DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]
Ps LXXVII:1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.
[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV:23-28
“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XIII.– Torino 1899]

 “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestite il nuovo uomo, quello che fu creato secondo Dio in giustizia e santità verace. Ondechè, lasciata ogni bugia, dite la verità ciascuno col suo prossimo, perché siamo membra l’uno dell’altro. Sdegnatevi, ma senza peccato; il sole non tramonti sulla vostra ira. Non date luogo al demonio. Chi rubava, non rubi più, piuttosto colle sue mani lavori alcunché di utile, affinché abbia con che soccorrere chi “si trova in bisogno „ (Agli Efesini, IV, 23-28).

Anche queste sentenze, sì belle e sì pratiche, sono tolte dalla Epistola di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Efeso, e da quella parte della Epistola che si riferisce pressoché tutta alla morale. E qui torna acconcio mandare innanzi una osservazione, che mi valga di scusa in questi ed in altri commenti, che vo facendo delle Epistole. S. Paolo, scrivendo le sue lettere, in generale aveva lo scopo di provvedere ad alcuni bisogni particolari delle Chiese o delle persone, alle quali scriveva, di dar loro ammonimenti opportuni, e talora di rimuovere alcuni disordini o pericoli. In queste lettere abbondano le raccomandazioni comuni, com’è naturale, e perciò tratto tratto tornano sotto la penna dell’Apostolo le stesse verità, le stesse esortazioni, le stesse massime morali, che sono d’ogni classe di persone, di ogni tempo e di ogni luogo. Incontrandomi nelle stesse verità, e nelle stesse esortazioni e massime morali dell’Apostolo, che debbo io fare? Ometterle? No; ometterei la spiegazione di quelle verità che la Chiesa vuole inculcate ai fedeli, ed io non ho diritto di passarmene. Ma sono ripetizioni, e spesso di cose notissime. Lo so; e che perciò? Devo io correggere l’opera della Chiesa e passare sopra ciò ch’essa vuole ricordato ai suoi figliuoli? Mai no. Se l’Apostolo nelle sue lettere credette buona cosa ripetere le stesse verità, e la Chiesa ce le fa leggere, a me non resta che seguire l’uno e l’altra, sicuro di far cosa buona e santa. Se la ripetizione delle medesime verità giovavano al tempo dell’Apostolo, perché non gioverebbero eziandio al giorno d’oggi? E tutti i giorni non mangiamo lo tesso pane, e non ci viene giammai a nausea? Similmente diamo alle anime nostre lo stesso cibo, e non ne proveranno nausea, anzi vi troveranno sostanzioso nutrimento. Ed eccomi a voi, o carissimi. –  L’Apostolo, dopo avere eccitato caldamente i suoi figliuoli spirituali ad accostarsi alla virilità perfetta di Cristo, ossia a modellarsi sopra di Lui ed a ritrarsi dalla corruzione pagana, in cui erano vissuti ed in mezzo alla quale erano costretti a vivere con grandissimo loro pericolo, li esorta a spogliare l’uomo vecchio, ossia l’uomo corrotto, l’uomo delle passioni e del peccato, ed a vestire il nuovo, quale è rifatto da Gesù Cristo; e qui comincia il nostro commento. “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente. „ L’anima nostra si attua e si svolge in quelle due facoltà nobilissime che sono tutto l’uomo e formano tutta la sua grandezza e nobiltà, e sono la mente e la volontà; la mente, che è fatta per il vero, la volontà, che è fatta per il bene. L’anima nostra è fatta prima pel vero, e per il vero raggiunge il bene. Perché l’uomo pervenga alla sua perfezione dee anzi tutto conoscere il vero, e conosciuto questo, la sua volontà, se è retta, vi si adagia, l’ama, lo mette in pratica e allora si trova in possesso del bene. Primo dovere pertanto dell’uomo è quello di conoscere la verità: il secondo quello di operare conformemente ad essa. Ecco perché Gesù, volendo condurre gli uomini al bene, alla virtù, alla perfezione, vuole che si cominci dal far loro conoscere la verità, e perciò dice agli Apostoli: “Docete omnes gentes. Prædicate omni creaturæ — Ammaestrate tutte le genti, predicate a tutti i popoli. „ E qui il nostro Apostolo grida alto agli Efesini: ” Rinnovatevi nello spirito della vostra mente: „ in altre parole: Rinnovate la vostra mente con lo spirito di verità, che Gesù Cristo vi ha portato, cioè adornate la vostra mente col conoscimento delle verità divine, e così la rinnoverete, la farete bella agli occhi di Dio. Sta bene che il corpo sia adorno di belle vesti, che ne accrescono la grazia ed il decoro: veste dell’anima e suo ornamento bellissimo è la verità, che tutta la irradia e la informa. Questa frase dell’Apostolo è quasi la ripetizione d’un’altra ai Romani, dove dice: “Riformatevi nella novità del vostro senso (XII, 2), o rinnovatevi nell’anima vostra, ricevendo in voi la verità e la grazia divina che per voi sono cose nuove. Ma il versetto seguente spiegherà meglio la mente dell’Apostolo. Ascoltiamolo. “Rivestite il nuovo uomo, quello che fu creato secondo Dio, nella giustizia e santità verace. „ Lo dissi in qualche altro luogo, ma qui è forza ripeterlo. Qual è l’uomo nuovo? Indubbiamente il primo uomo, Adamo: come nuova è la fabbrica o la casa, quando è appena costruita, così nuovo era l’uomo, allorché uscì dalle mani di Dio. Qual è l’uomo vecchio? Quello che divenne tale più tardi, quello che si guastò, come è vecchia la casa che col volgere del tempo va disfacendosi. – Allorché pertanto S. Paolo vuole che ci rinnoviamo, vuole che diventiamo come il primo uomo, l’uomo uscito dalle mani del Creatore Adamo. Qual era il suo stato? Esso fu creato secondo Dio, cioè tale ch’era caro a Dio, portava sulla fronte l’immagine di Dio, era suo figlio per adozione, perché adorno della giustizia, cioè della grazia santificante, e perciò veramente santo. L’opera di Gesù Cristo, che è, secondo la frase sì bella di S. Paolo, il secondo Adamo o secondo padre dell’umanità: Secundus Adam de cœlo cadestis (I. Cor. XV), si riduce a rifare tutti gli uomini sul modello del primo, ridonando loro la grazia, la vita divina e la piena signoria sulle proprie passioni, il che si ottiene col Battesimo e con tutti gli altri mezzi di salute, che compiono il lavoro della nostra rigenerazione. Vestire dunque il nuovo uomo, o rinnovarci nello spirito, vuol dire far rivivere in noi, quanto lo consente la debolezza nostra, l’Adamo innocente, ricco dei doni celesti, avente in sé l’immagine e la somiglianza di Dio. Vuol dire avere nella mente la verità, nel cuore la vita della grazia e della carità, nelle parole, negli atti e nelle opere esprimere in noi stessi la vita di Adamo, che è poi quella di Gesù Cristo redentore. Quale dignità! quale è la nostra grandezza considerata al lume di queste sì sublimi verità! Riprodurre in noi il primo uomo innocente! Essere giusti e veramente santi dinanzi a Dio: In justitia et sanctitate veritatis! – Ma ascoltiamo ancora S. Paolo: “Il perché, lasciata ogni bugia, dite la verità, ciascuno col suo prossimo. „ L’uomo vecchio, l’uomo del peccato, l’uomo della concupiscenza e della carne, è affatto contrario all’uomo nuovo, all’uomo della virtù, all’uomo dello spirito e della grazia; noi, che portiamo l’uno e l’altro in noi stessi, dobbiamo adoperarci incessantemente a deporre il primo e vestire il secondo.Dopo avere stabilito in generale il dovere che ci stringe, S. Paolo in questo versetto e nei seguenti specifica le opere del vecchio uomo, che dobbiamo smettere, e quelle del nuovo che dobbiamo esercitare. La prima opera dell’uomo vecchio, che l’Apostolo vuole sbandita, e la bugia: Deponentes mendacium. Ve lo confesso, allorché era giovane e leggevo nel Salmo quella sentenza: “Ogni uomo è menzognero, „ io era tentato di giudicarla esagerata e pigliarla in senso molto largo: il conoscimento pratico degli uomini mi ha mostrato, che purtroppo è vera nel senso rigoroso. Dio buono! Dov’è l’uomo che non abbia mai mentito in vita sua, con la lingua, con le parole ed anche col tacere, giacché si può mentire anche tacendo? Quante volte siamo stati ingannati ed abbiamo ingannato, a seconda dell’interesse e della passione, allargando o restringendo il valore delle parole, od anche affermando con la lingua ciò che il cuore negava! E per molti non è ormai ridotto ad arte il segreto di ingannare? Educati alla scuola di Gesù Cristo, che è la stessa verità e che disse: “il vostro linguaggio sia questo è, è; no, no; „ fuggiamo ed abbominiamo qualunque menzogna. All’opera dell’uomo vecchio, che è la menzogna, S. Paolo contrappone subito, secondo il suo stile, l’opera dell’uomo nuovo, e dice: “E dite la verità ciascuno col suo prossimo o fratello. „ È un dovere imposto a tutti senza eccezione, dal quale Dio stesso non potrebbe scioglierci, Egli che è il Signore assoluto. E S. Paolo tocca tosto una ragione speciale, che ci obbliga a dire la verità, ed è questa: “Perché siamo membra l’uno dell’altro. „ Siamo tutti fratelli, membri di quel corpo, del quale Gesù Cristo è capo supremo. Con che cuore, sembra dire l’Apostolo, ingannerai tu il fratello tuo? Dov’è l’occhio che danneggi l’altro occhio? dove la mano che ferisca l’altra mano? Dove il piede che non aiuti l’altro piede? Le membra tutte del nostro corpo si soccorrono a vicenda: ora se tu non dici la verità, tradisci il fratello tuo, fai oltraggio alla legge di natura, che impone alle membra dello stesso corpo di aiutarsi scambievolmente. Ma direte: Se diciamo la verità, ne avremo danno. — Forse danno nel corpo, ma non mai nello spirito. E che perciò? Se per cessare un danno, anche grave materiale, si potesse mentire, non vi sarebbe peccato, per quanto enorme, che in certi casi non si potesse commettere. Se in faccia ad un gran pericolo, al sacrificio stesso della vita e dell’onore fosse lecito mentire, noi non avremmo un solo martire, perché essi con una sola bugia potevano sfuggire alla morte, e spesso ottenere sommi onori. – A nessuno di noi il dire la verità imporrà il sacrificio della vita; e, quand’anche lo imponesse, dovremmo imitare i martiri e non stare in forse un istante a compirlo a nostra gloria eterna. — Ma ornai tutti mentiscono, e chi dice la verità troppo spesso rimane vittima dell’altrui malizia; così dicono altri. — Sia pure che tutti mentiscano: forseché il male cessa d’essere male perché tutti lo commettono? Perché la maldicenza, l’incontinenza, il furto, la bestemmia e andate dicendo, sventuratamente sono peccati comuni, non saranno più peccati, e noi saremo scusati innanzi a Dio, commettendoli? No, per fermo. La legge di Dio è là, e non si muta un apice: chi l’osserva sarà salvo, chi la trasgredisce infallibilmente sarà punito. Meglio essere vittime degli altrui inganni, che meritevoli dei divini castighi. Ma è da passare al seguente versetto. “Adiratevi, ma senza peccato. „ Questa sentenza è tolta dal Salmo (IV, 5), ed ha bisogno di spiegazione. Questa espressione contiene forse un precetto, come sembrerebbe suonare la parola: Adiratevi? Forse può essere, in un certo senso. Quando noi vediamo l’ingiustizia manifesta, l’empietà sfacciata, l’insolente oppresso e tradito, non possiamo non sentire un fremito d’ira e di sdegno; è la stessa natura che si rivolta e che altamente riprova l’iniquità e il delitto. In questo senso leggiamo che Dio stesso si sdegna e s’adira a nostro modo di intendere, cioè odia ed abomina la colpa dovunque apparisca, ed in questo senso si può dire ad un uomo: Ti adira, cioè contro il male. Ma sembra interpretazione più naturale e più piana quest’altra: Vi accade di adirarvi? Attesa la debolezza della nostra natura, sì facile all’ira, ciò accadrà soventi volte. Che fare? Se l’ira talora vi assale, tosto rintuzzatela in guisa che non abbiate a peccare. Le passioni talvolta, e specialmente l’ira, ci assaltano all’improvviso, e le sentiamo fremere e tempestare in cuore prima d’esserci accorti delle loro mosse. Quel primo bollimento, che ci suscitano nell’animo, siccome non è avvertito dalla ragione, e perciò non assentito dalla volontà, non è, né può essere peccato, perché non si pecca mai senza saperlo e volerlo. Quando adunque la passione ci sorprende, e l’ira mette sossopra il nostro spirito, appena ce ne avvediamo, la ragione, e con essa la volontà, si levino prontamente alla riscossa, la riducano all’obbedienza, ne frenino i moti incomposti e ristabiliscano la pace. Ecco perché S. Paolo, dopo quelle parole: “Adiratevi, cioè se vi adirate, vedete di non peccare, „ continua e dice: ” E il sole non tramonti sulla vostra ira — Sol non occidat super iracundiam vestram. „ È una bella e graziosa immagine per farci conoscere che l’ira vuol essere tostamente repressa e cacciata dal cuore in guisa, che non vi passi sopra un giorno. — Carissimi! uno sguardo sulla vostra coscienza. Vedete se per avventura nelle pieghe più riposte del vostro cuore si appiattasse il risentimento, il rancore o l’odio contro del vostro fratello; vedete se mai l’ira del giorno vi accompagnò alla sera, alla notte, sotto le coltri, vagheggiando e quasi assaporando il dolce della vendetta e studiando le vie per averla piena ed intera. Ohimè! allora non vi ricordaste di certo del precetto dell’Apostolo: – Che il sole non tramonti sul vostro corruccio. „ Segue questa sentenza : “Non date luogo al demonio — Nolite locum dare diabolo. „ Essa può stare da sé, e vorrebbe dire, che dobbiamo fuggire ogni male, chiudendo la porta del nostro cuore all’autore del male, che è il demonio: ma io sono d’avviso che si debba considerare come una appendice della proposizione sopra spiegata e legare con essa così: Il sole non tramonti sulla vostra collera, e, così operando, avrete chiuso ogni accesso al nemico comune, che è il demonio. Se noi coviamo in cuore l’ira, ben presto ne sentiremo le conseguenze funeste. Fate che una scintilla, una sola scintilla cada in mezzo alla paglia mista a legna; se voi tosto non la spegnete, a poco a poco si allarga il fuoco, e ben presto vedrete andare in fiamme l’intera casa. Così dell’ira: è una scintilla in fondo al nostro cuore, e se non è prontamente soffocata, divamperà in grande incendio di dispetti, di astii, di maldicenze, di calunnie, di ingiurie, di contumelie, di risse, di percosse e peggio. Fuori adunque l’ira, e con essa avremo chiuso la porta al demonio, artefice di ogni male. – L’Apostolo procede nella sua enumerazione, sempre per via di antitesi, cioè alle opere della carne o dell’uomo vecchio opponendo quelle dello spirito o dell’uomo nuovo: ” Chi rubava più non rubi. „ È un richiamo semplicissimo ad uno dei principali comandi della legge divina. E vero, molti credono di non venir meno all’osservanza di questo precetto divino, e quasi si offendono se altri loro lo ricorda. Noi, essi dicono, non tocchiamo mai la roba d’altri, — e sarà verissimo, perché non è mai che per violenza o inganno manifesto rapiscano o sottraggano cosa alcuna al prossimo. Ma se pensassero che si può violare in molte altre maniere quel precetto divino, forse troverebbero di non essere sì innocenti come mostrano di credere. Si può recar danno altrui nella roba, e gravemente, senza che ne venga in mano nostra un sol filo. Si può rubare con la lingua, screditando il prossimo; si può rubare con le usure mascherate, col prestare il lavoro, che dobbiamo, inferiore al pattuito; col vendere la merce avariata; col non restituire la roba trovata; col promettere e non mantenere la promessa; col mentire; col calunniare; col non pagare i debiti contratti, o rendersi impotenti a pagarli; col disonorare il prossimo; con l’impedire ingiustamente l’esercizio dei suoi diritti; con l’esigere un prezzo eccessivo, ingannandolo e in cento altri modi, che senza aumentare d’un soldo il nostro avere, danneggia i fratelli nostri. E in ciò possono trasgredire il gran precetto del non rubare non solo i ricchi, ma anche i poveri, e perfino i miserabili. E non sono essi derubatori quei poveri, che potendo vivere col lavoro delle proprie mani, preferiscono vivere di limosine? E simili a costoro non sono quegli operai, che sprecando alla bettola parte del guadagno, costringono le mogli a ricorrere alla carità pubblica per sfamare e vestire i figli? Ah! se il precetto “Non rubare „ fosse inteso a dovere, molti che dicono: “io non ho mai tolto nulla dell’altrui”, dovrebbero chinare vergognosa la fronte e confessare d’avere ingiustamente danneggiato altri, e non poco, e questo è pur uno dei tanti modi, coi quali si trasgredisce il settimo comandamento. Io penso che come non è esagerazione il dire che ogni uomo è bugiardo (lo dice lo Spirito Santo), così non è esagerazione il dire che ogni uomo più o meno ruba, o col togliere l’altrui o col recargli danno. – E non basta per l’Apostolo il non rubare egli esige dai suoi figliuoli prima il fuggire il male, poi fare il bene, e soggiunge questa bellissima sentenza, che è rivolta a tutti, senza eccezione, e che vorrei scolpita negli animi vostri in guisa che non la dimenticaste giammai. Sentitela: “Ciascuno fatichi con le proprie mani, lavorando in qualche opera utile per avere di che soccorrere chi soffre bisogno.„ Oh! dottrina, oh! verità sublime, promulgata da quell’Apostolo, che lavorava con le proprie mani per mangiare il suo pane senza essere di peso a chicchessia e sovvenire ai poverelli! Il lavoro, o cari, è legge naturale e divina, imposta a tutti, poveri e ricchi, uomini e donne, deboli e robusti, istruiti e non istruiti. Nessuno è dispensato da questa gran legge, fosse il maggior ricco della terra, il più possente dei monarchi. Sono  e debbono essere diversi i lavori, perché così esige la natura delle cose, ma non vi è un solo uomo che sia affrancato da questa legge universale. Sapete a quale pena il nostro Apostolo condanna l’ozioso? Uditela, e non dimenticatela mai: “Chi non lavora non mangi — Qui non laborat non manducet. „ Dilettissimi! Se noi volgiamo intorno gli occhi per le nostre città, per i ritrovi, per certe sale e per certe bettole, ed anche per le nostre borgate, quanti oziosi! Quanti ricchi e quanti poveri, quanti uomini e quante donne che consumano le ore e le giornate in turpe ozio, che si corrompono nei vizi, figli dell’ozio, che muoiono nell’inerzia e nella noia! Vergogna! O uomo, chiunque tu sia, ricorda che “l’uccello è nato al volo e l’uomo al lavoro”, come ti grida Giobbe. A che ti son date codeste braccia, codeste mani, se non per il lavoro? Adamo innocente doveva lavorare nel luogo di delizie in cui Dio l’aveva collocato; e tu, colpevole, tu, condannato al lavoro, divenuto anche pena ed espiazione, vorresti sottrarti? — “Io non ho bisogno del lavoro per vivere” – mi risponde taluno ricco. — Tu dunque sei un essere parassita, che vivi a spese d’altri; tu mangi il pane d’altri e l’altrui sudore ti nutre! Vergognati! Non credere di poter fuggire alla condanna dell’Apostolo, che è condanna di Dio. Il lavoro altrui accumulò le ricchezze che hai, e l’ozio tuo le disperderà e, se non tu, i tuoi figli, come dice la Scrittura, vedranno la povertà assisa sulla soglia della casa tua. –  Non hai bisogno di lavorare per vivere; sia. Ma guardati d’intorno, e vedrai moltissimi dei fratelli tuoi, ai quali il lavoro delle loro braccia non basta a fornire uno scarso pane e un povero vestito: lavora per essi! — Io credo che prima di S. Paolo nessuno mai sulla terra abbia pensato e molto meno esortato persona a lavorare per avere di che sovvenire alle angustie dei poverelli. È un’idea alta, nobilissima, che non poteva spuntare nella mente dell’uomo che sotto la luce del Vangelo. A questa scuola di Gesù Cristo si formarono le sante Elisabetta di Turingia, le Bianche di Castiglia, le Edvigi di Slesia ed altre moltissime, che, nate in mezzo agli agi e collocate sui gradini del trono, lavoravano con le proprie mani affine di vestire i poveri. Qual cosa più bella e più degna d’un ricco e d’una signora che, non avendo bisogno di lavorare per sé, lavorano per gli orfanelli, per gli abbandonati, per gli infermi, per queste moltitudini di sofferenti che ci circondano? Ecco un’opera di vera fratellanza ed eguaglianza, ecco un socialismo cristiano e santo, che disarmerà il socialismo violento ed iniquo, e che tutti, a qualunque partito siano ascritti, di gran cuore benediranno. Vive ancora una gran dama inglese, vedova d’un uomo di Stato, passata dal protestantesimo alla Chiesa Cattolica, che dà a pigione il vastissimo suo palazzo per mantenere con quelle rendite un centinaio di orfanelle; ed essa si è ritirata in un angolo del palazzo e lavora con le sue mani per calzare e vestire quelle infelici, che ama come se fossero sue figlie. — Sono miracoli di carità, creati dalla parola di Gesù Cristo e del suo Apostolo, che scriveva: “Ognuno lavori con le sue mani, in qualche opera profittevole per avere di che sovvenire chi soffre bisogno. „- Ricapitolando l’insegnamento dell’Apostolo, noi porremo ogni studio in spogliarci dell’uomo vecchio, cessando le opere sue, che sono la bugia, l’ira, il furto e l’ozio, e in vestirci dell’uomo nuovo, praticando le opere sue che sono l’amore alla verità e la sincerità, la pazienza e la mansuetudine, il rispetto per la roba d’altri, l’amore al lavoro e la liberalità verso quelli, che lottano coi bisogni e con la miseria.

Graduale
Ps CXV:2
Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.
[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja
[L’’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV:1

Alleluja
Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja. [Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium
Sequéntia ✠  sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXII:1-14
“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum coelórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo.
Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli: ut supra, Omelia XIV]

“Gesù, prendendo a parlare, ragionò agli scribi e ai farisei in parabola, dicendo: Il regno dei cieli è somigliante ad un certo re, il quale festeggiò le nozze del suo figliuolo, e mandò i suoi servi a chiamare gl’invitati alle nozze ; ma essi non vollero andarvi. Di nuovo mandò altri servi, dicendo: Dite agli invitati: Ecco ho preparato il mio convito: i miei giovenchi e gli animali impinguati sono uccisi e tutto è pronto: venite alle nozze. Ma coloro non se ne curarono, e se ne andarono chi alla sua campagna, chi al suo negozio. Gli altri poi, presi i servi di lui, li oltraggiarono e misero a morte. Quel re, ciò udito, ne fu sdegnato, e mandate le sue soldatesche, sterminò quegli omicidi e diede alle fiamme la loro città. Allora disse ai suoi servi: Le nozze sono bensì preparate, ma gli invitati non ne erano degni. Andate dunque sugli sbocchi delle vie e chiamate alle nozze quanti troverete. Ed usciti i servi di lui sulle strade, raccolsero tutti, quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e il convito fu pieno di commensali. Il re poi entrò per vedere i convitati: vide un uomo non vestito della veste da nozze, e gli disse: Amico, come sei tu qua entrato senza avere la veste da nozze? Ma quegli non fiatò. Allora il re disse ai ministri: Legategli piedi e mani e gettatelo nelle tenebre di fuori: ivi sarà pianto e stridore di denti: che molti sono chiamati, ma pochi eletti „ (S. Matteo, XXII, 1-14).

Questa parabola dove fu essa recitata da Gesù Cristo? Certamente in Gerusalemme, nell’atrio o sotto i portici del tempio. In qual tempo fu essa recitata? Senza dubbio nell’ultima settimana di sua vita, e precisamente il martedì o al più tardi il mercoledì precedente la sua morte. A chi fu essa indirizzata? Al popolo, e più particolarmente agli scribi e ai farisei, che lo tempestavano di domande e ponevano ogni studio per coglierlo in fallo. Qual è lo scopo di questa parabola? Gesù Cristo verso la fine di sua missione, massime in Gerusalemme, nei suoi discorsi è tutto inteso ad illuminare gli Ebrei e a mostrar loro la necessità suprema di credere alla sua parola e alla sua missione: in cento modi ricorda loro il pericolo che correvano d’essere da Dio rigettati, e che al loro posto sarebbero chiamati i Gentili. Si direbbe che ogni suo sforzo è volto a mostrare che Egli non lascia nulla di intentato affine di aprire loro gli occhi alla luce della verità, e che se rimangono nell’errore, la colpa è tutta loro, e che l’ostinazione degli Ebrei non impedirà lo stabilimento del regno di Dio, perché altri più docili di loro vi entreranno. Questo è il senso e lo scopo della parabola che sono per ispiegarvi. – “Gesù prendendo a parlare, ragionò loro di nuovo in parabola. „ Dal tutto insieme dei Vangeli confrontati fra loro, apparisce che gli ultimi giorni che Gesù passò in Gerusalemme, furono quasi per intero giorni di continui discorsi e discussioni vivissime con gli scribi e con i farisei. Sembra che qui S. Matteo lasci intendere che, prima di recitare questa parabola, Gesù avesse avuto non so qual breve tregua, perché dice: “Ragionò dì nuovo „ e ragionò in parabola. Era il modo di ammaestrare favorito di Gesù, molto in uso e gradito agli Ebrei, e che serviva mirabilmente a mettere in rilievo la verità e che sarebbe assai utile che si usasse fra noi, massime col popolo. Ecco la parabola. Il regno dei cieli è somigliante ad un certo re, il quale festeggiò le nozze del suo figliuolo. „ Il regno dei cieli in questo luogo significa chiaramente la Chiesa, quel regno che Gesù Cristo venne a stabilire sulla terra, che chiama regno suo, e nel quale debbono entrare tutti quelli che vogliono poi entrare nel regno della gloria eterna. Chi adombra egli codesto re, che vuol festeggiare, ossia celebrare il convito solenne per le nozze del figliuolo suo? Indubbiamente Dio Padre. Chi raffigura questo figliuolo che fa le nozze? L’Unigenito del Padre, il Verbo divino fatto uomo. Che cosa significano queste nozze? L’unione ineffabile del Verbo divino coll’umana natura, indi con la Chiesa, che da S. Paolo nelle Lettere e da S. Giovanni nella Apocalisse è chiamata ripetutamente sua sposa. E invero: non vi è immagine più bella e più nobile di questa per simboleggiare il mistero della Incarnazione ed i rapporti intimi e sì sublimi di Gesù Cristo con la sua Chiesa. – E qui, prima di passare oltre nella applicazione della parabola, non sarà inutile avvertire, che alla Chiesa di Gesù Cristo appartenevano altresì tutti quelli che, vivendo di fede e aspettando il Messia nella Sinagoga o fuori della Sinagoga, formarono, a così dire, l’avanguardia della Chiesa stessa. Questa, considerata nella sua massima universalità, abbraccia tutti i credenti dell’antico e del nuovo Patto, da Adamo fino all’ultimo Cristiano che vivrà sulla terra, e perché tutti quelli che si salvano, sia prima, sia dopo la venuta di Gesù Cristo, si salvano per i suoi meriti, per la fede in Lui, perché Egli è il Salvatore di tutti, l’unico Mediatore di Dio e degli uomini, e solo nel suo Nome vi è salvezza. – L’uso di festeggiare le nozze con lieti e, secondo le proprie forze, splendidi conviti, è antico quanto è antico il mondo, e ce ne fanno testimonianza non dubbia le sacre Scritture. L’uomo sentì sempre il bisogno di celebrare un fausto avvenimento con segni esterni di canti, di musiche, di danze, e specialmente di conviti. Sono modi nei quali si manifesta la gioia, è la si accresce chiamando altri a parteciparne, specialmente gli amici ed i congiunti. Ora le nozze sono un fausto avvenimento, perché consacrano il massimo dei vincoli che sia sulla terra, e sono stabilite dalla natura e perciò da Dio stesso, qual mezzo unico per gettare le basi della famiglia e conservare l’umana società. Così questi conviti fossero sempre quali li vuole lo spirito cristiano, e la gioia legittima fosse sempre accompagnata dalla temperanza, dalla modestia, dalla riservatezza e dalla coscienza del nuovo e sì grave ufficio che gli sposi assumono! “Il re mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze; ma essi non vollero venire.„ Iddio, nella sua bontà, chiamò sempre tutti gli uomini al convito delle nozze, cioè alla fede del Figliuol suo, e li chiamò in mille modi. Li chiamò a principio con l’insegnamento domestico che si trasmetteva di padre in figlio nell’epoca patriarcale, e che doveva spandersi su tutta la terra. Chi può dubitare che Adamo ed Eva non ammaestrassero i loro figli, e questi a loro volta i figli e nipoti nelle cose appartenenti alla fede? Chi non vede che questo insegnamento domestico e orale poteva e doveva conservarsi in ogni famiglia, in tutto il genere umano, tenuto conto degli ottocento e novecento anni di vita che quei patriarchi avevano? Era questa la prima chiamata fatta a tutti gli uomini, che per la fede comune dovevano sedere al convito nuziale. Non bastando quella prima chiamata, Dio ne aggiunse altre ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, ai Patriarchi; e queste pure non bastando ancora, eccone altre senza fine per Mosè, per la legge scritta, per i profeti, per il sacerdozio. Queste chiamate, ancorché fatte al solo popolo eletto, non potevano rimanere ristrette entro i suoi confini: esse ebbero un eco nei popoli vicini, e con la dispersione d’Israele in Oriente ed in Occidente, si diffusero in mezzo ai popoli più lontani. E gli uomini che fecero? Risposero essi agli inviti di Dio? Alcuni pochi, in Israele e fuori d’Israele, risposero e andarono al convito; ma la maggior parte: nolebant venire, rifiutavano di andarvi. – Allora Iddio, vero Padre delle misericordie, “mandò altri servi, dicendo agli invitati: Dite agli invitati : Ecco, ho preparato il mio convito: i miei giovenchi e i miei animali impinguati sono uccisi: tutto è pronto: venite alle nozze. „ Questo invito con sì calde espressioni che si risolvono, quasi direi, in una affettuosa preghiera, si riferisce, penso io, altempo di Cristo ed alla missione per Giovanni e per lui adempiuta, ed alla quale la grande maggioranza degli Ebrei si mostrò sorda e ribelle. È vero, Gesù non parla chiaramente di sé in questa parabola, ma ne parla ben nella parabola poco prima recitata dei vignaiuoli, che uccisero il figlio del padrone, mandato per ricevere i frutti della vigna. Il fine e l’insegnamento di queste due parabole è lo stesso. – Da questi replicati inviti fatti da Dio agli uomini in generale, e in particolare agli Ebrei, dobbiamo raccogliere alcune verità pratiche di non lieve importanza. – Nessuno può mettere piede in un convito se prima non è invitato dal padrone di casa: così nessuno può venire alla fede, entrare nel regno dei cieli, se non è chiamato dalla grazia divina: la grazia precede ogni nostro atto, e senza di quella è impossibile fare un solo passo nella via del cielo; e perciò qui voi vedete che il re, Iddio, per primo chiama al banchetto. E come chiama? Chiama mercé l’opera dei servi mandati, che sono i Profeti, gli Apostoli ed i loro continuatori nel santo ministero. Questo l’invito esterno, al quale è naturalmente congiunto l’invito interno della grazia, senza del quale il primo sarebbe inutile. Ponete anche mente a quelle parole del re poste in bocca ai suoi servi : “Dite agli invitati: Ecco il mio banchetto è preparato… tutto è pronto, venite alle nozze; „ esse provano come sia vivo ed acceso il desiderio che Dio ha della nostra salvezza e felicità eterna, raffigurata in quel banchetto nuziale, onde, se non l’acquistiamo, la colpa cadrà tutta su noi che, chiamati e sollecitati, abbiamo fatto il sordo e lasciato cadere inutilmente tanta grazia. Gesù continua la parabola e dice: “Quegli invitati non se ne curarono, e se ne andarono chi alla sua villa e chi al suo negozio. „ Non accettare e peggio poi, non curarsi d’un invito grazioso ricevuto da un re, è grave sfregio ed offesa cocente, come ciascun intende, e ciò fecero quegli invitati. Essi preferirono all’onore che loro si faceva, l’andarsene alla campagna e l’attendere a negozi, cioè il trastullarsi, il godersela altrove e volgere ogni cura ad accumulare ricchezze. Così fecero gli Ebrei, e così sventuratamente fanno non pochi Cristiani. Gesù Cristo chiamava i figli d’Israele al convito nuziale, ossia ai beni veraci, alle sante gioie del regno spirituale della vita eterna; ed essi non volevano che i beni materiali, non agognavano che un regno temporale, una gloria tutta terrena, la libertà dei corpi anziché quella dello spirito, e così da se stessi si esclusero dal convito reale. – Carissimi! Noi ci meravigliamo e ci indegniamo del villano rifiuto degli Ebrei; ma e non dovremmo meravigliarci e indegnarci più assai del rifiuto, ancor più villano, con cui per molti di noi si risponde agli amorosi inviti che ci vengono da Dio? Vedete tanti in mezzo a noi, particolarmente nelle classi ricche ed istruite, che non hanno fede alcuna, che forse la combattono e la disprezzano: questi brutalmente rifiutano di sedere al convito che Iddio imbandisce. Vedete altri, che, se non disprezzano, né combattono la fede, non se ne curano punto, vivono come se non vi fosse; intesi soltanto a sbramare le loro voglie più basse, ad ammassare ricchezze; questi pure rifiutano il banchetto, al quale dalla bontà divina sono invitati. E la villania, la colpa di costoro non è forse più riprovevole che quella degli Ebrei? Il conoscimento che noi ora abbiamo, o possiamo avere con ogni facilità della fede, le prove luminose che la circondano, la copia delle grazie divine che ci è largita, rendono più inescusabile il nostro rifiuto e la nostra indifferenza. Dio ci chiama con affetto di padre al convito nuziale: “Venite, venite, così Egli, alle nozze; tutto è preparato”.  Leviamoci tutti prontamente e corriamo al banchetto sì splendidamente imbandito. Alcuni degli invitati non si curarono del convito, e se ne andarono, come si disse, “… chi alla campagna e chi al negozio. „ Era scortesia, era disprezzo meritevole di castigo; ma altri degli invitati fecero peggio, continua Gesù Cristo nella parabola. “Essi, presi i servi del re, fecero loro oltraggio e poi li uccisero. „ Era un delitto bestiale, incredibile in uomini quanto si voglia malvagi. Vituperare e uccidere chi non fa male alcuno! Chi compie un dovere impostogli dal suo signore! chi viene per invitarvi ad un onorevolissimo e lauto banchetto! Si può immaginare scellerataggine di questa più atroce e più brutale? Eppure tanta scellerataggine consumarono gli Ebrei nelle persone dei Profeti e degli Apostoli, mandati loro per invitarli al convito nuziale; onde Cristo, parlando fuori di metafora in quegli stessi giorni disse loro: “Ecco, mando a voi dei profeti, dei dotti e degli scribi, cioè uomini che sanno la legge, e voi ne ucciderete, ne porrete in croce, ne flagellerete nelle vostre adunanze e li perseguiterete di città in città. „ – Questa parabola e queste parole sono una storia anticipata di ciò che avvenne e si legge negli Atti Apostolici. E questa storia continua, possiamo dire, sotto i nostri occhi. E non sono sempre servi del gran Re del cielo i nostri missionari, che valicano i mari, che si spingono in mezzo ai barbari, che portano il Vangelo ai selvaggi e tutti invitano al banchetto della verità, al convito nuziale? Come sono accolti? Troppo spesso trovano popoli indifferenti, che non li ascoltano, che li rimandano con disprezzo: anzi non è raro che questi servi fedeli siano maltrattati, percossi, perseguitati, cacciati di contrada in contrada, e persino messi crudelmente a morte. Non passa un solo anno che la Chiesa non veda alcuno di questi suoi generosi apostoli, mandati a portare l’invito al banchetto nuziale, sbandeggiati, gettati in carcere e trascinati sui patiboli: ed in questi stessi giorni dal fondo della Cina giungono le tristi voci di novelli eccidi dei nostri missionari. Si ripete ciò che Cristo disse dei servi del re, che furono oltraggiati ed uccisi. Proseguiamo: “Udite queste cose, il re ne fu indignato, e mandando le sue soldatesche, sterminò quei micidiali ed arse le loro città. „ Queste parole sono rivolte, come spiegano S. Girolamo e S. Giovanni Crisostomo, agli Ebrei, e contengono il vaticinio tante volte ripetuto della tremenda catastrofe che loro sovrastava. “Voi, o Ebrei, avete rifiutato il convito offertovi prima che agli altri popoli; voi avete uccisi i Profeti, voi ucciderete gli Apostoli, voi ucciderete perfino Colui che li manda; voi così avrete colmata la misura, e dopo la misericordia verrà la giustizia, giustizia pari alla misericordia. Il Re del cielo, il Padre Iddio farà la giusta vendetta di tanti delitti. Manderà le sue soldatesche, gli eserciti cioè di Vespasiano e di Tito; questi assedieranno la vostra città, vi appiccheranno il fuoco, scanneranno senza pietà i vostri figli, diserteranno le vostre contrade e sarà fatta piena giustizia di questi micidiali. — Notate come Cristo chiami “soldatesche del Padre suo” gli eserciti romani; essi erano pagani, è vero, ma senza saperlo erano esecutori della giustizia divina, e in questo senso erano veramente soldatesche mandate da Dio. È vero, la piena giustizia sui colpevoli Iddio la riserba nella vita futura; ma talvolta, in parte, Egli la fa anche quaggiù sulla terra, quasi saggio della futura, e fu veramente tale quella ch’Egli prese sopra i Giudei sì ostinati e sì crudeli. Del resto, questo linguaggio di nostro Signore, che è tutto militare, per conservare il carattere della parabola, nella quale l’attore principale è il re, potrebbesi intendere in senso più largo, e significherebbe in genere la finale sentenza che Dio pronuncerà contro gli empi, allorché egli armerà contro di essi tutte le creature, secondo il linguaggio dei libri santi, e li condannerà alla morte eterna. – ” Il re, continua Gesù, rivolto ai suoi servi, disse: Le nozze sono bensì preparate, ma gli “invitati non ne erano degni. „ Questi figli di Abramo, i Giudei, per la loro superbia, per la loro ostinazione, pel sangue innocente di tanti profeti da loro versato, non erano degni di prender parte al mio convito; ma non per questo il mio convito deve restare deserto altri piglieranno il loro posto. “Su, andate sugli sbocchi delle vie, e, quanti troverete, chiamate alle nozze. E usciti i servi di lui sulle vie, raccolsero tutti, quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e il convito fu ripieno di commensali. „ Qui il velo della parabola è sì sottile, che è facilissimo comprendere ciò che sotto si nasconde. Ai Giudei dovevasi annunziare la buona novella prima che agli altri popoli, perché quelli dovevano essere preparati meglio degli altri. La respinsero: ebbene, in loro luogo sono chiamati i poveri Gentili. È quello che S. Paolo più e più volte ripete nei suoi discorsi riportati negli Atti Apostolici e nelle sue lettere. I Giudei in gran parte rigettarono la predicazione degli Apostoli; questi allora, secondo il comando di Gesù, si volsero ai Gentili, raffigurati in quegli uomini che stavano sulle vie e che non sognavano nemmeno l’alto onore di sedere alla mensa del Re. Dice il sacro testo, che furono raccolti nella sala del convito buoni e cattivi, cioè uomini d’ogni qualità, ricchi e poveri, istruiti e non istruiti, nobili ed ignobili, dacché quelle parole buoni e cattivi non possono designare i virtuosi ed i viziosi, perché nessuno di loro poteva essere buono e virtuoso prima della chiamata, essendo tutti nell’errore. È sempre, o cari, la stessa legge suprema, che regola il governo di Dio. Gli Angeli su in cielo per superbia si levano contro Dio e rifiutano l’omaggio a Lui dovuto ? E Dio li respinge, li balza nell’inferno, e al luogo di quegli spiriti eccelsi, ma superbi, chiama gli uomini, povere creature, di tanto inferiori agli Angeli. I Giudei ricolmati di tanti favori, pieni d’orgoglio, rifiutano di credere a Gesù Cristo e di riconoscere in Lui il Salvatore del mondo? E Dio li rigetta, ed al loro luogo chiama i pagani, che giacevano nelle tenebre della ignoranza e che dai Giudei erano tenuti in sommo dispregio. È l’applicazione della sapientissima legge: Dio abbassa i superbi ed esalta gli umili! Miei cari! Noi Gentili abbiamo preso il posto degli Ebrei, posto che essi perdettero per il loro orgoglio. Badiamo che quell’orgoglio che perdette gli Ebrei, non perda noi pure, e che Iddio al nostro luogo non chiami altri, che renderanno miglior frutto. Badiamo che Dio, stanco della nostra ingratitudine, e offeso dalla superba nostra indifferenza e miscredenza, non rimuova da noi il candelabro della fede, e lo porti in mezzo ad altri popoli, ora giacenti nelle ombre della morte. La gran sala del convito nuziale era ripiena di commensali : “Il re entrato a riguardare i convitati, vide un uomo che non aveva la veste da nozze, e gli disse : Amico, come sei tu venuto qua dentro senza avere la veste da nozze? „ Presso gli antichi, Romani e Greci, ed anche presso gli Ebrei, si poneva gran cura in avere nei conviti la veste conveniente, e quest’uso si conserva ancora presso di noi, almeno in parte. Chi di noi si recherebbe ad un gran convito in veste disdicevole? Presso gli orientali, il padrone stesso soleva fornire le vesti conviviali allorché gl’invitati ne mancavano. Il convito, come abbiamo detto, significa il regno di Dio sulla terra, o la Chiesa. Ora che significa essa la veste nuziale? Non certamente la fede, perché se colui che ne mancava era nel convito, cioè nella Chiesa, aveva certamente la fede, nessuno potendo essere nella Chiesa senza la fede. È dunque necessario il dire che quella veste nuziale rappresenti la carità, ossia la fede accompagnata dalle opere, come comunemente insegnano i Padri. Il Re, che entra nel convito per riguardare i convitati, è Dio, che alla fine dei tempi verrà per rendere a ciascuno secondo le opere sue e chiudere la scena di questo mondo. Il Vangelo odierno ci avverte che, per aver parte al convito della vita eterna, non basta non respingere, né maltrattare gl’inviati di Dio: non basta ascoltarli e nemmeno entrare nella Chiesa, con la professione della fede: si domanda altresì la veste nuziale, la pratica della virtù, l’osservanza della legge divina. A taluno potrà far meraviglia che il Re nel convito abbia trovato un solo manchevole della veste nuziale, cioè avente la fede e non le opere della fede, mentre ché vediamo che troppi sono coloro che vivono nella Chiesa per la fede, ma non vivono secondo la fede. La risposta è piana e facile: quell’uno trovato senza la veste nuziale rappresenta tutti quelli che hanno la fede, ma non le opere della fede. – Il Re chiamò col dolce nome di amico quell’infelice che era entrato senza la veste nuziale. Come, direte voi, può dirsi amico di Dio, colui che deve essere riprovato? Il Re lo chiamò amico, come Gesù Cristo chiamò amico Giuda nell’atto stesso che gli dava il bacio traditore: ” Amice, ad quid venisti? Osculo tradis Filium hominis — Amico, a che sei venuto? Con un bacio tradisci il Figliuol dell’uomo? „ Lo chiama amico per provargli l’amor suo e ricordargli i benefizi fattigli: per mostrargli che secondo la fede era suo amico, figlio della sua Chiesa, come scrive acutamente S. Gregorio: “È cosa mirabile, dice il santo, che il Re chiama costui amico e lo riprova, come se gli dicesse: Amico e non amico, amico per la fede, ma non amico per le opere. „ Apprendiamo dal Vangelo che quello sventurato, al rimprovero fattogli, non rispose parola: Obmutuit. E che poteva rispondere il misero ? Egli stesso e quanti erano nel convito vedevano che non aveva la veste nuziale: quale scusa poteva mettere innanzi? – Carissimi! Al gran dì del giudizio ciascuno apparirà qual è veramente con le sue opere buone o cattive, o nudo d’ogni opera, e l’essere nudo d’ogni opera vorrà dire non avere la veste nuziale. Come negarlo sotto quella luce sfolgorante, che raggerà dal volto di Cristo giudice? Come scusarci? Quale vergogna il vederci nudi di opere buone! Per cessare tanta vergogna, alla fede che felicemente abbiamo, uniamo le buone opere, e le nostre vesti splenderanno come il sole. “Allora il re disse ai ministri: Legategli piedi e mani, e gettatelo nelle tenebre di fuori, ove sarà pianto e stridore di denti. „ È la pena eterna che il Giudice supremo pronuncia ed infligge al credente e non operante. Egli quaggiù volontariamente si legò coi vincoli e coi ceppi delle sue passioni sregolate: è giusto che, contro sua volontà, ora sia legato mani e piedi e gettato nel carcere dell’inferno. Nel convito, a cui era stato per grazia invitato, splende una luce vivissima ed eterna: fuori di quel convito, non vi sono che tenebre: sono le tenebre dette esteriori. Nel convito regna la gioia, il tripudio ed una festa interminabile: fuori non vi è che pianto, dolore e stridor di denti per sempre. Allorché ci incoglie una grande sventura, un dolore straziante, noi piangiamo e per l’orrore dei mali che ci assalgono, battiamo i denti: è uno degli effetti d’un gran terrore, e perciò Gesù Cristo, in questo ed in altri luoghi, parlando del massimo dei mali, del luogo dei dolori, dell’inferno, tra le altre cose, accenna allo stridore di denti. In questa breve sentenza Gesù Cristo, tra le pene infernali, quattro ne nomina distintamente, la perdita della libertà di fare il bene, la libertà dell’anima e del corpo, ligatis minibus et pedibus, le tenebre, il pianto e lo stridore dei denti, le due ultime piuttosto come effetti di grandi ed ineffabili dolori. Dilettissimi! Da questa parabola apprendiamo qual grave e detestabile peccato sia non rispondere alle amorevoli chiamate della grazia, e peggio poi maltrattare i messaggeri della sua volontà, che Dio ci invia; apprendiamo il pericolo che per noi si corre, che ad altri sia data quella grazia, alla quale così malamente abbiamo corrisposto; apprendiamo finalmente che la fede è necessaria, e necessario è l’entrare nella Chiesa e vivere in essa, ma che ciò non basta; e che per entrare nel convito della eterna felicità, oltre la fede, domandano le opere, e che, senza di queste, l’eterna condanna è inevitabile.

Credo

Offertorium
Orémus
Ps CXXXVII:7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua. [Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta
Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde. [Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

Communio
Ps CXVIII:4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas. [Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio
Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.
[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

 

 

 

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.