiesa, e in particolar modo coloro che insegnano la Sacra Scrittura agli studenti ecclesiastici, a seguire senza posa la via tracciata dal Dottore di Stridone; ne risulterà certamente che essi avranno per le Scritture la sua stessa profonda stima, e che il possesso di questo tesoro procurerà loro godimenti sublimi. – Non solo i grandi vantaggi, che già abbiamo ricordato, verranno dal prendere il grande Dottore come guida e maestro, ma molti altri ancora ne scaturiranno e considerevoli: Ci piace, Venerabili Fratelli, ricordarveli sia pur brevemente.

Innanzi tutto, poiché prima d’ogni altro si presenta al Nostro spirito, rileviamo l’appassionato amore per la Bibbia, testimoniato in San Gerolamo da ogni atto della sua vita e dalle sue parole, tutte infervorate dallo Spirito di Dio, amore che egli ha cercato di destare sempre più nelle anime dei fedeli: “Ama la Sacra Scrittura – sembra voler dire a tutti quando si rivolge alla vergine Demetria – e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini” (Ep. CXXX, 20). La lettura assidua della Scrittura, lo studio profondo e diligente di ogni libro, anzi di ogni proposizione e di ogni parola, gli hanno permesso di familiarizzarsi col Testo Sacro, più di ogni altro scrittore dell’antichità ecclesiastica. – Se la Versione Vulgata, compilata dal Nostro Dottore, lascia, secondo il parere di tutti i critici imparziali, molto dietro di sé le altre versioni antiche, perché si giudica essa renda l’originale con maggior esattezza ed eleganza, ciò è dovuto alla conoscenza che San Gerolamo aveva della Bibbia, conoscenza unita in lui ad uno spirito di fine sensibilità. Questa Versione Vulgata, che il Concilio di Trento ha deciso di considerare autentica e di seguire nell’insegnamento e nella liturgia, “essendo consacrata dal lungo uso che ne ha fatto, la Chiesa per tanti secoli“, è Nostro vivo desiderio vedere corretta e resa alla sua purezza primitiva, secondo l’antico testo dei manoscritti, se Dio nella sua infinita bontà vorrà concederCi vita sufficiente; compito arduo e grandissimo, affidato, con felice decisione, ai Benedettini dal Nostro Predecessore Pio X di santa memoria, che costituisce, Noi ne siamo sicuri, nuove fonti autorevoli per la comprensione delle Scritture. Questo amore di San Gerolamo per la Sacra Scrittura si rileva in modo del tutto particolare nelle sue lettere, si che esse sembrano una trama di citazioni tratte dai Libri Santi; così come San Bernardo trovava insignificante ogni pagina che non racchiudesse il dolcissimo nome di Gesù, San Gerolamo non gustava nessuno scritto che non splendesse della luce delle Sacre Scritture. Con tutta semplicità poteva egli scrivere in una lettera a San Paolino, un tempo brillante senatore e console, e da poco convertito alla fede di Cristo: “Se tu avessi questo terreno d’appoggio (voglio dire la scienza delle Sacre Scritture), le tue opere nulla avrebbero da perdere, ma acquisterebbero anzi una certa finitezza, e non cederebbero a nessun’altra per l’eleganza, per la scienza e per la finezza della forma… Unisci a questa dotta eloquenza il gusto o la comprensione delle Scritture, e presto ti vedrò posto nelle prime file dei nostri scrittori” (Ep. LVIII, IX, 2; XI, 2). – Ma quale via e quale metodo seguire per cercare con lieta speranza di scoprire quel prezioso tesoro che il Padre Celeste ha donato ai suoi figli quale consolazione durante il loro esilio? San Gerolamo stesso ce lo indica col suo esempio. Ci esorta innanzi tutto ad intraprendere lo studio della Scrittura con accurata preparazione e con animo ben disposto. – Osserviamo lo stesso San Gerolamo, dopo che ebbe ricevuto il Battesimo: per superare tutti gli ostacoli esteriori che potevano opporsi al suo santo desiderio, imitando il personaggio del Vangelo che, dopo aver trovato un tesoro, “nella sua gioia, se ne va, vende tutto ciò che possiede ed acquista quel campo” (Matth. XIII, 44), egli dice addio ai piaceri effimeri e frivoli di questo mondo, desidera ardentemente la solitudine ed abbraccia una vita austera con tanto maggior ardore quanto più si è reso conto del pericolo che fino allora aveva corso la sua salvezza in mezzo alle seduzioni del vizio. – Superati questi ostacoli, egli doveva ancora d’altra parte disporre il suo spirito ad acquistare la scienza di Gesù Cristo e a rivestirsi di Colui che è “dolce ed umile di cuore“; aveva in realtà provato quella stessa ripugnanza che Sant’Agostino confessava di aver sofferto quando s’era accinto allo studio delle Sante Lettere. Dopo essersi dedicato durante la sua giovinezza alla lettura di Cicerone e degli altri autori profani, quando vuole rivolgere il suo spirito alla Scrittura Sacra, così si pronunzia: “Mi parve indegna d’essere paragonata alla bellezza della prosa ciceroniana. La mia enfasi aveva orrore della sua semplicità e la mia intelligenza non penetrava nel senso suo più profondo; si riesce a penetrarla sempre meglio, quanto più ci si fa piccini, ma io disdegnavo di farmi piccolo, e la boria m’ingigantiva dinanzi ai miei stessi occhi” (S. Aug. Conf. III, 5; Cfr. VIII, 12). – Non altrimenti San Gerolamo, anche nella sua solitudine, gustava a tal punto la letteratura profana, che la povertà di stile delle Scritture gli impediva ancora di riconoscere in esse Cristo nella Sua umiltà. “Così – egli dice – la mia follia mi portava al punto di digiunare per leggere Cicerone. Dopo aver passato moltissime notti insonni, dopo aver versato molte lagrime. che il ricordo delle colpe passate faceva scaturire dal fondo del mio cuore, prendevo in mano Plauto. E quando, ritornato in me stesso, intraprendevo la lettura dei Profeti, il loro barbaro stile mi inorridiva, e quando i miei occhi ciechi restavano chiusi alla luce, io non accusavo di ciò gli stessi miei occhi, ma il sole” (Ep. XXII, XXX, 2). Ma ben presto amò con tale ardore la follia della Croce, da rimanere la prova vivente di quanto un animo umile e pio contribuisca alla comprensione della Bibbia. – Cosciente, come egli era, che “nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo” (Mich. 1, 10, 15) e che per la lettura e la comprensione dei Libri Santi dobbiamo attenerci “al senso che lo Spirito Santo intendeva avere al momento in cui furono scritti” (Gal. V, 19 e segg.), questo santissimo uomo invocava con le sue suppliche, rafforzate dalle preghiere dei suoi amici, il soccorso di Dio e il lume dello Spirito Santo. Si racconta anche che, iniziando i commentari dei Libri Santi, egli volle raccomandarli alla grazia di Dio e alle preghiere dei confratelli, alle quali attribuì il successo, dopo che l’opera fu compiuta. – Oltre che alla grazia divina, egli si rimette all’autorità della tradizione così pienamente da affermare di aver appreso “tutto quello che non sapeva, non da lui stesso, cioè alla scuola di quel cattivo maestro che è l’orgoglio, ma dagli illustri Dottori della Chiesa” (Ep. CVIII, XXVI, 2). – Confessa infatti “di non essersi mai fidato delle proprie forze per ciò che concerne la Sacra Scrittura” (Ad Domnionem et Rogatìanum in I. Par. Prefaz.), e in una lettera a Teofilo, Vescovo d’Alessandria, egli cosi formula la regola secondo la quale aveva ordinato la sua vita e le sue sante fatiche: “Sappi dunque che nulla ci sta più a cuore che salvaguardare i diritti del Cristianesimo, non cambiar nulla al linguaggio dei Padri e non perdere mai di vista questa Romana fede, di cui l’Apostolo fece l’elogio” (Ep. LXIII, 2). – E alla Chiesa, sovrana padrona nella persona dei Pontefici Romani, Gerolamo si sottomette con tutto il suo spirito di devozione. – Dal deserto di Siria, ove era esposto alle fazioni degli eretici, in questi termini scrive a Papa Damaso, volendo sottoporre alla Santa Sede, perché la risolvesse, la controversia degli Orientali sul mistero della Santissima Trinità: “Ho creduto bene di consultare la Cattedra di San Pietro e la fede glorificata dalla parola dell’Apostolo, per chiedere oggi il nutrimento all’anima mia, laddove un tempo ho ricevuto i paramenti di Cristo. Poiché voglio che Egli sia per me unica guida, mi tengo in stretto legame con la Tua Beatitudine, cioè con la Cattedra di San Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa… Decidete, ve ne prego; se così stabilite non esiterò ad ammettere tre ipostasi; se voi l’ordinate, io accetterò che una nuova fede sostituisca quella di Nicea e che noi, ortodossi, ci serviamo delle stesse formule che usano gli ariani” (Ep. XV, I, 2, 4). Infine, nell’epistola seguente, egli rinnova questa notevolissima confessione della sua fede: “Nell’attesa, grido a tutti i venti: Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di San Pietro” (Ep. XVI, 11, 2). Sempre fedele, nello studio della Scrittura, a questa regola di fede, egli si valse di questo solo argomento per confutare un’interpretazione falsa del Testo Sacro: “Ma la Chiesa di Dio non ammette affatto questa opinione” (Dan. III, 37), e con queste sole parole rifiuta un libro apocrifo, contro di lui sostenuto dall’eretico Vigilanzio: “Questo libro non l’ho mai letto. Che bisogno dunque abbiamo di ricorrere a ciò che la Chiesa non riconosce?” (Adv. Vigil. 6). Uno zelo così ardente nel salvaguardare l’integrità della fede, lo trascinava in polemiche molto dibattute contro i figli ribelli della Chiesa, che egli considerava come nemici personali: “Mi basterà di rispondere che non ho mai risparmiato gli eretici e che ho impiegato tutto il mio zelo per fare dei nemici della Chiesa i miei personali nemici” (Dial. c. Pelag., Prolog., 2); e in una lettera a Rufino così scrive: Vi è un punto sul quale non potrò essere d’accordo con te: risparmiare gli eretici e non mostrarmi cattolico” (Contra Ruf., III, 43). Tuttavia, rattristato per la loro defezione, li supplicava di ritornare alla loro Madre addolorata, fonte unica di salvezza (Mich. I, 10 e segg.), e in favore di coloro che erano usciti dalla Chiesa e avevano abbandonato la dottrina dello Spirito Santo “per seguire il proprio criterio“, invocava con tutto il cuore la grazia che ritornassero a Dio (Is. l. VI, cap. XVI, 1-5). – Venerabili Fratelli, se fu mai necessario che tutto il clero e tutti i fedeli s’imbevessero dello spirito del grande Dottore, questo è soprattutto nella nostra epoca, quando numerosi spiriti insorgono con orgogliosa testardaggine contro l’autorità sovrana della rivelazione divina e del magistero della Chiesa. Voi sapete infatti che Leone XIII già ci aveva ammonito “quali uomini si accaniscano in questa lotta e a quali artifici o a quali armi essi ricorrano“. Quale categorico dovere si impone dunque a voi, di suscitare per questa sacra causa i difensori più numerosi e più competenti che possibile: essi dovranno combattere non solo coloro che, negando ogni ordine soprannaturale, non riconoscono né la rivelazione né l’ispirazione divina, ma anche dovranno misurarsi con coloro che assetati di novità profane, osano interpretare le Lettere Sacre come un libro puramente umano, e rifiutano le opinioni accolte dalla Chiesa fin dalla più vetusta antichità, o spingono il loro disprezzo verso il Suo magistero fino al punto di disdegnare, di passar sotto silenzio o persino di cambiare secondo il proprio interesse, alterandole sia subdolamente, sia con sfrontatezza, le Costituzioni della Santa Sede e i decreti della Commissione Pontificale per gli studi biblici. Sia possibile almeno a Noi vedere tutti i cattolici seguire l’aurea regola del Santo Dottore, e docili agli ordini della loro Madre, avere la modestia di non oltrepassare i limiti tradizionali fissati dai Padri e approvati dalla Chiesa! – Ma ritorniamo al nostro soggetto. Armati gli spiriti di pietà e d’umiltà, Gerolamo li invita allo studio della Bibbia. E dapprima raccomanda instancabilmente a tutti la lettura quotidiana della parola divina: “Liberiamo il nostro corpo dal peccato e l’anima nostra si aprirà alla saggezza; coltiviamo la nostra intelligenza con la lettura dei Libri Santi, e la nostra anima vi trovi ogni giorno il suo nutrimento” (Tit. III, 9). – Nel suo commento dell’Epistola agli Efesi, scrive: “Noi dobbiamo dunque con tutto l’ardore leggere le Scritture, e meditare giorno e notte la legge del Signore: potremo cosi, come abili cambiavalute, distinguere le monete buone da quelle false” (Eph. IV, 31). Egli non esclude da questo obbligo comune le matrone e le vergini. Alla matrona romana Leta dà, fra gli altri, questi consigli sull’educazione della figlia: “Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura… Che invece dei gioielli e delle sete essa ami i Libri Divini… Ella dovrà dapprima imparare il Salterio, distrarsi con questi canti e attingere una regola di vita dai proverbi di Salomone. L’Ecclesiaste le insegnerà a calpestare, sotto i piedi, i beni di questo mondo; Giobbe le darà un modello di forza e pazienza. Passerà poi ai Vangeli che dovrà avere sempre tra le mani. Dovrà assimilare avidamente gli Atti degli Apostoli e le Epistole. Dopo aver arricchito di questi tesori il mistico scrigno della sua anima, imparerà a memoria i Profeti, l’Eptateuco, i libri dei Re e dei Paralipomeni, per finire senza pericolo col Cantico dei Cantici” (Ep. CVII, IX, 12). – Le stesse direttive San Gerolamo traccia alla vergine Eustochio (9): “Sii molto assidua alla lettura e allo studio, quanto più ti è possibile. Che il sonno ti colga con il libro in mano e che la pagina sacra riceva il tuo capo caduto per la fatica” (Ep. XXII, XVII, 2; cfr. Ibid. XXIX, 2).

Ed aggiungeva ancora: “Rileverò un particolare che sembrerà forse incredibile ai suoi emuli: ella volle imparare l’ebraico, che io stesso in parte studiai fin dalla mia giovinezza al prezzo di molte fatiche e di molti sudori, e che continuo ad approfondire con incessante lavoro per non dimenticarlo; essa arrivò ad avere una tale padronanza di questa lingua, da cantare i salmi in ebraico e da parlarlo senza il minimo accento latino. E questo si ripete ancora oggi nella sua santa figlia Eustochio” (Ep. CVIII, 26). Né tralascia di ricordare Santa Marcella, ugualmente molto versata nella scienza delle Scritture (Ep. CXXVII, 7). – Chi non vede quali vantaggi e quali godimenti riserva agli spiriti ben disposti la pia lettura dei Libri Santi? Chiunque prenda contatto con la Bibbia con sentimenti di pietà, di salda fede, di umiltà, e col desiderio di perfezionarsi, vi troverà e vi potrà gustare il pane sceso dal Cielo e in lui si verificherà la parola di Davide: “Mi hai rivelato i segreti e i misteri della tua saggezza” (Psal. L, 8); su questa tavola della parola divina si trova infatti veramente “la dottrina santa; essa insegna la vera fede, solleva il velo (del Santuario), e conduce con fermezza fino al Sancta Sanctorum” (Imit. Chr. IV, XI, 4). – Per quanto sta in Noi, Venerabili Fratelli, non cesseremo mai, sull’esempio di San Gerolamo, di esortare tutti i Cristiani a leggere quotidianamente e intensamente soprattutto i Santissimi Vangeli di Nostro Signore, ed inoltre gli Atti degli Apostoli e le Epistole, in modo da assimilarli completamente. Pertanto, nell’occasione di questo centenario, si presenta al Nostro pensiero il piacevole ricordo della Società detta di San Gerolamo, ricordo tanto più caro in quanto abbiamo preso parte Noi stessi agli inizi e all’organizzazione definitiva di quest’opera; felici di aver potuto constatare i suoi passati sviluppi, con animo lieto altri ancora Ce ne auguriamo per l’avvenire. – Voi conoscete, Venerabili Fratelli, lo scopo di questa Società: estendere la diffusione dei Quattro Vangeli e degli Atti degli Apostoli, in modo che questi libri trovino finalmente il loro posto in ogni famiglia cristiana e che ognuno prenda l’abitudine di leggerli e meditarli ogni giorno. Noi desideriamo vivamente vedere che quest’opera, che tanto amiamo per averne constatata l’utilità, si propaghi e si sviluppi dovunque, con la fondazione, in ognuna delle vostre diocesi, di Società aventi lo stesso nome e lo stesso scopo, tutte collegate con la casa madre di Roma. – Nello stesso ordine di idee i più preziosi servigi sono resi alla causa cattolica da coloro che in diversi paesi hanno offerto, ed offrono ancora, tutto il loro zelo, per pubblicare, in formato comodo e attraente, e per diffondere tutti i libri del Nuovo Testamento e una scelta dei libri dell’Antico. E’ certo che questo apostolato è stato singolarmente fecondo per la Chiesa di Dio, poiché, grazie a quest’opera, un gran numero di anime si avvicinano ormai a questa tavola della dottrina Celeste, che il Nostro Signore ha preparato all’universo cristiano per mezzo dei suoi Profeti, dei suoi Apostoli e dei suoi Dottori (Imit. Chr. IV, XI, 4). Invero questo dovere di studiare il Testo Sacro, Gerolamo lo inculca a tutti i fedeli, ma lo impone in modo particolare a coloro che “hanno piegato il collo al giogo di Cristo” ed hanno la Celeste vocazione di predicare la parola di Dio. – Ecco l’esortazione che, nella persona del monaco Rustico, Gerolamo volge a tutto il clero: “Fino a che sei nella tua patria, fa’ della tua celletta un paradiso, cogli i diversi frutti delle Scritture, godi delle delizie di questi Libri e della loro intimità… Abbi sempre la Bibbia in mano e sotto gli occhi, impara parola per parola il Salterio, e fa’ in modo che la tua preghiera sia incessante e il tuo cuore costantemente vigile e chiuso ai pensieri vani” (Ep. CXXV, VII, 3; XI, 1). – Al prete Nepoziano (10) dà questo consiglio: “Leggi con molta frequenza le Divine Scritture ed anzi che il Libro Santo non sia mai deposto dalle tue mani. Impara qui quello che tu devi insegnare. Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la santa dottrina e confutare coloro che la contraddicono” (Ep. LII, VII, 1). – Dopo aver ricordato a San Paolino (11) i precetti impartiti da San Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, riguardanti la scienza delle Scritture, San Gerolamo aggiunge: “La santità senza la scienza non giova che a se stessa; e quanto essa edifica la Chiesa di Cristo per mezzo di una vita virtuosa, tanto le nuoce se non respinge gli attacchi dei suoi nemici. Il profeta Malachia, o piuttosto il Signore stesso per la bocca sua, diceva: “Consulta i sacerdoti sulla legge”. Data da allora il dovere che ha un sacerdote di dare ragguagli sulla legge a coloro che l’interrogano. Leggiamo inoltre nel Deuteronomio: “Domanda a tuo padre, ed egli te lo indicherà, ai tuoi sacerdoti, ed essi te lo diranno”. Daniele, alla fine della sua santissima visione, dice che i giusti brillano come stelle, e gli intelligenti cioè i sapienti – come il firmamento. Vedi tu quale distanza separa la santità senza scienza dalla scienza rivestita di santità? La prima ci rende simili alle stelle, la seconda simili allo stesso Cielo” (Ep. LIII, 3 e segg.). In altra circostanza, in una lettera a Marcella, egli motteggia ironicamente “la virtù senza scienza” di altri chierici: “Questa ignoranza tiene luogo per loro di santità, ed essi si dichiarano discepoli dei pescatori, come se quelli facessero consistere la loro santità nel non saper niente” (Ep. XXVII, 1, 1). Ma questi ignoranti non sono i soli – rilevava San Gerolamo – a commettere l’errore di non conoscere le Scritture; questo è anche il caso di alcuni chierici istruiti; ed egli impiega i termini più severi per raccomandare ai preti la pratica assidua dei Libri Santi. – Venerabili Fratelli, dovete cercare con tutto il vostro zelo di imprimere questi insegnamenti del santissimo esegeta, il più profondamente possibile, nello spirito del vostro clero e dei vostri fedeli; uno dei vostri primi doveri è infatti quello di riportare, con somma diligenza, la loro attenzione su ciò che la missione divina loro affidatagli richiede, se essi non vogliono mostrarsene indegni: “Poiché le labbra del sacerdote saranno i custodi della scienza, e dalla sua bocca si richiederà l’insegnamento, perché egli è l’Angelo del Signore degli eserciti” (Mal. II, 7). Essi sappiano dunque che non devono né trascurare lo studio delle Scritture, né dedicarvisi con uno spirito diverso da quello che Leone XIII ha espressamente imposto nella sua Lettera Enciclica Providentissimus Deus.  – Otterranno sicuramente risultati migliori se frequenteranno l’Istituto Biblico che il Nostro immediato Predecessore, realizzando il desiderio di Leone XIII, ha fondato per il più grande bene della Chiesa, come chiaramente dimostra l’esperienza degli ultimi dieci anni. La maggior parte non ne ha la possibilità: quindi è desiderabile, Venerabili Fratelli, che per vostra iniziativa e sotto i vostri auspici, i membri scelti dell’uno e dell’altro clero di tutto il mondo vengano a Roma, per dedicarsi agli studi biblici nel Nostro Istituto. Gli studenti che risponderanno a questo appello avranno molti motivi per seguire le lezioni di quest’Istituto. Gli uni – e questo è lo scopo principale dell’Istituto – approfondiranno le scienze bibliche “per essere a loro volta in grado di insegnarle, privatamente o in pubblico, con la penna o con la parola, e per sostenerne l’onore sia come professori, nelle scuole cattoliche, sia come scrittori, esponenti della verità cattolica” (Pio X, Lett. Ap. Vinea electa, 7 maggio 1909); gli altri poi, già iniziati al santo mistero, potranno accrescere le cognizioni acquisite durante i loro studi teologici, sulla Santa Scrittura, sulle autorità esegetiche, sulle cronologie e sulle topografie bibliche; questo perfezionamento avrà soprattutto il vantaggio di fare di loro ministri perfetti della parola divina e di prepararli ad ogni forma di bene (II Tim. III, 17). – Venerabili Fratelli, l’esempio e le autorevoli dichiarazioni di San Gerolamo ci hanno indicato le virtù necessarie per leggere e studiare la Bibbia. Ora ascoltiamolo indicarci ove deve tendere la conoscenza delle Lettere Sacre e quale deve esserne lo scopo. – Ciò che bisogna innanzi tutto cercare nella Scrittura è il nutrimento che alimenti la nostra vita spirituale e la faccia procedere sulla via della perfezione: è con questo scopo che San Gerolamo s’abituò a meditare giorno e notte la legge del Signore e a nutrirsi, nelle Sacre Scritture, del pane disceso dal Cielo e della manna Celeste, che raduna in sé tutte le delizie (Tract. de Ps. CXLVII). – In qual modo la nostra anima potrà fare a meno di questo cibo? E come il sacerdote potrà indicare agli altri la via della salvezza, se trascura egli stesso di istruirsi attraverso la meditazione della Scrittura? E con quale diritto confiderà nel suo sacro ministero “d’essere la guida dei ciechi, la luce di coloro che sono nelle tenebre, il dottore degli ignoranti, il maestro dei fanciulli, colui che ha, nella legge, la regola della scienza e della verità” (Rom. II, 19 e segg.), se rifiuterà di scrutare questa scienza della legge e chiuderà la sua anima alla luce che viene dall’alto? Ahimè! Quanti sono i ministri consacrati, che, per aver trascurato la lettura della Bibbia, muoiono essi stessi di fame e lasciano morire un così gran numero di altre anime, secondo quanto sta scritto: “I piccoli domandano pane, e non v’è nessuno che lo doni loro” (Thren. IV, 4). “Tutta la terra è desolata perché non v’è nessuno che mediti in cuor suo” (Ger. XII, 11). – In secondo luogo è necessario ricercare, come il bisogno richiede, nelle Scritture gli argomenti per rischiarare, rafforzare e difendere i dogmi della fede. Questo meravigliosamente ha fatto San Gerolamo combattendo contro gli eretici del suo tempo; quando voleva confonderli, quali armi ben pungenti e solide egli abbia trovato nei testi delle Scritture, lo dimostrano chiaramente tutte le sue opere! Se gli esegeti d’oggi imitassero il suo esempio, ne risulterebbe senza alcun dubbio questo vantaggio: “risultato necessario e infinitamente desiderabile – diceva il Nostro Predecessore nella sua Enciclica Providentissimus Deus – che l’uso della Sacra Scrittura influirà su tutta la scienza teologica e ne sarà, in un certo senso, l’anima“. – Infine la Scrittura servirà in modo speciale a santificare e fecondare il ministero della parola divina. A questo punto Ci è particolarmente grato poter confermare, con la testimonianza del grande Dottore, le direttive che Noi stessi abbiamo tracciato sulla predicazione sacra nella Nostra Lettera Enciclica Humani generis. Invero, se l’illustre commentatore consiglia così vivamente e con tanta frequenza ai sacerdoti l’assidua lettura dei Libri Santi, è soprattutto perché essi adempiano degnamente il loro ministero d’insegnamento e di predicazione. La loro parola, infatti, perderebbe ogni influenza e ogni autorità, come anche ogni efficacia per la formazione delle anime, se non si ispirasse alla Sacra Scrittura e non vi attingesse forza e vigore. “La lettura dei Libri Santi sarà come il condimento alla parola del sacerdote” (Ep. LII, VIII, 1). Infatti “ogni parola della Santa Scrittura è come una tromba che fa risuonare agli orecchi dei credenti la sua grande voce minacciosa” (Amos III, 3 e segg.); e “nulla suscita tanta impressione come un esempio tratto dalla Sacra Scrittura” (Zach. IX, 15 e segg.). – In quanto agli insegnamenti del santo Dottore sulle regole da osservarsi nell’uso della Bibbia, sebbene rivolti principalmente agli esegeti, tuttavia non devono essere persi di vista dai sacerdoti nella predicazione della parola divina. – Dapprima ci insegna che noi dobbiamo, con un esame molto attento delle parole stesse della Scrittura, assicurarci, senza alcuna possibilità di dubbio, di ciò che l’autore sacro ha scritto. Nessuno infatti ignora che San Gerolamo era solito ricorrere, in caso di bisogno, al testo originale, confrontare tra loro le differenti interpretazioni, valutare la portata delle lezioni e, se scopriva un errore, ricercarne la causa, in modo da scartare dal testo ogni incertezza. Allora, insegna il nostro Dottore, “è necessario ricercare il senso e il concetto che si nascondono sotto le parole, poiché per discutere sulla Sacra Scrittura ha maggior importanza il significato che la parola” (Ep. XXIX, 1, 3). – In questa ricerca di penetrare il significato, Noi lo riconosciamo senza alcuna difficoltà, San Gerolamo, seguendo l’esempio dei Dottori latini e di alcuni Dottori greci del periodo anteriore, ha forse concesso alle interpretazioni allegoriche più di quanto fosse esatto concedere. Ma il suo amore per i Libri Santi, il suo sforzo costante per identificarli e comprenderli a fondo, gli permisero di fare ogni giorno un nuovo progresso nel giusto apprezzamento del senso letterale e di formulare su questo punto validi principi. Noi li riassumeremo brevemente, poiché essi costituiscono ancora oggi la via sicura che tutti devono seguire per trarre dai Libri Santi il vero significato. E’ dunque necessario volgere il nostro animo alla ricerca del senso letterale o storico: “Io do sempre ai lettori prudenti il consiglio di non accettare interpretazioni superstiziose, che isolano brani del testo secondo il capriccio della fantasia, ma di ben esaminare ciò che succede, ciò che accompagna e ciò che segue il punto in questione, sì da stabilire un collegamento fra tutti i brani” (Matth. XXV, 13). – Tutti gli altri metodi per interpretare le Scritture – egli aggiunge – si basano sul senso letterale (Cfr. Ez. XXXVIII, 1 e segg.; XLI, 23 e segg.; XLII, 13 e segg.; Marc. I, 13-31; Ep. CXXIX, VI, 1 ecc.), e non v’è ragione di credere, che questo manchi quando s’incontra una espressione figurata, poiché “spesso la storia è intessuta di metafore ed usa uno stile ricco di immagini” (Hab. III, 14 e segg.). Alcuni pretendono sostenere che il nostro Dottore ha dichiarato che non si rileva in certi passi delle Scritture un senso storico; egli stesso ribatte loro: “Senza negare il senso storico, noi adottiamo di preferenza quello spirituale” (Marc. IX, 1-7; cfr. Ez. XL, 24-27). – Stabilito con certezza il senso letterale o storico, San Gerolamo ricerca i sensi meno ovvi e più profondi, per nutrire il proprio spirito d’un alimento più eletto. Egli insegna infatti a proposito dei libri dei Proverbi, e consiglia più volte riguardo ad altri libri della Scrittura, di non fermarsi al puro senso letterale, “ma di penetrare più a fondo per scorgervi il senso divino, così come si cerca l’oro nel seno della terra, il nocciolo sotto la scorza, il frutto che si nasconde sotto il riccio della castagna” (Eccl. XII, 9 e segg). Perciò, egli diceva indicando a San Paolino “la via da seguire nello studio delle Sacre Scritture“, “tutto ciò che leggiamo nei libri divini splende invero nella sua scorza fulgida e brillante, ma è ancor più dolce nel midollo. Chi vuol gustare il frutto, rompa il guscio” (Ep. LVIII, IX, 1). – San Gerolamo fa inoltre osservare la necessità di usare, nella ricerca del senso nascosto, una certa discrezione, “affinché il desiderio della ricchezza del senso spirituale non sembri farci disprezzare la povertà del senso storico” (Eccl. II, 24 e segg.). – Pertanto egli rimprovera a molte interpretazioni mistiche di antichi scrittori di aver completamente trascurato di appoggiarsi al senso letterale: “Non bisogna ridurre tutte le promesse che i libri dei santi profeti hanno cantato, nel loro senso letterale, a non essere altro che forme vuote e termini estrinseci di una semplice figura di retorica; esse devono, al contrario, posare su un terreno ben fermo, che è quello di stabilirle su basi storiche, perché possano poi elevarsi alla cima più eccelsa del significato mistico” (Amos IX, 6). – Osserva saggiamente, a questo proposito, che non dobbiamo allontanarci dal metodo di Cristo e degli Apostoli, i quali, sebbene l’Antico Testamento non sia ai loro occhi che la preparazione e quasi l’ombra del Nuovo Trattato e, per conseguenza, essi interpretino secondo il senso figurato un gran numero di passi, tuttavia non riducono ad immagini tutto il complesso del testo. A sostegno di questa tesi, spesso San Gerolamo riporta l’esempio dell’Apostolo San Paolo, che, per citare un caso, “descrivendo le figure spirituali di Adamo ed Eva, non negava che esse erano state create, ma, improntando l’interpretazione mistica sulla base storica, scriveva: – Per questo l’uomo abbandonerà… ” (Is. VI, 1-7).

I commentatori delle Sacre Scritture e i predicatori della parola di Dio, seguendo l’esempio di Cristo e degli Apostoli e le direttive tracciate da Leone XIII, “non devono trascurare le trasposizioni allegoriche od altre dello stesso genere fatte dagli stessi Padri di alcuni passi, soprattutto se esse si allontanano dal senso letterale e sono sostenute dall’autorità di un Padre di gran nome“; infine, prendendo per base il senso letterale, devono giungere, con misura e discrezione, ad interpretazioni più elevate; essi coglieranno con San Gerolamo la verità profonda del detto dell’Apostolo: “Tutta la Scrittura è ispirata dallo Spirito di Dio ed è utile per insegnare, per persuadere, per correggere, per formare (le menti) alla giustizia” (II Tim. III, 16), e il tesoro inesauribile delle Scritture fornirà loro un grande appoggio di fatti e di idee atti ad orientare, con forza di persuasione, verso la santità la vita e i costumi dei fedeli.

Quanto a ciò che si riferisce all’esposizione e all’espressione, poiché quello che si richiede nei divulgatori dei misteri di Dio è la versione fedele del testo originale, San Gerolamo sostiene principalmente che è necessario attenersi innanzi tutto “all’esatta interpretazione” e che “il dovere del commentatore non è quello di esporre idee personali, bensì quelle dell’autore che viene commentato” (Ep. XLIX, al. 48, 17, 7); d’altra parte, egli aggiunge, “l’oratore sacro è esposto al grave pericolo un giorno o l’altro, per via di un’interpretazione errata, di fare del Vangelo di Cristo il Vangelo dell’uomo” (Gal. I, 11 e segg.). In secondo luogo “nella spiegazione delle Sante Scritture non è da ricercare lo stile ornato e fiorito di retorica, ma il valore scientifico e la semplicità della verità” (Amos, Prefaz. in l. III). – Uniformatosi a questa regola nella compilazione delle sue opere, San Gerolamo dichiara, nei Commentari, che il suo scopo non era quello di “ottenere un plauso” alle sue parole, ma “di far comprendere in esse il vero senso delle parole degli altri” (Gal., Pref. in l. III); l’esposizione della parola divina, egli dice, richiede uno stile che “non sappia di elucubrazioni, ma che riveli l’idea oggettiva, che ne tratti minutamente il significato, che chiarifichi i punti oscuri e che non si impigli in effetti fioriti di linguaggio” (Ep. XXXVI, XIV, 2; cfr. Ep. CXL, 1, 2). – Sarebbe bene riportare a questo punto alcuni passi di San Gerolamo, che chiaramente dimostrano come egli avesse orrore dell’eloquenza propria dei rètori, i quali nell’enfasi della declamazione e nell’eloquio vertiginoso delle parole vuote non hanno di mira che i vani applausi. “Non diventare – consiglia al prete Nepoziano – un declamatore e un inesauribile mulino di parole; ma procura di familiarizzarti col senso nascosto e penetra a fondo i misteri del tuo Dio. Ampliare la forma espressiva e farsi valere per l’agilità dello stile agli occhi del volgo ignorante, è proprio degli stolti” (Ep. LII, VIII, 1). “Tutti gli spiriti dotti al giorno d’oggi non si preoccupano di assimilare il nocciolo delle Scritture, ma di lusingare gli orecchi della folla coi fiori di retorica” (Dial. e Lucif. II). “Non voglio parlare di coloro che, come io stesso un tempo, se giungono a contatto con le Sacre Scritture dopo aver praticato la letteratura profana e ricreato l’orecchio della folla con lo stile fiorito, ritengono che ogni loro parola sia la legge di Dio e non si degnano di vedere quello che hanno inteso dire i Profeti e gli Apostoli, ma adattano al loro punto di vista testimonianze che non vi si riferiscono affatto; come se fosse eloquenza di grande valore, e non invece la peggiore che esista, quella di falsificare i testi e di allontanare abusivamente la Scrittura dal suo tracciato” (Ep. LIII, VII, 2). “Poiché senza l’autorità delle Scritture questi chiacchieroni perderebbero ogni forza persuasiva, e non sembrerebbe più che essi rafforzino coi testi sacri la falsità delle loro dottrine” (Tit. 1, 10 e segg.). Ora questa chiacchiera eloquente e questa eloquente ignoranza “non hanno nulla di incisivo, di vivo, di vitale, ma non sono che un tutto fiacco, sterile ed inconsistente che produce solo umili piante ed erbe ben presto avvizzite e giacenti al suolo“; al contrario, la dottrina del Vangelo, fatta di semplicità, “produce qualcosa di meglio di umili pianticelle” e, come il piccolissimo grano di senape, “si trasforma in albero, sì che gli uccelli del cielo… vengono a posarsi tra i suoi rami” (Matth. XIII, 32). – Perciò San Gerolamo ricercava ovunque questa santa semplicità di linguaggio, che non esclude per altro uno splendore e una bellezza tutt’affatto naturali: “Che gli altri siano pure eloquenti e ricevano il plauso tanto desiderato e declamino con voce enfatica e fiumi di parole; quanto a me, mi accontento di farmi capire e, trattando le Scritture, di imitare la loro stessa semplicità” (Ep. XXXVI, XIV, 2). Pertanto “l’esegesi cattolica, senza rinunciare al pregio di un bello, stile, deve occultarlo ed evitarlo per rivolgersi non a vane scuole di filosofi e a pochi discepoli, ma a tutto il genere umano” (Ep. XLVIII, al. 49, 4, 3). Se i giovani sacerdoti metteranno veramente a profitto questi consigli e queste norme, se i preti più anziani non li perderanno mai di vista, Noi siamo sicuri che il loro santo ministero sarà di gran lunga giovevole alle anime dei fedeli. – Ci rimane, Venerabili Fratelli, da commemorare i dolci frutti” che San Gerolamo ha colto “dall’amaro seme delle Sacre Lettere“, nella speranza che il suo esempio infiammerà lo spirito dei sacerdoti e dei fedeli affidati alle vostre cure, suscitando in loro il desiderio di conoscere e di partecipare anch’essi alla salutare virtù del Testo Sacro. – Ma tutte queste soavi delizie spirituali che pervadono l’animo del pio anacoreta, preferiamo che voi le apprendiate per cosi dire dalla sua stessa bocca, piuttosto che da Noi. Ascoltate dunque in quali termini egli parla di questa scienza sacra a Paolino, suo “confratello, compagno ed amico“: “Io ti chiedo, fratello carissimo: vivere in mezzo a questi misteri, meditarli, null’altro conoscere e null’altro sapere, non ti sembra che tutto ciò sia già il paradiso in terra?” (Ep. LIII, X, 1). “Dimmi un po’, domanda San Gerolamo alla sua allieva Paola, che vi è di più santo di questo mistero? Che cosa di più attraente di questo piacere? Quale alimento, quale miele più dolce di quello di conoscere i disegni di Dio, d’essere ammesso nel suo santuario, di penetrare il pensiero del Creatore e le parole del tuo Signore, che i dotti di questo mondo deridono e che sono piene di sapienza spirituale? Lasciamo che gli altri godano delle loro ricchezze, bevano in una coppa ornata di pietre preziose, indossino sete splendenti, si cibino dei plausi della folla, senza che la varietà dei piaceri riesca ad esaurire i loro tesori: le nostre delizie invece consisteranno nel meditare giorno e notte sulla legge del Signore, nel bussare a una porta in attesa che s’apra, nel ricevere la mistica elemosina del pane della Trinità, nel camminare, guidati dal Signore, sui flutti della vita” (Ep. XXX, 13). Ed ancora a Paola ed a sua figlia Eustochio, San Gerolamo scrive nel suo commentario sull’Epistola agli Efesi: “Se qualcosa vi è, Paola ed Eustochio, che trattiene quaggiù nella saggezza e che in mezzo alle tribolazioni e ai turbini di questo mondo mantiene l’equilibrio dell’anima, io credo che questo sia innanzi tutto la meditazione e la scienza delle Scritture” (Eph. Prol.). Ed è ricorrendo ad esse, che egli, afflitto nell’intimo da profondi dolori e colpito nel corpo dalla malattia, poteva godere ancora della consolazione della pace e della gioia del cuore: questa gioia egli non si limitava a gustarla in una vana oziosità, ma il frutto della carità si trasformava in carità attiva al servizio della Chiesa di Dio, cui il Signore ha affidato la custodia della parola divina. In realtà ogni pagina delle Sante Lettere dei due Testamenti era per lui la glorificazione della Chiesa di Dio. Quasi tutte le donne celebri e virtuose, cui nell’Antico Testamento è tributato onore, non sono forse l’immagine di questa Sposa mistica di Cristo? Il sacerdozio e i sacrifici, i riti e le solennità, quasi tutti i fatti riportati nell’Antico Testamento non ne costituiscono forse l’ombra? E il fatto che si trova divinamente realizzato nella Chiesa un così gran numero di promesse dei Salmi e dei Profeti? Ed egli stesso, infine, non conosceva forse, per l’annuncio che ne avevano fatto Nostro Signore e gli Apostoli, gli insigni privilegi di questa Chiesa? E come è possibile dunque che la scienza delle Scritture non abbia infiammato il cuore di San Gerolamo d’un amore ogni giorno più ardente per la Sposa di Cristo?

Noi già sappiamo, Venerabili Fratelli, quale profondo rispetto, quale amore entusiasta egli nutriva per la Chiesa Romana e per la Cattedra di San Pietro; sappiamo con quale vigore egli combattesse contro i nemici della Chiesa. Così scriveva, esprimendo il suo compiacimento ad Agostino, suo giovane compagno d’armi, che sosteneva le medesime battaglie e si rallegrava d’essersi come lui attirato l’ira degli eretici: “Evviva il tuo valore! Il mondo intero ha gli occhi su di te. I cattolici venerano e riconoscono in te il restauratore della fede dei primi tempi del Cristianesimo e, indice ancor più glorioso, tutti gli eretici ti maledicono e con te mi perseguitano d’uno stesso odio, per potere, dato che il loro gladio non ne ha la forza, ucciderci col desiderio” (Ep. CXLI, 2; cfr. Ep. CXXIV, 1). Questa testimonianza si trova egregiamente confermata nel “Sulpizio Severo” di Postumiano: “Una lotta continua e un duello ininterrotto contro i malvagi hanno concentrato su San Gerolamo l’odio dei perversi. In lui gli eretici odiano colui che non cessa di attaccarli, e i chierici colui che rimprovera la loro vita e le loro colpe. Ma tutti gli uomini virtuosi, senza eccezione alcuna, l’amano e l’ammirano” (Postumianus apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9).

Quest’odio degli eretici e dei malvagi fece soffrire a Gerolamo molte asperrime pene, soprattutto quando i Pelagiani irruppero sul monastero di Betlemme e lo saccheggiarono; ma egli sopportò di buon animo tutte le offese e tutti gli oltraggi e mai perdette il coraggio, come colui che non esita a morire in difesa della fede cristiana: “La mia gioia, egli scrive ad Apronio, è quella d’apprendere che i miei figli combattono per Cristo e che Colui, nel quale crediamo, rafforza in noi lo zelo ed il coraggio, affinché possiamo essere pronti a versare il nostro sangue per la Sua fede… Le persecuzioni degli eretici hanno rovinato da cima a fondo il nostro monastero quanto alle sue ricchezze materiali, ma la bontà di Cristo lo ha colmato di ricchezze spirituali. E’ meglio non avere pane da mangiare, che perdere la fede” (Ep. CXXXIX). E se non ha mai permesso all’errore di diffondersi impunemente, non ha impiegato minor zelo ad erigersi in termini energici contro i corrotti costumi, volendo, per quanto le sue forze glielo permettevano, “presentare” a Cristo “una Chiesa gloriosa, senza macchie né rughe, né nulla di simile, ma santa e immacolata” (Eph. V, 27). M- Quale vigore nei rimproveri che San Gerolamo rivolge a coloro che profanano con una vita colpevole la dignità sacerdotale! Con quale eloquenza egli investe i costumi pagani che pervadono in gran parte la città stessa di Roma! Per arginare a qualunque costo questa invasione di tutti i vizi e di tutte le colpe, egli vi oppone l’eccellenza e la bontà delle virtù cristiane, giustamente convinto che nulla vale di più contro il male dell’amore delle cose purissime; egli richiede insistentemente per la gioventù un’educazione informata a senso religioso e ad onestà, esorta con severi consigli gli sposi a condurre una vita pura e santa, suscita nelle anime più delicate il culto della verginità, non trova abbastanza elogi per la severa ma dolce austerità della vita dello spirito, richiama, con tutte le sue forze, il primo precetto della religione cristiana – il comandamento della carità unita al lavoro – la cui osservanza doveva sottrarre la società umana ai turbamenti e restituirle la tranquillità dell’ordine. – Ricordiamo questa bella frase, ch’egli rivolgeva a San Paolino a proposito della carità: “Il vero tempio di Cristo è l’anima del fedele: ornalo, questo santuario, abbelliscilo, deponi in esso le tue offerte e ricevi Cristo. A che scopo rivestire le pareti di pietre preziose, se Cristo muore di fame nella persona di un povero?” (Ep. LVIII, VII, 1). Quanto al dovere del lavoro, egli lo ricorda a tutti con un tale ardore, nei suoi scritti e più ancora negli esempi di tutta la sua vita, che Postumiano, dopo un soggiorno di sei mesi a Betlemme insieme a San Gerolamo, gli ha reso questa testimonianza nel “Sulpizio Severo”: “Lo si trova senza posa tutto occupato nella lettura, tutto immerso nei libri: né il giorno né la notte riposa, ma sempre legge o scrive” (Postum. apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9). – Del resto, il suo ardente amore per la Chiesa si rileva dai suoi Commentari, dove egli non tralascia nessuna occasione per celebrare la Sposa di Cristo. Citiamo, per esempio, questo passo del Commentario del profeta Aggeo: “Accorse il fior fiore di tutte le nazioni e la gloria ha riempito la casa del Signore, cioè la Chiesa di Dio vivente, colonna e fondamento della verità… Questi metalli preziosi donano più splendore alla Chiesa del Salvatore di quanto non ne donassero un tempo alla Sinagoga; di queste vive pietre è costruita la casa di Cristo ed essa si corona d’una pace eterna” (Agg. II, 1 e segg.). E in un altro passo, commentando Michea, dice: “Venite, saliamo alla casa del Signore: è necessario salire se si vuol giungere fino a Cristo e alla casa del Dio di Giacobbe, la Chiesa, casa di Dio, colonna e fondamento della verità” (Mich. IV, 1 e segg.).

Nella prefazione al Commentario di San Matteo, leggiamo: “La Chiesa è stata costruita su una pietra da una parola del Signore; è questa che il Re ha fatto introdurre nella sua camera ed è a lei che attraverso l’apertura segreta ha teso la mano” (Matth., Prol.).

Come risulta da questi ultimi passi che abbiamo citato, cosi più volte il nostro Dottore esalta l’unione intima del Signore con la Chiesa. Poiché non è possibile separare la testa dal suo corpo mistico, l’amore per la Chiesa porta necessariamente con sé l’amore per Cristo, che deve essere considerato il frutto principale e dolcissimo della scienza delle Scritture. Gerolamo, infatti, era a tal punto convinto che questa conoscenza del Testo Sacro è la via esatta che conduce alla conoscenza e all’amore di Nostro Signore, che non esitava ad affermare: “Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo stesso” (Is. Prol.; cfr. Tract. de Ps. LXXVII). Con lo stesso intendimento scrive a Santa Paola: “Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali sì impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti?” (Ep. XXX, 7). E’ verso Cristo infatti che convergono, come al loro punto centrale, tutte le pagine dei due Testamenti; e nel commento al passo dell’Apocalisse, dove è la questione del fiume e dell’albero della vita, San Gerolamo in particolare scrive: “Non vi è che un fiume che sgorga dal trono di Dio, ed è la grazia dello Spirito Santo, e questa grazia dello Spirito Santo è racchiusa nelle Sante Scritture, cioè in questo fiume delle Scritture. Il quale fiume tuttavia scorre tra due rive, che sono l’Antico e il Nuovo Testamento, e su ogni lato sorge un albero, che è Cristo stesso” (Tract. de Ps. I). – Nulla di strano dunque se Gerolamo nelle sue pie meditazioni era solito riferire a Cristo tutto quello che leggeva nei Libri Santi: “Quando io leggo il Vangelo e mi trovo di fronte a testimonianze sulla legge e sui profeti, io non penso che a Cristo: se ho studiato Mosè, se ho studiato i profeti, è stato solo per comprendere quello che essi dicevano di Cristo. Quando un giorno io sarò giunto dinanzi allo splendore di Cristo, quando la sua fulgida luce come quella del sole abbagliante splenderà ai miei occhi, io non potrò più vedere il lume d’una lampada. Se accenderai una lampada in pieno giorno, farà essa luce? Quando splende il sole, la luce di questa lampada svanisce: così, alla presenza di Cristo, la legge e i profeti scompaiono. Nulla io voglio togliere alla gloria della legge e dei profeti: al contrario, li lodo quali annunciatori di Cristo. Se mi accingo alla lettura della legge e dei profeti, il mio scopo non è quello di fermarmi ad essi, ma di giungere, attraverso essi, fino a Cristo” (Marc. IX, 1, 7). – Così noi lo vediamo elevarsi meravigliosamente, per mezzo dei Commentari alle Scritture, all’amore e alla conoscenza di Gesù Nostro Signore, e trovarvi la perla preziosa di cui parla il Vangelo: “Non vi è fra tutte che una sola pietra preziosa, ed è la conoscenza del Salvatore, il mistero della Sua passione e l’arcano segreto della Sua risurrezione” (Matth. XIII, 45 e segg.). – L’amore ardente per Cristo lo portava, povero ed umile insieme a Lui, a liberarsi completamente da ogni legame di preoccupazione terrestre, a non cercare che Cristo, a penetrare nel Suo spirito; a vivere con Lui nella più stretta unione, a foggiare la propria vita secondo l’immagine di Cristo sofferente, a non avere desideri più intensi che soffrire con Cristo e per Cristo. Perciò, al momento di imbarcarsi, allorché, essendo morto Damaso, perfidi nemici con le loro vessazioni lo fecero allontanare da Roma, così scriveva: “Alcuni possono considerarmi un criminale, cacciato sotto il peso di tutte le sue colpe, ma questo non è ancora nulla in confronto ai miei peccati; tu puoi tuttavia credere nel tuo intimo a una virtù dei peccatori… Io rendo grazie a Dio di meritare l’odio del mondo. Quale parte di sofferenze ho patito, io, il soldato della croce? La calunnia mi ha coperto del marchio d’un delitto: ma io so che con la cattiva come con la buona fama si arriva al regno dei Cieli” (Ep. XLV, 1,6). – Così esortava la pietosa vergine Eustochio a sopportare coraggiosamente per amore di Cristo le pene della vita presente: “Grande è la sofferenza, ma grande è la ricompensa ad imitare i martiri, gli apostoli, ad imitare Cristo. Tutte queste pene che vengo enumerando sembrerebbero intollerabili a chi non ama Cristo; ma, al contrario, chi considera tutta la pompa della vita terrena come un fango immondo, per cui tutto è vano sotto la luce del sole, chi non vuole arricchirsi che di Cristo, chi si unisce alla morte e alla resurrezione del suo Signore e chi uccide la propria carne con tutti i suoi vizi e tutte le sue brame, costui potrà liberamente gridare: Chi mi potrà separare dalla carità di Cristo?” (Ep. XXII, 38 e segg.).

Gerolamo dunque abbondantissimi frutti traeva dalla lettura dei Libri Santi: di qui egli attingeva quella luce interiore, che lo faceva sempre più avanzare nella conoscenza e nell’amore di Cristo; di qui quello spirito di preghiera, di cui così bene ha detto nei suoi scritti; qui infine acquistò quella mirabile intima comunione con Cristo, che con le sue dolcezze lo incitò a tendere senza tregua, attraverso l’aspro sentiero della croce, alla conquista della palma di vittoria. – Cosi lo slancio del suo cuore lo portava continuamente verso la Santissima Eucaristia: “Poiché nessuno è più ricco di colui che porta il corpo del Signore in un cestello di vimini e il Suo Sangue in un’ampolla” (Ep. CXXV, XX, 4); uguale venerazione nutriva San Gerolamo per la Santa Vergine di cui difende con ogni forza la perpetua verginità; e la Madre di Dio, ideale di tutte le virtù, era il modello che egli proponeva agli sposi di Cristo, perché la imitassero. – Nessuno si stupirà dunque se i luoghi della Palestina che avevano santificato il nostro Redentore e la sua Santissima Madre hanno esercitato un fascino e un’attrattiva cosi grandi su San Gerolamo. Quali fossero i suoi sentimenti su questo punto, si potrà facilmente indovinare da ciò che Paola ed Eustochio, sue discepole, scrivevano da Betlemme a Marcella: “Con quali parole noi possiamo darti un’idea della grotta in cui nacque il Divin Salvatore? Della culla che udì i suoi vagiti infantili? E’ più degno il silenzio che le nostre povere parole… Non verrà dunque il giorno in cui ci sarà dato di entrare nella grotta del Salvatore, di piangere sulla tomba del Divino Maestro accanto a una sorella, ad una madre? Di baciare il legno della Croce e sul Monte degli Ulivi di seguire in ispirito, ardenti di desiderio, Cristo nella Sua Ascensione?” (Ep. XLVI, XI, 13). – Gerolamo conduceva, lontano da Roma, una vita di mortificazione per il suo corpo, ma il richiamo dei sacri ricordi infondeva alla sua anima una tale dolcezza, da scrivere: “Ah! se Roma possedesse quello che possiede Betlemme, che è tuttavia più umile della città romana!” (Ep. LIV, XIII, 6). – Il voto del Santissimo esegeta s’è realizzato in modo diverso da quello da lui inteso, e Noi, Noi e tutti i cittadini di Roma, abbiamo motivo di rallegrarcene. Infatti i resti del grande Dottore, deposti in quella grotta che per tanto tempo aveva abitata, per cui la celebre città di Davide si gloriava un tempo di conservarli, Roma oggi ha la fortuna di custodirli nella basilica di Santa Maria Maggiore, ove riposano accanto alla Culla stessa del Salvatore. – S’è spenta la voce, la cui eco dal deserto percorreva un tempo il mondo intero; ma attraverso i suoi scritti, “che splendono su tutto l’universo come fiamme divine” (Cassian. De incarn. 7, 26), San Gerolamo parla ancora. Egli proclama l’eccellenza, l’integrità e la veracità storica delle Scritture, e i dolci frutti che la loro lettura e la loro meditazione offrono. Proclama per tutti i figli della Chiesa la necessità di ritornare a una vita degna del nome cristiano e di guardarsi dal contagio dei costumi pagani, che nella nostra epoca sembrano essersi pressoché ristabiliti. Proclama che la Cattedra di Pietro, mercè soprattutto la pietà filiale e lo zelo degli Italiani, cui il Cielo ha dato il privilegio di possederla entro i confini della loro patria, deve godere dell’onore e della libertà assolutamente indispensabili per la dignità e l’esercizio stesso della carica Apostolica. – Proclama, per le nazioni cristiane che hanno avuto la sventura di staccarsi dalla Chiesa, il dovere di ritornare alla loro Madre, ove riposa tutta la speranza della salute eterna. Voglia Dio che questo appello sia inteso soprattutto dalle Chiese Orientali, che ormai da troppo tempo sono ostili alla Cattedra di Pietro. Quando viveva in quelle regioni ed aveva per maestri Gregorio Nazianzeno e Didimo d’Alessandria, Gerolamo sintetizzava in questa formula divenuta classica la dottrina dei popoli orientali a quell’epoca: “Chiunque non si rifugia nell’arca di Noè, sarà travolto dai flutti del diluvio” (Ep. XV, 11, 1). Se Dio non arresta oggi questo flagello, non minaccia esso di distruggere tutte le istituzioni umane? Che più rimane, se viene soppresso Dio, autore e conservatore di tutte le cose? Che cosa può continuare ad esistere, una volta staccata da Cristo, fonte di vita? Ma colui che un tempo, all’appello dei suoi discepoli, calmò il mare in tempesta, può ancora rendere alla società umana travolta il preziosissimo beneficio della pace. – Possa San Gerolamo attirare questa grazia sulla Chiesa di Dio, che egli ha con tanto ardore amato e con tanto coraggio difeso contro ogni assalto dei nemici; possa il suo patrocinio ottenere per noi che tutte le discordie siano sedate secondo il desiderio di Gesù Cristo, e “che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore“.

Comunicate senza indugio, Venerabili Fratelli, al vostro clero e ai vostri fedeli, le istruzioni che vi abbiamo dato in occasione del quindicesimo centenario della morte del grande Dottore. Noi vorremmo che tutti, secondo l’esempio e sotto il patrocinio di San Gerolamo, non soltanto rimanessero fedeli alla dottrina cattolica sotto l’ispirazione divina delle Sacre Scritture e ne prendessero la difesa, ma che osservassero anche con scrupolosa cura le prescrizioni dell’enciclica Providentissimus Deus e della presente Lettera. In attesa, formuliamo l’augurio che tutti i figli della Chiesa si lascino penetrare e fortificare dalla dolcezza delle Sante Lettere, per arrivare a una conoscenza perfetta di Gesù Cristo. – Come pegno di tale voto, e in testimonianza della Nostra paterna benevolenza, Noi impartiamo, nella somma grazia del Signore, a voi, a tutto il clero e a tutti i fedeli che vi sono affidati, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 settembre 1920, anno VII del Nostro Pontificato.

BENEDETTO PP. XV.

NOTE

(1) Due personaggi diversissimi portano questo nome: sono padre e figlio, vissuti nel IV secolo dopo Cristo e quindi contemporanei di – San Gerolamo. Il primo, detto Apollinare il vecchio, è ricordato per la sua bizzarra resistenza alla legislazione di Giuliano l’Apostata. Quando questo imperatore vietò che i maestri cristiani si valessero dei testi classici nel loro insegnamento, Apollinare si dedicò a tradurre in latino e in greco, in prosa e in versi, i libri sacri per servirsene poi di testo per l’insegnamento delle due lingue. Di queste traduzioni non resta traccia, essendo andate del tutto disperse. Il figlio, detto Apollinare il giovane, al quale si riferisce senza dubbio il ricordo di San Gerolamo, fu personaggio eminente e discusso del Cristianesimo greco. Anche delle sue opere poco o nulla è rimasto e il suo ricordo è strettamente legato agli accenni che di lui si trovano negli scritti di San Gerolamo. Nel combattere aspramente in molti scritti l’arianesimo, cadde nell’errore opposto di negare totalmente la natura umana di Cristo, riconoscendogli esclusivamente la natura divina. Ben quattro Concili lo condannarono, cosicché egli finì la sua vita fuori dal seno della Chiesa. Per molti anni, fino a tutta la prima metà del secolo, le teorie di Apollinare di Laodicea ebbero seguaci che vennero appunto chiamati “Apollinaristi”.

(2) San Gregorio il teologo – o di Nazianzo – vissuto fra il 330 e il 390. Patriarca di Costantinopoli, vi presiedette il Concilio ecumenico del 380. Lasciò il patriarcato l’anno successivo per ritirarsi in Cappadocia. Scrittore efficacissimo, combatté lo scisma ariano in quarantacinque discorsi: celeberrimo quello in morte di San Basilio. Lasciò altri scritti, in prosa e in poesia.

(3) L’Eusebio citato è quello di Cesarea, vissuto fra il 265 e il 339 o 340, vescovo di quella città. Scrittore di grande erudizione, lasciò molte opere di storia e di teologia. La Cronaca citata nell’enciclica è nota anche con il titolo di Storia ecclesiastica, che fu appunto tradotta da San Gerolamo, dal testo greco, in lingua latina.

(4) Lo scritto di San Gerolamo noto con il titolo Tractatus de Seraphin commenta il capo VI, paragrafi 2 e seguenti del libro di Isaia. Fu scoperto da Padre Ancelli a Montecassino e illustra una delle pagine più misteriose della Bibbia.

(5) Eletto dopo la morte del Pontefice Liberio e dell’antipapa Felice II, Damaso occupò la Cattedra romana in uno dei più agitati periodi della storia della Chiesa, funestato da gravi lotte politico-religiose e da molteplici eresie. San Gerolamo rientrò a Roma per il Concilio da lui indetto nel 382.

(6) Altro contemporaneo di San Gerolamo, che egli riconosce fra i suoi maestri. Cieco dall’infanzia, acquistò tuttavia una così vasta cultura da poter dirigere la scuola di Alessandria durante mezzo secolo, dal 340 al 395. Avversario tenace dell’arianesimo, non ripudiò le teorie di Origene e fu pertanto condannato. Di lui sono rimaste due opere sullo Spirito Santo e sulla Trinità.

(7) Laico romano: oltre a negare la verginità perpetua di Maria, avversò tenacemente il monachismo e impugnò l’eccellenza della verginità sul matrimonio. San Gerolamo scrisse contro le sue teorie nel 386.

(8) Gioviniano, monaco milanese vissuto alla fine del secolo IV. Lasciato il monastero, predicò una sua interpretazione eretica delle Sacre Scritture, per cui la salvezza sarebbe frutto della sola fede in Cristo. Contestò la verginità di Maria. Raccolse seguaci in una setta (giovinianisti) che dopo la condanna del suo fondatore scomparve in pochi decenni.

(9) Nell’elogio funebre che San Gerolamo inviò a Eustochio riguardante la madre sua Paola, lodava anche questa santissima donna per avere insieme alla figlia coltivato a tal punto lo studio delle Scritture, da conoscerle a fondo e ricordarle a memoria. Nel suo soggiorno romano dal 382 al 385, Gerolamo infervorò alla pratica della vita ascetica un nucleo di donne romane che si riunivano nel palazzo di Marcella sull’Aventino per dedicarsi alla lettura della Bibbia, al canto dei Salmi e alla preghiera. Di questo gruppo di devote nobildonne facevano appunto parte Eustochio e sua madre, Paola.

(10) Amico di San Gerolamo, che gli dedicò due delle sue epistole, una sui doveri dei sacerdoti cristiani e un’altra per tesserne l’elogio funebre. Da giovane Nepoziano fu militare; abbracciò poi lo stato ecclesiastico di. venendo prete, coadiutore dello zio Eliodoro, vescovo di Altino. Morì verso la fine del secolo V.

(11) San Paolino di Nola (Meropio Ponzio Paolino: 353-431), uscito da una delle più nobili famiglie romane, Insignito di alte cariche civili e fornito di immense ricchezze, abbandonò tutti i suoi beni per ritrarsi a vita monastica. Nel 409 fu eletto vescovo di Nola. Autore di carmi e panegirici, occupa un posto non trascurabile nella storia della letteratura latina cristiana.

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXXV:3; :5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te. [Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Ps LXXXV:1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.
[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te. [Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Oratio
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
[O Signore, Te ne preghiamo, che la tua grazia sempre ci prevenga e segua, e faccia che siamo sempre intenti alle opere buone].

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III:13-21
Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Nuovo saggio di omelie, vol. IV Torino, 1899 – Omelia VII].

“Io vi prego di non scoraggiarvi per le mie tribolazioni per voi, le quali formano la vostra, gloria. A tal fine io piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signor nostro Gesù Cristo, dal quale viene ogni ordine di paternità in cielo ed in terra, affinché, secondo la ricchezza della sua gloria, vi conceda d’essere fortificati potentemente, per lo spirito suo, nell’uomo interiore, e che Cristo abiti nei vostri cuori per la fede, radicati e fondati nella carità; acciocché con tutti i Santi possiate comprendere qual sia la larghezza e la lunghezza, l’altezza e profondità; possiate cioè conoscere la carità di Cristo, la quale trascende ogni scienza, in modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A colui poi, il quale può fare tutto infinitamente al di là di quanto possiamo o domandiamo noi, a lui sia gloria nella Chiesa e in Gesù Cristo per tutte le generazioni del secolo dei secoli „ (Agli Efesini, c. III, vers. 13-21).

Paolo per tre anni dimorò in Efeso (dal 54 al 57), notissima città dell’Asia minore, e vi fondò una Chiesa fiorente, che più tardi fu governata dall’Apostolo S. Giovanni; poi andò a Gerusalemme, e di là, dopo la prigionia, che subì sotto Felice e poi sotto Porzio Festo, fu condotto a Roma, avendo Paolo, come cittadino romano, fatto appello al tribunale dell’imperatore che era Nerone. Giunse in Roma, e, come apprendiamo dagli Atti Apostolici (c. XXVIII, vers. ultimo), vi rimase due anni, dal 61 al 63, esercitando, come meglio poteva, il ministero apostolico con quanti se ne andavano a lui. Egli teneva la sua dimora, come vuole un’antica e venerabile tradizione, dove ora sorge la chiesa di S. Maria in vìa Lata, lungo il corso attuale, nel centro di Roma moderna. Da quella carcere, dove gli era lasciata molta libertà, scrisse parecchie lettere, che si dissero della Cattività, ed una di queste è la lettera agli Efesini, alla quale appartengono i nove versetti che vi sono riportati. – Questa lettera è una delle più difficili e per l’altezza delle cose che dice, ed anche perché lo stile è conciso e rotto: le frasi sono mezzo ebraiche, e i trapassi improvvisi e arditissimi. Non vi è cenno delle questioni giudaiche, come in quasi tutte le altre lettere; in quella vece mette in sull’avviso i Cristiani contro i pericoli della vana scienza filosofica, che doveva essere assai diffusa in Efeso. Ma poniamo mano al nostro commento. – Dopo avere annunziato ai suoi neofiti che la vocazione dei Gentili era stata affidata in speciale maniera a lui, Paolo, ultimo dei fedeli; e che egli aveva predicato il grande mistero di Cristo, e che nella Chiesa lo conobbero gli Angeli stessi, e che egli, Paolo, continuava con grande franchezza a proclamarlo anche in Roma, vide una difficoltà, uno scandalo non lieve, che doveva presentarsi a quei novelli Cristiani, la difficoltà cioè e lo scandalo del veder lui sbandeggiato, perseguitato e incarcerato pel Vangelo. Per togliere questo scandalo in Cristiani convertiti allora allora dal gentilesimo, scrive: ” Vi prego di non scoraggiarvi per le mie tribolazioni per voi. „ Figliuoli carissimi! così suonano le parole dell’Apostolo: Voi avete ricevuto da me il Vangelo di Gesù Cristo: voi mi accoglieste e mi tenete come suo apostolo: ma, vedendomi fatto segno a tante ire, sì fieramente bistrattato a Gerusalemme, e qui tenuto in carcere come un malfattore, io non vorrei che vi smarriste di animo e, sgomentati per sì ardue prove, volgeste le spalle alla fede, parendovi quasi impossibile che Iddio onnipotente lasci il suo Apostolo e la sua Chiesa in balia di tanti e sì feroci nemici. No, no, non scoraggiatevi, vedendo a quali distrette dolorose io sia ridotto per la vostra fede. “Peto ne deficiatis in tribulationibus meis pro vobis”. Anziché scoraggiarvi, avvilirvi e vergognarvi, vedendomi sì afflitto e vituperato, dovete andarne gloriosi e riempirvi di gioia: Quæ est gloria vestra. Quale altezza di concetti! Che sublimità di linguaggio! Lungi dal sentirvi umiliati, vedendo me; vostro maestro e padre, sì fieramente travagliato e divenuto quasi la spazzatura del mondo, dovete alzare la fronte ed esserne alteri. S. Paolo ripete in sé lo spettacolo dei suoi fratelli Apostoli, i quali pubblicamente flagellati in Gerusalemme, se ne partivano pieni di gioia, pensando ch’erano stati degni di patire per Gesù Cristo. – Non ignoro, o carissimi, che oggidì, anche tra i buoni Cristiani, vi sono alcuni, i quali sembrano credere essere mutato il Vangelo e lo spirito del Cristiano. Costoro, vedendo il trionfo riportato da Cristo sul giudaismo e sul paganesimo, e il regno suo stabilito da un capo all’altro del mondo, praticamente mostrano di credere che ad essi, perché seguaci di Cristo e suoi ministri, non si debbano che onori, ossequi, grandezze, ricchezze e abbondanza d’ogni bene terreno e, se avviene il contrario, stupiscono, si lagnano, si scandalizzano, e non sanno rassegnarsi, e per poco sospettano che Gesù Cristo venga meno alle sue promesse. — Ma come? Dimenticano essi l’esempio di Gesù Cristo, morto in croce, degli Apostoli, che soffrirono ogni maniera di privazioni, di patimenti e i più atroci martiri, e di tutti i santi, che corsero la via battuta da Gesù Cristo e dagli Apostoli? Ma come? Dimenticano essi le parole di Gesù Cristo in cento luoghi del Vangelo ripetute: “Se han perseguitato me, voi pure perseguiteranno: — Se hanno chiamato Beelzebub il padre di famiglia, quanto più i suoi discepoli: — Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, pigli la sua croce e mi seguiti? „ Dimenticano essi la terribile sentenza di S. Paolo: ” Tutti quelli che vorranno vivere piamente con Gesù Cristo, soffriranno persecuzioni? „ Ma come? Costoro hanno forse la pretensione che Gesù sia venuto sulla terra per procurar loro una vita piena di agi, di onori, di piaceri, di glorie mondane? Allora il Vangelo sarebbe trasformato nella legge mosaica e distrutta la sostanza degli esempi e degli insegnamenti di Gesù Cristo, che venne per servire, e non per essere servito; che volle per sé le umiliazioni, la povertà e la morte di croce. — Bando adunque a costoro che vogliono pervertire il Vangelo di Cristo (ai Galati, I, 7) e avere sulla terra quella felicità che il divino Maestro ci promise soltanto in cielo: “Godete ed esultate allorché sarete vituperati e perseguitati, perché grande è il vostro premio nei cieli „ (Matt. V, 11, 12). Ci siamo alquanto dilungati dal nostro commento, ma tosto ci rimettiamo in via, ascoltando il grande Apostolo che protesta: “A questo fine io piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signor nostro Gesù Cristo. „ A questo fine, cioè perché voi non vi scoraggiate, vedendo le mie afflizioni, e piuttosto ve ne facciate un vanto, io mi prostro umilmente dinanzi alla maestà infinita di Dio, del Padre di Lui, che è il Signor nostro Gesù Cristo. E perché S. Paolo dice di prostrarci dinanzi al Padre, cioè alla prima Persona della santa Trinità? E non poteva dire che si prostrava dinanzi al Figlio, od allo Spirito Santo? Senza dubbio lo poteva dire egualmente, essendo le tre divine Persone perfettamente eguali ed inseparabili tra loro, e l’onore reso all’una è reso all’altra per la identità o medesimezza della natura; ma l’Apostolo volle nominare a preferenza il Padre, perché in ordine di origine è la prima, ed è la radice e la fonte del Figliuolo, e col Figliuolo è la radice e la fonte dello Spirito Santo, e perché, nominando il Padre, necessariamente si indicano anche il Figliuolo e lo Spirito Santo, che da entrambi procede. S. Paolo in ispirito si prostra dinanzi al Padre del Signor nostro Gesù Cristo: l’idea di Padre desta subito nella mente fervidissima dell’Apostolo un’altra idea, gli spiega sotto gli occhi un vastissimo panorama, e non può non accennarlo e delinearlo almeno di volo. Quale? “Dal Padre viene ogni paternità in cielo ed in terra — Ex quo omnis paternitas in cœlis et in terra nominatur. „ Che vuol dir ciò? Come il Padre è principio senza principio per generazione del Figlio, e col Figlio è principio senza principio dello Spirito Santo per spirazione o amore, cosi da Lui, come da supremo ed eterno esemplare derivano tutti i principii delle cose create. Non disse, avverte S. Girolamo, ogni paternità è nata da Dio Padre, ma piglia nome, ossia è costituita da Lui sì in cielo come in terra. In cielo, fuori di Dio, non vi sono che Angeli e Santi, ne vi è generazione propriamente detta: ma le menti sì degli Angeli come dei Santi hanno ragione di principio relativamente al loro pensiero, alla loro scienza e al loro amore: in cielo gli Angeli appartenenti agli ordini superiori sono come princìpi di luce e amore relativamente a quelli degli ordini inferiori: sulla terra gli uomini, in quanto sono padri e danno la vita ai figliuoli, rispecchiano la infinita paternità di Dio Padre, onde in un senso verissimo quella paternità eterna ed infinita, che si compie nell’intimo della vita divina, si irradia per una meravigliosa e ineffabile somiglianza in tutte le creature ragionevoli ed irragionevoli del cielo e della terra: Ex quo omnis paternitas in cœlis et in terra nominatur. È un concetto d’una vastità, e sublimità degna del sommo Apostolo. Prostrato dinanzi al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, fonte perenne d’ogni paternità celeste e terrestre, che fa esso S. Paolo? Chi si prostra dinanzi a Dio adora e prega, e S. Paolo adora e prega; prega “affinché secondo la ricchezza della gloria sua, „ cioè in ragione della sua grazia esuberante e gloriosa, “Dio Padre vi conceda d’essere fortificati potentemente pel suo Spirito. „ In altri termini più conformi all’indole della lingua nostra, S. Paolo vuol dire: Il conoscimento, la vista delle mie afflizioni ed umiliazioni è per voi, o Efesini, una prova gravissima, argomento di scandalo; perciò prego Dio che nella abbondanza della sua grazia vi corrobori gagliardamente col suo Spirito, affinché sosteniate e vinciate la prova. — E questa forza corroboratrice non ha che far nulla con la forza materiale del corpo, delle braccia o dei muscoli, ma riguarda unicamente la mente e la volontà, affinché queste rimangano salde nelle verità ricevute, e nella vita conforme alle verità stesse. Un uomo può essere fortissimo quanto alle forze del corpo e debolissimo quanto a quelle dell’anima, e, per converso, fortissimo quanto alle forze dell’anima e debolissimo quanto a quelle del corpo. Una suora di carità, abbandona la famiglia, respinge nozze onoratissime, monta sopra un piroscafo, vive per anni ed anni sotto un clima micidiale, curando infermi ed ammaestrando orfanelli abbandonati, pronta, anzi desiderosa di morire per la fede sotto la scure del carnefice. Ecco una donna secondo il corpo debolissima, e secondo lo spirito fortissima. Un uomo, nel fiore degli anni, pieno di vita e di forza, non sa resistere alla seduzione d’una fanciulla, calpesta la fede coniugale, dà fondo al ricco patrimonio, corre dietro ad ogni passatempo, dimentico dei suoi figli: non sa sopportare una parola pungente, non può frenare la sua lingua e la sua gola; eccovi un uomo secondo il corpo robustissimo, debolissimo secondo lo spirito. Ah! è la forza dello spirito, dell’uomo interno, che forma i virtuosi e santi! l’altra che vale? Si può agguagliare, se volete, al bue, al leone, all’elefante, ma non aggiunge una linea alla sua dignità di uomo. – Un’altra cosa domanda a Dio Padre il nostro Apostolo per i suoi carissimi Efesini, ed è che “Cristo abiti per la fede nei loro cuori — “Christum per fidem habitare in cordibus vestris. „ Questa espressione ha bisogno d’essere chiarita. Allorché S. Paolo prega che Gesù Cristo abiti per la fede nel cuore dei suoi figliuoli, intende forse che vi abiti come quando lo riceviamo nella Ss. Eucaristia? Indubbiamente, no: questa è presenza sacramentale e reale. Come dunque si ha da intendere questo abitare di Gesù Cristo in noi per la fede? La parola fede in questo luogo significa le verità della fede insegnate da Cristo: allorché adunque le verità insegnate da Gesù Cristo informano la nostra mente, le teniamo salde e regolano la nostra condotta, Gesù Cristo istesso abita per esse in noi. Allorché il sole colla sua luce rischiara una cosa qualunque, non diciamo noi che vi è il sole? – Allorché un uomo professa la dottrina d’un filosofo qualunque, ponete di S. Tommaso, non siam noi soliti dire di quell’uomo, che porta in testa quel filosofo, che ha nella sua mente S. Tommaso? Non si legge di S. Cecilia, che essa portava il Vangelo in cuore, cioè teneva in cuore l’insegnamento del Vangelo? Vedete, o cari, dignità altissima del fedele Cristiano: egli, credendo fermamente la dottrina di Gesù Cristo, in un senso vero ha in sé Gesù Cristo stesso, da Lui è illuminato, guidato nei pensieri e negli affetti: Christum per fidem habitare in cordibus vestris. Né qui si arresta S. Paolo; egli prega Dio Padre, che fortifichi i suoi figli spirituali di Efeso, che Gesù per la fede abiti e regni nelle loro menti, e finalmente, “che siano radicati e fondati in carità. „ Altri, e voi lo sapete, o carissimi, può avere pura e netta la fede nella mente, ma non la carità, giacché purtroppo noi possiamo essere credenti, professare tutto il simbolo, e nelle opere essere difformi dalla fede. Quanti sono coloro che credono, ma non operano come credono, che hanno la fede senza le opere! Che vale la loro fede senza le opere, ossia senza la carità o l’amore di Dio, che ci muove ad attuare la fede nelle opere: Fides quæ per charitatem operatur? Nulla affatto, anzi serve a condanna. E per questo che S. Paolo prega Iddio affinché i suoi dilettissimi Efesini abbiano non solo Cristo in sé per la fede, ma altresì e sopratutto per la carità, anzi siano in essa bene radicati e fondati; solo per la carità, che si traduce nelle opere, Cristo abiterà perfettamente in essi, e la loro unione con Lui sarà perfetta. — Fate adunque, o cari, di possedere in voi Cristo non pure per la fede, ma anche per la carità: attenetevi al simbolo e osservate il decalogo, alla fede congiungete le opere, e sarete non solo uditori della legge, come scrive in altro luogo san Paolo, ma operatori della legge. Ciò facendo, avrete un altro vantaggio, e non piccolo, che S. Paolo annunzia con queste parole: ” Affinché con tutti i santi possiate comprendere qual sia la larghezza e la lunghezza, l’altezza e la profondità della carità di Cristo. „ Le quattro dimensioni dei corpi qui sono usate per esprimere tutta la sterminata grandezza della carità, che S. Paolo vuole sia compresa o conosciuta dagli Efesini, come la comprendono, o, meglio, la conoscono i santi e gli Angeli in cielo. Questa carità trascende ogni scienza, dice l’Apostolo: Supereminentem scientiæ charitatem, vale a dire: Chi potrà mai adeguatamente comprendere la carità che condusse Cristo a patire e morire per noi? Ah! questa carità di Cristo sta al di sopra d’ogni scienza umana e celeste creata; essa non ha limiti né nella larghezza, perché tutti abbraccia gli uomini senza distinzione di schiatta, di stato e di condizione; né nella lunghezza dei tempi, perché tutti li contiene; né nell’altezza della perfezione, né nella profondità e nell’ardore con cui tutti stringe ed ama, in cielo ed in terra, uomini ed Angeli. S. Paolo, nel versetto che segue, chiude la enumerazione di quei beni che prega da Dio Padre ai suoi Efesini, condensandoli tutti in una forma di dire ebraica e che gli è famigliare: “Affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. „ Iddio è la pienezza d’ogni bene e d’ogni perfezione, come la fede e la stessa ragione ci insegnano; e quello che noi abbiamo o possiamo avere, tutto ci viene e possiamo ricevere dalla sua pienezza, come dice S. Giovanni: Et de plenitudine ejus nos omnes accepimus. Ebbene, continua S. Paolo, io prego Dio che voi tutti siate ripieni di quella sapienza, di quella carità, di tutte quelle virtù e perfezioni, delle quali Egli è fonte inesausta. È il voto dell’Apostolo per i suoi cari, che non potrebbe essere più magnifico. Che poteva egli desiderare loro e pregare di più grande, di più eccelso, di più perfetto che non sia racchiuso in questa sentenza, che si sente sgorgare dal cuore dell’Apostolo: “Che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio! „ – ” Sia gloria a Dio, „ aggiunge queste parole: “Nella Chiesa, e in Gesù Cristo, e in tutte le generazioni del secolo dei secoli. „ Tutte le creature sono somiglianti a specchi più o meno puliti e tersi: questi, ricevendo in sé la luce del sole, la riflettono, e, a nostro modo di dire, l’accrescono, e formano, in certo senso, la gloria del sole; cosi le creature sono immagini, specchi delle divine perfezioni, ciascuna secondo la sua natura, e perciò, senza aggiungere nulla esse medesime, la riverberano, e in qualche maniera si può dire che la fanno conoscere e la accrescono, aumentandone le imitazioni. Il perché rendono gloria a Dio, e tanto maggiore sarà questa gloria, quanto maggiore è l’eccellenza e la perfezione degli esseri che gliela rendono. Ciò posto, voi vedete, o cari, che la Chiesa è la creazione più stupenda, l’opera più perfetta che sia uscita dalle mani di Dio, che di gran lunga supera la creazione stessa dell’universo, perché questo è il regno della materia, dei corpi, quella è il regno degli spiriti, e perciò in essa deve risplendere la gloria di Dio sopra tutte le opere sue. Al di sopra della Chiesa vi è il suo Capo, l’uomo-Dio, Gesù Cristo, che in sé compendia tutte le perfezioni del cielo e della terra, il capolavoro della sua onnipotenza, della sua sapienza, della sua giustizia e della sua misericordia, e nel quale trova l’oggetto adeguato delle sue infinite compiacenze, e la sua gloria esterna tocca il suo supremo fastigio, a talché egli stesso nella sua onnipotenza non potrebbe concepirne o produrne uno maggiore. Ben a ragione pertanto S. Paolo, nel suo linguaggio pieno di verità e di poesia, grida: a Gloria a Dio nella Chiesa ed in Cristo, in tutte le generazioni del secolo dei secoli. „ Amen.

Graduale
Ps CI:16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. [Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps 97:1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.
[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV:1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisaeos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, omel. VIII]

“Accadde che Gesù, essendo entrato in giorno di sabato in casa d’uno dei principali farisei a desinare, essi lo tenevano d’occhio. Intanto un certo idropico gli stava innanzi. Allora Gesù, parlando ai legisti ed ai farisei , disse: È egli lecito guarire in giorno di sabato? Ed essi tacquero; ed egli, presolo, lo guarì e lo accommiatò. Poi. volgendosi a loro, disse: Chi di voi, se il bue od il giumento gli cadono in un fosso, non lo trae fuori subito anche nel giorno di sabato? Ed essi non potevano rispondere. Vedendo poi come coloro sceglievano i primi posti nei conviti, prese a dire una parabola, dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere al primo posto, non forse uno di te più ragguardevole sia invitato da lui, e venga quegli che ha invitato te e lui, e ti dica: Cedi il luogo a questo; e tu con rossore debba tenere l’ultimo posto. Ma quando sei invitato, va, mettiti all’ultimo posto, onde quegli che ti ha invitato, venga e ti dica: Amico, sali più in su; questo ti farà onore dinanzi ai convitati. Perché chiunque s’innalza, sarà abbassato: e chiunque si abbassa, sarà innalzato „ (S. Luca, XIV, 1-10).

Gesù aveva lasciata la Galilea per l’ultima volta, e volgeva i suoi passi verso Gerusalemme, per consumarvi il suo sacrificio. In Galilea gli avevano detto: “Partiti e vanne via, perché Erode ti vuole uccidere „ (Luca, c. XIII, 31) ; ed Egli, non per timore che ne avesse, ma per compiere i disegni della Provvidenza, prese la via di Gerusalemme, costeggiando, come è probabile, le rive del lago e poi del Giordano. In questo viaggio, che avvenne circa tre mesi prima della sua morte, è da porre il miracolo registrato da S. Luca. – Il Vangelo non dice il nome della città o borgata dove fu operato; ma ciò poco importa, perché noi dobbiamo essere solleciti di conoscere, più che i luoghi e i tempi, le cose che Gesù fece e disse, perché queste formano il nostro ammaestramento. – Il Vangelo, che vi ho recitato, si può dividere in due parti: nella prima si narra il miracolo dell’idropico; nella seconda si contiene una brevissima parabola, o, per parlare più esattamente, un documento morale semplicissimo, ma utilissimo. Non vi sia grave udire la spiegazione dell’uno e dell’altro. – Gesù abbandonava la sua cara Galilea, dove Erode lo minacciava di morte; si incamminava verso Gerusalemme, centro dei suoi nemici implacabili e luogo del suo terribile sacrificio: Egli sapeva tutto con quella chiarezza e certezza ch’era propria del Figliuolo di Dio. Nemici alle spalle, nemici di fronte, nemici ai suoi fianchi: alcuni discepoli che lo seguivano, un po’ di popolo che l’ascoltava; ma i ricchi, i dotti, i potenti, che non si curavano di Lui, che lo odiavano e perseguitavano. Dopo tre anni di fatiche, di miracoli, di predicazione, era ben scarso il frutto raccolto. Chiunque altro si sarebbe scoraggiato e datosi vinto dinanzi a tanti ostacoli e nemici sì ostinati, ma non Gesù; Egli soffre, geme, è vero, ma continua intrepido l’opera sua, e semina ancora sui suoi passi la parola di verità, e continua i miracoli della sua carità verso i sofferenti. Vediamolo. – “Avvenne che essendo Gesù entrato in giorno di sabato in casa d’uno dei principali farisei a desinare, essi lo tenevano d’occhio. „ I farisei erano i principali e più maligni nemici di Gesù Cristo, come apparisce da tutto il Vangelo; eppure spesso lo invitavano a mensa, ed Egli accettava sia per darci esempio di mansuetudine e carità verso dei malevoli, sia per istruirli e far entrare la luce della verità in quelle menti oscurate dalla superbia e dall’odio. Il giorno, nel quale ricevette l’invito, era un sabato, ed è notato dall’Eangelista per spiegare il fatto che avvenne e le parole di Cristo, e chi l’aveva invitato era uno dei principali farisei: principale per ricchezze, o per dignità, o per reputazione, o per altri titoli che non sappiamo. Dal tutto insieme si scorge che l’invito in sabato, e in quella casa, era un tranello ordito dai farisei. Il riposo prescritto dalla legge nel sabato era molto severo, ma i farisei, gli uomini della lettera, l’avevano spinto ad un rigorismo ridicolo ed insopportabile, e in altro luogo ne abbiamo fatto un cenno. Essi studiavano il modo di coglierlo in fallo, particolarmente quanto all’osservanza del sabato, forse perché legge notissima al popolo, e della quale esso era geloso, e perciò vindice severo. Che fecero? Ad un tratto gli misero dinanzi un povero idropico, o a bello studio fecero sì che si trovasse sui suoi passi allorché era per metter piede nella casa del fariseo, senza dirgli parola; ma doveva bene parlare l’infermo, se non con la lingua, certo con l’atteggiamento della persona e con il mostrare la dolorosa infermità ond’era afflitto. I farisei sapevano per prova che alla vista di quell’infelice, che con la voce e con gli atti chiedeva la guarigione, il cuore di Gesù si sarebbe impietosito e l’avrebbe risanato, ed essi avrebbero avuto buono in mano da accusarlo quale trasgressore della legge. Gesù adunque si vide innanzi il poverello, che implorava pietà: s’arrestò, ed i farisei s’arrestarono con Lui, tutto occhi ed orecchi per vedere ciò che farebbe ed udire ciò che direbbe e fargliene carico, s’era possibile: Et ipsi observabant eum. – Non possiamo difenderci da un sentimento di giustissimo sdegno contro codesti farisei, che coprivano i loro malvagi disegni e l’odio loro più cupo contro Gesù Cristo sotto le apparenze della stima e della benevolenza verso di Lui, fino ad invitarlo ad un banchetto. E queste arti ipocrite sono forse rare al giorno d’oggi? Quanti vi si dicono e professano amici, e abbondano con voi di complimenti ed inchini, e chiudono in cuore il dispetto e forse anche l’odio e, appena il possono, con la maldicenza e con la calunnia lacerano il vostro buon nome? Detestate e fuggite queste ipocrisie farisaiche. – D’altra parte come non ammirare la bontà e la generosità divina di Gesù Cristo, che leggeva ogni cosa in cuore a quei tristi, eppure accettava i loro inviti, sedeva alla loro mensa e ricambiava il loro odio con l’amore e con il far brillare agli occhi della loro mente la luce della verità? Imitiamo coi malevoli e con i nemici l’esempio di Gesù Cristo. – Appena Gesù si vide innanzi l’idropico, conobbe l’insidia e prese l’offensiva, rivolgendo bruscamente agli scribi e farisei una domanda, alla quale il buon senso, che vale più di tutte le leggi, non permetteva loro di dare una risposta: “È egli lecito, disse loro, guarire in giorno di sabato? „ Che potevano rispondere? Se rispondevano: ” Si, è lecito , „ cadeva a vuoto l’insidia tesa; se rispondevano: No, non è lecito, „ era tal rigorismo, che offendeva il buon senso ed equivaleva ad un atto di crudeltà verso il povero idropico, che domandava ed aspettava, vel dica Dio con quale ansia, la sua guarigione. Essi tacquero, non avendo né la modestia di riconoscere il loro torto, né la franchezza di combattere la verità e sostenere a viso scoperto la stoltissima interpretazione che davano alla legge mosaica. Tacquero, guardandosi gli uni gli altri, confusi, ma non vinti, e divorando in cuore il dispetto e l’onta della sconfitta. E qui ancora una volta voi toccate con mano a quale estremo di cecità possano giungere le passioni se non sono domate. Quei farisei non potevano non sentire tutta la forza e tutta la evidenza della verità, che Gesù faceva brillare ai loro occhi: la sentivano per modo che erano ridotti al silenzio. Eppure rimasero ostinati nel loro odio contro di Lui e nella stolta loro interpretazione sul riposo del sabato imposto dalla legge. Si rodevano dentro, ma non si arrendevano alla verità. Dilettissimi! Stiamo in guardia contro qualunque passione, perché se pieghiamo il collo sotto il suo giogo, non sappiamo dove ci trascinerà; essa a poco a poco calerà sugli occhi nostri un velo sì fitto, che non vedremo più nulla e potrà avvenire che per noi si dica verità l’errore e l’errore verità. Ne sono esempio i farisei. – Allora Gesù, “preso per mano quel meschinello idropico , lo guarì e lo accommiatò — Ipse vero apprehensum, sanavit eum et dimisit. „ Sembra che non dicesse pure una parola, ma col solo tocco della sua mano onnipotente, in un lampo lo risanasse, e per bel modo, indirizzandogli parole piene di “amorevolezza” lo rimandò, pensate voi, come lieto e beato della guarigione ottenuta. Io qui non spenderò parole a moraleggiare su questo miracolo dell’idropico risanato, come sogliono fare molto saviamente i Padri, e, sulle loro orme, gli interpreti. Essi (come S. Agostino) nell’idropico vedono raffigurato l’avaro. Come l’idropico, l’avaro si gonfia per le sue ricchezze; come l’idropico, ancorché gonfio  ha sempre sete e non può estinguerla, e tutto converte, per il guasto degli umori, in acqua, così l’avaro, ancorché ricco e straricco, non dice mai basta, ma lavora e suda per accrescere le sue ricchezze, e tutto converte in oro, né mai se ne mostra sazio. Carissimi! che questa miserabile passione dell’avarizia, che questa sete vergognosa dell’oro non s’appicchi mai a nessuno di noi! Saremmo di peso e di vergogna a noi stessi, come lo è l’idropico, portando seco in ogni dove il suo male, che non può nascondere. – I farisei, quegli uomini del rigorismo, che alla vista del miracolo della guarigione istantanea, dovevano aprire gli occhi, arrendersi alla voce di Dio e della verità, e confessare il proprio torto e riconoscere in Gesù Cristo il vero interprete della legge, buttarglisi ai piedi, chiedergli perdono e credere in Lui, si chiusero ostinatamente nel loro superbo silenzio: At illi tacuerunt. Quando si considera questa condotta dei farisei in faccia alla verità più chiara e perfino in faccia al miracolo, si comprende di che cosa siano capaci gli uomini dominati dalle passioni, ed a quali eccessi e delitti possano essere trascinati. Tra le mille prove, questa non è certamente né l’ultima, né la meno grave. Si può vedere la verità, si può sentire la impossibilità di negarla, ma, se la passione comanda, si rifiuta l’assenso. Quale cecità! In giorno di sabato si poteva camminare, si poteva parlare, si potevano muovere le mani, e ciò facevano i farisei stessi. Che altro faceva Gesù che parlare e toccare l’idropico? E perché questo fatto da Gesù era violazione del sabato e non lo era fatto dai farisei? Chi può spiegare questo prodigio di contraddizione, di malignità? La passione dell’odio, la superbia. Gesù Cristo, vedendo il loro pensiero e la loro ostinazione, rivolse ancora la parola a loro, usando d’un argomento popolare e d’una evidenza invincìbile. “Chi di voi, disse, se il bue o il giumento gli cascano in un fosso, non ne lo trae subito, anche in giorno di sabato? „ L’argomento era terribile: Io, diceva Cristo, con una parola ho guarito questo idropico, e in cuor vostro mi credete violatore della legge, perché oggi è sabato: ma se in sabato il vostro bue o il vostro giumento cade in un fosso, voi non tardate un istante a trarlo di là, e non credete di violare la legge. Ditemi, il lavoro vostro è maggiore o minore del mio in guarire l’idropico? O forse, ai vostri occhi, il vostro bue e il vostro giumento è da più d’un uomo, tantoché per questo non sia lecito fare in sabato quello che voi fate per quei due animali? Quei dottori e scribi e farisei non potevano rispondergli parola, dice il Vangelo: Et non poterant ad hæc respondere illi. Ma si arresero essi alla verità? si confessarono nel torto? Era impossibile; il loro orgoglio non lo consentiva; tacquero, rodendosi dentro, perché impotenti a rispondere, e pensando a rifarsi altra volta della vergogna patita. Il racconto evangelico ci lascia supporre che il miracolo dell’idropico sia avvenuto, o fuori della casa, o certamente prima che gli invitati si mettessero a mensa: ma è cosa che poco importa notare. Gli invitati dovevano essere assai numerosi, dacché il padrone della casa era uno dei principali farisei, e l’occasione del convito era straordinaria. Pare che, entrando nella sala del convito, Gesù si accorgesse d’un certo studio che parecchi degli invitati ponevano in collocarsi ai primi posti: era una vanità puerile, che mostrava per altro quanto fosse profondo in loro il fasto della ambizione e la smania del sovrastare. Visto ciò, poiché tutti furono adagiati, e fors’anche verso la fine del convito, quando tutti aspettavano di udire la sua parola, Gesù prese a dire: “Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere al primo posto: non forse uno più riguardevole di te sia invitato da lui, e venga chi ha invitato te e colui, e ti dica: Cedi il luogo a questo, e allora tu con vergogna debba occupare l’ultimo posto. „ Intento di Gesù era d’insegnare a quei legisti e farisei vanitosi la modestia e l’umiltà, e attenendosi sempre alla sua maniera inarrivabile d’insegnamento, che è di vestire la verità con forme semplici e comunissime, trovandosi a mensa, piglia l’immagine dalla mensa stessa. Si osservava allora nei conviti quello che si osserva al presente, e che è voluto dalla natura delle convenienze sociali. I posti nei conviti sono differenti, e dal primo a mano a mano si discende all’ultimo, ed a ciascuno quello si assegna che risponde alla sua dignità o qualità personali. Ora ponete che uno entri nella sala del convito e vada difilato a mettersi al primo posto d’onore; ponete anche che il padrone di casa abbia invitato un personaggio assai più riguardevole di quello, e lo accompagni nella stessa sala. Che farà e dovrà egli fare? Se ne andrà dritto al primo posto d’onore, e garbatamente dirà al primo: Levati di li, e cedi il tuo posto a questo mio amico e signore. Non è vero che quel primo si sentirà salire una fiamma al volto, dovendo abbandonare quel posto d’onore e pigliarne uno inferiore? La sua vergogna è giusta pena dovuta alla sua ambizione. Metti che, per contrario, tu, entrando, abbi preso l’ultimo posto nel convito; viene il padrone, ti vede in quel luogo umile, inferiore a quello che ti si deve. Che farà egli? Senza dubbio verrà a te, ti piglierà per mano e ti dirà: “Amico mio, sali più su”; e ti sarà d’onore alla presenza di tutti i convitati: così n’avrai onore, giusta mercede dovuta alla tua modestia. Amiamo dunque la modestia, l’umiltà, il nascondimento, e ne avremo onore e gloria. – Ma qui odo taluni di voi farmi una difficoltà, che viene naturale dalle parole di Cristo, e dirmi: Che modestia ed umiltà è questa consigliataci da Cristo? Mettetevi all’ultimo posto perché vi sia dato il primo; nascondetevi per essere messi in luce maggiore; fingetevi umili per salire in superbia: non è questa vanità più che mondana e superbia sottilissima? Certamente sì, quando le parole di Cristo si intendessero a questo modo: Egli sarebbe stato davvero non maestro d’ umiltà, ma di superbia. Voi sapete ch’Egli talvolta ci propone di imitare anche i figli di questo secolo, i tristi, non nelle opere loro malvagie, ma nell’avvedutezza, di cui danno prova. Egli ci esorta ad imitare l’ingiusto fattore, che con la roba del padrone provvede ai propri futuri bisogni, ma certo non ci consiglia di rubare com’egli rubava: e ciò è tanto vero, che lo chiama “fattore ingiusto — villicus inìquìtatìs. „ Similmente in questo luogo Gesù non vuole che ci mettiamo all’ultimo posto per aver poi il primo posto e riceverne lode dagli uomini, che sarebbe più che biasimevole cosa: vuole soltanto insegnarci, che come gli uomini in terra osservano la modestia perché frutta loro ancora in terra stima ed onore, così preferiamo l’umiltà e l’ultimo posto, sicuri che non gli uomini, ma Iddio ce ne terrà conto e ce ne darà il premio in cielo. – Onde la sentenza di Cristo si può tradurre in questo linguaggio: Invitato ad un banchetto, non ti mettere al primo posto, ma all’ultimo, e questo non già per la vanità d’essere poi chiamato al primo, ma sì per sentimento di modestia; se per contrario ti metti al primo, potrebbe accadere di vederti poi rimandato all’ultimo. È questo l’esempio che ci diedero i santi tutti, che camminarono sulle orme di Gesù Cristo. Voi non ne trovate uno solo che non ponesse ogni studio in tenersi basso più assai che i mondani non ne pongano in salir alto e primeggiare. Chi non ricorda la magnifica descrizione che S. Girolamo ci lasciò di Paola ed Eustochio? Erano due ricchissime e nobilissime dame romane, che contavano tra i loro antenati una lunga serie di consoli, di senatori, di famosi conquistatori. Eppure quelle due dame, ammaestrate dall’esempio di Gesù Cristo, come se fossero state umili ancelle, uscite dal popolo più minuto, accendevano il fuoco, nettavano il pavimento, acconciavano le proprie e le altrui vesti, preparavano i cibi, servivano alla mensa e attendevano ogni giorno alle faccende domestiche, e sicuramente non per eccitare l’ammirazione ed averne lode di modeste ed umili, ma per profondo sentimento della propria bassezza e per piacere a Lui, che, essendo Dio, s’era fatto uomo e poverissimo tra gli uomini; che, essendo padrone d’ogni cosa, era venuto per servire, non per essere servito. Ecco la vera umiltà, insegnata con la parola e con l’opera da Gesù Cristo. Tutto l’insegnamento di Gesù Cristo in questo breve discorso, che l’Evangelista chiama parabola, si assomma in questa ammirabile sentenza: “Perché chiunque s’innalza, sarà abbassato, e chiunque si abbassa, sarà innalzato.„ È la grande legge moderatrice di tutte le creature, irragionevoli e ragionevoli, nell’ordine naturale e soprannaturale, e che l’Uomo-Dio volle osservata in se stesso. Volete., grida S. Agostino, che l’edificio per voi innalzato torreggi eccelso e sicuro? Scavate prima profonde le fondamenta. Volete che l’albero spinga in alto la sua cima, e possa sfidare il furore delle procelle? E mestieri che le radici si abbarbichino profondamente nella terra. Volete che un uomo, fornito di grandi doni di natura, guadagni i popoli e si acquisti le simpatie universali, e salga in gran potenza e fama? Deve mostrarsi modesto e vivere col popolo. Un monarca non è mai si grande come quando entra nei tuguri dei poveri, conforta gli afflitti e si avvicina al miserabile giaciglio d’un infelice percosso da morbo contagioso. Quando gli Angeli del cielo furono raffermati in grazia ed assicurarono a se stessi il possesso della gloria eterna? Quando curvarono la fronte e adorarono il loro Dio, riconoscendolo loro Signore anche nella natura umana da Lui assunta, e nella quale era ad essi inferiore. Quando Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, fu coronato di gloria, sali al più alto dei cieli, e vide piegarsi dinanzi a sé ogni ginocchio in cielo, in terra e nell’abisso, ed ogni lingua sciolse un inno al suo nome, che è sopra ogni nome? Quando si fece obbediente, si abbassò fino alla morte, e alla morte di croce. E per contrario, quando l’edificio crollerà e cadrà al suolo, e l’albero sarà divelto dall’uragano? Quando il fondamento non sarà pari all’altezza e le radici non abbastanza profonde. Quando un potente, un genio, un monarca sarà mal veduto ed odiato dai popoli? Quando sarà superbo ed arrogante. Quando gli Angeli furono cacciati dal cielo? Quando nel loro orgoglio levarono la fronte contro il loro fattore, quasi fossero eguali a Lui. ” Queste parole: Chi si innalza sarà abbassato, e chi si abbassa sarà esaltato — sono la storia dell’umanità intera, e compendiano, scrive un valente oratore, la vita, l’essere stesso, la missione e l’opera tutta di Gesù Cristo sulla terra, lasciata in balia ai deliri dell’orgoglio. L’umiltà è la condizione assoluta per entrare nel suo regno. Chi si appoggia a se stesso, alla propria saggezza, alla propria virtù, alla propria forza, rimarrà nella sua miseria e precipiterà nel suo nulla. È la storia della umanità ribelle al suo Dio. Chi riconosce la propria miseria e il proprio nulla sarà sollevato da Dio stesso, ed avrà parte alla gloria inenarrabile della sua vita; è la storia degli umili incorporati a Cristo „ (Didon, Vita di Gesù Cristo, vol. 2, pag. 106).

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXXIX:14; 39:15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.
[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta
Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes. [Puríficaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sí che meritiamo di esserne partecipi].

Communio
Ps LXX:16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me. [O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio
Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.
[O Signore, Te ne preghiamo, purífica benigno le nostre ànime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

 

NATIVITA’ DELLA VERGINE MARIA

Della Natività di Maria Vergine

[J. Thiriet: Prontuario Evangelico, vol. VII, MILANO, 1916, imprim.]

Nativitas tua, Dei Genitrix Virgo, gaudium annuntiavit universo mundo”.

(Ant. al Magnificat).

Si ricordi la promessa fatta ai nostri progenitori, dopo il peccato… L’attesa del Salvatore durata quaranta secoli… I sospiri dei patriarchi e dei profeti… “Mitte quem missurus est” Splende finalmente l’aurora della salute…. Nasce Maria da Gioacchino e da Anna. Gli Angeli salutano rispettosamente la Verginella di Nazareth e già preludiano a quel cantico che s’udrà più tardi per l’aere silenzioso di Betlemme: Gloria in excelsis Deo… Giustamente la Chiesa c’invita a celebrare con gioia la festa della Natività di Maria Ss. perché questo giorno: 1. è un giorno di gloria per Maria; 2. un giorno di gioia per gli uomini; 3. un giorno di terrore per i demonii.

I. — La Natività di Maria è per lei un giorno di onore e di gloria.

Se lo guardiamo con l’occhio della fede, il giorno in cui nasce un figlio d’Eva, è giorno di tristezza anziché di gioia, perché nasce nemico a Dio, figlio d’ira e di peccato, incerto dei suoi futuri destini. Ma non fu così per Maria: il giorno della sua natività fu giustamente un giorno di festa e d’onore.

1.— Concepita senza peccato originale, venne al mondo, piena di grazia, oggetto della mente e delle compiacenze di Dio: Concupiva rex decorem suum. Fu predestinata ab æterno et ante sæcula… ad essere la Madre del Verbo incarnato: Ego ex ore Altissimi prodivi, primogenita ante omnem creaturam …

2. — La sua nascita temporale si circondò d’una gloria particolare…. Nonostante la oscurità della sua famiglia, era però una creatura nobile per la lunga serie di gloriosi antenati, più ammirabile per la santità, che già in Lei splendeva, e per le grazie e le virtù, di cui era adorna…. Si può dire che fin dal suo primo giorno sorpassava, nelle perfezioni, tutte le altre creature: In omni populo et gente primatum habui. « Ave, Regina cælorum, ave Domina Angelorum ».

3. — Nessuno è capace ad esprimere degnamente le sublimi destinazioni di questa amabile pargoletta. La sua fu una vocazione unica. È destinata ad essere la Madre del Salvatore del genere umano, del Figlio di Dio fatto uomo, è chiamata a cooperare col suo Divin Figliuolo alla salvezza del genere umano, a diventare la Regina del cielo e della terra. – Quanto adunque è gloriosa la Natività di M. V. Iddio Padre in Lei ha già posto le sue compiacenze; Dio Figlio la vede anticipatamente sua carissima Madre, Dio Spirito Santo in Lei dimora come nella sua Sposa unica ed immacolata…. Figlia del Padre, Madre del Figlio, Sposa dello Spirito Santo! Gli Angeli le rendono già omaggio come alla loro Regina, e con trasporto di giubilo celebrano il suo nascimento.

II. E’ un giorno di gioia per gli uomini.

Se Gabriele ha potuto dire di S. Giovanni Battista: Multi in nativitate ejus gaudebunt, queste parole sono ancor più vere di Maria: Quæ est ista, quæ progreditur quasi aurora consurgens, pulchra ut luna, electa ut sol?

1. — La natività di Maria è l’alba della nostra salute. Caduto Adamo piombarono le tenebre sulla terra…. gli uomini vivevano sepolti in queste tenebre: Tenebræ operiebant terram, et caligo populos…. La nascita di Maria annunziò la prossima fine di questa triste, e pesante notte, il principio del giorno della grazia. Quando compare l’aurora, tutto il creato si abbella e ride, cantano gli augelli, i fiori aprono le loro corolle, i malati sentono un sollievo. La nascita di Maria, oggetto dei desideri di tante età, dei sospiri e dei voti di una lunga serie di Patriarchi, è la messaggera del giorno che finalmente s’innalza a risplendere, illuminato dal sol di giustizia: è l’annunzio della cessazione dei nostri mali: Jam hiems transiit… flores apparuerunt in terra nostra. Oh! giorno mille volte benedetto!

2. Pulchra ut luna. Maria viene paragonata alla luna, che è più fulgente di tutte le stelle insieme raccolte, e che rischiara la notte, prendendo a prestito dal sole la sua luce. Gesù, vero sole, non è ancor comparso: Maria irraggiata dalla sua luce divina, l’annunzia, e comincia a fugare le tenebre, nelle quali sta sepolto il mondo…

3. — Electa ut sol. Per lo splendore meraviglioso delle sue virtù, rassomiglia al sole…. : Ella viene per comunicarci la luce invocata, che è il Verbo di Dio ed è già di per se stessa un bel sole tra Dio e noi… “Gaudeamus”… in questa bella festa della natività di Maria Ss. Oggi celebriamo l’anniversario di uno dei più bei giorni, che siensi levati sul nostro orizzonte: in questo dì ebbe termine il regno del peccato, s’inaugurò quello della grazia… oggi è l’anniversario di un giorno di benedizione e di salute.

III. — E’ un giorno di terrore per i demoni;

satana, dopo d’aver soggiogato i nostri progenitori, era diventato principe e signore del mondo: tutta la terra gemeva sotto la schiavitù del demonio… Ma ecco spuntare il dì del castigo vaticinato da Dio nel paradiso terrestre: Ipsa conteret caput tuum. Fu debellato nell’istante in cui Maria divenne immacolatamente concetta…. Ecco che si annunzia un’altra sua sconfitta: la natività di Maria è veramente un giorno di terrore e di spavento pel demonio. – Fin dalla sua culla, Maria è terribile ai demoni come un esercito schierato a battaglia. « È cagione di gioia all’universo intero, dice S. Anselmo, ha rinnovellato gli elementi tutti, ha salvato gli uomini, ha abbattuto i demoni, ha ristabilito, nella sua integrità, l’ordine angelico».

Conclusione. — Celebriamo con gioia l’anniversario benedetto del Nascimento di Maria …. felicitiamoci con Lei delle grazie e dei privilegi di cui è stata arricchita, offriamole la santa Corona del Rosario, come un mazzo di fiori profumati… per piacerle, purifichiamo i nostri cuori con una buona confessione, e riceviamo piamente la S. Comunione. Maria veglierà su di noi — ci aiuterà ad uscire vittoriosi dalla lotta che dobbiamo sostenere contro il demonio, le passioni, e il mondo, ci farà santi, e ci spianerà la via che sale al Cielo, dove con Lei rimarremo per tutta l’eternità.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXVII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXVII.

LA MADRE DI DIO.

Dignità dell’Incarnazione. — Come Maria sia Madre di Dio, e non sia Padre di Dio lo Spirito Santo. — La Verginità di Maria e i così detti fratelli di Gesù Cristo. — Maria immacolata. — É non di meno soggetta alla morte. — Maria corredentrice. — Il suo culto è giusto ed utilissimo.

— Ora vorrei sapere in quale maniera si effettuò il mistero dell’Incarnazione.

Nel modo più degno di un Dio. E qui ti lascio ancora parlare da S. Agostino. Se Gesù Cristo, dice egli, prese carne umana simile affatto alla nostra, presela tuttavia con maestà. Egli elesse la Madre, da cui voleva nascere, Maria, e la volle di stirpe regale e più ancora immune da ogni macchia, e l’arricchì di immense doti in conformità all’immenso potere che egli ne aveva. A lei spedì l’avviso della sua Incarnazione, e glielo spedì per mezzo di uno degli spiriti più elevati della corte celeste, l’Arcangelo Gabriele. Volle che la formazione del suo corpo si facesse bensì col sangue integerrimo di lei, ma unicamente per opera dello Spirito Santo. Ne patì che ciò avvenisse a poco a poco, ma volle altresì che ciò si compiesse in un attimo solo, per modo che in un medesimo istante formatosi il corpo e creata ed unita al corpo l’anima, in un medesimo istante Egli fosse uomo e Dio, acquistando subito l’uso perfettissimo della ragione, cominciando subito a meritare per sé e per noi e ad operare la nostra salute.

— Ma a proposito di Maria, madre di Gesù Cristo, perché si dice anche Madre di Dio?

Perché essa è veramente tale.

— Ma essa alla fin fine non ha mica dato a Gesù l’essere divino.

Sì, ciò è vero. Ma le altre madri a meritare questo nome oltre al corpo hanno dato ai loro figli anche l’anima?

— No, certamente, perché, come mi ha appreso, l’anima di ognuno è immediatamente creata da Dio.

Così la SS. Vergine, sebbene non abbia dato a Gesù Cristo la divinità, avendogli dato tuttavia il corpo umano, al quale in unità di persona è congiunta la divinità, per questo essa è veramente la Madre di Dio. Anzi bisogna osservare che Maria, Madre di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è più Madre di Lui che non lo siano le madri comuni quanto ai loro figliuoli. Di fatto la sacra maternità di Maria essendo opera dello Spirito Santo, non è in alcun modo condivisa quaggiù, sicché Gesù Cristo suo Figliuolo non riconosce altra origine terrena che Maria.

— E se la maternità di Maria è opera dello Spirito Santo, non dovrebbe anche lo Spirito Santo chiamarsi Padre di Dio?

Vedi: perché uno si possa chiamare padre bisogna che conferisca della sua sostanza al figlio, ma lo Spirito Santo non conferì la sostanza per la conformazione del corpo del Verbo incarnato. Questa sostanza la somministrò soltanto Maria, col suo purissimo sangue. Lo Spirito Santo poi (per quella appropriazione, la quale si attribuiscono a Lui tutti gli della santità, della carità e della misericordia divina), con la sua virtù, di quel sangue formò il corpo di Gesù Cristo. Ma questa non è una ragione, per cui egli abbia ad avere il titolo di Padre di Dio o del Salvatore. Del resto l’Incarnazione è opera voluta e fatta dalle tre divine Persone ugualmente, come la creazione.

— Ma che Gesù Cristo come uomo sia figliuolo soltanto della donna è possibile?

Dio è egli onnipotente, sì o no? Perché dunque non avrà potuto far sì che il suo Divin Figliuolo venisse al mondo unicamente dalla donna senza concorso dell’uomo?

— Ed è vero che Maria diventando madre di Gesù rimase vergine com’era prima?

Senza dubbio, avendo Iddio operato perciò un altro miracolo della sua divina onnipotenza.

— Ed è vero altresì che rimase tale anche dopo, per tutto il tempo di sua vita?

Sì, anche questo è di fede.

— Eppure in certi passi del Vangelo non si parla forse dei fratelli e delle sorelle di Gesù Cristo? Ed egli stesso non è chiamato primogenito di Maria?

Ciò è vero. Ma chi non sa che anche recentemente in certi paesi nostri, in Sicilia ad esempio, i cugini sono chiamati fratelli? Chi non sa che i connazionali, gli amici, i cugini anch’essi si chiamano talora con questo nome? Dunque quando nel Vangelo si parla dei fratelli e delle sorelle di Gesù, s’intende parlare de’ suoi cugini e congiunti. Del resto pare a te che, se realmente Gesù avesse avuto fratelli e sorelle, non si saprebbe il loro nome? Che poi Gesù Cristo sia chiamato primogenito non deve fare difficoltà, perché nella Scrittura primogenito non significa già precisamente colui che ha fratelli minori, ma colui che non ha fratelli avanti a sé. Lascia   dunque ai protestanti ed agli increduli questa eresia.

— Così farò certamente. Ma perché mai si dice anche Immacolata?

Ciò si fa per esaltare il singolare privilegio della sua concezione immune dalla macchia del peccato originale, privilegio che Maria fu concesso da Dio in vista dei meriti di Gesù Cristo redentore del genere umano.

— Dunque la Immacolata concezione di Maria non consiste in altro che nell’essere Ella andata esente dal peccato originale?

Consiste in ciò e nell’essere stata fin dai primo istante della concezione riempiuta di grazia santificante, per modo che senza grazia divina non esistette neppure un istante solo.

— Ma ho inteso dire che questo, dell’Immacolata Concezione di Maria, è un dogma nuovo inventato da Pio IX.

No, caro mio, la cosa non è come tu bai inteso dire. La definizione di questo dogma la fece è vero il grande ed immortale Pio IX nell’anno 1854, ma egli non inventò né introdusse nella Chiesa un nuovo dogma, giacché il Magistero della Chiesa e del suo Capo, il Papa, non si esercita nell’introdurre nuove verità da credere, ma nel confermare accuratamente e nello svolgere con prudenza le verirità, che a lei sono pervenute dalla divina Rivelazione, che con Gesù Cristo ha avuto il suo compimento perfetto. Quindi è che Pio I X non ha fatto altro che definire dogma di fede una verità, che nella Chiesa già esisteva e si credeva. Tuttavia se prima di tale definizione era lecito disputare intorno a tale verità, dopo ciò non fu più permesso, ed ora tutti, ad essere veri cristiani cattolici, si ha da credere fermamente come qualsiasi altra verità di nostra santa religione.

— Dunque Maria per la sua Immacolata Concezione fu pareggiata ad Adamo quanto all’essere creata nella grazia e nell’avere ricevuto la giustizia originale?

Sì, è ciò appunto che insegna la fede.

— Ma allora, se Adamo ornato dalla giustizia originale ebbe il dono dell’immunità dai dolori e dalla morte, anche Maria non dovrebbe ritenersi immune da quelli e da questa? Invece ho sempre inteso a dire che la Madonna ha sofferto, e che pur essa è morta.

Ed è così propriamente. Maria benché scevra dal peccato originale, fu non di meno soggetta ai dolori ed alla morte.

— E per quali ragioni?

l°) Perché  tra la grazia santificante e il dono dell’immortalità e dell’immunità dei dolori non vi è nesso necessario, e Dio può dare quella e non questo. Così fece con Maria: le diede la grazia santificante e nella misura maggiore che come creatura poteva ricevere, ma non volle fare il miracolo di preservarla dalla morte sebbene, come sempre è stato creduto dalla Chiesa, benché non sia definito come dogma, facesse quello di rendere incorruttibile il suo corpo, di farlo prontamente risorgere dalla tomba e di assumerlo con l’anima di Lei in cielo.

. 2°) Perché il suo divin Figlio, Gesù Cristo, quale riparatore del genere umano essendosi sottoposto ai dolori ed alla morte, ragione voleva che lo fosse pure Maria, Madre sua e Corredentrice.

3°) Perché conveniva che anche in Lei, come in Gesù Cristo, noi avessimo un perfetto modello di rassegnazione e di pazienza nei dolori, che accompagnano la vita e la morte.

— Ho inteso. Ed ora mi dica un po’: perché  ha chiamato Maria col titolo di Corredentrice? Ha forse essa cooperato alla redenzione nostra?

Senza dubbio. Essa concorse all’opera della redenzione, accettando d’essere Madre

dell’Uomo-Dio, crescendo, nutrendo, preparando ed offrendo questa Vittima al sacrificio del Calvario. E tutto ciò non si potrà esprimere con la parola corredentrice?

— Dunque il redentore del mondo non è più unicamente Gesù Cristo!

Adagio, caro mio, a cavar certe conseguenze. L a nostra fede è, e deve essere che unico Redentore del mondo per natura è Gesù Cristo, ed a Lui solo perciò compete questo titolo di Redentore. Riteniamo poi che Maria è Corredentrice, ossia Adiuvatrice di Gesù Cristo nell’opera della Redenzione, ma per grazia divina, perché Dio volle che come una donna, Eva, aveva cooperato alla nostra rovina, così un’altra donna cooperasse alla nostra salute. Siccome però è sempre vero che Maria cooperò alla redenzione nostra con la sua libera volontà, così è pur giustissimo il riconoscerla per Corredentrice.

— Sta dunque bene il venerare Maria?

Se sta bene? Sta benissimo e siamo in dovere di farlo massime per la sua divina maternità e corredenzione.

— Ma rendere culto ad una creatura non è un’empietà ed una idolatria?

Così dicono i protestanti per rigettare il culto della SS. Vergine. Ma falsamente. Sarebbe empietà ed idolatria rendere ad una creatura il culto supremo, che devesi a Dio. Ora, è forse questa la natura degli omaggi, che noi tributiamo a Maria? No, certamente. In vista dell’eccelsa prerogativa della sua maternità divina e della sua cooperazione all’opera del nostro riscatto, noi la onoriamo più degli Angeli e dei Santi, ma il suo culto non è un culto di latria o di adorazione, è un culto che si chiama iper-dulia o di venerazione sovraeminente, ma che è pur sempre subalterno in rapporto agli omaggi, che noi dobbiamo prestare alla divinità. L’ignoranza e la superstizione possono ben anche intendere malamente ed esagerare il culto delle SS. Vergine, ma la Chiesa non deve rispondere di siffatti disordini. – Epperò le accuse del protestantesimo del razionalismo, che la rimproverano di trasformate Maria in una dea, e di dimenticare nel culto che le presta, gli omaggi dovuti a Dio, sono pure fantasie. Anzi la Chiesa fa di tutto per togliere anche i più lievi sbagli, che a questo riguardo possono commettere fedeli pochi istruiti, raccomandando ad esempio caldamente che ogni cristiano che si rechi a visitare una chiesa, dove vi è il SS. Sacramento, prima adori Gesù Cristo ivi realmente presente e poscia soddisfaccia pure alla sua devozione verso Maria S. S.

— Ma onorare Maria non è Un detrarre la gloria a Dio e l’onore a Gesù?

Lungi dal detrarre l a gloria a Dio, culto di Maria l’accresce, perché, secondo la frase di S. Girolamo (a Ripario), «ogni onore reso ai servi si riverbera sui padroni ». E cosi è per l’onore di Gesù. Anzi come pretendere di rendere al Figlio il dovuto onore, non curando la sua Madre? E poi com’è possibile onorare Gesù senza onorare Maria, che trovasi sempre a lui intimamente unita in tutti i suoi misteri, e della sua incarnazione, e della sua nascita, e della sua vita, e della sua passione e della sua morte? Sventurati fratelli! Che fanno essi rigettando il culto di Maria? Respingono quanto vi ha di più dolce e tenero su questa misera terra, i sorrisi, le carezze, i baci della più amorosa fra le madri. Ma grazie a Dio, molti fra di essi già riconoscono il loro gravissimo errore, già ne sentono rammarico e lo detestano, e l’immagine di Maria, Madre di Dio, in varii dei loro templi già è stata introdotta ed esposta alla loro venerazione.

— E di ciò mi rallegro. Vuol dire adunque che sarà pur cosa buona ed utile ricorrere all’intercessione di Maria?

Cosa ottima ed utilissima. Né bisogna credere che la mediazione di Maria, come pure asseriscono i protestanti faccia torto a quella di Gesù, nostro unico Mediatore per natura, e la scemi. Giacché sebbene noi preghiamo la Vergine, perché ci faccia delle grazie, non la riguardiamo già come la fonte, ma sì come il canale delle grazie, che desideriamo ottenere. Se piace a Dio usare delle cause seconde nell’ordine naturale, perché nell’ordine soprannaturale rifiuterebbe egli il ministero delle creature, ch’Egli ha particolarmente onorato coll’effusione de’ suoi doni? e perché la dignità eminente e incomparabile di Maria non le assicurerebbe in questo ministero un potere straordinario? Credere a questo potere e ad esso ricorrere è perfettamente ragionevole e conforme alle nostre migliori tendenze e alle nostre abitudini più nobili. Chi non comprende la potenza della Madre sul cuore del Figliuol suo, e d’un Figlio col quale ebbe comuni le prove e i patimenti? Chi oserebbe dire che invocare questa potenza sia un attentare alla dignità e impicciolire la gloria di Colui, dal quale si vuole ottenere un benefizio? – Adunque, mio caro amico, ascolta la raccomandazione che qui ti faccio; sii molto devoto di Maria, e siilo sinceramente. Mettiti sotto la sua protezione, invoca in ogni necessità e pericolo il suo aiuto, rendile ogni giorno qualche omaggio; ed io ti assicuro che la Madonna ti ricambierà con un affetto ineffabile, ti proteggerà e conforterà costantemente, e soprattutto Ella medesima, che, come canta in suo onore la Chiesa, ha debellato tutte le eresie, sarà scudo potente di difesa alla tua fede tanto insidiata dagli errori e dalle massime del mondo.

— Le assicuro che la sua raccomandazione sarà dà me praticata col più vivo trasporto.